Fra Tommaso Campanella, Vol. 2 - 10

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offre anche una discolpa, oltre la maledizione nella quale son compresi
tutti i persecutori di alto grado
«Ruffi, Garraffi, Morani, e Spinelli».
Il secondo, che ci sembra abbastanza bello, e che comincia co' versi
«Mentre l'albergo mio non vede esangue
e gli spirti poggiar tremanti al cielo»,
offre una maledizione ed anche una preghiera, la quale mostra che
l'autore riteneva del tutto imminente la chiamata agli esami,
«Deh Sig.^r forte, in me volgi tua faccia,
dà authorità più espressa al mio sermone
ond'i ministri di Sathan disfaccia».
Il terzo, che porta veramente il titolo «in lode di spagnuoli», offre
una insinuazione contro lo Sciarava e una protesta di devozione
a Spagna, la quale certamente nessuno vorrà prendere sul serio:
bisognava pure che il poeta si preparasse qualche argomento in suo
favore pel caso di una scoperta delle poesie, massime quando avea
mostrato tanto poco rispetto verso un funzionario importante del
Governo spagnuolo e tuttora deputato ad assistere il Sances durante
il processo. Poniamo inoltre qui il «Sonetto di rinfacciamento a
Musuraca», senza dubbio mal situato tra le poesie del 2^o gruppo, e
sempre capace di eccitare gli amici a rimaner tali anche «a tempo
d'infelice stato»[118]. Con tanto maggior ragione poniamo qui anche il
«Sonetto fatto a tutti carcerati», che del rimanente potrebbe esser
posto anche tra le poche poesie del tempo del processo de' laici[119]:
in esso si dice che era negata, oltre la favella e il commercio,
benanco la difesa, ciò che si spiega col fatto dell'amministrazione
delle torture decretata durante il processo informativo, senza dare
anticipatamente la copia degli atti; e tra' varii istrumenti di
morte è citata pure la sega, ciò che aggiunge qualche cosa anche
alla credibilità dello strano supplizio già destinato a Maurizio in
Calabria. Vi brillano poi i concetti elevati e i consigli virili al
maggior segno; vi si canta
«.... sol la virtù de' vostri petti
l'orgoglio del tyranno affrena e lega»;
vi si esalta il glorioso e bel morire per la libertà, e vi si dice
«Qui dolce libertà l'alma gentile
ritrova, e prova il ver, che senza lei
sarebbe anchor il paradiso vile».
Ma oltre gli eccitamenti in generale, diretti a' frati rimastigli
fedeli, il Campanella diresse anche qualche eccitamento in particolare,
p. es. al Petrolo, che sperava poter ricondurre a fedeltà; così dettò
quel Sonetto che fra Pietro intitolò «in lode di fra Domenico Petrolo»,
e che veramente si deve dire di sollecitazione a ritrattarsi:
«Venuto è 'l tempo homai che si discuopra,
Petrolo mio, l'industriosa fede
che serbasti all'amico, e già si vede
ch'à tutte l'altre questa tua và sopra.
Mortifera, infedel, empia, ingrata opra
far simolasti, ch'a lui vita diede» etc.[120].
Non si sarebbe potuto adoperare modi più insinuanti, facendo ottimo
viso a pessimo gioco; s'intende quindi che il Petrolo ne sia rimasto
convertito, come mostrò con la sua deposizione del 29 gennaio, ma pur
troppo per brevissimo tempo.
Cominciata in sèguito la causa, sostenuto l'esame ed essendo in corso
le confronte, precisamente al cadere del gennaio 1600, il Campanella
rincorato dovè scrivere quel magnifico Sonetto «a sè stesso», che fu
poi pubblicato dall'Adami e che comincia coi noti versi:
«Legato e sciolto, accompagnato e solo
chieto, gridando, il fiero stuol confondo,
folle all'occhio mortal del basso mondo» etc.[121];
le quali ultime parole dinoterebbero il valore dato da' Giudici alle
profezie e presagi, che egli dichiarò averlo guidato a ritenere
imminenti grandi mutazioni. Di poi sofferta la dimora nella fossa del
miglio e quindi la tortura, fatta in questa la sua confessione, non
dovè mantenersi in tanta fiducia, e lo mostrerebbe il Sonetto «alla
Beata Ursula napolitana a cui si raccomanda», inserto nella raccolta
dopo il precedente[122]: tutto il Sonetto esala lo sconforto del
Campanella, che in quel momento sperava soltanto in una protezione
superiore;
«Pregoti per l'honor del sacro manto
di cui spogliato incorsi in gran ruina,
. . . . . . . . . . . . . .
