Fra Tommaso Campanella, Vol. 2 - 09

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la deliberazione da prendersi per quella dell'eresia. Effettivamente
venne poi, alcuni giorni dopo, comunicata la deliberazione che vi
si procedesse in Napoli, e già durante tutto questo tempo si era
continuato lo svolgimento del processo della congiura, trattandosi le
difese degli altri frati. Questo si rileva dalle lettere del Nunzio
del 24 e del 28 aprile, nella quale ultima si dice «che i prigioni per
la ribellione... seguono le loro difese, nelle quali non ci è parso
restringerli, se bene i termini concessi à tal effetto erano passati».
Quali siano state le difese de' rimanenti frati non conosciamo: alcuna
Difesa scritta per loro dal De Leonardis non ci è pervenuta, e questo
ci fa pensare che forse essi siano rimasti senza Difesa scritta.
Del rimanente ecco quanto troviamo in coda a' rispettivi Riassunti
degl'indizii, dove si ebbe cura di registrare ciò che si fece da questo
lato. Pel Pizzoni troviamo, «habuit defensiones _quas fecit_», e da ciò
desumiamo che egli siasi difeso da sè. Pel Petrolo, e così pure pel
Bitonto, troviamo semplicemente «habuit defensiones», donde desumeremmo
che questi due si siano rimessi alla giustizia del tribunale senza
difendersi, la qual cosa collimerebbe col loro grado di cultura molto
più basso. Per gli altri frati poi, cioè il Lauriana, fra Paolo della
Grotteria, fra Pietro di Stilo e fra Pietro Ponzio, non troviamo alcuna
annotazione, e dovremmo desumerne che il Sances abbia rinunciato
all'azione penale contro di loro. È quasi superfluo aggiungere che pe'
frati suddetti, come pel Campanella e fra Dionisio, e parimente pel
Contestabile, furono compiute le difese ma restò sospesa la spedizione
della causa: essi dovevano, o come principali o come testimoni,
sottostare al processo dell'eresia, e la Curia Romana avea deliberato
che dovesse prima svolgersi quest'altro processo. Così la sorte di
tutti costoro rimase sospesa durante molto altro tempo, e da ciò rimase
danneggiato singolarmente fra Pietro Ponzio, il quale non era implicato
in nessuno dei due processi e restava intanto nel carcere; ma vedremo
tra poco che appunto nel carcere erano già cominciati a sorgere alcuni
sospetti contro di lui.--La deliberazione che il processo dell'eresia
dovesse trattarsi in Napoli fu annunziata dal Card.^l di S.^{ta}
Severina, con lettera del 28 aprile che troveremo a capo del relativo
processo: questa lettera pervenne al Nunzio verso i primi di maggio,
come si rileva dall'altra che egli scrisse al Card.^l S. Giorgio in
data del 5 maggio. Si fu dunque perfettamente in tempo a cominciare
il processo dell'eresia mentre terminava il processo della congiura
per gl'inquisiti ecclesiastici fin allora presi; e come la spedizione
di quest'ultimo processo rimase sospesa, così dobbiamo anche noi
sospendere il racconto dell'esito riserbandolo pel tempo suo.
Ci occorre pertanto narrare un fatto importantissimo, che si era
già verificato in persona del Campanella fin dai primi di aprile.
