Fra Tommaso Campanella, Vol. 2 - 01

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FRA TOMMASO CAMPANELLA

LA SUA CONGIURA, I SUOI PROCESSI
E LA SUA PAZZIA

NARRAZIONE
CON MOLTI DOCUMENTI INEDITI POLITICI E GIUDIZIARII, CON L'INTERO
PROCESSO DI ERESIA E 67 POESIE DI FRA TOMMASO FINOGGI IGNORATE,

PER

LUIGI AMABILE
già prof. ord. di Anatomia patologica nella R. Università di Napoli,
già Deputato al Parlamento Nazionale.

«La così detta congiura, che il Baldacchini e
i più dei biografi Campanelliani qualificano
eterno ed insolubile problema degli
eruditi».--Berti, T. CAMPANELLA, 1878

VOL. II.
NARRAZIONE, PARTE II.

NAPOLI
CAV. ANTONIO MORANO, EDITORE _371, Via Roma, 372_
1882


L'editore avverte che avendo adempiute tutte le formalità prescritte
dalla legge sulla proprietà letteraria, intende valersi della
protezione che le leggi stesse accordano.


CAP. IV.
PROCESSI DI NAPOLI E PAZZIA DEL CAMPANELLA.
A.--Processo della congiura (primi mesi del 1600).

I. Al declinare del giorno 8 novembre 1599, le quattro galere
provenienti dalla Calabria giungevano in vista di Napoli, e poco dopo
un battello spiccavasi dal Regio «tarcenale», come allora si diceva, ed
andava ad incontrarle. Nella sera, all'entrare in porto, dalle antenne
di ciascuna galera si vide spenzolare un uomo appiccato, e due altri
si videro squartare in mezzo alle galere medesime, «per spavento del
populo di questa città, concorso in numero infinito alla fama di questi
funesti spettacoli»[1]. L'indomani, i carcerati venivano sbarcati e
rinchiusi parte nel Castel nuovo e parte nel Castello dell'uovo.
Ecco come era andata la faccenda di queste esecuzioni: ce ne danno
notizie abbastanza precise in ispecie tre documenti autentici da noi
raccolti, una lettera Vicereale del 9 novembre rinvenuta in Simancas, e
due certificati scritti più tardi da' sacerdoti che avevano assistito
alcuni di quegl'infelici, inserti poi nel processo di eresia. Il Vicerè
scriveva a S. M.^{tà}: «D. Garzia di Toledo con le quattro galere
giunse ieri con Carlo Spinelli e i prigioni di Calabria, de' quali si
aveano da giustiziare in Monteleone sei che erano convinti e confessi,
e per non trattenere le galere li condussero con gli altri. Prima di
sera mi avvertirono di quanto accadeva, e comandai che andassero ad
incontrare le galere alcuni Religiosi i quali li aiutassero a ben
morire, e che all'entrata del porto ne appiccassero quattro alle
antenne e ne squartassero due, come si fece; ma ordinai che dapprima li
strozzassero, ed essi morirono molto bene confessando i loro delitti,
quantunque uno rimanesse pertinace sino all'ultimo ed infine morisse
come gli altri. Oggi i prigioni sono stati posti ne' Castelli» etc.[2].
