Fra Tommaso Campanella, Vol. 2 - 04

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poi di là, sopra un carro, certamente perchè inabilitato a muoversi
dietro le torture sofferte, facendo il lungo giro sopraindicato fu
tradotto «a vista del Castel novo»; ma giunto sotto la forca egli
dichiarò di voler rivelare ogni cosa, ed allora l'esecuzione fu
sospesa. Ecco come il fatto trovasi esposto nel Registro de' Bianchi
di giustizia: «et à di xx di xbre se andò in Vicaria con tutta la
compagnia, et uscì la giustitia sopra un carro, et essendo già sotto
la forca se risolse detto Mauritio confessare et rivelare li complici
della ribellione, et così non si eseguì la giustitia et ritornò in
Vicaria con essersi trattenuta la compagnia un pezzo dentro la chiesa
di Monserrato»[39]. Come mai Maurizio fece questa risoluzione? Egli
stesso nelle sue ultime rivelazioni a' Delegati del S.^{to} Officio,
sul punto di essere definitivamente condotto alla forca, lo spiegò
in questi termini: «Io sapendo che frà Thomaso si era esaminato
contra di me, havendo io avuto più volte la corda, non hò voluto
mai dire cosa alcuna contra di essi frati, è si bene poi hò ditto
la verità, è stato perche sono stato consigliato che era obligato a
dirlo per scarico dela mia conscientia, si come me hà ditto lo mio
confessore dela Compagnia di quelli che confortano quelli che si vanno
à giustitiare»[40]. Non altrimenti ne scrisse pure a Roma il Nunzio
medesimo quando era già cominciata la causa degli ecclesiastici, ed
egli, come Giudice di quella causa, poteva e doveva saperlo: «condotto
alle forche si risolvette à dire spontaneamente, et per scarico di
conscienza, tutto quello che sempre haveva negato nei tormenti»[41].
Inoltre, poco dopo l'accaduto, come vedremo più sotto, il Residente
Veneto ne fece relazione al suo Governo negli stessi sensi, aggiungendo
qualche altra circostanza degna di nota. Ma il Campanella, dapprima
nella sua Difesa che noi pubblichiamo, poi nelle Lettere del 1606-07
pubblicate dal Centofanti, da ultimo nella sua Narrazione pubblicate
dal Capialbi, riferì le cose assai diversamente, con circostanze che
meritano di essere ben chiarite, poichè ognuno comprende l'estrema
importanza del fatto, da cui, secondo la diversa interpetrazione,
riesce suggellata o invece scossa profondamente l'esistenza della
congiura o almeno la parte presavi dal Campanella. Dapprima dunque
nella Difesa asserì che Maurizio «volle vendicarsi di quanto fra
Tommaso scrisse in Castelvetere contro di lui», e che «ebbe speranza di
redimersi all' ultimo momento col far dichiarazioni contro fra Tommaso,
poichè così lo persuase _un certo fiscale_ in abito di confrate
promettendogli la vita sotto parola del Re come poi fra Tommaso udì
dalla bocca di lui» (queste ultime proposizioni furono aggiunte per
uso de' Giudici propriamente dell'eresia). Nelle Lettere al Papa, al
Card.^l Farnese, al Card.^l S. Giorgio, al Re di Spagna, rinforzò le
assertive anteriori scrivendo, che «sotto verbo Regio fecero confessar
a Mauritio mille bugie», che Maurizio «_per altra causa morendo sulle
forche_ persuaso dal falso fiscale e confessore tornò in prigione e
disse mirabilia et non subsistentia», che gli «fu promessa la vita
sub verbo regio che dicesse su la forca quel ch'in mille tormenti
negato havea», che «fu ingannato sotto parola della vita dopo molti
tormenti quando andava a morire e disse mille bugie»[42]. Infine
nella Narrazione, scritta tanto più tardi, espose i fatti con tanto
maggiore disinvoltura in questi termini. «Però vedendo esso Sances,