Con un accesso subitaneo e violento si era manifestata in lui la
pazzia: questo incidente, non senza conseguenze giuridiche per lui,
merita tutta la nostra attenzione, e cominceremo dal vedere dapprima
quanto egli medesimo ne lasciò scritto. Nelle lettere del 1606-1607,
pubblicate dal Centofanti, una volta scrisse, «furono negate le
difese, e per questo sopraggiunse la pazzia»; un'altra volta scrisse,
«mi fecero pazzo essi con tanti tormenti et con non lasciarmi
difensare»[105]. Più tardi (il 1614) in una delle note nelle sue Poesie
scrisse, «bruciò il letto, e divenne pazzo ò vero ò finto»[106]. Più
tardi ancora (il 1620), nella sua Narrazione, tornò alla prima versione
del fatto e con molta larghezza scrisse, che il Sances «con altri di
sua fattura» (e questi non potrebbero essere stati che il Nunzio e il
De Vera), udendo le ragioni da lui addotte in sua discolpa, «levaro al
Campanella la commodità di scrivere, e d'esaminare, e difensarsi, e
li libri e il commertio con avvocati, e lo posero dentro al torrione
inferrato dicendoli, che dovea morir per ragion di stato e che
s'apparecchiasse i sacramenti, non a difensarsi, e li mandaro Gesuini,
e frati a conortarlo a morire, e volendo presentar il Campanella li
libri da lui fatti sopra la mutatione del mondo e la monarchia di
Christo, d'una greggia sotto un pastore, presto apparitura in tutto
il mondo, data da lui al Cardinal Sangiorgi dui anni avanti perchè si
vedesse che non era invention contra la chiesa, nè contra il Re fatta
novamente (_sic_). E di più volea presentar un volume scritto della
Monarchia di Spagna molto utile alla corona, e la tragedia della Regina
di Scotia fatta da lui per Spagna contro Inghilterra, e li discorsi
alli Principi d'Italia, che per ben comune non devono contradir a
detta monarchia, e questi libri fece venir dalla padria subito. Ma
il Sances non volse che si presentassero, nè si sapessero, e però
lo ristrinse nel torrione con le fenestre serrate, e mise timore a
chiunque parlava d'aiutarlo, e li fè tanti stratii al povero Campanella
che lo fè impazzire, brugiò il letto, e lo trovaro la mattina mezzo
morto, e pazziò cinquanta dì».--Parecchie riserve debbono farsi intorno
alle circostanze qui esposte. Vedremo che la sua pazzia durò anche
oltre 14 mesi, e scorso questo tempo fu provata col più atroce de'
tormenti; saremmo perfino tentati di credere che vi sia stata in tal
punto una lezione sbagliata. Vedremo dippiù che i libri i quali volea
presentare non vennero dalla patria subito, e nella Difesa scritta da
lui medesimo, compiuta dopo la manifestazione della pazzia e venuta in
luce 14 mesi più tardi, egli chiedeva a' Giudici che gli si dessero
i libri, menzionando i Discorsi politici inviati all'Imperatore,
il Dialogo contro gli eretici esistente presso Mario del Tufo, la
Monarchia dei Cristiani data al S. Giorgio, la Tragedia e il libro Del
Reggimento della Chiesa che diceva trovarsi in Stilo tra le sue piccole
masserizie, ed aggiungendovi di seconda mano la Monarchia di Spagna,
che diceva trovarsi pure in Stilo tra le sue piccole masserizie, «in
meis sarcinulis». Ognuno poi avrà già notato che i tormenti gli erano
stati dati il 7 e 8 febbraio, mentre la pazzia cominciò a' primi di
aprile, e circa il non essergli state date le comodità di difendersi,
bisogna tener presente che nella prima delle sue Lettere del 1606 a
Paolo V egli scrisse esplicitamente, «quando mi citaro mi protestai
che voleva io difensarmi di propria bocca almen che (_sic_) non mi
lasciaro articolare, e 'l Nuntio passato non mi fè chiamare, che penso
non ci l'han detto nè potea» (accennando all'Aldobrandini, che mostrò
di scusare poichè scriveva a un Papa): e certamente il Nunzio, che
benissimo lo potea, non è scusabile di non averlo fatto chiamare, ma
bisogna riconoscere che erano state date le comodità per la difesa, e,
come vedremo tra poco, egli non giunse in tempo a presentare la Difesa
scritta, e venne poi, il 2 aprile, a manifestarsi pazzo; sicchè riesce
del tutto credibile essere sorta la pazzia quando dovè persuadersi che
pel momento non dovea più pensare alla difesa, e per giunta mostravasi
imminente il processo di eresia tanto più spaventevole per lui. Infine
anche la circostanza dell'essere stato trattato con rigore maggiore
del solito mentre dovea fare le difese, merita di essere accolta con
riserva; poichè, all'opposto, nel detto tempo si soleva trattare
gl'inquisiti con larghezza, e vedremo tra poco da una deposizione del
carceriere Alonso Martinez confermata la cosa in persona sua. Tutte
le altre circostanze poi debbono essere riconosciute esatte, giacchè
concordano con quanto emerse in sèguito nel processo dell'eresia, onde
siamo in grado di dare la data precisa dell'incidente e tutti i suoi
particolari.