Adunque l'ordine delle esecuzioni anche questa volta fu dato dal
Vicerè; e da una lettera del Nunzio, come vedremo più sotto, risulta
che le galere si fermarono in Nisida per entrare la sera nel porto, od
almeno che si era diffusa la voce di questo avvenimento, senza dubbio
insieme con la fama del funesto spettacolo, secondo l'espressione del
Residente Veneto. Nè fu vero che que' due infelici venissero squartati
vivi, siccome dissero di poi il Parrino e il Giannone ed anzi lo stesso
Residente, il quale lo riferì al suo Governo del pari il 9 novembre,
mostrando bene che tale era stata l'impressione avutane in Napoli; il
Vicerè fu tanto caritatevole da pensare non solo a questo, ma anche
a far salvare le anime di quegl'infelici coll'invio de' Religiosi,
mentre sulle galere non mancavano mai i rispettivi Cappellani, sicchè
in Madrid doverono rimanerne edificatissimi. Un certificato appunto
del Cappellano della galera denominata S.^{ta} Maria, D. Eligio
Marti, che poi con la stessa qualità passò a servire nell'ospedale
degl'Incurabili, ed un certificato di Gio. Luca de Crescenzio de'
Padri Ministri degl'infermi, o Padri della Crocella com'erano chiamati
volgarmente, ci rivelano il resto, mostrandoci a quale ordine di
Religiosi il Vicerè fosse ricorso[3]. Erano allora in gran voga, e
giustamente, i Padri Ministri degli infermi: lo stesso venerabile
Camillo de Lellis li avea condotti in Napoli nel 1588, ed avea fatto
grandemente apprezzare la loro caritatevole istituzione, sicchè ben
presto, per le beneficenze di D.^a Giulia Castelli, ebbero una distinta
casa di Noviziato di rimpetto al Castello dell'ovo (alle Crocelle),
oltrechè s'istallarono negli ospedali dell'Annunziata, degl'Incurabili,
di S. Giacomo, venendo poi anche il De Lellis pel servizio _corporale_
degl'infermi all'Annunziata; solo più tardi, col crescere della loro
fortuna, preferirono il servizio _spirituale_, onde finirono per
mantenersi in riputazione principalmente con la volgare credenza che
avessero una speciale preghiera per abbreviare l'agonia degl'infermi
accelerandone la morte! Più Religiosi di quest'ordine andarono a
confortare quelli che doveano essere giustiziati, e al De Crescenzio
toccò di confortare Gio. Battista Vitale, «il quale fu all'hora
affocato dalli ministri di giustitia sopra uno schiffo e poi squartato
in mezzo alle dette galere»; ma «in quel medesimo tempo che stava per
morire, publice et in presentia nostra, e del fiscale sciarava, che
si ritrovava in dette galere con detto Carlo Spinello, dichiarò, che
quello che esso havea detto contro quelle persone da lui nominate
nelle sue depositioni, e specialmente contro monaci, tanto in materia
di Ribellione, quanto in materia di heresia non era vero, ma che il
tutto havea detto per dolori de' tormenti datili dal predetto fiscale
sciarava». Al Marti poi toccò di udire la stessa dichiarazione, durante
il viaggio, non solo dal Vitale ma anche dai Caccia e dal Pisano, e da
ultimo toccò di trovarsi presente ed aiutare a ben morire «apparandosi
detto acto di giustitia sopra la detta galiera S.^{ta} Maria» per
Gio. Battista Vitale e per Gio. Tommaso Caccia, i quali ad alta voce
innanzi al fiscale Sciarava là presente ripeterono la dichiarazione
e volevano che fosse scritta; «qual dechiaratione da loro facta, fu
eseguita la detta giustitia, et furono li predetti Gio. Battista et
Gio. Thomaso affoghati sopra uno schifo, et poi squartati in mezo di
dette Galiere». Intanto come mai il Vicerè non disse nulla su tale
proposito, e parlò invece della temporanea pertinacia irreligiosa
mostrata da uno di questi infelici? Verosimilmente essi fecero
dichiarazioni di discolpe, ma parziali, avendo in realtà rivelato per
atroci torture più di quello che conoscevano, e noi l'abbiamo fatto
avvertire a suo tempo, nè il Vitale potè smentire ciò che avea rivelato
in materia di eresia, mentre non era stato mai interrogato su tale
materia; quanto poi alla pertinacia di uno di loro, la cosa fu vera
ed accadde appunto in persona del Vitale. Difatti si ebbe in sèguito
la testimonianza di Maurizio, il quale sul punto di morte narrò a'
Delegati del S.^{to} Officio che suo cognato «che fu giustitiato qua in
Napoli sopra, il molo dentro mare... non si voleva convertere, perchè
diceva havere inteso da fra Dionisio che non ci era Christo, ciò e,
che non ci credeva»[4]. Si ebbe poi anche, nel processo di eresia,
la testimonianza del Barone di Cropani, il quale a detto altrui,
giacchè soffrendo il mal di mare non vide nulla, disse che «tre che
furo giustificiati sopra la galera», dove egli si trovava, gridavano
essere stato loro estorto co' tormenti quanto aveano rivelato intorno
alla ribellione, aggiungendo che «un Gio. Battista de Nicastro quale
fu giustificato non si voleva convertire, ma disse che voleva andare
a casa del diavolo, et ivi aspettare don loyse sciarava, si ben ala
fine si ridusse et morì devotamente»[5]. È facile ravvisare che si
alluderebbe qui propriamente a Gio. Battista Bonazza, il quale come
vedremo or ora dovè essere giustiziato del pari; se non che in quanto
alla pertinacia irreligiosa da lui mostrata probabilmente il Barone
equivocò, confondendolo con Gio. Battista Vitale.
