Fra Tommaso Campanella, Vol. 2 - 26

le quattro lettere di fra Pietro di Stilo a diversi, e la dichiarazione
di Felice Gagliardo a favore del Bitonto circa le cose che avea deposte
in materia di ribellione (ved. pag. 231); quest'ultima scrittura, se i
Giudici, e segnatamente il Nunzio, fossero stati più teneri del loro
dovere, avrebbe dovuto essere trasmessa al tribunale della congiura,
ma invece rimase nel processo dell'eresia. Tutte le altre scritture,
divise in due gruppi, vennero sottoposte al giudizio del P.^e Cherubino
Veronese Agostiniano, Teologo qualificatore della Curia Arcivescovile;
nel 1^o gruppo si contenevano quelle che sappiamo essere state
trovate nella camera di fra Dionisio e presso gli altri frati, e però
imputabili più o meno a' frati; nel 2^o gruppo si contenevano quelle
trovate presso il Gagliardo, secondochè rilevasi dal processo, e tale
distinzione, fatta sin da principio, mostrerebbe che ci dovè essere la
relazione del Barrese, quando le scritture furono consegnate. Vedremo
che al 2^o gruppo si aggiunse ancora un'altra scrittura, composta
dal medesimo Gagliardo nientemeno mentre il tribunale procedeva agli
esami su tale argomento; e poi si formò inoltre un 3^o gruppo con le
scritture appartenenti del pari al Gagliardo, trovate quando egli era
rinchiuso in Castello dell'ovo e consegnate più tardi dal Castellano D.
Melchiorre Mexia de Figueroa. Così il Padre Cherubino ebbe a fare tre
relazioni successive, le prime in data del 15 e del 17 marzo, e questa
con una aggiunta, la terza in data del 24 aprile; le scritture furono
messe insieme in un volume col titolo «Scritture o Segreti manoscritti
proibiti trovati nella cassa di fra Dionisio Ponzio in Castel nuovo
con le relazioni del Rev.^{do} Teologo sulle loro qualità», mentre
non tutte erano state trovate in Castel nuovo e nella cassa di fra
Dionisio, e già sapevasi che la cassa non apparteneva a fra Dionisio ma
al Bitonto.
Innanzi di procedere oltre, importa dar conto di tali scritture ed
anche della qualificazione espressa dal P.^e Cherubino su quelle
che egli ebbe ad esaminare. Cominciamo dalle scritture inserte
immediatamente tra gli atti del 4^o volume del processo, e dapprima
dalla lettera di Sertorio del Buono di Fiumefreddo in data del 9
luglio 1601[277]. Costui rilevasi un amico affettuosissimo di fra
Dionisio e del fratello Ferrante, dal quale avea pur allora ricevuto
canzonette spagnuole (anche Ferrante era virtuoso in poesia), e
promette una fede del Clero di Fiumefreddo in favore di fra Dionisio,
la quale difatti giunse e trovasi in questo volume del processo che
non brilla per l'ordine dato a' documenti in esso contenuti: spera
poi ardentemente la liberazione di tutti, manda un abbraccio al P.^e
fra Pietro «et all'amico», ricorda «la natività» e promette «alcuna
cosella»; sulla soprascritta si dice quella lettera «data in potere
della S.^{ra} Donna Ippolita cavaniglia al castel nuovo». Vedremo
che fu poi dichiarato essere appunto il Campanella l'amico, dal
quale il Del Buono si aspettava che consultasse l'oroscopo e desse
la natività di un suo figliuolo; e vuoi essere intanto notato il
nome di colei alla quale era raccomandata la lettera, D. Ippolita
Cavaniglia, pietosa Signora che troveremo esaltata nelle poesie del
Campanella come sua grande benefattrice, onde avremo ad occuparci
di lei debitamente.--Passiamo alle quattro lettere di fra Pietro di
Stilo[278]. Esse risultano scritte con la data del 3 agosto e dirette
tutte a Stilo, alla Sig.^{ra} Giulia Prestinace sorella di Gio.