Non può dubitarsi che fornirono l'occasione o il pretesto per la pazzia
le esorbitanze di confessori, che specialmente a motivo della Pasqua
frequentavano allora più del solito il Castello. Vi erano assidui il
P.^e Pepe gesuita, il P.^e Muzio, un P.^e Pietro Gonzales Domenicano,
e quest'ultimo specialmente confessava i frati carcerati, come trovasi
attestato nelle loro deposizioni. Notiamo che fra Pietro di Stilo ebbe
a dire del Gonzales: «soleva venire spesse volte quà, è ci faceva
delle belle esortationi, et andava anco dal Campanella spesse volte
per quanto mi è stato detto, è li faceva delle brutte riprensioni».
Più esplicitamente il Vescovo di Termoli scrisse a Roma: «dubito
che la pazzia sia nata che andando il Padre Maestro Pietro Gonzales
à confessar et communicar alcuni di questi carcerati prima che io
venisse à Napoli, andava dal Campanella et l'essortava ad haver cura
dell'anima perchè il corpo era spedito». Ben si vede che il Gonzales
non godeva pienamente le simpatie del Vescovo di Termoli, e possiamo
aggiungere che tanto meno godeva quelle del Nunzio, nel cui Carteggio
si trovano più lettere contro di esso, dalle quali apparisce molto
amico di fra Serafino di Nocera tanto affezionato al Campanella[107]:
inoltre egli conosceva assai da vicino qualcuno de' frati carcerati,
p. es. il Petrolo, che era stato con lui in Milano; e per tutti questi
motivi rimane dubbio se egli avesse agito a quel modo per leggerezza ed
imprudenza, o invece per malizia, vale a dire d'accordo col Campanella
medesimo, a fine di rendere spiegabile l'inatteso manifestarsi della
pazzia. Ecco ora in che maniera il Campanella si mostrò pazzo, secondo
che depose il carceriere Alonso Martines quando ne fu interrogato.
«La matina di pasqua del spirito santo prossime passato havendo io
la sera precedente lassato una lucerna accesa dentro la priggione di
detto frà Thomaso quale poteva durare circa un'hora, è mezza à far
lume acciò egli vedesse à mangiare, la matina secondo il mio solito,
visitando tutti li carcerati, ritrovai che frà Thomaso havea brusciato
la lettèra, le asse, le tavole, un saccone di paglia, et una coperta,
et la priggione era tutta piena di fumo, et frà Thomaso era gettato in
terra, et io credevo che fusse morto, mà poi io udj che si lamentava,
et io lo levai da terra, et lo messi in un'altro loco, et rivenne
quanto alle forze del corpo, et ritornato da esso _per condurlo alla
messa che alhora havea licenza di condurlo_, detto frà Thomaso mi
venne à dosso è poco ci mancò che non mi levasse il naso dalla faccia,
è, da questa hora in quà hà parlato spropositatamente, et anco con
altri»[108]. Da diversi fonti all'uopo ricercati abbiamo potuto trarre
che la Pasqua nel 1600 si celebrò il 2 aprile: fu questa dunque la data
precisa in cui si manifestò la pazzia del Campanella, ed essa spiega
pienamente così l'opportunità e convenienza della pazzia dal lato
suo, come l'urgenza estrema della spedizione della causa dal lato del
Sances. Reca poi senza dubbio una grande meraviglia il fatto, che il
Nunzio non abbia partecipata a Roma tale novità; nel suo Carteggio non
se ne trova menzione per lungo tempo, e il primo a parteciparla a Roma
apparisce nel processo di eresia il Vescovo di Termoli, in data del 25
maggio[109].