Ma, oltre il Caccia e il Vitale, vi furono quattro altri semplicemente
appiccati, e su' nomi di costoro non abbiamo la benchè menoma notizia.
Forse nell'Archivio de' Padri Ministri degi'infermi, che dicono
trovarsi in Roma, potrebbe aversene qualche cenno; ma è difficile
che costoro abbiano avuti registri particolareggiati come vedremo
averli i Bianchi di giustizia, i quali confortarono alcuni altri più
tardi, e sicuramente non ne dicono nulla nè gli Annali del Lenzo, nè
le Memorie storiche del Regi, che abbiamo appositamente consultato.
Nondimeno per tre di loro, anche dietro l'indizio datone dal Barone di
Cropani, possiamo dire essere stati con ogni probabilità quelli presi
dal Soldaniero e già condannati a morte, cioè Gio. Battista Bonazza
alias Cosentino, Fabio Furci e Scipio lo Jacono; il quarto dovè essere
uno della stessa comitiva, ovvero Gio. Ludovico Tedesco che fu preso
con fra Dionisio, col Vitale e col Maurizio, ma non abbiamo qualche
elemento di una certa consistenza per affermarlo. Il Campanella nella
sua Narrazione disse: «4 banditi nè confessi, nè nominati in cosa di
ribellione appiccaro nel molo Xarava e Spinelli, perchè si dicesse in
Ispagna, ch'era verificata la ribellione»; ma almeno i tre sopracitati
erano confessi, ed il primo di loro, il Bonazza o Cosentino, era stato
nominato dal Pizzoni oltrechè dal Soldaniero.
Del rimanente è verissimo che lo stesso Vicerè esagerava l'importanza
dell'affare, per magnificare il servizio reso alla Corona di Spagna e
per far valere le pretensioni del potere civile verso l'ecclesiastico:
ce lo dimostrano le relazioni del Residente Veneto e del Nunzio
Pontificio. Il Residente, nel giorno medesimo dello sbarco de'
carcerati, si diè premura di vedere il Vicerè, che gli disse il loro
numero essere di 156, de' quali «ottantasei rei convinti da non poter
fuggir la morte et gli altri indiciati»! Egli trasmise questa notizia
al suo Governo, e contemporaneamente partecipò anche il genere di morte
ideato dallo Spinelli per Maurizio (ciò che farebbe credere essergli
stato del pari comunicato dal Vicerè), partecipò il supplizio inflitto
a sei de' carcerati sulle galere, ed aggiunse che il Campanella ed il
Ponzio negavano la ribellione ma confessavano l'eresia, per tentare,
come credevasi, di «prolongar la pena con esser condotti a Roma»;
quest'ultimo apprezzamento usciva in campo per la prima volta e potè
forse provenire dal medesimo Vicerè, ma senza dubbio il fatto era
riferibile agli altri frati e clerici e non già a' due che venivano
citati. Il Nunzio poi avea veduto anche prima il Vicerè, «havendo...
