Fra Tommaso Campanella, Vol. 2 - 42

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eresia ed invece stimato vittima di malevoli, onde lungamente tentò
tutti i mezzi per averlo in Augusta, lo soccorse in danaro e in
commendatizie, lo protesse e lo fece proteggere, lo fece visitare e
lo visitò egli medesimo, destinò una forte somma per farlo fuggire o
liberare: le promesse di miracoli, le affermazioni di possedere segreti
meravigliosi, le esagerazioni di ogni maniera, che il Campanella avea
poste innanzi per acquistarsi la grazia e l'interesse de' potenti, non
destavano allora le diffidenze di oggidì se non presso i ben pochi
spregiudicati; si può dire che esse giovarono più che nocquero, e
forse contribuirono sopra ogni altra cosa ad infervorare i Fuggers
nella protezione del Campanella. Lo Scioppio riusciva pel filosofo
un uomo provvidenziale, essendo confidente della Curia Romana e
destinato ad avvicinare l'Imperatore Rodolfo, l'Arciduca Massimiliano
di Baviera, l'Arciduca Ferdinando di Austria e tutti que' Principi di
Germania che erano impegnati con Spagna a sostenere gl'interessi del
Cattolicismo; il Fabre poi riusciva sempre un buono assistente ed un
utile intermediario per la corrispondenza, la quale era già avviata da
un pezzo tra i Fuggers residenti in Augusta e il Campanella, venendo
le lettere dirette a un Marco Velsero gentiluomo di molta levatura
ed influenza e non a' Fuggers, e d'allora in poi doveva allargarsi
comprendendo anche le lettere dello Scioppio. Motori di tutte queste
pratiche erano, come ben si vede, i Fuggers, e di essi specialmente
Giorgio, mentre in Napoli si prestava con tenera sollecitudine fra
Serafino di Nocera, che il Campanella chiamava suo «tutore»; per altro
Giorgio mandò talvolta anche qualche suo agente particolare, dapprima
forse un Sigismondo, che trovasi nominato nell'Epistolario napoletano
ma che potrebb'essere veramente un incaricato dello Scioppio, più
tardi poi un Daniele Stefano di Augusta, che trovasi nominato
nell'Epistolario romano e che deve dirsi con sicurezza un agente di
Giorgio.
Parrebbe che lo Scioppio avesse già letto qualche opera del Campanella,
con ogni probabilità avuta da Cristoforo Pflugh, e che ne fosse rimasto
altamente sodisfatto: così, dietro le sollecitazioni de' Fuggers, che
doveano equivalere a comandi atteso l'enorme credito ed influenza di
quella famiglia, dirigendosi al Campanella gli manifestava ammirazione
per la prestanza sua apparsagli ne' libri suoi, gli prometteva di
adoperarsi per la sua liberazione presso i Principi del Cristianesimo,
gli esprimeva il desiderio di averlo a socio contro gli eretici;
questo si può argomentare da un brano della lettera pubblicata poi
dallo Struvio, con la quale più tardi il Campanella accompagnò l'invio
di una copia delle sue opere dimandate dallo Scioppio. Naturalmente
costui apparve al Campanella un Angelo, un Liberatore, un Redentore,
e così trovasi chiamato sempre nelle lettere del filosofo. I nuovi
documenti rinvenuti dal Berti mostrano che il 26 aprile 1607 egli era
in Napoli, e scriveva al Fabre, «De Campanella in bona spe sum fore ut
ei loquar, et quae velim ab eo auferam: interque coetera disputationem
adversus Venetos, quam Pontifici gratissimam fore confido». Questa è
la sola notizia datane finoggi, e da essa non risulta che lo Scioppio
abbia visto il Campanella, ma risulta che sperava di vederlo e di