Non appena ebbe notizia dell'incidente, il Sances ordinò che si
spiassero gli andamenti del Campanella, per conoscere se la pazzia
fosse vera o simulata; e fin dal 4 aprile alcuni scrivani andarono
nelle ore della notte ad appiattarsi presso il carcere del Campanella
per raccogliere ciò che avrebbero udito. Ebbe così due relazioni, che
esponevano due colloquii notturni tra il Campanella e fra Pietro Ponzio
rinchiusi in due carceri vicine, in data l'una del 10 e l'altra del
14 aprile: queste relazioni furono più tardi trasmesse in copia a'
Giudici dell'eresia, i quali le inserirono nel loro processo, e in tal
guisa ci è venuto tra mano non solo un documento importantissimo per
intendere le cose del Campanella e la condotta del Governo Vicereale
verso di lui, ma anche il racconto di uno de' più drammatici episodii
del tempo de' processi[110]. Una delle relazioni scritta da Marcello
de Andreanis, scrivano fiscale ordinario della Banca di Marcello
Barrese, dice che essendosi insieme con Francesco Tartaglia, scrivano
straordinario della medesima Banca, recato per ordine del Sances
nelle carceri del Castello, e propriamente in un corridoio vicino
alle carceri del Campanella e di fra Pietro Ponzio, accostatisi pian
piano nel detto corridoio, il 10 aprile, a tre ore di notte, udirono
il seguente dialogo. Il Campanella dimandava: che n'è di mio fratello
e di mio padre? E fra Pietro rispondeva: stanno nelle carceri del
civile con Giuseppe Grillo e Francesco Antonio di Oliviero. Ancora il
Campanella: e di tuo fratello che n'è? E fra Pietro: Ferrante sta con
quella marmaglia delle carceri del civile. Continuava il Campanella:
oh che pietà, che ne sa quel poveretto Francesco Antonio di Oliviero!
E fra Pietro: tu vedi! Ripigliava fra Pietro in latino: hai scritto
abbastanza oggi? E il Campanella: assaissimo, tutto. Ancora fra
Pietro: il Martines è rimasto fuori del Castello ed Onofrio (l'altro
carceriere) è stato chiamato dal Capitano; noi possiamo parlare? E
il Campanella, in latino: tu non conosci la razza degli spagnuoli;
e fra Pietro, in latino: conosco la razza e la scelleratezza degli
spagnuoli. Continuando quasi sempre in latino, il Campanella diceva:
sai se Tommaso d'Assaro è stato liberato? E fra Pietro: no, dimandane
a colui che sta nel carcere superiore (_intend._ superiore a quello
di fra Pietro). E il Campanella: non posso; aggiungendo: fa in modo
che dimani possa dare una pagina scritta a fra Pietro (certamente fra
Pietro di Stilo), perchè non posso parlare e sento un odore di uomo!
E fra Pietro: scongiurali, e parla in latino, giacchè sono idioti e
non conoscono la lingua latina. Rimasti quindi un poco in silenzio,
fra Pietro ricominciò: non ci è nessuno, perchè il vizio li porta
via, tu hai lume? E il Campanella: no, affatto; e soggiunse: andiamo
a dormire perchè ho visto un lume. E fra Pietro: andiamo a dormire.