havuto notitia che le Galere erano a Nisida per entrar al notte (_sic_)
in porto», allo scopo di ricordargli che ordinasse al carceriere
del Castello di tenere a sua istanza gli ecclesiastici carcerati,
i quali avea saputo essere al numero di 14 (al di sotto del vero);
e il Vicerè gli disse che tutti i carcerati erano 160, che tra gli
ecclesiastici vi erano 8 clerici selvaggi della diocesi del Vescovo di
Mileto (la qual cosa non era vera), che aveva anche qualche indizio
contro il Teologo di quel Vescovo (tale era stato nell'anno precedente
il Campanella), e perciò scrivesse al Vescovo di venire a Napoli
insieme col Teologo, aggiungendo che farebbe tenere i carcerati nel
Castello ad istanza di lui, ma in quanto alla congiura era necessario
l'intervento di qualcuno de' suoi ufficiali negli esami. Ricordiamo
che, nel settembre, il Vicerè aveva espresso desiderio che si mandasse
in Calabria un delegato del Nunzio, il quale sarebbe intervenuto negli
esami degli ecclesiastici da farsi innanzi agli ufficiali Regii, e
da Roma si era scritto che la causa degli ecclesiastici dovea farsi
in Napoli dal Nunzio, vale a dire nel modo normale: ora, venuti i
carcerati in Napoli, il Vicerè affacciava la medesima pretensione, ma
naturalmente sotto forma diversa e senza dubbio più temperata, e per
appoggiarla metteva innanzi, ad occasione del processo di congiura, i
clerici selvaggi, Mons.^r di Mileto e il suo Teologo, mentre sapeva
bene che non c'era alcuna relazione tra essi e la congiura. Da ciò si
vede pure che non nacque allora la contesa giurisdizionale, siccome
scrissero poi il Parrino e il Giannone, ma soltanto si rinfocolò, non
potendo nemmeno entrare in mente che per vederla nascere dovessero
passare oltre due mesi, quando tra l'uno Stato e l'altro non si faceva
che lottare per la giurisdizione ogni giorno. Il Nunzio non tardò a
trasmettere a Roma le pretensioni del Vicerè, tanto sul modo di formare
il tribunale, quanto sul far venire a Napoli Mons.^r di Mileto, e
in tale circostanza partecipò le esecuzioni fatte, aggiungendo che
avea mandato una prima volta il suo Mastrodatti in Castello, e non si
era potuto dargli udienza, l'avea mandato una seconda volta e gli si
era detto che i carcerati erano tenuti ad istanza del Vicerè! Faceva
inoltre conoscere che si era presentato a lui fra Cornelio del Monte
e gli aveva consegnato gli esami raccolti in Calabria d'ordine del
Card.^l di S.^{ta} Severina, annunziando che dirigevasi a Roma per
dar conto del suo operato, ed egli intanto avrebbe letto questi esami
per valersene a tempo opportuno.--Come ben s'intende, fra Cornelio
consegnava il processo di Monteleone e quello di Gerace, che d'allora
in poi rimasero nelle mani del Nunzio, mentre una copia ne era stata
già mandata dalla Calabria a Roma; ed è notevole, da una parte, che il
Nunzio non aveva mai saputo nulla de' processi fatti in Calabria da
ecclesiastici, e d'altra parte, che nemmeno questa volta fra Marco di
Marcianise credè opportuno di mostrarsi, la qual cosa apparisce da una
lettera posteriore scritta dal Nunzio al Vescovo di Gerace[6].