che non si potea verificare la ribellione, perchè Mauritio con torture
terribilissime in Calabria non havea confessato con tutto che Xarava lo
torturò un'altra volta dopo condannato e confessato, dicendoli ch'il
confessore era un secolare vestito di monaco per spiarlo: nè pur in
Napoli poi confessò tormentato di novo: si vestir di confrati bianchi
certi Consiglieri, _fingendo che volean farlo morire_: et esso Sances
con un Gesuino confessor del Vicerè, li promisero la vita in verbo
regio, se confessava la ribellione sopra la forca, perchè havesse color
di verità. E Mauritio _temendo morir de mandato regio perchè havea
ucciso un suo cugino et una femina, et andato sopra le galere turche_
per scampar la vita confessò sopra la forca quando andò _fintamente_
ad appiccarsi». Pur troppo questo garbuglio del Campanella è de' più
dolorosi, e si può intendere ma non si può assolvere che egli abbia
dovuto infamare Maurizio in tal modo. La condanna di Maurizio alla
morte, come convinto di ribellione, era stata pronunziata già una
volta in Calabria, e principalmente per colpa del Campanella medesimo;
nè bisognava affaticarsi perchè la ribellione acquistasse «color
di verità», quando il Campanella l'aveva così bene affermata nella
sua Dichiarazione dando anche la spiegazione precisa dell'andata di
Maurizio sulle galere turche, e già ad otto persone era stato inflitto
l'estremo supplizio per essa. Il confondere gli omicidii anteriori di
Maurizio col suo caso ultimo, il voler far credere che avrebbe potuto
scampar la vita confessando quella ribellione per la quale era condotto
alla forca, l'asserire che «andò fintamente ad appiccarsi» quasi che
non vi fosse stata una precedente condanna in tal senso, tutto ciò
è ben poco serio; ed egualmente è ben poco serio, o meglio iniquo,
il voler mostrare Maurizio divenuto vigliacco a un tratto, dopo le
splendide prove di fermezza da lui date, dopo gli splendidi attestati
del Campanella medesimo espressi già nella Dichiarazione e in sèguito
nelle Poesie. Può bene ammettersi nel Sances e nel Gesuita confessore
del Vicerè (P.^e Ferrante de Mendozza) ogni specie di tentativo per
indurre Maurizio a confessare la ribellione, ma non in Maurizio tanta
dose d'ingenuità da cedere segnatamente a quella specie di promessa
che il Campanella si fece a narrare. Quanto poi all'esservi stati
Consiglieri vestiti da confrati bianchi, i quali esercitarono la loro
influenza su Maurizio per farlo confessare, la cosa potrebbe ritenersi
nel senso, che qualche confrate addetto a confortare Maurizio allorchè
andava a giustiziarsi, per eccesso di zelo, abbia avuto premura di
suscitarne gli scrupoli e mostrargli la necessità di confessare per
salvarsi l' anima. Si potrebbe ritenerlo in astratto, poichè, come
ricordano i nostri Storici ed attestano varii documenti, non una volta
a quella benemerita Compagnia de' Bianchi furono mosse accuse di
questo genere ed anche di genere opposto, da' particolari ovvero dal
Governo, essendovi stato motivo di ritenere che i confrati avessero
spinto qualche condannato alle confessioni ovvero alle discolpe; ma
dobbiamo pure soggiungere che nel caso concreto Maurizio medesimo
ebbe più tardi a dichiararlo a' Delegati del S.^{to} Officio; se non
che sarebbe difficile sostenere essere stato spinto alla confessione
dolosamente e dietro manovre del Sances e del Governo. Per disgrazia
questa volta non abbiamo nemmeno i nomi de' confrati intervenuti, che
i Registri della Compagnia dànno sempre, specificando anche coloro i
quali hanno assistito il condannato all'ufficio, per la strada, alla