Fu questo uno de' colloquii. Notiamo che Tommaso d'Assaro trovavasi
carcerato e doveva essere vicino ad uscire in libertà, vedendosi il
suo nome più tardi nella lista de' testimoni dimoranti in Napoli,
dati da fra Dionisio nella causa dell'eresia, per fatti avvenuti nel
carcere[111]. Ma ciò che riesce notevolissimo è il sapere che il
Campanella scriveva, che aveva in quel giorno scritto «assaissimo,
tutto», come pure una pagina da doversi passare a fra Pietro di Stilo,
e che fra Pietro Ponzio ne pigliava molto interesse. Cosa scriveva il
Campanella? Non mancheremo d'indagarlo più in là.--Veniamo all'altro
colloquio. Esso è riferito da Francesco Tartaglia sopra nominato, il
quale dice di essersi recato per dodici notti successive nel Castello,
dietro ordine del Sances, e più volte ha udito il Campanella discorrere
con fra Pietro «de bonissimo modo», e segnatamente la notte del 14
aprile, in compagnia anche de' carcerieri Martines ed Onofrio, udì
le seguenti parole. Fra Pietro chiamò quattro volte il Campanella
dicendo, o fra Tommaso... non senti no o cor mio? E il Campanella:
bona sera, bona sera. E fra Pietro: o cor mio, come stai, che fai, sta
di buon animo, perchè domani verrà il Nunzio e sapremo qualche cosa.
Ed il Campanella: o fra Pietro, perchè non trovi qualche modo per
potere dormire insieme e godere? E fra Pietro: volesse Iddio, anche a
dover pagare dieci ducati al carceriere, a te, cor mio, vorrei dare
venti baci per ora; ho sparso per tutta Napoli i tuoi Sonetti, li so
tutti a memoria e nulla mi dà più gran gusto che il leggere qualche
frutto dell'ingegno tuo. E il Campanella: voglio ora comporne uno pel
Nunzio. E fra Pietro: sì cor mio, ma ti chiedo in grazia di comporre
prima quelli per me o quelli che desidero per mio fratello, e poi
comporrai quelli pel Nunzio. E il Campanella: va a riposare, buona
sera. Ben si rileva qui la tenera ed irremovibile amicizia di fra
Pietro pel Campanella, e il suo ardore per averne le poesie, spinto
fino all'indiscrezione di volerne per sè e per suo fratello, mentre il
povero filosofo ne meditava qualcuna che riuscisse a rendergli propizii
i potenti nella sua terribile condizione; e si rileva al tempo medesimo
l'animo depresso del filosofo, e il suo vivo bisogno della compagnia di
un amico come fra Pietro. Si vide poi tale affettuoso colloquio dare
al Vescovo di Caserta motivo di sospettare nientemeno che dell'onestà
delle relazioni tra il Campanella e fra Pietro: evidentemente questi
due giudicabili erano assai migliori di alcuni de' loro Giudici! Ma
dunque il Campanella componeva Poesie, oltrechè scriveva pagine da
doversi trasmettere a fra Pietro di Stilo, e il Sances già ne sapeva
qualche cosa: e come mai poteva egli meditare un Sonetto pel Nunzio?
Non ne troviamo alcuno con questo indirizzo nella raccolta fattane da
fra Pietro, e bisogna dire che o lo scrivano sia caduto in un equivoco,
o il Campanella abbia voluto alludere al Sonetto indirizzato al Papa,
da doversi per vie trasversali far capitare nelle mani del Nunzio, il
quale si sarebbe poi fatto un dovere d'inviarlo al Papa. Si può intanto
immaginare quale concetto abbia dovuto formarsi il Sances intorno a
questa pazzia, durante la quale il Campanella scriveva Sonetti perfino
al Nunzio: evidentemente egli non poteva che chiedere d'urgenza la
spedizione della causa.