E canterò tornando al mio bel nido
il fin de' miei travagli» etc.
inutili speranze, desolanti ricordi. Ma non dovè tardare a sentire
tanto maggiormente il bisogno di ravvivare la fede ed anche l'affetto
de' suoi compagni, e crederemmo che dapprima gli abbia data una
buona occasione la fermezza di fra Pietro di Stilo nel respingere
le esortazioni di Maurizio a seguire l'esempio suo e a confessare:
così alla 2^a metà di febbraio e 1^a di marzo ci parrebbe potersi
assegnare i due Sonetti «in lode di fra Pietro di Stilo» seguìti da'
tre «in lode del Rev.^{do} P.^e fra Dionisio Pontio»[123]; l'essere
stati posti nella Raccolta in ordine inverso ben può spiegarsi con la
classificazione della relativa importanza data da fra Pietro Ponzio a'
frati compagni del Campanella. Fra Pietro di Stilo, che aveva tanto
poco partecipato alle speranze ed a' maneggi della congiura, soffriva
tanti disagi e maltrattamenti per l'affetto al Campanella, su cui
vegliava assiduamente e senza ritrarsi per qualsivoglia motivo; così
ben si spiega tutto il contesto de' due Sonetti, ne' quali si vede pure
il Campanella tuttora sconfortato:
«Sino all'inferno un cavalier seguìo
l'avventurato amico à grande impresa.
. . . . . . . . . . . . . . .
Frati, amici, parenti, chi mi nega,
chi più ingrato mi trade, e mi maligna (_int. il Pizzoni_)
chi non volendo nel mio mal si piega (_int. il Lauriana_).
Solo il travaglio e la rabbia maligna
titulo in fronte del tuo honor dispiega
Rè della fede chi mai non traligna.
. . . . . . . . . . . . . .
Fedel combattitor, mai non s'estingue
più il nome tuo, poiche serbasti solo
virtù, religion, patria, et amici».
In tal guisa il Campanella, pieno di gratitudine, onorava fra Pietro
Presterà, «Pietro suo», come poi lo disse nell'opera ricomposta Del
Senso delle cose: ma per fra Dionisio il caso era abbastanza diverso.
«Senza dubbio fra Dionisio avea motivo di dolersi del Campanella, che
già prima nella Dichiarazione, ma poi anche peggio nella confessione in
tortura, avea rivelato l'esistenza di un concerto per fare la Calabria
repubblica compromettendo lui; ed avendo sostenuto il polledro con
tanta fermezza, verosimilmente la sua vanità lo conduceva tanto più a
sparlare del Campanella, il quale, fin dal 1^o Sonetto, «senza voce,
afflitto e lento» ne carezza al maggior segno la vanità:
«Cantai l'altrui virtuti, (_int. di Maurizio_), hor me ne pento
Dionigi mio, non havean senno vero» etc.
Umiliato per non essere riuscito, all'opposto di lui, nella prova del
polledro, il Campanella spiega la cosa con una finzione poetica, ma
anche più curialesca, e infine si rivela disposto a soggiacere a tutto:
«In me tanto martìre io non soffersi
ch'in te stava il valor, el senno mio,
e solo al viver tuo fur ben conversi.
S'a te par, io men vado, o frate, a Dio
nè chieggio marmi, nè prose, nè versi,
ma tu vivendo sol viverò anch'io».
Il 2^o Sonetto, che risente troppo del gusto triviale del tempo, torna
sull'argomento e glorifica fra Dionisio perfino con la testimonianza
degli spiriti di Averno; ma vi si fanno notare i seguenti versi,
«Sfogaro mille Spagne e mille Rome,
al tuo martir unite, l'odio interno».
Il 3^o Sonetto loda fra Dionisio per l'altro atto suo, per le
confronte, le quali davvero non si scorge da qual lato potrebbero dirsi
gloriose; e l'innesto, che vi si trova, dell'arme de' Ponzii, del
giuoco degli scacchi e cose simili, apparisce una concessione al gusto
non solo de' tempi ma anche de' Ponzii: nè bastarono i tre Sonetti, e
più tardi ce ne volle ancora un quarto. Ma bisogna per ora aggiungere
che oltre a questi sinora detti vi fu anche il Sonetto «al sig.^r Gio.