Gregorio[279], alla Sig.^{ra} Porzia Vella suocera dello stesso, a
Suora Francesca Prestinace monaca di S.^{ta} Chiara altra sorella, ed
al P.^e Domenico Caristo vecchio frate ed amico comune. In sostanza,
più o meno, con parole coperte e sentenze curiose vi si ammonisce che
l'amico (Gio. Gregorio Prestinace) non si fidi nelle assicurazioni
del fratello, partito da Napoli credendo «di haver effettuato ogni
cosa à loro sodisfattione»; aspetti che la forgiudica sia tolta, la
qual cosa solamente il giudice Marc'Antonio di Ponte può sapere quando
accadrà, e non si piglino «viziche per lanterne» ma si ascoltino «li
consigli delli mal patiti»; e badi l'amico «che con vane speranze
se ne ritorni alla patria» e pensi che vi sono nemici «et massime
nci è illoco Giuda Scarioto» (forse Giulio Contestabile), e che nel
Castello «ci sono emoli... quali non cessano dalla loro anticha
perfidia» (certamente Geronimo di Francesco come fu poi dichiarato),
e finita ogni cosa ne darà avviso «et allora l'amico potrà far la sua
risolutione di appresentarsi». Contemporaneamente vi si dà speranza
di prossima fine della causa con buon esito, perchè il Campanella ha
vittoriosamente superato un grosso tormento e deve averne un altro, e
fra Dionisio pure dovrà averne un altro per le scritture di segreti
che si scoversero, ma un altro ne avrà anche il Petrolo, e su costui
non si può contare come su' due primi, e però bisogna stare a vedere:
questi concetti che esprimono i giudizii, le speranze e i timori, senza
dubbio divisi dallo stesso Campanella, meritano di essere testualmente
conosciuti. Fiero del suo fra Tommaso per l'ottima prova da lui data,
alla Sig.^{ra} Giulia fra Pietro dice: «Campanella hebbe quaranta
hore di tormento chiamato viglia, che fè stupir il mondo, et basta la
fè più di un lione scatinato, et speramo haver purgato le cose della
inquisitione; adesso aspetta un altro tormento di polledro chiamato,
pessimo tormento, quale sostenuto Campanella serà assoluto da ogni
cosa, per tanto vidiamo (_int._ aspettiamo a vedere) questo fine, de
più si hà di tormentare frà Dionisio per li secreti adesso si sebbero
(_int._ le scritture di secreti che adesso si seppero) et si scoversero
per vere, et si à questi dui non temeti come huomeni di honore, che
diremo di fra Domenico di Stignano, quale rovinò tutta questa causa,
quale harà di avere uno grave tormento?» E alla Sig.^{ra} Porzia:
«Campanella dopò lo tormento di quaranta ore, sostenuto valorosamente
come leone, si dice per verissimo che in materia di ribellione lui et
frà Dionisio haranno à esser tormentati un'altra volta et assoluti da
ogni male, al che non dovemo certo dubbitare, lo dubbio è che ha di
esser tormentato frà Domenico petrolo, rovina della causa si bene si hà
ritrattato, et per questo hà di esser tormentato, et per l'esperienza
fatta non li dovemo haver credito». E a suora Francesca: «Campanella...
queste settimane passate sostentò uno horribile tormento di quaranta
ore non senza grande honor suo et bene quanto alla inquisitione; ben
presto per materia di ribellione harà un altro pochetto di tormento
insieme con frà Dionisio, quali dopò questo tormento saranno liberi
et assoluti omnino da tutte le cose pretenze, et di questo non teneti
dubbio; lo dubbio è che hà di esser tormentato frà Domenico petrolo
di stignano, del quale la persona può dubitare et deve assai per la
sua mala riuscita et pazzia, ma più tosto viltà che iniquità». E si
adopera sempre a confortare ognuno, ed appunto a suora Francesca, dopo
di avere con delicata attenuazione parlato del «pochetto di tormento»
da doversi sostenere da' due principali inquisiti, scherzosamente
dice che al suo ritorno le darà gran penitenza, perchè non ha pregato
Dio per lui: confortatore egli che avrebbe pure avuto bisogno di
conforto, quantunque ignaro che un tormento era riserbato del pari
alla persona sua, questo frate dabbene non può non destare la più viva
simpatia. Pertanto interessa notare que' suoi giudizii sul Petrolo,
giudizii assolutamente confidenziali e quindi schietti: il Petrolo
è dichiarato da lui non già inventore delle cose di ribellione, ma
uomo di mala riuscita e di niuno accorgimento, vigliacco piuttosto
che iniquo.--Circa la dichiarazione rilasciata da Felice Gagliardo
in favore del Bitonto abbiamo poco da dire: essa risulta scritta in
data del 5 giugno 1601, ed oltre la firma del dichiarante reca quella,
scioccamente vergata, del Curato del Castello, ed anche quelle de'
due clerici assistenti la Chiesa. Come abbiamo già esposto altrove,
il Gagliardo con essa negava di aver detto ciò che trovavasi da lui
deposto contro il Bitonto in materia di ribellione: ed afferma che
è falsità «falsamente posta, con reverenza, da quelli che faceano il
processo»!