porta, alla scala o al talamo secondo le specie del supplizio: essendo
mancata l'esecuzione, non vi fu un annotamento apposito, ma vi fu la
seconda volta, quando l'esecuzione si compì, e non sarebbe troppo
arrischiato l'ammettere che pure la prima volta fossero intervenuti i
confrati medesimi. Laddove questa ipotesi dovesse ammettersi, potremmo
dire certamente non essere intervenuti Consiglieri nè Fiscali, essere
stati i due principali confortatori, che maggiormente avrebbero
avuto ad influire, il P.^e Palescandolo governatore della Compagnia
il quale avrebbe assistito Maurizio lungo la strada, e D. Scipione
Stinca egualmente sacerdote oltrechè dottore (ed avremo a vederlo più
tardi difensore officioso della maggior parte de' frati nella causa
dell'eresia), il quale avrebbe assistito Maurizio alla scala, dove
appunto egli dichiarò voler fare le sue rivelazioni: vi fossero poi
stati anche Consiglieri e Fiscali, si sa che la Compagnia ne annoverava
molti, insieme co' più distinti personaggi del paese[43]. Ad ogni modo
può dirsi certo che Maurizio non fu indotto a confessare da alcuna
ragione vituperosa, bensì da una ragione che può non essere stimata
giusta, ma non può non essere rispettata, tanto più che trovasi in
tutto conforme a' precedenti di lui. Da niuno fu detto mai, in quel
tempo, che avesse confessato per vigliaccheria o per capitolazione,
e fortunatamente abbiamo la relazione del Residente Veneto, la quale
ci fa conoscere assai bene i desiderii e le condizioni che Maurizio
espresse dopo la condanna e al momento dell'esecuzione; è superfluo
dire che vi si può credere senza riserve, non trattandosi di fatti
avvenuti fuori Napoli ovvero in segreto, pe' quali soltanto riesce
difficile aspettarsi l'esattezza dal Residente, come s'incontra in
realtà anche questa volta per talune circostanze che leggonsi in fine
del suo dispaccio. Eccolo questo dispaccio, che porta la data del 28
dicembre, e che, unito alle affermazioni del Nunzio sopra citate, ci
pare che venga a togliere ogni dubbio sul fatto in quistione. «Quel
Mauritio Rinaldi famoso per essere stato capo della congiura et non
meno perchè ogniuno sapeva, che dal signor Carlo Spinelli era stato
condannato di esser segato vivo tra due tavole, condotto di ordine
del Vicerè a' 23 del presente a vista del Castelnovo per dover essere
impiccato, et poi squartato, non havendogli giovato di offerire sei
mille ducati più di alcuni suoi beni liberi confiscati, per ottenere
che per non derogar al suo nascimento di nobiltà gli fosse solamente
tagliata la testa, giunto al luogo del supplicio, tutto converso a
Dio, disse, che havendo in questa sua prigiona sofferto in tre mesi
quaranta hore di corda, et altri tormenti per i quali si trovava tutto
attratto et quasi morto senza haver mai confessato alcuna cosa, haveva
à bastanza comprobato che egli per viltà non consentiva di mancar di
fede a' suoi collegati, ma che allhora, essendo all'ultimo cimento
dell'anima, per non seppelirla nell'Inferno voleva scoprir tutte le
cose trattate senza niuna conditione di salvarsi la vita. Fu però per
ordine di Sua Eccellenza trapposto più tempo alla sua morte, et hà egli
manifestate cose maggiori che non si sapevano, et nominato persone
di qualità per infette della heresia et della rebellione, onde, non
ostante gli ordini di Spagna che furono che si procurasse di poner in
silentio quanto prima questa materia, incominciano pur hora i processi
et le retentioni»[44].
Ripigliamo il racconto particolareggiato di quanto accadde, dopochè
Maurizio manifestò la risoluzione di voler confessare ogni cosa.