carpirne tutto ciò che volesse, accennando agli _Antiveneti_ che
diceva dover riuscire assai graditi al Papa, e mirando senza dubbio
agli _Articoli profetali_ che sarebbero riusciti graditissimi a lui
medesimo; troveremo infatti che egli li desiderò e li chiese per lungo
tempo e per tutte le vie, mentre il Campanella, tutt'altro che facile
ad essere superato in avvedutezza, l'aveva ben capito e se ne schermì
fin da principio. Lo Scioppio si era impegnato nell'astrusa quistione
dell'Anticristo e de' futuri eventi della fine del mondo[469], e ciò
forse, più di ogni altra cosa, gli fece apparire il Campanella tanto
interessante; poichè, quanto agli scritti contro Venezia, il Papa
trovavasi già in via di accomodamento per mezzo del Card.^l di Gioiosa,
che mandato da Errico IV era stato in Venezia ed era poi giunto a Roma
fin dal 22 marzo, la qual cosa lo Scioppio non poteva ignorare. È
posto intanto fuori controversia che lo Scioppio sia venuto in Napoli
nell'aprile 1607, non già nel 1608; ma è posto in pari tempo fuori
controversia che egli sia venuto per parlare al Campanella e carpirne
le opere, d'accordo col Fabre, e che non abbia menomamente avuta una
missione del Papa per trattare la libertà del prigioniero, come finora
si era creduto dietro una delle tante erronee notizie registrate nel
_Syntagma_, che noi abbiamo recisamente oppugnata; ci riserbiamo per
altro di tornare più in là su tale quistione, di cui ognuno intende la
grande importanza.
Come dicevamo, rimane tuttora ignoto se in Napoli lo Scioppio abbia
visto il Campanella; ma non sarebbe meraviglia che non avesse potuto
vederlo, mentre era tanto rigorosamente guardato, e le premure di
un noto faccendiere della Curia Romana doveano piuttosto riuscire a
farlo guardare maggiormente. Forse in tale occasione, se pure la cosa
non sia accaduta un po' prima per via epistolare, lo Scioppio ebbe
le copie delle lettere già dirette dal Campanella al Papa ed a' due
Cardinali nell'agosto 1606, acciò rimanesse informato de' passi fatti,
ed ebbe poi quella lettera al Papa da noi pubblicata; la quale mostra
bene di essere del 1607, dicendovisi il Campanella carcerato da otto
anni, ed oltrechè attesta l'invio delle lettere antecedenti con le
parole «scrivo tremando et altre lettere mandai», accenna pure in modo
manifesto allo Scioppio che si era offerto a favorirlo con le parole
abbastanza notevoli, «et mò io stava piangendo com'Helia sotto il
Junipero, dimandando la morte, et ecco venir quest'Angelo Samaritano,
dopò che mi sprezzaro li Leviti e li Sacerdoti, e _me tradiderunt in
manus tribulantium et in animam inimicorum meorum_, questo dico mosso
da spirito di Sapienza... _et vult alligare vulnera mea_». Tutta la
lettera rappresenta un 2^o appello al Papa, come è attestato fin dalle
prime parole, «Io di novo appello la causa mia al Tribunal proprio
di V. B.» etc.; e del resto vi si trovano ripetute le solite cose,
essersi in procinto di veder le meraviglie, avendo parlato di segni
e profezie essere stato ritenuto ribelle, aver sofferto tormenti e
malanni gravissimi, voler essere ascoltato nel tribunale romano, poter
mostrare cose mirabili, aver visto e toccato ne' suoi guai i misteri
della fede e le cose celesti[470]. Ma ancora in data del 7 aprile
1607, non sapremmo dirne il motivo, scrisse quella lettera latina
solenne al Papa ed a tutto il Senato de' Cardinali che fu pubblicata