Pertanto il Vicerè si era già dato pensiero del tribunale pei laici,
avea fatta la scelta del personale, e nella stessa sua lettera del
9 novembre l'annunziava a Madrid. «Avendo trattato nel Consiglio
Collaterale della gravità di questo negozio e come conveniva procedervi
con molta ponderazione, ho stabilito di nominare in qualità di Delegato
Marco Antonio d'Aponte del Consiglio di S.^{ta} Chiara, che è un uomo
molto letterato, molto savio e di molta prudenza, e in qualità di
Fiscale D. Giovarmi Sanchez del medesimo Consiglio, che lo assistesse
il dottor D. Luigi Xarava Avvocato fiscale di Catanzaro, e che mi
dessero conto nel Collaterale di tutto ciò che si andrebbe facendo,
perchè lì si risolvesse ciò che fosse più conveniente. Credo bene che
S. S.^{tà} debba volere quanto all'eresia che il Nunzio giudichi i
frati e i clerici, quanto alla ribellione procurerò che giudichiamo
tutti». Noi abbiamo potuto trovare nell'Archivio di Stato in Napoli la
lettera Vicereale di commissione, la quale venne spedita a' suddetti
Consiglieri il 15 novembre, e ci dà anche il nome del Mastrodatti
di cui si prescrisse servirsi, che fu Giuliano Canale. Ricordato
l'invio dello Spinelli in Calabria per la congiura che vi si trattava,
l'informazione e gli atti da lui compiti, il gastigo dato a' più
colpevoli e il trasporto in Napoli di tutti gli altri contro i quali
non era «tanta subsistentia et chiarezza», il Vicerè si esprimeva in
questi termini: «vi dicemo et ordiniamo, che reconoscendo le dette
informationi et atti, debbiate nomine regio et nostro, summarie,
simpliciter et de plano, sine strepitu et figura Judicii procedere
ad omnes et singulos actus usque ad sententiam exclusive, però delli
incidenti di maggior momento, che in ciò occorreranno, ci ne verrete
a far relatione nel regio collaterale consiglio, et quando seranno le
cause a sententia, debbiate similmente venire a farcine relatione,
attal' che in presentia nostra si possano votare et sententiare, e
dopoi essequirle (_sic_) quello che serà sententiato, et potrete
procedere a tutti li atti incumbenti etiam in dì festivi et feriali,
non compiendo che si vada ritardando in questo la bona et breve
administratione della giustitia» etc.[7]. È una grande iattura che
sieno perduti appunto i volumi intitolati _Notamentorum_ relativi a
questo periodo: in essi si sarebbero certamente trovate, co' processi
verbali del Consiglio, le notizie, i pareri e le risoluzioni prese
nei suddetti incidenti di maggior momento e nelle sentenze da doversi
emettere[8]. La perdita è rincrescevolissima, poichè siamo ridotti ad
avere a nostra disposizione un numero ristrettissimo di documenti,
mentre sappiamo che il processo ebbe a travagliare almeno un 130
persone, e sebbene fosse stato spinto innanzi con quella sollecitudine
che il Vicerè aveva ordinata, rimase aperto per più anni, come crediamo
di poter dimostrare con sicurezza.--Per ora gioverà dare qualche
notizia su' Consiglieri delegati a formare il tribunale pe' laici. Essi
erano entrambi assai distinti personaggi. Marco Antonio d'Aponte, o
de Ponte, apparteneva alla nobile famiglia di questo nome ascritta al
Seggio di Portauova, alla quale, oltre varie Signorie, vennero mano
mano i titoli di Marchesi di Morcone, di S. Angelo, della Padula, di
Collonise, e poi anche quello di Duchi di Flumeri. Marco Antonio era
del ramo di Nicolò 3.^o de Ponte, primogenito di Gio. Felice Signore
di S. Angelo e di Vincenza Galeota; Consigliere fin dal 1594 in luogo
di Pompeo Salernitano, Prefetto dei Deputati della pecunia nel 1598,
divenne poi Membro del supremo Consiglio d'Italia, 1.^o Marchese di S.
Angelo, Presidente del sacro Regio Consiglio, Reggente del Collaterale.