Ed eccoci condotti a narrare la vita intima del Campanella,
considerandola propriamente dal lato delle sue opere d'ingegno, in
questo primo periodo della sua prigionia di Napoli, rappresentato dal
tempo in cui venne istituito e svolto il processo della congiura così
pe' laici come per gli ecclesiastici. Dicemmo già che fin dai primi
momenti dell'arrivo egli compose Poesie per dare animo agli amici,
che nel _Syntagma_ se ne ha il ricordo ma con una completa confusione
di tempi, che la Raccolta fattane da fra Pietro ci mette in grado di
potere fino ad un certo punto distinguere ed assegnare alle diverse
poesie la propria data. E veramente nel _Syntagma_ si parla delle
poesie in questi termini: «Fui condotto a Napoli qual reo di Maestà, ed
ivi, mentre si negava l'aiuto de' libri, composi molti versi latini ed
italiani, sul primo Senno e prima Possanza, sul primo Amore, sul Bene,
sul Bello e simili, che tutti scriveva di nascosto quando ne aveva
l'agio. Di essi vennero formati sette libri intitolati La Cantica,
de' quali in parte Tobia Adami pubblicò una scelta, fatta secondo
il giudizio suo, sotto il nome di Settimontano Squilla, aggiuntavi
l'esposizione. Composi parimente Elegie sulle sventure mie e degli
amici, inoltre Ritmi profetali ed una quadruplice Salmodia su Dio
e su tutte le opere sue, e a questo modo con le poesie diedi anche
vigore agli amici acciò non si abbattessero ne' tormenti». Ora tra
le poesie raccolte da fra Pietro, alla cui composizione quasi totale
possiamo assegnare un tempo certo, compreso tra il 10 novembre 1599 e
il 2 agosto 1601, non si trovano le Canzoni, le Elegie, le Salmodie
ricordate nel _Syntagma_ e poi pubblicate veramente dall'Adami; nè
occorre dire che vi si troverebbero, qualora fossero state composte
nel tempo anzidetto. Appena vi si trovano i Ritmi profetali, sicchè
bisogna rimandare le poesie sopra ricordate ad un periodo posteriore
di molto; nel qual caso, gli amici rinvigoriti con esse ne' tormenti
dal Campanella sarebbero i soli pochi frati tormentati per l'eresia,
ciò che vedremo accaduto nel gennaio 1603; invece la raccolta fatta
da fra Pietro ci presenta le poesie del primo periodo, e tra esse
quelle che servirono a rinvigorire gli amici tutti ne' tormenti per
la congiura. La detta Raccolta non serba un ordine strettamente
cronologico, ed abbiamo già rilevato altrove che contiene pure qualche
poesia certamente del tempo della prigionia di Roma, conservataci
per reminiscenze comunicate dal Campanella al raccoglitore: ma essa
nemmeno procede scompigliata del tutto, e in generale vi si possono
molto bene riconoscere due gruppi che indichiamo subito, assegnando
al primo il periodo del quale ci siamo finora occupati, vale a dire
dal novembre 1599 all'aprile 1600. Questo primo gruppo è rappresentato
essenzialmente dalle prime 24 poesie, che mostrano un distacco
sensibile dalle rimanenti, tra le quali per altro è capitata ancora
qualcuna da doversi riferire al primo gruppo, mentre poi nell'uno
e nell'altro gruppo son capitate quelle poche di reminiscenza, già
composte ne' tempi anteriori[112]. Il primo Sonetto col quale si apre
la Raccolta di fra Pietro, ben conosciuto perchè fu poi pubblicato
dall'Adami, è quello «sul presente stato d'Italia» che comincia col
verso
«La gran Donna ch'a Cesare comparse»:
in verità noi lo crederemmo scritto piuttosto ne' giorni de'
preparativi, in Calabria, contemplandosi in esso che per la patria
infelice, dominata da stranieri, non c'era più da sperare nè nel
Principato nè nel Sacerdozio, ma bisognava tornare a' puri principii
del Cristianesimo e della Sapienza greca; ad ogni modo riesce
abbastanza interessante il sapere che un Sonetto simile, decorato del
sacro nome d'Italia e tutto sollecitudine per le sciagure di essa,
sia di vecchia data ed abbia circolato tra le mani de' congiurati o
de' perseguitati per la congiura[113]. Più sicuramente appartiene al
primissimo tempo della prigionia di Napoli, e forse è stato davvero il
primo composto nel Castello nuovo, quello che viene in 2^o luogo «sopra
l'istesso stato d'Italia» (titolo verosimilmente dato da fra Pietro),
avendo tutta l'impronta dell'attualità, esprimendo la preoccupazione
che il Conte di Lemos avesse a menar buoni i tristi processi fatti in
Calabria, promettendo in tal caso più grave la rovina profetizzata
agli oppressori, ed esalando il dolore del filosofo ancora sotto
l'impressione della bieca accoglienza popolare sofferta nel viaggio da
Gerace a Bivona:
«Il fato dell'Italia hoggi dipende
dall'esser vera ò falsa rebellione
questa, ch'à calavresi Carlo impone
e Sciarava, ch'el Regno el Rè n'offende.