Leonardi Avvocato de' poveri», Sonetto tirato addirittura co' denti,
manifestamente obliato tra le poesie del 1^o gruppo e posto di ripiego
tra quelle del 2^o: esso deve riportarsi per lo meno alla fine del
febbraio, poichè allude alle difese che il De Leonardis già scriveva,
ed agli argomenti che preparava quale Avvocato comune a tutti i frati
«Contra l'ombra di morte accesa lampa»[124].
Sicuramente poi nel marzo e prima metà di aprile la mente del
Campanella fu tutta rivolta alla prosa e non alla poesia: basta
ricordarsi de' due colloquii notturni passati tra lui e fra Pietro
Ponzio, il 10 e il 14 aprile. Ma a quest'ultima data appunto fra
Pietro gli annunziava di avere «sparso per tutta Napoli» i Sonetti, il
Campanella annunziava di volerne comporre uno pel Nunzio, fra Pietro
gli chiedeva in grazia di voler comporre prima quelli per lui e per
suo fratello. Attenendoci più che è possibile all'ordine serbato
nella raccolta di fra Pietro, dobbiamo dire che il Campanella siasi
adattato a compiacere il suo amico, ma componendo un solo Sonetto,
in cui abbracciò insieme fra Pietro, il fratello Ferrante, ed anche
l'altro fratello fra Dionisio; di poi compose quello pel Nunzio, o
meglio, come abbiamo già detto altrove, quello pel Papa da doversi
far capitare nelle mani del Nunzio[125]. Il Sonetto «in lode de'
tre fratelli di Pontio» concede loro per attributi nientemeno che
i tre principii metafisici, e li mostra un riflesso della Trinità:
Ferrante rappresenterebbe la potenza, fra Dionisio la sapienza, fra
Pietro l'amore; e ci basti sapere che fra Pietro abbia rappresentato
pel Campanella l'amore o «il buon zelo». Quanto al Sonetto «al
Papa», l'ultimo del gruppo che abbiamo fin qui esaminato, esso può
considerarsi come l'embrione di quelle «appellationi segrete» che il
Campanella intese poi di avere inviate al Papa massimamente con le sue
lettere del 1606-1607: egli si raccomanda come meglio può, e riescono
notevoli sopratutto i seguenti versi:
«Non vedi congiurati a farli guerra
i nemici alla patria Italia bella,
ch'egli al valor anticho rinovella,
dove il zelante suo parlar s'afferra».
Ignoriamo se il Sonetto sia stato trasmesso al Papa: nel Carteggio del
Nunzio non ne troviamo il menomo indizio, e del rimanente, laddove
fosse stato trasmesso, niuno potrebbe meravigliarsi che il ricordo
della patria Italia bella, e del valore antico da rinnovellarvisi,
avesse trovato il cuore SS.^{mo} indifferente o peggio; basta che esso
sia giunto a noi, per farci sempre meglio conoscere ed apprezzare
gl'intendimenti del Campanella.