Il Santanna nella sua Storia de' De Ponte, ce ne diede il ritratto, che
lo rivela uomo autorevole ed austero: molti ce ne trasmisero le lodi,
un Codice manoscritto, che si conserva nella Nazionale di Napoli, ci
trasmise le pessime qualità de' tre suoi figliuoli che ne amareggiarono
gli ultimi anni[9]. Quanto a D. Giovanni Sances de Luna, apparteneva
anch'egli ad una nobile famiglia di origine spagnuola, ascritta al
Seggio di Montagna nel 1570, ed insignita del Marchesato di Grottola
nel 1574. Era secondogenito di D. Alonso iuniore 1.^o Marchese di
Grottola, Tesoriere Generale, Consigliere del Collaterale e Grasciere,
e di D.^a Caterina de Luna figlia di D. Giovanni Martinez de Luna
Castellano di Milano per Carlo V.^o e poi Generale d'armata. Divenne,
per donazione del padre, Signore di S. Arpino, comunque glie ne fosse
stato contrastato il possesso da' suoi parenti con molte liti transatte
più tardi[10]. Consigliere fin dal 1593 godè sempre moltissima
riputazione, «fu amato, riverito e dopo morte desiderato» come dice
il De Lellis. Una circostanza del suo parentado merita qui speciale
menzione: la sua cugina D. Anna Sances, figlia di D. Loise Sances
fratello del 1.^o Marchese di Grottola, avea sposato Gio. Battista
Morano Barone di Gagliato e quindi era cognata di Gio. Geronimo Morano:
trovavasi poi già intavolato a questo periodo un matrimonio tra
l'unica e ricca erede del Barone, D.^a Camilla Morano, e un altro D.
Giovanni Sances cugino di lei e del Consigliere, figlio di D. Giulio
Sances. Potremmo aggiungere ancora che una sua nipote D.^a Caterina
Sances, nata da D. Alonso 2.^o Marchese di Grottola e D.^a Beatrice
de Marinis, sposò il fratello di Carlo Spinelli D. Gio. Battista, che
divenne Marchese di Buonalbergo[11]. Abbiamo già notato altrove, che il
Campanella ha reso la circostanza del parentado del Sances col Morano
assai importante per la nostra narrazione.
Mentre il tribunale pe' laici si costituiva, il Nunzio incontrava
difficoltà perfino a far ammettere che gli ecclesiastici fossero
tenuti nel Castello come carcerati suoi, la qual cosa pure era stata
antecedentemente consentita. Dapprima andò presso di lui lo Xarava, a
fine di persuaderlo che essendo costoro imputati di ribellione, non
si dovevano rimettere al foro ecclesiastico; di poi vi andò D. Alonso
Manrrique a nome del Vicerè per lo stesso oggetto, e quest'ultimo si
servì di un mezzo abbastanza adoperato dagli alti ufficiali spagnuoli,
quello cioè di mantenersi nelle grazie di Roma e al tempo stesso nelle
grazie della Corte di Madrid che si mostrava tanto tenera per Roma,
scovrendo e compromettendo gli alti ufficiali napoletani; «questi
Ministri, egli diceva, che pretendono che nel caso di ribellione possa
procedere il Principe di propria autorità, potrebbero fare qualche
male offitio alla Corte di S. M.^{ia} contro S. E.». Ma il Nunzio, che
a queste parole riconosceva subito la grande devozione del Manrrique
verso Sua B.^{no}, non poteva cedere, e in una udienza avuta dal Vicerè
sostenne assolutamente che gli ecclesiastici dovessero tenersi come
carcerati suoi, giusta gli ordini che da un pezzo e ripetutamente aveva