Veniamo alle scritture costituenti il volume di allegati e qualificate
dal P.^e Cherubino. Cominciando da quelle del 1^o gruppo appartenenti
a' frati o attribuite a' frati, si ha in primo luogo la così detta
Clavicola di Salomone in molti fogli e con la seguente nota: «fatta
experientia per il Re di franza, per il Gran Duca di fiorenza et altri
Signori, et hoggi in questo Regno un solo la tiene et il Prencipe di
Conca sta dando opera di far tal arte»[280]. Il carattere di tale
scrittura non è da per tutto uniforme, sia per essere stata copiata
in più volte, sia per essere stata copiata da diversi individui:
vedremo che il S.^{ta} Croce, molto competente, la disse di mano del
Gagliardo, ma costui la disse in parte di mano sua e in parte di mano
del Bitonto, avendo entrambi alternatamente lavorato per quella copia,
e così confermò pure in punto di morte, aggiungendo che ne aveano avuto
l'originale da Cesare d'Azzia egualmente carcerato, ed aveano data
quella copia a fra Dionisio perchè la conservasse nella camera sua,
dove poi fu trovata. Il P.^e Cherubino, nel qualificarla, riconosce che
è una copia, e rammenta che nell'Indice Romano allora stampato essa
è notata nella prima classe delle opere proibite di autori incerti,
risultando dichiarati veementemente sospetti di eresia coloro che la
leggono, la posseggono e si servono delle cose in essa contenute, e
formalmente eretici coloro che credono vere le cose in essa insegnate.
Si hanno poi diverse scritture di minor mole che recano quasi sempre
scongiuri, per trovare un tesoro, per rintracciare un furto, per
avere uno spirito in forma di cavallo, per rendersi invisibile etc.
etc. sovente tratti dalla Clavicola di Salomone; per taluna di esse
potrebbe dirsi che sia stata copiata dal Bitonto, ma generalmente il
carattere è quello del Gagliardo, e il P.^e Cherubino appone ad ognuna
il «sapit haeresim manifeste». Inoltre si ha un opuscoletto sulla
musica evidentemente di mano del Pizzoni, rimasto in potere di qualcuno
de' frati[281]. Ancora un grosso fascicolo con moltissime ricette e
«percantazioni» curiose; per non far dormire alcuni, per non esser
preso, per far divenire zoppo un cavallo, per indurre discordia, per
sciogliere un ligato o per chi non potesse stare con la moglie etc.,
tutto di mano del Gagliardo e qualificato dal P.^e Cherubino nel solito
modo; alla fine poi di questo fascicolo si trova una poesia in dialetto
calabrese distinta in due parti col titolo di «Amorosa» e «Partenza»,
di mano del Gagliardo e con ogni probabilità di sua composizione, non
vista o non curata dal Notaro e dal P.^e Cherubino. Sono 24 stanze,
alcune sufficientemente belle, e gioverà riportarne un saggio per
conoscere le qualità dell'autore. Dell'«Amorosa» scegliamo le seguenti:
«Quandu ti viju a sa fenestra stari
mi pari in celu un Angela vidiri
e poi mu ti viju amacciari[282]
mi piglu pena affannu e dispiaciri
ca chi raggiuni non mi voi parlari
chi ti haiju fattu lu vorria sapiri
poi ca lu mancu non mi voi guardari
fingi chi _non_ mi vidi e non fuijri[283].
Volsi provari lu luntanu stari
forsi di menti mi potevi usciri
l'amuri a autra banda volsi dari
e ijri arrassu per non ti vidiri
st'afflittu cori dissi nun lu fari
non ti scordari di lu ben serviri
mill'anni mi paria lu riturnari
cara patruna mia per ti vidiri.
Si vidi un'ursa in silva tetra et scura
aspra silvaggia, mansueta fari
si vidi un scogliu et una petra dura
spissu cadendu l'acqua arrimollari
e vui chi siti humana creatura
non vi potiti cu piantu placari
eccu chi siti ingrata di natura
essendo amata non voliti amari».