Passiamo ora a vedere le prose, delle quali il Campanella si occupò
nel tempo suddetto. Ve ne sarebbero a considerare innanzi tutto tre,
la _1^a Delineatio defensionum_, la _2^a Delineatio... Articuli
prophetales_, l'_Appendix ad amicum pro Apologia_: le due prime, che
rappresentano le Difese presso i Giudici, comparvero più tardi, il
3 giugno 1601, durante il processo di eresia per mano di fra Pietro
di Stilo[126]; l'ultima, che rappresenta una difesa presso un amico,
comparve varii anni dopo, con ogni probabilità nel 1607, in coda
agli Articoli profetali ricomposti allora in una forma più larga,
verosimilmente essa pure ricomposta in una forma più larga di quella
della composizione primitiva[127]. Si può affermare con certezza, e ne
vedremo tra poco le ragioni, che appunto in quest'ordine di successione
le dette tre scritture siano state composte, essendone cominciata la
composizione un po' prima della 2^a metà di febbraio. Si ricordi che
agli 11 febbraio era stato già accordato al Campanella «il termine e
la commodità» alle difese, e che allora il Sances volle da lui una
esposizione delle profezie sulle quali fondava le sue credenze di
vicine mutazioni, onde egli dettò al Barrese notaro della causa molti
Articoli profetali (ved. pag. 72 e 73). È naturale ammettere che il
Campanella abbia posto subito mano a scrivere le sue Difese, stimando
indispensabile aggiungervi anche gli Articoli profetali, mentre al
Sances era parso conveniente acquistarne una nozione meno vaga mediante
uno scritto. Ma tutto questo lavoro non potè esser pronto che pel 10
aprile, e il Campanella, giudicando che la causa sarebbe presto finita
male e che bisognava pure aprirsi una via di uscita dall'imminente
processo di eresia, avea dovuto manifestarsi pazzo fin dal 2 aprile:
così le Difese scritte non poterono venir presentate in tempo, ma
il Campanella continuò a lavorarvi di nascosto, senza dubbio nella
speranza fallace che qualora non fosse stata giuridicamente convalidata
la pazzia, esse avrebbero ancora potuto servire. Che il lavoro sia
stato compiuto il 10 aprile, si desume dal colloquio notturno tenuto
a quella data con fra Pietro Ponzio, il quale, avendo domandato al
Campanella se avesse scritto abbastanza in quel giorno, ne ebbe per
risposta «assaissimo, tutto»; l'aver poi il Campanella soggiunto che
avea bisogno di dare l'indomani una pagina scritta a fra Pietro di
Stilo, farebbe credere che in quel giorno medesimo egli avesse composta
pure l'Appendice in forma di lettera, rappresentata da quella pagina
scritta; sicchè la data di essa sarebbe il 10 aprile, ma resti ben
fermato non potersi sostenere che essa sia stata allora scritta ne'
termini precisi ne' quali è pervenuta a noi. Dopo le dette scritture
abbiamo fondata ragione di ammettere che il Campanella si sia occupato
di ricomporre l'opera già composta in Calabria «Della Monarchia di
Spagna», volendosi servire anche di essa per sua difesa, quando si
fosso ripigliata la spedizione della causa rimasta sospesa in que'
giorni; e nella ricomposizione di detta opera ebbe ad impiegare il
tempo immediatamente consecutivo, dal maggio 1600 ad una parte del
1601, mentre era in pieno svolgimento il processo di eresia.
Prima di esporre i particolari della Difesa, vogliamo notare alcune
interessanti singolarità, che colpiscono vedendo in qual modo le Difese
si trovano scritte: ne risulterà provato l'ordine di successione con
cui vennero composte tutte le scritture sopra menzionate, ed anche
chiarita la quistione de' libri, che il Campanella in sèguito affermò
aver voluto presentare in sua discolpa, e in parte aver fatto subito
venire dalla sua patria, ma che il Sances non volle si presentassero
nè si sapessero (ved. pag. 84). Le Difese con gli Articoli, così come
furono trasmesse più tardi a' Giudici dell'eresia, non appariscono
scritte di mano del Campanella, bensì trascritte da due copisti, de'
quali il primo che trascrisse la «1^a Delineatio» è rimasto ignoto, ma
vedremo a suo tempo essere stato procurato da un Vincenzo Ubaldini di
Stilo, l'altro che trascrisse gli Articoli fu certamente fra Pietro
Ponzio, come apparisce dal carattere e come fu chiarito anche presso il
tribunale per l'eresia: costoro ebbero a porre in ordine il contenuto
di tante carte e cartoline staccate avute dal Campanella, il quale
poi lo rivide, lo corresse, vi appose qualche postilla e qualche
aggiunta di mano sua, ciò che merita la nostra attenzione[128]. Fin
dalla prima pagina colpisce il vedere enumerati quali libri suoi,