dal Centofanti, e in essa, tra umili supplicazioni e audaci rampogne,
si dolse che non aveano voluto ascoltarlo, mentre «spesso li avea
avvertiti di voler mostrare innanzi a' Principi del suo popolo ed alle
tribù d'Israele secondo le sacre decretali, mercè le autorità della
Scrittura come Giovanni Battista, e con miracoli da non potere essere
imitati dal diavolo, come quelli di Mosè alla presenza di Faraone,
che per volontà di Dio egli era chiamato alla salute de' popoli»;
e dicendo che «se era pazzo lo liberassero» (proposizione degna di
esser notata), ricordando le imputazioni ingiustamente sofferte per
l'addietro e poi quelle degli ultimi tempi, accennando alle opere che
avea composte, esponendo i segni della prossima fine del mondo e le
relative profezie, difendendosi dalle accuse, mostrò la necessità di
esser tradotto a Roma, citò i casi analoghi ne' quali si era fatto
lo stesso, si dolse di non vedere esaltata la giustizia. Lo Scioppio
avrebbe dovuto presentare questa lettera, ma da' documenti che finora
possediamo emerge essersi rifiutato a presentarla, consigliando che
non si parlasse di miracoli e si facessero semplici supplicazioni,
al quale consiglio il Campanella non si piegò; e forse apparve per
questo uno stravagante, come del resto apparve anche a parecchi in
sèguito, mentre i tanti garbugli prodotti in sua difesa, le scene non
brevi di simulazione di pazzia, gli sforzi continui per farsi credere
ispirato, e le vicende tutte di una così lunga prigionia doverono
fargli acquistare un portamento tale da rendere plausibile un giudizio
di quella fatta. Ma si converrà che specialmente presso Paolo V, il
quale negli ultimi tempi del suo Cardinalato avea tenuto il suggello
dell'Inquisizione, e presso il Card.^l S. Giorgio, il quale avea
tenuto il suggello dello Stato, e però buoni conoscitori entrambi
degli avvenimenti di Calabria e relativi processi, il Campanella nel
1606 non avrebbe potuto sperar nulla senza prendere un atteggiamento
straordinario; e naturalmente presolo una volta, egli non si poteva
più smentire senza suo danno, e doveva ad ogni costo mantenersi nella
condizione d'ispirato. Lo Scioppio non poteva capacitarsene, perchè
in realtà non conosceva ancora, o meglio conosceva solamente in
parte lo stato vero delle cose del Campanella: per altro continuò a
mostrargli stima grandissima, si attendeva di poter apprendere molto
da lui in poco tempo, oltrechè di ottenere la spiegazione delle cose
più recondite intorno all'Anticristo, nè cessò mai di dirigergli di
tratto in tratto quesiti, perfino dopo che avvenne qualche cosa per la
quale lo vedremo essersi ritenuto offeso: e il Campanella prometteva
che gli avrebbe insegnate tutte le scienze durante un solo anno, si
offriva a fargli la natività, ne secondava ed ampliava i disegni di
voler convertire i Protestanti e i Gentili, dava sollecite risposte
a' quesiti di lui non appena gli pervenivano, affaticandosi anche a
menare a termine l'_Ateismo_ e que' _Profetali_ che erano sommamente
desiderati da lui. L'Epistolario napoletano ci mostra tutte queste
cose, e ci mostra pure che lo Scioppio inviava al Campanella qualche
sussidio, o del suo o del danaro de' Fuggers, per gli alimenti e per la
trascrizione delle opere, la quale, come abbiamo dimostrato con l'esame
delle copie pervenute fino a noi, venne fatta da un amanuense non
napoletano.