E queste altre della «Partenza»:
«Cori mi partu e mi ndi vogliu ijri
restati in guardia dilu miu sustegnu
e di lu pettu so mai ti partiri
ch'in cambiu la sua imagini mi tegnu
avisami per via dili suspiri
si illa ti tratta cu amuri o cu sdegnu
e si canusci chi mi ha da tradiri
ijetta un suspiru chi subbito vegnu.
Gula d'argentu cinta di ligustri
pettu chi si la bianca nivi equali
bucca suavi chi parlando mustri
vivi rubini e perni orientali
occhi sireni più di un suli lustri
. . . . . . . . . . . . . .»
Ma ciò basta per mostrarci l'ingegno e la fantasia del Gagliardo.
Finalmente tra le scritture di questo gruppo si ha un libretto
coperto di pergamena, contenente le poesie raccolte da fra Pietro
Ponzio, composte dal Campanella: esse si veggono, con un principio
di dedica, indirizzate da fra Pietro al Sig.^r Francesco Gentile
patrizio genovese, e ci dànno un quadro de' pensieri, delle azioni,
della vita intima del Campanella nel carcere fino al 2 agosto 1601,
vale a dire fino a 2 mesi dopo la veglia, laonde meritano di essere
diligentemente considerate ed illustrate; noi l'abbiamo già fatto in
parte e seguiteremo a farlo più in là, limitandoci per ora a notare
che il P.^e Cherubino le qualificò in latino ed italiano «Carmina in
laudem et improperium multorum, ad amorem alliciendum; in quibus sunt
multa quae videntur sapere idolatriam. Scrive a la donna da lui amata
chiamandola Sommo bene. Dicteria multa, quae videntur sapere libellum
infamatorium». Decisamente il P.^e Cherubino era disposto a trovarvi
il peggio possibile. Dobbiamo poi aggiungere che in questo gruppo di
scritture si sarebbe dovuto avere anche quella trovata nel reveglino
del Castello, sotto la finestra del carcere del filosofo, gettatavi
dal fratello Gio. Pietro al momento in cui venivano gli ufficiali in
cerca di scritture; ma essa non vi si trova, non essendo stata aggiunta
alle altre inviate al P.^e Cherubino e nemmeno inserta puramente e
semplicemente nel processo, mentre senza dubbio fu dal Sances trasmessa
a' Giudici del tribunale di eresia, nelle cui mani si trovava il 6
marzo 1602, quando fu esaminato il sergente Alarcon! La scomparsa di
questa scrittura merita di esser notata, ma non si può interpretrarla
in modo plausibile, se non ammettendo in qualcuno de' Giudici, o de'
loro auditori e segretarii, il gusto di possedere un'opera filosofica
del Campanella, giacchè con la scorta dell'unico cenno datone
nell'esaminare l'Alarcon si rileva che tale era detta scrittura.
Vedremo infatti tra poco registrato in questo esame che essa, composta
di 32 fogli, in carattere minuto e senza coperta, cominciava con le
parole «Per che teco menare la vita non posso», e finiva con le altre,
«ma che ne fece poi voi lo sapete»; donde si rileva che trattavasi
delle due prime parti dell'_Epilogo_ di filosofia, edito poi in latino
dall'Adami nel 1623 col titolo di _Philosophia realis epilogistica_;
e ci rimangono tuttora due copie manoscritte, nelle quali si leggono
appunto le dette parole, ma di ciò parleremo più opportunamente in
altro luogo di questa narrazione. Qui vogliamo soltanto notare che se
i Giudici avessero avuto un vivo sentimento del proprio dovere, senza
dubbio si sarebbero guardati dal lasciar perdere una scrittura, nella
quale fin da' primi versi e da' primi capitoli si trattava di Dio, di
Dio creatore e della Provvidenza Divina, mentre il Campanella era stato
incolpato di ateismo oltrechè di eresia: d'altra parte dobbiamo notare
che il Sances e il Governo Vicereale, nelle cui mani venne dapprima la
detta scrittura, ebbero sicuramente ad avvertire che il Campanella era
tutt'altro che pazzo, mentre si trovava occupato in un'opera simile.