atti a mostrare la sua affezione al Re e alla Spagna, i Discorsi a'
Principi d'Italia che avea mandati all'Imperatore, il Dialogo contro
i Luterani mandato a Massimiliano ed esistente anche presso Mario
del Tufo, la Tragedia della Regina di Scozia conosciuta in Stilo e
dal Principe della Roccella, e poi anche la Monarchia di Spagna, ma
questa con un'aggiunta posteriore autografa, e con le circostanze
dell'essere stata scritta «ad instantiam praetoris» e del trovarsi
«in suis sarcinulis», naturalmente in Stilo; la cosa medesima si veda
nell'ultima pagina degli Articoli profetali, dove sono enumerati i
libri suoi atti a chiarire le cose enunciate negli Articoli, cioè la
Monarchia de' Cristiani esistente presso il Card.^l S. Giorgio, e il
libro Del Regime della Chiesa esistente in Stilo «in suis sarcinulis»
e poi anche, e sempre con un'aggiunta autografa, la Monarchia di
Spagna, con la circostanza del trovarsi parimente in Stilo. Adunque il
libro della Monarchia di Spagna dovè essere scritto dopo le Difese,
probabilmente in rifazione di un esemplare perduto in Stilo durante
le sue peripezie, ma non potè essere presentato perchè il Campanella
mantenevasi tuttora pazzo, onde v'è ragione di credere che invece
di farlo venire subito da Stilo, lo abbia mandato a Stilo per farlo
trovare in quel posto e giustificare in tutto e per tutto la sua
asserzione; questo per un altro verso si dovrebbe dire egualmente del
libro del Regime della Chiesa, perchè sappiamo che era stato scritto
fin dal tempo della dimora in Padova ed era stato mandato a Mario del
Tufo, e con ogni probabilità, mentre premeva che fosse venuto nelle
mani de' Giudici, non si volle compromettere ulteriormente l'amico e
protettore che ne possedeva un esemplare; deve d'altronde ritenersi
molto naturale che in Calabria la prima composizione della Monarchia
di Spagna si fosse perduta durante le peripezie del Campanella, mentre
sappiamo con certezza che pure l'originale del Regime della Chiesa fu
ivi «rubato da infedeli amici» come si legge nel _Syntagma_. Un'altra
importante aggiunta autografa nella «1^a Delineatio» si legge poco dopo
quella finora esposta e commentata: avendo affermato che dalle profezie
si rileverebbe non aver finto «ad malum tegendum», di seconda mano
aggiunse che ciò si rileverebbe «et ex articulis prophetalibus ab eo
additis» etc.; deve dunque dirsi che gli Articoli siano stati veramente
scritti dopo la «1^a Delineatio», che ad essi quindi si riferiva la
dimanda fatta nel colloquio notturno da fra Pietro Ponzio il quale era
impegnato a ricopiarli, e la data del 10 aprile sarebbe senz'altro la
data in cui il Campanella dovè finirne la composizione. Mettiamo poi
in un fascio tutte le altre aggiunte sparse nella «1^a Delineatio», le
quali recano essere stati i testimoni uniformi nelle profezie e varii
nel rimanente, essere stato Maurizio persuaso a rivelare da un Fiscale
in abito di confrate, essersi ritrattati il Caccia e il Vitale, essersi
una volta ritrattato anche il Pizzoni; tutto ciò mostrerebbe che la
composizione della «1^a Delineatio» dovè cominciare anche prima che
fosse stata consegnata la copia degli Atti processuali, rappresentando
le dette aggiunte, quasi tutte, notizie raccolte dagli Atti; nè osta
che in una si legga «detur copia processus et demonstrabitur», poichè
ve ne sono altre che dicono «ut patet ex processu» e il Campanella
avrebbe voluto non solo gli Atti concernenti la persona sua ma anche
quelli concernenti i suoi compagni, che del resto dovè avere almeno
in frammenti di soppiatto. Può dunque dirsi che egli abbia cominciato
a scrivere questa «1^a Delineatio» non appena sofferto il polledro e
fatta la confessione, quando n'ebbe immediatamente «la comodità», ma
deve anche dirsi che l'abbia compiuta dopo di avere avuto conoscenza
della Difesa scritta dal De Leonardis e della replica del Sances,
poichè vedremo or ora, nell'ultima parte di essa, non solo discusse
con calore le identiche quistioni di dritto, ma anche respinte le
cose che il Sances avea notate su' costumi, sulle passate imputazioni
di eresia, sull'aver dato motivo di far morire molte persone: e gli
Articoli profetali, da non doversi confondere con gli Articoli analoghi
dettati al Barrese dietro richiesta del Sances, e rimasti senza dubbio
nelle mani del Sances, naturalmente doverono essere scritti, nella loro
ultima parte, tra le angustie della dimostrazione di pazzia e tra'
pericoli della rigorosa sorveglianza.