L'esecuzione fu sospesa ed egli venne ricondotto nelle carceri della
Vicaria, come ci fa conoscere il documento esistente nell'Archivio de'
Bianchi. Nè confessò sotto la forca, come risulterebbe dalla dicitura
poco precisa della Narrazione del Campanella ed anche di qualcuno de'
documenti per gli ecclesiastici conservati in Firenze, ma confessò
per lo meno il giorno dopo nel tribunale. Questo si argomenta da una
lettera del Vicerè, il quale trasmise subito a Madrid, il giorno
21, la risoluzione presa da Maurizio, ma solamente più tardi potè
annunziare che avea confessato «e molto bene», senza per altro dire i
particolari della confessione[45]. Si argomenta inoltre dall'ampiezza
della confessione medesima, la quale, scritta, occupò per lo meno 32
fogli, come si rileva da' numeri notati pei brani di essa inserti ne'
suddetti documenti conservati in Firenze. Aggiungiamo che da questi
documenti si rileva pure essere stato tale atto tenuto sciolto, ma al
sèguito del 3.^o volume del processo; la qual cosa si spiega benissimo,
considerando che erano stati già compìti tutti gli atti relativi a
Maurizio ed anche quelli relativi al Pisano, allorchè si ebbe la lunga
confessione del tutto inaspettata.
Ecco ora quanto sappiamo delle cose confessate da Maurizio, poichè
ne sappiamo appena quella parte che si trova inserta a brani ne'
documenti per gli ecclesiastici sopra citati, e quindi siamo ben
lontani dal possedere tutta intera la confessione[46]. Maurizio andò
una notte al monastero di S.^{ta} Maria di Gesù a Stilo, dove trovò
fra Tommaso ed altri; fra Tommaso parlò in lode delle armi e della
campagna. E mentre così parlava nella sua camera, fra Pietro di Stilo
entrava ed usciva. Di poi, egualmente a Stilo, in casa di D. Gio.
Jacovo Sabinis, vennero a trovarlo fra Tommaso, fra Dionisio e Gio.
Gregorio Prestinace, ma c'era gente e si parlò d'altro. Nella notte
seguente o in quella dell'indomani tornarono (Maurizio non ricordava se
ci fosse stato anche il Prestinace), e fra Tommaso cominciò a citare
esempî di uomini che dal niente erano diventati grandi, allegando
il Macchiavelli ed altri autori; animandolo alle armi disse che vi
sarebbero mutazioni, che egli voleva fare repubblica, che bisognava
trovare amici a questo effetto, e parlando contro la nuova numerazione
disse che le anime di Dio erano contate come animali bruti, che si
offendeva Dio, che quando David volle numerare il suo Regno, Dio non
gastigò David ma i popoli che si erano lasciati numerare. Maurizio
allora si offrì. C'era anche Giulio Contestabile, il quale stava
sempre insieme con fra Tommaso e non si scovriva perchè inimico a
Maurizio: ma durante la carcerazione nel Castello fra Tommaso avea
detto a Maurizio che Giulio con tutta la casa sua era consapevole. E
una volta, stando del pari in casa Sabinis, essendosi visti certi legni
in mare, fra Tommaso e fra Dionisio (Maurizio non ricordava se ci fosse
stato anche il Petrolo), dissero di volere scendere per trattare co'
turchi di questo negozio, e fra Dionisio si avviò con scusa di voler
andare a riscattare un suo fratello. Fra Tommaso intanto gli diceva
di stare in ordine e trovar compagni, non dovendosi perder tempo,
di avere già molti con lui, averne parlato a persone principali e
tra gli altri a D. Lelio Orsini; Maurizio disse non voler cominciare
nè portar gente, se prima non vedesse cominciata la guerra, e fra
Tommaso gli dimandò se quando si cominciasse a ribellare Catanzaro
non avrebbe accudito, ed allora egli acconsentì. Inoltre Maurizio gli
obiettò che non si potevano mettere ad un'impresa così grande senza
danari, e fra Tommaso gli disse che avea persone le quali li avrebbero
dati e specialmente sarebbero venuti dal Castello di Arena, di dove
Marcantonio Contestabile confidava poterli pigliare, la qual cosa fra
Tommaso gli confermò anche dopo la carcerazione. Si concluse di mandare
fra Dionisio là presente a Catanzaro, per cercare ed indurre gente a
far parte dell'impresa; e fra Dionisio vi andò, e al ritorno disse a
Maurizio in Davoli che avea trattato con alcuni gentiluomini, e gli
nominò Fabio di Lauro, Gio. Battista Biblia e il Barone di Cropani.