E s'il Conte che regge ancor pretende
che lor finte ragion sian vere e buone
. . . . . . . . . . . . . .
più grave fia l'antevista ruina.
. . . . . . . . . . . .
Ahi cieca Italia nella tua rapina!
sin quando il senno tuo sopito langue?
s'io ben ti desiai, che t'ho fatt'io?»
Sarebbe poco ragionevole voler qui trovare una Musa felice e splendida,
e lo stesso va detto per tante altre poesie di questa raccolta: il
filosofo dovea sentirsi disposto a tutt'altro che a poetare; d'altronde
poesie simili bastavano per que' rozzi ma generosi patriotti. Il 3^o
Sonetto, intitolato dall'autore «a sè stesso», può ritenersi bene al
suo posto, valendo ad ispirare conforto e fiducia a' compagni suoi in
un modo generale, e sempre promettendo la vendetta divina:
«Spesso m'han combattuto, io dico anchora,
fin dalla giovanezza, ahi troppo spesso,
. . . . . . . . . . . . . .
ma la spada del ciel per me lavora».
Non così l'altro intitolato anche «a sè stesso», con la giunta dovuta
a fra Pietro, e certamente errata, cioè «subito fu preso»: esso venne
pubblicato dall'Adami senza questa giunta, che forse potè essere
suggerita a fra Pietro dalle parole che si leggono nel 2^o verso, «il
fiero stuol confondo»; ma tutte le circostanze, che accompagnano queste
parole, le mostrano riferibili a' Giudici, Fiscale e contradittori
intervenuti nelle confronte, sicchè il Sonetto risulta precisamente
del tempo degli esami e confronte del Campanella, che aveano dovuto
sembrargli tali da poterne menar vanto. Passiamo quindi sopra di esso,
e del pari sopra il seguente, che gli apparisce collegato e che dinota
un grave sconforto succeduto ad una viva fiducia; ci troviamo così
in presenza del Sonetto «in lode di carcerati e tormentati», che ci
conduce al periodo in cui si pose mano alle torture cominciando da
Maurizio.
Siamo dunque alle prime settimane del dicembre 1599, al tempo del
massimo fervore nel processo della congiura pe' laici. Maurizio avea
sostenuto con fermezza terribili e lunghissimi tormenti, e gli altri
avrebbero dovuto imitarne l'esempio; il Campanella lo esalta con
entusiasmo, e merita di essere notato che attribuisce allo «ardore di
libertà e di ragione» il superare que' tormenti, armi del tiranno:
«Veggio spirti rivolti al Creatore
schernir tormenti e morte, del tyranno
armi sovrare, e scherzar con l'affanno
. . . . . . . . . . . . . .
Di libertà e ragion tanto è l'ardore
che dolcezza il dolor, ricchezza il danno,
seguendo l'orme di color che sanno,
stimano, armati di gloria et honore.