Secondo una notizia tratta dall'Epistolario romano, il Fabre avrebbe
accompagnato lo Scioppio o meglio sarebbe venuto poco dopo lo Scioppio
in Napoli, e, nientemeno, avrebbe ottenuta l'uscita del Campanella
dalla fossa di S. Elmo! Egli lo fece sapere a Marco Velsero, e costui,
in data del 9 maggio 1607 gli scriveva, «grand'obbligo debbe tener il
Campanella a V. S. di essere stato trasferito et accomodato come lei
dice». Siamo tentati di credere che per lo meno debba esservi qui un
errore di data, parendoci molto strano che il Fabre abbia potuto far
credere una cosa simile, mentre non solo sappiamo che il Campanella
il 26 giugno e l'8 luglio 1607 (nella sua lettera sulla peste di
Colonia e nell'altra a Mons.^r Querengo) disse trovarsi ancora nella
fossa in ceppi, ma sappiamo pure dal medesimo Epistolario romano che
vi fu bisogno di far scrivere al Vicerè dall'Arciduca Ferdinando, nel
gennaio 1608, che volesse far trasferire il Campanella «dalla fossa di
S. Elmo, dove giaceva, nel Castel Nuovo» (così si esprime il Berti).
Vi fu poi un'altra venuta del Fabre abbastanza più tardi, dopo che
avea pubblicata la disputa «De Nardo et Epithimo» e coll'occasione di
dover raccogliere piante per l'Orto Vaticano: queste due circostanze
si trovano ricordate da Giulio Cesare Capaccio che vide il Fabre in
Napoli[471], e ci fanno comprendere lo scopo della venuta ed anche la
data di essa; poichè basta guardare la disputa anzidetta, per vedere
che questa fu diretta allo Scioppio in data del 1^o febbraio, ma fu
dedicata all'Archiatro Pontificio Vittorio Merolli in data del 1^o
agosto 1607. Vedremo che la venuta di cui parliamo si deve riportare
propriamente all'anno 1608. Notiamo pertanto non essere dimostrato
davvero che il Fabre e lo stesso Scioppio, venendo a Napoli, si siano
adoperati in favore del Campanella nel senso di avere direttamente
procurato dal Vicerè mitigazione di custodia, miglioramento di vitto,
e tanto meno avviamento alla libertà: in obbedienza alle premure di
Giorgio Fugger essi doverono recar sussidii e procurare facilitazioni
per questa via; ma finoggi possiamo affermare che realmente il solo
fra Serafino, il meno nominato, si presentò una volta al Vicerè per
parlargli del Campanella.
Assai più del Fabre, per quanto sappiamo, lo Scioppio diresse quesiti
al Campanella. Ve ne furono _Sul modo di evitare il freddo_, come pure
_Sulla sordità e l'ernia_, a' quali il Campanella rispose prima che
agli altri, secondochè rilevasi dal _Syntagma_ e in parte anche da
qualcuna delle risposte a' quesiti successivi; ma le risposte a' detti
quesiti non sono pervenute fino a noi. Ve ne fu un altro _Sul modo di
far cessare la peste in Colonia_, trasmesso mediante fra Serafino, e il
Campanella vi rispose il 24 giugno 1607: un esemplare della risposta
si trova anche nella Magliabechiana, ma scorrettissimo e senza data;
quello che fu da noi pubblicato è sodisfacente, e dobbiamo notarvi la
premura del Campanella anche presso i Coloniesi per essere chiamato
colà a curarvi la peste, offrendosi perfino ad essere lapidato nel
caso d'insuccesso! Ancora ve ne fu un altro _Sul modo di evitare il
calore estivo_, e la risposta, da noi pubblicata, fu fatta l'8 luglio
1607: in essa si notano anche varie precauzioni da doversi adottare
durante il viaggio, accennandosi abbastanza al viaggio che lo Scioppio
dovea intraprendere, ed oltracciò si parla di lettere commendatizie
avute e di altre aspettate, a cura dello Scioppio; ci riserbiamo di
dirne i particolari più sotto, limitandoci qui a stabilirne la data.