avuti da Roma; tuttavia «per facilitare il negotio» diè «speranza»
che S. S.^{ta} avrebbe accordato l'intervento di un ufficiale Regio
negli esami di essi intorno alla congiura, tanto più che il Vicerè
gli fece destramente intendere che voleva intervenirvi di persona, ed
egli ne rimase preoccupato. Così, in dato, del 12 novembre, fu scritto
dal Vicerè al Castellano, che tenesse gli ecclesiastici carcerati in
nome del Nunzio, e da costui, con la relazione di tutto l'andamento
dell'affare, fu scritto a Roma che sarebbe bene accordare l'intervento
di un ufficiale Regio negli esami degli ecclesiastici.--Pertanto,
procuratasi una copia del biglietto del Vicerè, il Nunzio mandò subito
a chiedere al Castellano se il biglietto gli fosse pervenuto, e il
Castellano rispose che l'avea ricevuto, ma che nel tempo medesimo gli
era stato detto di non dargli esecuzione se il Nunzio non si fosse
recato personalmente in Castello! Queste tergiversazioni continue,
e il disegno mostrato dal Vicerè d'intervenire egli medesimo negli
esami degli ecclesiastici, davano a pensare al Nunzio che si volesse
intaccarne la giurisdizione. E in siffatto senso, il 16 novembre, egli
scriveva a Roma, aggiungendo che, se fosse costretto a fare qualche
cosa, proporrebbe di lasciar trattare prima la causa dell'eresia, per
la quale si dava anche premura di notare che era disponibile soltanto
il Vicario Arcivescovile di Napoli, trovandosi assente il Vescovo di
Caserta, e però bisognava ordinare chi dovesse sostituirlo, laddove
così fosse sembrato a Roma[12]. Il Vescovo di Caserta D. Benedetto
Mandina de' Clerici regolari, già Nunzio in Polonia, era a quel tempo
il «Ministro della S.^{ta} ed universale Inquisizione» o «Inquisizione
de Urbe», successo in tale ufficio al Vescovo di Sorrento Mons.^r
Baldino morto nell'aprile 1598; trattandosi di un processo clamoroso e
non ordinario, dovendovi essere un tribunale più largamente costituito,
egli appariva un giudice naturalmente designato.
Si può ben dire che dalla parte del Vicerè e de' suoi ufficiali, più
del solito fine di custodire la giurisdizione Regia, vi fosse una
grande diffidenza verso Roma; questo riuscirà sempre più chiaro in
sèguito, ma fin d'ora è già chiaro abbastanza. Quantunque ognuno de'
Regii si fosse affrettato a dire che evidentemente il Papa non teneva
mano a' disegni del Campanella, in fondo nessuno dimenticò giammai che
il nome del Papa era stato pronunziato come quello del gran motore
dell'impresa; e così, per anni ed anni, il sospetto di una segreta
protezione di Roma non fu mai abbandonato da tutti i Vicerè ed alti
ufficiali, e influì anche troppo sulle loro determinazioni intorno al
Campanella. Dalla parte di Roma, quasi non occorre dirlo, non eravi
il benchè menomo interesse pel povero frate, ma tutti i pensieri
erano rivolti a far «conoscere la superiorità ecclesiastica» giusta
un'espressione del Nunzio; eppure avrebbe dovuto oramai farvisi strada
anche il sospetto, poichè i dubbii già concepiti sulla bontà de'
procedimenti usati con quegli ecclesiastici, nella Calabria, ricevevano
una potente conferma dalle spiegazioni orali che fra Cornelio dava in
Roma appunto a quei giorni.