Ben poco ci tratterranno le scritture del 2^o gruppo, appartenenti
esclusivamente al Gagliardo presso cui furono rinvenute. Una sola, in
lingua latina, rappresenta una breve consultazione o meglio istruzione
di un dottore intorno al valore giuridico della tortura, che è
dichiarato potentissimo con l'autorità di Alberico e di Farinacio
e con l'appoggio di qualche caso pratico atto a far vedere che la
tortura immoderata, riuscendo negativa, giova sempre anche al delitto
principale malgrado la protesta del _citra prejudicium probatorum_,
poichè il Giudice rimane obbligato a punirlo con pene miti: vedremo
poi come il Gagliardo profittò moltissimo di tale istruzione. Le
rimanenti scritture, quasi sempre di una sola carta ognuna ed anche
costituite da piccole cartoline, mostrano talora semplici ricette e
disegni astrologici, talora segreti e sortilegi. Vi sono ricette per
fare lo stagno, la tintura d'oro, un'acqua mirabile per la vista; vi
sono figure di circoli e pianeti, e il P.^e Cherubino per queste come
per la scrittura precedente dichiara «nihil contrà fidem». Vi sono
d'altra parte segreti molto spesso _ad amorem_, con oscenità da non
potersi ripetere, scongiuri, evocazioni, divinazioni; una scrittura
tra le altre reca il disegno di una mano a grandezza naturale, in più
punti della quale son segnate certe parole, e qua e là, invocazioni di
demonii, abuso di nomi sacri etc.; per tutte queste scritture il P.^e
Cherubino dice «sapiunt haeresim manifeste». Tali furono le scritture
dapprima raccolte, alle quali altre se ne aggiunsero ma un po' più
tardi.
Ripigliamo ora la narrazione dello svolgimento ulteriore del processo.
Il 1^o marzo 1602 il Card.^l di S.^{ta} Severina scriveva al Vescovo
di Caserta[284], che avendo fra Dionisio presentato memoriale, con cui
esponeva essergli state tolte dagli ufficiali Regii le scritture della
sua causa, ed essere state trovate in camera sua scritture cattive
appartenenti al Bitonto, delle quali doveva rispondere il Bitonto e
non esso fra Dionisio, S. S.^{tà} avea ordinato che si procurasse
di ricuperare le scritture delle cause di S.^{to} Officio, e che si
pigliasse la debita informazione contro il Bitonto od altri colpevoli
per quelle scritture che risultassero cattive. In verità, come abbiam
visto, il tribunale avea già procurato di ricuperare quelle scritture,
ed anzi le avea ricuperate fin dal 20 febbraio: solo non si era dato
pensiero di restituire a fra Dionisio le scritture della causa, nè
glie le restituì fino a quando non ebbe ad esaminarlo sull'incidente.
Ma dietro l'ordine venuto da Roma, procedè subito all'informazione
prescritta, e dal 6 marzo al 1^o maggio esaurì gli esami sulle
scritture già raccolte e su qualche altra ancora presentata durante
l'informazione; al tempo medesimo non lasciò di provvedere intorno alle
ultime difese che avea da fare fra Dionisio nella causa principale,
tollerando che il termine accordatogli fosse già scaduto. Diremo
dapprima dell'informazione presa sopra le scritture.
Il 6 e 7 marzo, e poi il 19 il 21 e 22 dello stesso mese, quasi sempre
innanzi al Vescovo di Caserta, al Vicario Curzio Palumbo e all'Auditore
Peri, si venne agli esami de' testimoni e degl'interessati. Nella prima
seduta del 6 marzo, si cominciò dall'interrogare il sergente Francisco
Alarcon[285], il quale narrò minutamente la causa ed i particolari
della ricerca fatta dal tenente del Castello e da lui nelle camere
di fra Dionisio, di ira Pietro Ponzio e del Campanella; parlò in
generale di scritture trovate all'aperto, presso fra Dionisio e presso
fra Pietro, e della cassa di pioppo che ne conteneva altre, le quali
poterono prendersi dal Castellano dopo di avere avuta la chiave da un
altro frate, a cui, secondo fra Dionisio, quella cassa apparteneva.