Altri quesiti, come quello _Sul Peripateticismo_ che il Campanella
condannava, l'altro _Sul tempo successivo alla morte dell'Anticristo_,
che si riteneva dover essere di soli 45 giorni, così pure un altro _Sul
Pieno e sul Vacuo_ nell'interesse del Fabre, parrebbe che veramente
fossero stati diretti al Campanella nell'anno 1608: noi abbiamo
pubblicate le risposte, che recano la data del 13 giugno e del 7
novembre senza indicazione di anno, e vediamo ora tra i nuovi documenti
del Berti una lettera dello Scioppio, senza indicazione nè di luogo
nè di tempo, che rappresenta indubitatamente la proposta de' quesiti
suddetti; ma alludendosi in essa ad una lettera che il Campanella
avrebbe dovuto scrivere particolarmente all'Arciduca Ferdinando,
bisogna riferirla al 1608 e con ogni probabilità alla fine di maggio di
tale anno.--Dobbiamo intanto dire, che terminata oramai la trascrizione
delle opere, potè farsene l'invio allo Scioppio con quella lettera
notevolissima anche pel ricordo delle persecuzioni sofferte, posta
qual Proemio all'_Ateismo_ e pubblicata dallo Struvio con la data
del 1^o giugno; se non che trovandosi nella lettera citate come già
mandate le risposte circa il freddo, il calore e la peste di Colonia,
è evidente che la data di essa, quale fu letta dallo Struvio, riesce
errata, e invece del 1^o giugno si dovrebbe forse leggere p. es. 10
luglio 1607[472]. Ecco l'elenco delle opere trasmesse allo Scioppio in
tale data, essendogli stata la _Consultazione per aumentare i tribuni_
consegnata separatamente: la _Monarchia di Spagna_, i _Discorsi a'
Principi d'Italia_, il _Dialogo contro i Luterani_, l'opera _Del Senso
delle cose_, l'_Epilogo magno di Fisiologia_ seguito dagli _Aforismi
politici_ e dalla _Città del Sole_, la _Monarchia del Messia_ col
discorso _De' dritti del Re di Spagna_ etc., il libro _De Regimine
Ecclesiae_, gli _Antiveneti_, e la _Recognitio verae Religionis_ detta
poi _Atheismus triumphatus_: possiamo aggiungere ancora che talune
copie furono dal Campanella corrette ed altre no, come si rileva
da quelle pervenuteci, l'una degli _Aforismi politici_ fornita di
correzioni autografe, l'altra della _Città del Sole_ rimasta senza
correzioni. All'_Ateismo_ il Campanella diede la massima importanza,
evidentemente per le sue condizioni infelicissime: lo dichiarò «suo
monumento», lo dedicò allo Scioppio, mostrò desiderio che egli lo
traducesse in tedesco insieme col _Dialogo contro i Luterani_. Si
dolse pure di non poter mandare la _Metafisica_, perchè «un certo
Marchese discepolo ingrato la riteneva ad istigazione di Satana»,
alludendo senza dubbio a Francesco del Tufo successo al padre Gio.
Geronimo, che le scritture dell'Archivio di Stato, da noi ricercate
appositamente, ci mostrano defunto il 17 luglio 1606. E dobbiamo dire
che a torto egli credè effetto d'ingratitudine il non aver avuta la
Metafisica, poichè essa, morto il Marchese Gio. Geronimo, era stata
rubata da un domestico cognominato Gallo e venduta a Gio. Battista
Eredio Pisano di Puglia, come il Campanella medesimo dovè sapere
più tardi onde se ne trova il ricordo nel _Syntagma_; dobbiamo dire
inoltre che verosimilmente reclamò l'opera sua quando seppe l'accaduto,
alcuni anni dopo, e così essa potè capitare nelle mani del Reggente
della Vicaria e del Vicerè, secondochè risulta da un documento che
abbiamo rinvenuto del pari nell'Archivio di Stato[473]. Ma non mandò
gli _Articoli Profetali_ e disse che li avrebbe mandati in sèguito:
forse non aveva potuto compierli, o invece volle tenerli in serbo (e
difatti non li mandò neanche quando poi disse di averli già pronti),
acciò lo Scioppio, rimanendo nell'aspettativa, non cessasse dal
favorirlo. Egli se ne attendeva l'adempimento delle promesse, cioè
«essere suo liberatore presso i Principi del Cristianesimo, e dargli
modo di essere suo commilitone contro le eresie de' figli di Abaddon».
Questo gli ricordò nella sua lettera, e fatta la rassegna delle opere
che gl'inviava soggiunse: «vedi, ho consegnato tutto nelle tue mani;
poichè mi prevenisti co' tuoi beneficii, non volli apparire ingrato».