Fra Cornelio, venuto co' carcerati in Napoli, dopo di aver consegnato
al Nunzio i processi ne' quali avea rappresentata quella parte che
conosciamo, si disponeva ad andar subito a Roma, e da una lettera del
Nunzio si rileva che dovè partire il 12 novembre[13]. Intanto non
avea mancato di visitare nel Castel nuovo almeno taluno de' frati
carcerati. Dalla testimonianza di un altro carcerato per delitti
comuni, inserta nel processo di eresia, sappiamo che visitò fra
Silvestre di Lauriana, ed ecco in che modo fu riferita questa visita:
«venne una volta un certo frate rossetto compagno del visitatore di
Calabria, et fra Silvestre li dimandò alcuni dinari quali erano stati
contribuiti in Calabria dali conventi, et massime che fra Silvestre
disse haver detto tutto quello che havea voluto detto frate rosso llà
in Calabria, et questo frate rosso lo consolò, dicendo che non poteva
patere cosa alcuna perchè esso era solo testimonio, è così li diede
nove carlini»[14]. Naturalmente dovè vedere ancora qualche altro, ma
non ce n'è rimasta alcuna notizia: sappiamo invece che giunto col
procaccio in Roma, fu subito interrogato dal S.^{to} Officio, e i
risultamenti dell'interrogatorio si leggono ne' Sommarii del processo
di eresia[15]. Noi abbiamo già avuta occasione di darne un cenno
altrove (ved. vol. 1.^o pag. 259). In sostanza venne a dichiarare che
prima fra Domenico da Polistina e poi il Soldaniero, e il Vescovo di
Catanzaro e gli ufficiali Regii gli comunicarono tutte quelle cose che
egli registrò nel processo; non potè determinare e neanche legittimare
la provenienza di parecchie gravi accuse contro il Campanella, espresse
nelle lettere che avea già scritte al Generale dell'Ordine e al Card.^l
di S.^{ta} Severina, sia quanto a detti e fatti del Campanella, sia
quanto alla diffusione delle eresie di costui in molti paesi che avea
specificatamente indicati; non potè dare altre informazioni al di là di
quelle inserte nel processo, mentre in più lettere aveva affermato di
poterle dare meglio a voce. Per tutti i versi egli «non soddisfece»,
e in verità sarebbe stato ragionevole un buon processo contro questo
malvagio frate; ma si conosce che uno de' lati più deboli del S.^{to}
Officio, sia amministrato da' Commissarii speciali sia dagli Ordinarii,
era appunto il rispettare coloro i quali bene o male davano prova
di zelo nella scoperta delle cose d'Inquisizione. Così la città di
Napoli non potè mai ottenere, malgrado i più insistenti reclami,
che ad evitare le tante testimonianze false nelle cause di S.^{to}
Officio fosse lecito di conoscere i nomi de' testimoni; Roma vi si
negò ostinatamente, non dissimulando che preferiva il rischio di avere
testimoni falsi al rischio di non trovar testimoni, e contentandosi di
ovviare alle testimonianze incerte con le ripetute, pazienti, laboriose
informazioni. Vedremo che questo precisamente accadde nella causa
del Campanella, non senza aggravare nell'animo del Vicerè e de' suoi
ufficiali il sospetto che si volesse, con le lungaggini, sottrarre il
Campanella e i frati inquisiti al gastigo che si meritavano. Ma se
in Roma non rimaneva più dubbio che il processo era stato iniziato
malamente, non si sarebbe anche dovuto ingenerare il sospetto per
l'intervento degli ufficiali Regii nella causa della ribellione e
tanto più rifiutarsi ad ammetterlo? Così avrebbe dovuto essere; ma si
conosce, o almeno si conosceva ottimamente da' padri nostri, che Roma
scansa volentieri la lotta con chi si mostra duro.
Il 17 novembre il Card.^l S. Giorgio scriveva che S. S.^{tà} stimava
ragionevole l'intervento di qualche ufficiale Regio nella causa della
congiura, e parimente la venuta del Vescovo di Mileto alla presenza
del Vicerè; stimava insomma ragionevoli tutte le dimande Vicereali,
se non che dichiarava dovere il Nunzio permettere all'ufficiale Regio
«d'intervenire in effetto _ma non già d'ingerirsi nel resto_, et
spetialmente nelle materie tangenti al S.^{to} Officio», dovere inoltre
ad ogni modo assicurarsi bene che fossero i prigioni «custoditi come
prigioni suoi, et _tenuti a sua libera dispositione_». Evidentemente
c'era un singolare contrasto d'idee, una indeterminazione curiosa, una
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