Risolverono poi di chiamare Gio. Paolo di Cordova e Gio. Tommaso di
Franza che Maurizio preferiva come uomini di valore, e Maurizio, a
consiglio di fra Tommaso, scrisse loro sotto colore di trattare della
loro natività: questi vennero con Orazio Rania a Davoli, ove Maurizio
si trovava in casa di D. Marco Antonio Pittella, e fra Tommaso vi
era venuto la notte precedente col Petrolo e Fabrizio Campanella;
l'indomani parlarono in S.^{ta} Maria del Trono, nel castagneto, e fra
Tommaso discorse delle prossime guerre e dell'utilità del trovarsi
pronti in armi, e trattenutisi più di due ore con fra Tommaso, dissero
di poi che fra Tommaso era un grande uomo ed avea parlato della loro
natività. Ancora fra Tommaso disse a Maurizio che v'intervenivano
Claudio Crispo e Gio. Francesco d'Alessandria, fra Gio. Battista
Pizzoni, e forse anche Giulio Soldaniero, ma Maurizio non si ricordava
bene se glie lo avesse detto prima o dopo la carcerazione; e voleva
che Maurizio fosse andato a Pizzoni, ma Maurizio non volle andarvi
ed andò invece il Petrolo. Fin da che si trattò del negozio con fra
Tommaso, fra Dionisio, Gio. Gregorio Prestinace e Gio. Jacovo Sabinis,
si stabilì che quando apparissero galere turche, o fra Tommaso, o
fra Dionisio, o il Petrolo, andrebbero a trattare co' turchi perchè
volessero dare aiuto e favore. E poi vi andò spontaneamente egli
stesso, Maurizio, senza alcuna missione del Campanella, o trattò con
Morat Rais detta ribellione, e al ritorno mostrò il salvacondotto a
Gio. Gregorio Prestinace, fra Tommaso Campanella, D. Marco Antonio
Pittella ed altri, a' quali disse ciò che avea trattato e conchiuso
con Morat Rais, o ne giubilarono lodandolo e dicendogli che avea fatto
assai di quello che desideravano; ben vero il Pittella non mostrò
contento come gli altri, poichè non era così addentro al negozio
come gli altri. E in somma conclusero tutt'insieme, Maurizio, fra
Tommaso e fra Dionisio, che quando costui avesse finito di trattare
ed avuto il consenso di quelli di Catanzaro, avviserebbe, e si
sarebbe pigliato espediente di effettuare la ribellione ed entrare in
Catanzaro, e fra Tommaso diceva doversi gridare libertà, scassinare
le carceri e ammazzare gli ufficiali.--Fu questa la confessione di
Maurizio, che abbiamo cercato di riordinare diligentemente secondo i
numeri de' folii notati per ciascun brano di essa, e l'analogia delle
circostanze espresse in ciascun brano. Facciamo subito avvertire, che
se la confessione apparisce addirittura acre verso il Campanella, fra
Dionisio, il Petrolo ecc., ciò avviene perchè i brani di essa a noi
pervenuti son quelli soli che il Mastrodatti sceglieva pe' riassunti
degl'indizii contro costoro: ma è facile comprendere che tutta intera
avrebbe un altro aspetto, senza per altro rimanerne alterati i fatti
sopra riferiti, mentre poi anche in questa parte a noi nota si vede
che Maurizio non risparmia punto sè stesso. Nè i fatti vi riescono
essenzialmente diversi da quelli esposti dal Campanella nella sua
Dichiarazione, essendovi solo la differenza che nella confessione di
Maurizio fra Tommaso risulta il motore fondamentale di ogni menomo
passo. Ora intorno a ciò basta considerare che non si sarebbe proceduto
nell'impresa, senza quelle tali profezie e previsioni di avvenimenti,
dapprima più lontani, poi divenuti imminenti, siccome il Campanella li
concepiva, e d'altronde si sconoscerebbe del tutto e il carattere, e la
posizione, e il credito del Campanella, quando si volesse pensare che
egli si fosse lasciato condurre invece di condurre; anche il contegno
suo nel carcere ci apparisce nè più nè meno che quello di un capo, sia
quando prosegue a discorrere di queste cose con Maurizio, sia quando
lo giudica, lo esalta o lo vitupera, come fa del resto con tutti gli
altri. Qualche lieve inesattezza nella successione de' fatti esposti
da Maurizio, qualche vacillamento di memoria, si spiega agevolmente
con lo stato della sua persona affranta e stritolata dalle torture.