Rinaldi il primo sei notti e sei giorni
vince i tormenti antichi e i nuovi sprezza
. . . . . . . . . . . . . . . .
esempio a gl'altri d'invitta fermezza»[114].
Ma il poeta dovea sentirsi anche personalmente grato a Maurizio, il
quale, non avendo confessato, aveva contribuito assaissimo a farne
migliorare la causa; ed ecco quel Madrigale:
«Generoso Rinaldi
vera stirpe del syr di Monte Albano» etc.
Nè deve fare impressione qualche concetto come quello di «aver reso
il pegno di fedeltà al Re». Bisogna tener presente che stavano
entrambi in carcere e sotto un processo capitale; la poesia avrebbe
potuto essere sorpresa da' carcerieri e trasmessa al Sances, onde
naturalmente non può darsi molto peso a qualche concetto che esprima
innocenza, ed invece deve darsene molto a quelli che esprimono
sentimenti di libertà.--Ma giunge il 20 dicembre, e Maurizio sotto le
forche si decide a confessare per iscrupolo di coscienza: si rivolta
allora l'animo del poeta, e scrive quel «Madrigale di Palinodia»,
che è triste dover ricordare, e che i lettori troveranno dopo il
precedente; un passaggio così brusco dalla lode al vituperio stringe
veramente il cuore. Conoscendo poi che egli credè, più o meno,
all'influenza del Gesuita confessore del Vicerè, il Padre Mendozza,
che avrebbe determinato Maurizio alle rivelazioni, ci parrebbe
naturale collegare con tale fatto quel Sonetto che potè anche scrivere
più tardi, col titolo «contro i G......» ossia «contro i Gesuiti»,
pubblicato negli anni successivi dall'Adami col titolo più prudente
«contro gl'ipocriti»: che esso debba riferirsi a' Gesuiti risulta
manifestamente da' primi versi,
«Gli affetti di Pluton portano in core
il nome di Giesù segnano in fronte»;
ben doveva il poeta trovarsi in grande eccitamento contro costoro,
allorchè accennava alle loro malizie, e non soltanto per aggiustare la
rima egli scriveva
«questo veggendo fà ch'io mi dischiome»[115]
Nè scorgiamo altre poesie da doversi con qualche probabilità riferire
a' fatti concernenti i laici, fra' quali pel solo Maurizio si vede
che il Campanella poetò, mentre da una cancellatura fatta da fra
Pietro nella sua raccolta rilevasi che perfino il Sonetto «in lode di
carcerati e tormentati» aveva dapprima il titolo di Sonetto «in lode di
Mauritio Rinaldo».
Ma nelle prime settimane del gennaio 1600 già si conosceva non lontano
il cominciamento del processo della congiura per gli ecclesiastici, e
le poesie furono più frequenti. Non è arrischiato l'ammettere che siano
stati composti in tale data que' due Sonetti profetali, l'uno ancora
inedito che comincia col verso
«Toglie i dì sacri il Tebro e calca Roma»,
e l'altro già pubblicato dall'Adami che comincia col verso
«Veggio in candida roba il Padre Santo».
Questi Sonetti con qualche altro analogo, che trovasi disperso nel
2^o gruppo e che vedremo altrove, sarebbero appunto i Ritmi profetali
menzionati nel _Syntagma_; e non debbono sfuggire que' versi del primo
rimasto inedito, forse rimasto inedito per essi,
«La giustizia si compra, el verbo santo
sotto favole e scisme ogn'hor si vende»[116].
Egualmente è verosimile che siano stati composti in tale data quei tre
Sonetti concernenti lo Sciarava, i due primi di maledizione, il terzo,
diremmo, d'insinuazione[117]. Il primo che comincia co' versi
«Campanella d'heretici e rubelli
Capo in Calavria mai non s'è trovato»
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