Ma inoltre lo avvertì che molti, ricevute le opere, trascrivevano da
esse le proprie, e gli raccomandò di badare a non cadere con gli altri,
«poichè questo furto è peggiore di quello della fortuna e dell'onore
e di ogni altro delitto, venendo sottratti i figli non del corpo ma
dell'anima, e figli perenni....», ed allora potrebbe «volerlo estinto,
e il diavolo subito gli direbbe nel cuore bastare quanto avea fatto
intorno a ciò che avea promesso con giuramento, bastare averlo tentato,
essendo impossibile procurare la salvezza del Campanella... di cui ogni
male gli parrebbe provenire dalla giustizia di Dio». E finiva dicendo:
«Tibique commendo libros, sicut me Deus tibi, si forte non simulas, ut
coeteri»! Pare impossibile che un uomo come lo Scioppio non sia rimasto
offeso da simili parole; ma sappiamo con certezza che se ne mostrò
irritato in sèguito allorchè il Campanella, non vedendo pubblicare le
sue opere, gli fece intendere di nuovo la sua preoccupazione che egli
volesse servirsene, e non gli mandò i Profetali che egli desiderava
sempre più. Per altro c'è motivo di ritenere che lo Scioppio siasi
mostrato tollerante verso il Campanella molto al di là del solito suo,
per deferenza a' potenti Fuggers, che non cessavano di proteggerlo
accanitamente.
Abbiamo visto che il Campanella, nell'inviare le opere, diceva di farlo
per non sembrare ingrato. Egli ritenevasi obbligato allo Scioppio,
perchè era condisceso a favorirlo e si era impegnato a patrocinare la
sua causa: d'altronde sappiamo avergli lo Scioppio procurato alcune
lettere commendatizie dirette al figlio del Vicerè, altre averne
sollecitate mediante Mons.^r Querengo dal Card.^l Borghese dirette
egualmente al figlio del Vicerè, che le cronache ci dicono essersi
recato a Roma insieme coll'altro suo fratello non appena eletto Paolo
V, e però doveva essere stato conosciuto da molti della Curia; forse
lo Scioppio medesimo sollecitò le lettere dell'Ambasciatore Cattolico
e dell'Ambasciatore Cesareo, che il Campanella nella lettera dell'8
luglio 1607 diceva di attendere. Ma nessuna sollecitudine egli mostrò
presso il Papa; e non deve nemmeno sfuggire che egualmente Mons.^r
Querengo non si adoperò presso il Papa, mentre non solo era suo Prelato
domestico assai ben veduto, ma anche, secondo l'Eritreo, precettore
ed aio del nipote di lui Gio. Battista Vittorio. Sicuramente al Papa
non dovea piacere di udire a parlare del Campanella, e niuno osò
affrontarne il disgusto; ma è chiaro che vennero grandemente ridotte
le promesse di aiuto fatte dallo Scioppio, per le quali il Campanella
era condisceso a dargli nelle mani tutte le opere sue. Poniamo qui
che ad occasione delle commendatizie promesse dal Querengo dietro le
istanze dello Scioppio, il Campanella scrisse al Querengo una lettera
di ringraziamento notevolissima, con molti cenni della sua vita
passata, de' suoi studii e del suo modo di filosofare: verso il tempo
medesimo scrisse una lettera non meno notevole a Cristoforo Pflugh, per
rimoverlo da una tresca lasciva alla quale si era abbandonato in Siena,
ed eccitarlo ad andarsene con lo Scioppio che preparavasi a partire
per la Germania[474].--Ma importantissime riescono per la nostra
narrazione le lettere che in questo periodo il Campanella scrisse al Re
di Spagna, all'Imperatore, agli Arciduchi d'Austria, e che lo Scioppio
dovea far ricapitare o presentare personalmente. Esse vennero scritte
senza dubbio nel 1607, come risulta dal vedere che il Campanella vi
si dichiara sempre carcerato «da 8 anni»; e può dirsi anche essere
state scritte tra il giugno e il luglio, poichè quella diretta al Re,
scritta prima delle altre, reca nell'elenco delle opere «La esamina
di tutte le sètte» etc. ossia l'_Ateismo debellato_ allora appunto