Ma non v'è luogo ad ammettere che il Fiscale abbia profittato di una
simile condizione per fargli dire ciò che gli premeva che dicesse.
Vedremo l'altra confessione di Maurizio innanzi a' Delegati del
S.^{to} Officio, fatta oltre un mese più tardi, in un momento supremo
e lungi dall'influenza di Giudici d'ogni sorta, nella quale, benchè si
espongano cose di altro genere, non si nota la menoma dissonanza ed
invece si ha una sufficiente corrispondenza con le cose esposte nella
presente confessione; e questo ci pare un argomento fortissimo per
ritenerla del tutto vera.
La confessione di Maurizio, perchè acquistasse forza contro i
complici, come allora si costumava, venne ratificata con una nuova
tortura. Questa, secondo i procedimenti in vigore, dovè applicarsi non
più tardi del giorno consecutivo, leggendo _de verbo ad verbum_ tutte
le cose deposte, e facendo dichiarare al paziente sospeso alla corda
che egli le confermava _in omnibus et de omnibus_. Quindi, come fu poi
scritto a Madrid, parve bene al Vicerè, «avendone tenuto consulta col
Collaterale, di trattenere l'esecuzione di Maurizio sino a confrontarlo
con fra Tommaso Campanella»[47]. Credevasi allora che non dovesse
tardare di molto l'arrivo del Breve Papale, con cui veniva ad essere
costituito il tribunale della congiura per gli ecclesiastici; ma invece
esso tardò ancora, e frattanto il tribunale pei laici continuò nel
còmpito suo.
Le notizie ulteriori intorno all'opera di questo tribunale pei
laici sono tanto deficienti, che in verità non abbiamo troppe cose
a dire. Possiamo affermare con sicurezza che furono esaminati tutti
gl'inquisiti già carcerati, amministrando o ripetendo torture
più o meno crudeli a parecchi fra loro; oltracciò furono presi i
provvedimenti più gravi contro i contumaci, e il tribunale restò
aperto per varii anni. Il Campanella, mettendo insieme gl'inquisiti
ecclesiastici e i laici, nelle sue lettere del 1606-07, una volta
scrisse che vi erano stati 80 tormentati _ad pompam_, un'altra volta
scrisse che i tormentati erano stati quasi 100, ed aggiunse che
niuno avea confessato[48]; nella Narrazione poi ridusse di molto
queste cifre, e scrisse che «furo tormentati... da cinquanta e nullo
confessò cosa alcuna», nominando de' laici appena un Geronimo Politi
procuratore di fra Dionisio (nome nuovo) e taluni fra' rivelanti
tardivi di Catanzaro, Gio. Tommaso di Franza, Mario Flaccavento,
Tommaso Striveri. Or sapendo che furono tormentati non più di sei o
sette ecclesiastici, è facile vedere il numero de' laici tormentati,
per quanto le cifre suddette lo consentono; e ben s'intende che nessuno
di costoro confessò cosa alcuna relativamente a sè stesso, non già
relativamente al Campanella e a fra Dionisio. Massime que' tre di
Catanzaro sopranominati non poterono certamente contraddire le prime
loro deposizioni; e difatti anche nel processo di eresia ebbe a vedersi
più tardi Mario Flaccavento, insieme con Felice Gagliardo e con Camillo
Adimari, sollecitare Giuseppe Grillo perchè deponesse contro fra
Dionisio[49]. Il Campanella scrisse pure che lo Xarava diede a due de'
sopra nominati le cartelle «di quello haveano a dire»: evidentemente
le cartelle, se ve ne furono, doverono contenere il ricordo di ciò che