Disse che tutte le scritture furono portate al Castellano e da costui
trasmesse al Vicerè Conte de Lemos bona memoria, che egli non aveva
nemmeno viste le scritture trovate dentro la cassa, ed aggiunse, «se
io vedesse quella scrittura ritrovata al reveglino trà le due porte,
menata, per quanto si potte sospettare da me et dal tenente, dal
fratello di frà thomaso, la riconosceria, l'altre non mi confideria di
conoscerle»; aggiunse ancora che, dopo la pacificazione di fra Dionisio
col S.^{ta} Croce e col Gagliardo dentro la Chiesa del Castello innanzi
al P.^e Cura chiamato D. Gaspare d'Accetto, egli come testimone avea
sottoscritta una carta nella quale si dichiarava che fra Dionisio
non avea colpa in quella faccenda delle scritture. E mostratagli la
scrittura di 32 fogli che cominciava con le parole «Per che teco
menare la vita non posso», e finiva con le altre «ma che ne fece poi
voi lo sapete», disse, «questa mi pare la scrittura che fù trovata al
reveglino trà le due porte, che risponde ala fenestra dela carcere del
Campanella, che si sospettò che fusse stata buttata dal fratello del
Campanella, et mi pare alla lettera minuta, è che non ci era coperta,
però quello che si contenga in detta scrittura non lo sò perche non
lhò letta».--Si passò quindi all'esame di fra Pietro di Stilo[286]
e mostrategli le 4 lettere che gli appartenevano, disse che erano
state scritte di sua mano nella camera di fra Dionisio ma non ancora
mandate, e riteneva essere state prese con le altre scritture. Dietro
dimande spiegò che l'amico del quale si parlava in quelle lettere,
raccomandando che si guardasse dall'essere pigliato, era Gio. Gregorio
Prestinace, fratello di Suor Francesca e della Sig.^{ra} Giulia, e
genero della Sig.^{ra} Porzia Vella; che non sapeva «la causa di che
era inquisito e lo vero negocio», ma da carcerati suoi compatriotti
aveva udito «che lo detto Gio. Gregorio si era appartato per la causa
dela ribellione» (sempre nell'atteggiamento d'ignorante e d'ingenuo);
che costui gli era amico ed anche parente, ed avea scritto con tanto
calore avendo udito che Geronimo Francesco, pur suo parente e parente
di Gio. Gregorio, «procurava farlo pigliare ò vivo ò morto, perche li
era inimico, et di ciò ne havea dato memoriale al vicere del Regno,
et lhavea trattato lo fratello di Giulio contestabile, li quali tutti
erano inimici del detto» (studiata confusione di due periodi diversi, e
diffidenza non cessata mai; nominato il fratello di Giulio, invece di
Giulio Contestabile, per riguardi facili ad intendersi). Dimandato se
il Prestinace praticava col Campanella nel convento di Stilo e se mai
il Campanella avesse parlato di cose appartenenti alla fede in presenza
di esso deponente, rispose che Gio. Gregorio vi praticava e conversava
come gli altri, e pel resto si rimise a quanto ne avea detto negli
esami anteriori. Dimandato inoltre su' segreti de' quali avea parlato
nella lettera alla Sig.^{ra} Giulia Prestinace rispose, «sono secreti
di taverna, che ogni uno che viene porta novelle di quello che sente,
è le dicono quà in castello, et non so veri, et di questi secreti
io scriveva» (accorta confusione di cose per non dare spiegazioni
compromettenti).--Venne poi la volta di fra Dionisio[287]. Egli disse
che teneva le scritture, le quali gli furono trovate, in parte nelle
sue tasche, in parte sotto la materassa, ma le scritture della causa
erano state a sua dimanda poste nella cassa allorchè il Bitonto glie la
portò in camera; e soggiunse essersi oramai scoverto che il Soldaniero,
suo nemicissimo, avea date le scritture proibite al Bitonto per farle
trovare nella camera sua, e presentò le dichiarazioni rilasciatene dal
Gagliardo, dal Bitonto, da fra Pietro di Stilo e dal S.^{ta} Croce.