condotto a termine. La lettera al Re fu scritta prima, giacchè trovasi
menzionata nelle altre. Prendendo sempre le mosse da' futuri eventi,
lusingando con la Monarchia universale che dovea verificarsi, rifacendo
come altre volte la storia delle cose di Calabria, non negando ed anzi
giustificando la simulazione della pazzia, dichiarando di trovarsi
aggravato dai vassalli di S. M.^{tà} che non volevano nè udirlo nè
consegnarlo al Papa, perchè «temevano che lo liberasse subito», si
appellava a S. M.^{tà}, e per la solenne occasione della nascita del
felicissimo Principe (_intend._ della futura nascita del Principe che
accadde in ottobre, venendo alla luce l'Infante Ferdinando che fu poi
il Card.^{le} Infante) chiedeva la grazia di essere ascoltato secondo
la legge. Ricordava di avere scritto la _Monarchia di Spagna_, i
_Discorsi ai Principi d'Italia_, la _Tragedia della Regina di Scozia_,
annunziava di avere autorità come S. Giovanni e miracoli più grandi
di quelli di Mosè; pregava quindi che lo facesse venire innanzi a
lui e al suo Consiglio, terminando con l'elenco delle promesse anche
accresciute, come pure con l'elenco delle opere che avea composte, ed
aggiungendo che lo lasciasse dar prove celesti degli avvisi celesti
almeno in Roma[475]. Poi dovè scrivere ancora le due lettere latine
all'Imperatore e agli Arciduchi di Austria, che lo Scioppio avrebbe
presentate mostrando in pari tempo le opere da lui avute, non che le
copie della lettera scritta al Re e di quella scritta al Papa e a
tutti i Cardinali, «da doversi consegnare, se il timore non trattenga
pure l'Angelo suo» (non aveva mai cessato di sperare che lo Scioppio
l'avrebbe consegnata, smettendo il «timore» che lo tratteneva). In
entrambe queste lettere egli press'a poco ripeteva le cose stesse
tante volte dette, i segni da lui studiati, le opere composte per tale
circostanza, le imputazioni avute di «volere usurpare il Regno» e di
essere eretico, l'aver trovato salvezza con la pazzia, l'essere stato
posto in una fossa, l'avere scritto cose mirabili e il doverne dire
a voce molte di più. In ultima analisi poi, all'Imperatore chiedeva
che lo facesse venire in ceppi innanzi a lui, dannandosi al fuoco se
si fosse trovato mendace, ovvero procurasse di farlo andare presso
il Papa o almeno presso il Re Cattolico; agli Arciduchi chiedeva di
adoperarsi presso il Re, perchè volesse udirlo o farlo udire dal Papa o
dall'Imperatore, sempre dannandosi al fuoco se fosse trovato mendace,
ed additando lo Scioppio che avrebbe mostrato le opere e le lettere da
lui scritte, e molte altre cose avrebbe esposte a voce. Ognuno avrà
notato, che dalla prima all'ultima sua mossa la dimanda continua del
Campanella fu sempre quella di essere ascoltato: anche dopo di avere
scritto tante opere che potevano farlo ben conoscere nel senso in cui
voleva essere conosciuto, egli non rifinì dal voler essere ascoltato;
e perfino in una delle sue lettere allo Scioppio[476], dopo di avergli
detto che i proprii libri di Metafisica gli sarebbero parsi scritti da
un Angelo e non da un uomo, essendo superiori a tutti gli altri «che
aveva già ricevuti», soggiungeva, «ma quando mi udrai faccia a faccia,
terrai a vile anche gli stessi miei libri di Metafisica» (ciò che prova
pure non aver mai avuto lo Scioppio tale occasione). Per intenderlo,
bisogna ricordarsi della prepotente efficacia del suo discorso,
attestata in ogni tempo e dalle persone più diverse, a cominciare dal
povero Maurizio, che lo provò in Calabria e disse, «quando parla,
ritira ognuno dove vuole», a finire a Vincenzo Baronio, che lo conobbe
negli ultimi anni in Parigi e scrisse, «maior fuit impetu ingenii,
quod in conversationibus eminebat, et in libris obscurum est et pene
extinctum»[477].