essi avevano deposto in Calabria. Da parte nostra possiamo aggiungere
soltanto il nome di qualche altro de' laici, che figurò pure nel
processo di eresia ed ebbe ivi occasione di far motto del tormento
sofferto: tale fu Felice Gagliardo, che disse avere avuto «a morire»
nella «seconda corda» che gli diedero in Napoli; ma ciò avveniva
abbastanza più tardi, nientemeno che verso il marzo 1602, onde rimane
dimostrato che tutto questo lavoro durò molto a lungo.
Circa i contumaci poi, dietro documenti da noi trovati nel Grande
Archivio, possiamo dire che non si mancò di venire alla «forgiudica»
per parecchi di loro, e non sempre in sèguito di indizii gravissimi.
Come abbiamo accennato altrove, con questa parola «forgiudica», parola
non giuridica ma di uso comune nel Regno, s'intendeva di costituire
gl'inquisiti fuori ogni adito al giudizio, ovvero di giudicarli fuori
giudizio, se a questo non si presentassero fra un certo termine; il
quale termine le Costituzioni del Regno prescrivevano dover essere
un anno, ma la licenza del Principe potea ridurre a pochi giorni e
perfino ad ore! Si pubblicavano i bandi per citare gl'inquisiti a
comparire personalmente «ad informare ed a' capitoli», e i bandi,
intrinsecamente mortali, erano connessi all'annotazione de' beni: fatta
poi e letta la sentenza, i rei si avevano per confessi, non potevano
appellarsi nè supplicare, nè erano ascoltati nella causa principale;
si ritenevano morti e i loro beni venivano confiscati, ognuno poteva
ucciderli impunemente e i loro cadaveri non potevano esser seppeliti,
potevano bensì, con certe regole, essere rilasciati per l'anatomia.
Del resto, tanto prima che dopo la sentenza, si potevano opporre non
poche eccezioni e capitoli, sia dagl'inquisiti medesimi, sia da' loro
consanguinei. Una prima lettera Vicereale concesse a Marc'Antonio
d'Aponte facoltà di dichiarare forgiudicati, con termine abbreviato,
parecchi che a relazione di lui e di D. Giovanni Sances erano stati
dichiarati contumaci _ad informandum et ad capitula_ nella causa della
«sedutione de congiura»: la lettera reca la data del 31 dicembre
1599. I contumaci erano: «Alexandro tranfo di tropea, Gio. francesco
d'alexandria di Monte lione, Marco ant.^o Contestabile di stilo,
Matteo famareda di Catanzaro, Geronimo baldaya di Squillace, pietro
paulo santa guida, Antonio verlino di S.^{ta} Caterina, francesco
antonio de lo Joyo di girifalco et Tolivio de lo doce de satriano»: il
Vicerè accordava «di possere abreviare il termine dela forgiudicatione
alli sopradetti contumaci, prefigendoli termine di giorni venti à
comparere... non obstante la constitution del Regno, che vole il
circolo dell'anno per possere declarare forgiudicati»[50]. Riesce
certamente notevole il non vedere compreso in questo elenco l'amico
intimo del Campanella e compare di Maurizio, Gio. Gregorio Prestinace:
ma venne più tardi anche la volta sua; abbiamo difatti rinvenuta
un'altra lettera nel senso medesimo, esclusivamente per lui, ma scritta
circa dieci mesi dopo la sopradetta, nell'ottobre 1600, e ciò conferma
che pure da questo lato il lavoro fu lungo[51]. Con ogni probabilità
non mancarono altre deliberazioni contro altri contumaci di Calabria:
le evidenti e sconfortanti lacune, che presentano le scritture
rimasteci nel Grande Archivio, ci autorizzano a ritenerlo. D'altronde
l'elenco soprariferito ci presenta non solo nomi d'individui de' quali
abbiamo avuto notizie più o meno ampie dagli Atti processuali che ci
sono rimasti, ma anche qualche nome d'individuo che ci riesce del tutto
nuovo. Non parliamo di Marcantonio Contestabile e di Gio. Francesco
d'Alessandria, citati ampiamente da moltissimi testimoni: ricordiamo
soltanto che il Famareda fu citato da Fabio di Lauro come particolare
amico ed ospite di Maurizio de Rinaldis, il Baldaia fu perquisito e
trovato possessore di una lettera di Maurizio a Gio. Francesco Ferraima
e di poi citato dal Vitale qual complice in colloquio con Maurizio e
raccoglitore di fuorusciti per conto di lui, il Dell'Joy fu citato dal
Biblia e poi dal Mileri come complice in colloquio col Campanella e fra
Dionisio, il Dolce fu citato dal Pistacchio come compagno di Maurizio
nell'andata a Davoli, il Santaguida fu citato da più testimoni come
uno degl'individui di S.^{ta} Caterina i quali salirono sulle galere
turche e vi rimasero più di un'ora, ciò che verosimilmente fece del
pari il Verlino (_leg._ Merlino) anch' egli di S.^{ta} Caterina. Ma
quell'Alessandro Tranfo non si rinviene citato da alcuno negli Atti
processuali in nostro potere finoggi, e ciò mostra che non conosciamo
davvero quanto si fece pe' laici, e che ve ne furono altri, forse
in numero ragguardevole, tuttora rimasti ignoti. Notiamo qui che
documenti da noi trovati ci mostrano questo Alessandro Tranfo, figlio
di Jacovo Giovanni Barone di Precacore (o Crepacore) e di S. Agata,
qualificato Barone egli medesimo poco dopo il periodo di tempo di
cui trattiamo, con ogni probabilità per «refutazione» fattagli dal
padre, il quale morì più tardi, nel 1611[52]. A tempo della congiura
avrebbe avuto appena 19 anni, e dovè essere di quelli ricercati da
Maurizio dopo il convegno di Davoli, allorchè Maurizio andò in giro
per parlare a Gio. Battista Soldano (egualmente di Tropea) e ad
altri. Insieme col Barone di Cropani, egli va compreso nel gruppo
dei «Baroni Provinciali», che secondo il Giannone parteciparono alla
congiura del Campanella «in numero ben grande», e non furono da lui
nominati nella sua Istoria civile per rispetto alle loro famiglie: noi
pertanto conosciamo solamente i due anzidetti, e dobbiamo dire che
ve ne furono senza dubbio parecchi altri. Dietro laboriose ricerche
siamo veramente pervenuti a sapere che varie famiglie dei carcerati
di Calabria possedevano feudi rustici, e basterà citare i feudi di
Guarna e Palermiti per gli Striveri, Pantano Pratovecchio e Tornafranza
pe' Susanna, Caiazza pe' Salerno, Montalto pe' Dolce, S. Andrea
con Turchisi e Caria pe' Vella imparentati mercè matrimonio a Gio.
Gregorio Prestinace; ma non ci consta che a que' tempi i possessori
di feudi rustici si fregiassero del titolo di Baroni, e ci sembra
chiaro doversi dire che più individui siano rimasti ignoti, avendo la
congiura, o almeno la repressione della congiura, avuto proporzioni
assai più larghe di quelle che siamo in grado di ammettere finoggi,
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