Disse non aver viste le scritture proibite se non in mano del Barrese,
poichè la cassa in cui si trovavano fu portata chiusa al Castellano, e
le scritture tolte da essa furono poi date a D. Gio. Sances e quindi
portate in Castello dal Barrese, il quale glie le mostrò e voleva
esaminarlo sopra di esse. Presentategli alcune scritture (quelle
del 1^o gruppo, escluse le poesie trovate a fra Pietro Ponzio), le
riconobbe di mano del Gagliardo, ed una sola di esse, quella sulla
musica, di mano del Pizzoni; riconobbe anche le scritture della sua
causa, ed invitato poi a dare spiegazioni sulla lettera di Sertorio
del Buono e massime sulla «natività» che costui gli chiedeva, rispose:
«mi scriveva che io mi ricordasse dela natività di un suo figliolo, la
quale mi cercò che lhavesse fatta fare da frà Thomaso Campanella che
havea inteso che si delettava di queste cose, et me la cercò quando fù
in napoli l'anno santo del 1600 dopò pasqua che tornò da Roma, et io
per darli parole le dissi che fra thomaso non stava in cervello, et che
si mai stesse in cervello ce lhaveria fatta fare, si ben io non so che
frà thomaso ne sappia fare, è sò certo che non ne sape fare, si ben lui
diceva de sì, et cosi passa lo fatto di questa natività, perche io non
so fare tal cosa». Nel rimandarlo, i Giudici ordinarono che gli fossero
restituite le scritture della causa.--Il giorno seguente (7 marzo) fu
esaminato fra Giuseppe Bitonto. Egli disse che non aveva mai posseduto
scritture ma solo qualche lettera, e con un poco di biancheria la
teneva in una cassa, la quale portò presso fra Dionisio, perchè nella
camera di costui, che stava solo, poteva essere meglio custodita; che
mentre portava detta cassa, Giulio Soldaniero lo pregò di conservargli
in essa un pacco di carte legato e suggellato con pasta od ostia,
dicendo essere un suo processo che gl'importava più di 1000 o 1500
ducati, presenti fra Pietro di Stilo, il Gagliardo ed altri; che fra
Dionisio volle pure conservare in detta cassa certi scritti concernenti
la sua difesa. Dietro dimande poi narrò come la cassa fu presa dagli
ufficiali del Castello, esponendo la rissa nella quale il Soldaniero,
il Gagliardo e il S.^{ta} Croce vennero contro di loro frati «et li
maltrattorno assai, con pugni, et con lo stregneturo (stringitoio,
cinturone) et roppero la testa à frà Dionisio», la ricerca di scritture
proibite fatta ad istanza de' tre sopramenzionati, come gli fu riferito
da molti «et in particolare da Scipione medico di questo Castello» (già
nominato anche da fra Dionisio altra volta), e quindi la presa della
cassa che gli fu più tardi restituita. Aggiunse di aver poi saputo che
in detta cassa erano state trovate «la Clavicola di Salomone et altre
cose di magarie», le quali il Gagliardo gli avea confessato esser sue,
ed averlo saputo dal Marrapodi e dal Conia, i quali gli dissero che
avendo fatta quistione tra loro il Soldaniero e il Gagliardo, costui
gli rinfacciava di aver dovuto fare questo tradimento a' frati per
servir lui, oltrechè il Gagliardo medesimo avea loro detto che era
stato fatto concerto di porre le dette scritture sotto il capezzale
del letto di fra Dionisio, ma poi aveano potuto riporle nella cassa
(un mucchio di menzogne e una doppiezza veramente fratesca). Infine
citò anche la dichiarazione rilasciata dal Gagliardo su tale proposito
(ma nella dichiarazione il Gagliardo non diceva che quelle scritture
fossero sue proprie). I Giudici vollero allora che riconoscesse dette
scritture, e mostratagli la copia della Clavicola di Salomone, disse
che «alli sigilli di pasta» che recava quella scrittura gli pareva
essere l'involto datogli dal Soldaniero; e richiesto delle qualità del
Gagliardo e della causa per cui si trovava in carcere, disse che era di
mala coscienza, ladro, bestemmiatore, odiato da' suoi parenti medesimi,
i quali l'aveano fatto carcerare ed aveano detto ad esso deponente che
si era dato al demonio mercè una carta scritta col proprio sangue,
e si trovava poi carcerato in Napoli per conto della ribellione;
aggiunse che essendo stato durante un anno in Castello dell'ovo, il
Castellano di quel tempo, a nome Figueroa, avea pure trovato presso
di lui scritture sortileghe, come si era saputo da un soldato di
detto Castello con la gamba di legno a nome Navarro, che era venuto a
riscuotere da lui certo danaro per un letto datogli in fitto, ed avea
detto di volerlo accusare per quelle scritture. Dopo ciò riconobbe
che la Clavicola di Salomone era di mano del Gagliardo, e così pure
tutte le altre scritture sortileghe a misura che gli furono mostrate
(quelle del 1^o gruppo) insieme con la poesia «materno idiomate in
octava rima»; riconobbe che il trattatello di musica era di mano del
quondam Pizzoni «quale si delettava di musica et ne sapeva molto»; e
richiesto se nella camera sua fossero state trovate scritture, disse