Nell'agosto o forse nel settembre 1607 lo Scioppio partiva per la
Germania fermandosi un poco in Venezia: l'Epistolario romano ha una
sua lettera da Venezia in data del 22 settembre d.^{to} anno, e poi
ne ha anche un'altra posteriore da Ratisbona, in cui egli dice aver
portato dall'Italia una malattia dell'intestino retto cagionatagli
dall'aver mangiato troppo melloni ed altre frutta in Roma; da ciò si
desume chiaramente che partì da Roma al cadere dell'està. In Venezia
egli affermò aver patito fastidii dal Magistrato de' Dieci avendo
portato nella sua valigia le opere del Campanella, e più volte poi
ripetè di averle _tutte_ date al libraio Gio. Battista Ciotti per
farle stampare, senza che costui avesse voluto più nè stamparle nè
restituirle, sicchè dovè poi reclamarle per mezzo dell'Ambasciatore
Cesareo, nè potè ricuperarle che dopo molto tempo[478]; ed inutilmente
anche reclamò gli _Antiveneti_, e dovè esserne inviata da Napoli
un'altra copia, e il Governo Veneto fece proposte volendo acquistar
l'opera acciò non si stampasse. Ma su questi fatti, asserti dallo
Scioppio e rilevati dal Berti ne' documenti dell'Epistolario romano,
accade di dover fare qualche osservazione. È notissimo che in Venezia
lo Scioppio fu imprigionato per due giorni ed obbligato a sfrattare,
sia perchè tentò di sedurre o spaventare fra Paolo Sarpi, sia perchè
venne accusato di essere l'autore di un libello a favore del Papa
contro Venezia intitolato «Nicodemi Macri Romani cum Nicolao Crasso
Veneto disputatio», siccome leggesi in una Vita di lui pubblicata da
lui medesimo col nome di Oporino Grabinio[479]: ponendo in rapporto
tale avvenimento co' fastidii avuti per le opere del Campanella, c'è
da sostenere che lo Scioppio abbia compromesse queste opere, assai più
che queste opere abbiano compromesso lui. Nè riesce facile intendere
il suo desiderio di dare alle stampe le opere del Campanella appunto
in Venezia e la sua determinazione di lasciarle lì, mentre si era
impegnato di mostrarle all'Imperatore e agli Arciduchi, e il Campanella
ne avea fatta menzione nelle sue lettere a questi personaggi. Finchè
altri documenti non chiariranno tutte queste cose, avremo sempre il
dritto di dire che il Campanella aveva ben capito lo Scioppio, e
non a torto si doleva di lui, avendolo in sospetto circa le opere
consegnategli.--Intanto nell'ottobre il Fugger avea mandato in Italia
Daniele Stefano di Augusta, perchè cercasse di far liberare o far
evadere da S. Elmo il Campanella a qualunque spesa. Il Fugger dovea
professare l'opinione dell'onnipotenza del danaro, e in ciò questa
volta s'ingannava. Lo Scioppio, meglio avveduto, stimava che siffatti
tentativi avrebbero potuto nuocere, e in realtà il Governo Vicereale
non era composto di dormienti; esso aveva le sue informazioni a
tempo e luogo, nè sarebbe arrischiato lo spiegare il tanto protratto
rigore di custodia del Campanella per qualche sentore di maneggi di
altrettali Papalini accaniti. Ma giova conoscere ciò che lo Scioppio
avrebbe preferito: come ci narra il Berti, egli «proponeva che
venissero espugnati i segretari col denaro, facendo forza sul loro
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