Veniamo a' particolari delle Difese, che ci sembra conveniente esporre
con larghezza e poi commentare un poco, sebbene venute tanto più tardi
in luce, non presentate al tribunale competente e rimaste affatto
perdute pel Campanella. Teniamo per fermo che i lettori vorranno
conoscerle nella loro integrità testuale, ma ciò non ci dispensa
dall'obbligo di farne una minuta esposizione: deve anzi dirsi una
fortuna poter udire subito dopo lo svolgimento del processo la voce
dell'imputato, e poterne trarre una conclusione meno fallace intorno
alla sua colpabilità ottenebrata da tanti interessi diversi.
Nella «1^a Delineatio», appellandosi a' Libri sacri come fonte di
ogni legge, il Campanella comincia dal notare che in essi son detti
colpevoli di lesa Maestà solamente quelli che prendono le armi contro
il Re giusto o per malevolenza o per ambizione, non quelli che perfino
consumarono la ribellione guidati dalla profezia e comunque fossero
cattivi soggetti, adducendo gli esempi di Siba e di Chore da una
parte, e di Jeroboam, di Jehu e di Joiada dall'altra. E soggiunge:
«ma fra Tommaso Campanella, insieme con quelli i quali aderirono a
lui con retta intenzione, non fu mosso a cospirare nè dall'ambizione
nè dalla malevolenza, se pure cospirò, bensì guidato dalla profezia
umana e divina; nè la sua fu una cospirazione contro il Re, ma una
certa cautela contro le incursioni de' barbari e un'ammonizione a'
conterranei perchè si mantenessero incolumi ne' monti, se per fatalità
avvenisse quanto si prediceva, laonde egli non è ribelle nè degno di
morte». Passa quindi a dimostrare che non lo fece per ambizione di
Regno, perchè era impossibile a lui poveretto distrarre il Regno o la
provincia dal dominio di un Re tanto forte, e bisognava esser matto per
ingannarsi fino a questo punto; e dice che per natura e per fortuna
egli era impotente a tali desiderii, e rassegna i suoi precedenti, e
nota le sue carcerazioni e malattie anteriori, il ritorno in patria
per salute a consiglio de' medici Tancredi, Politi e Carnevale, i suoi
studii alieni dalle armi, le sue predicazioni per indurre il popolo
a fabbricare una Chiesa di cui il convento difettava ed egli scavò
i fondamenti; e nota il libro _Sulla predestinazione_ che scriveva
contro Molina per S. Tommaso, e la _Tragedia della Regina di Scozia_
contro gli Anglicani in favore del Re, la sua vita di studioso e
religioso, la sua opera di pacificatore, e perfino la sua timidità
provata nel tormento, citando come testimoni fra Pietro di Stilo, il
Petrolo, tutti i suoi compagni di dimora, e conchiudendo che «dissero
cosa mostruosa coloro i quali gli attribuirono la cupidigia di
Monarchia». Dimostra poi che non cospirò per malevolenza verso il Re
e il suo dominio, perchè aveva sempre ottenuto favore dagli spagnuoli
ed austriaci, come dal Reggente Marthos (Reggente di Cancelleria in
Napoli) e dall'Ambasciatore di Roma (il Duca di Sessa), e parimente
dall'Arciduca Massimiliano e dall'Imperatore, i quali scrissero a
Roma in favore di lui e di Gio. Battista Clario carcerati; onde per
gratitudine egli compose il _Trattato_ in cui sosteneva che l'Italia
per suo bene dovea desiderare il dominio del Re di Spagna, Trattato
che mandò all'Imperatore mediante Gio. Battista Clario, ed egualmente
il _Dialogo_ contro gli Stati del settentrione calvinisti e luterani,
che mandò a Massimiliano e che trovavasi in copia presso D. Mario del
Tufo, come pure l'anzidetta Tragedia, nota a Stilo ed al Principe della
Roccella, ed il libro della Monarchia di Spagna, scritto ad istanza
del pretore (Governatore de Roxas?) e colmo di lodi per gli spagnuoli,
che trovavasi nelle sue poche masserizie. Nota infine la sua amicizia
col pretore spagnuolo e co' Presidi della Provincia (gli Auditori?),
l'essere stato sempre invitato dal governatore a predicare, e l'aver
detto nelle sue prediche tante cose in favore del Re: che Dio avea
dato la Monarchia agli spagnuoli perchè aveano combattuto 700 anni
contro i mori nemici della fede, mentre gli altri Principi cristiani
si combattevano tra loro; che il Re avrebbe distrutto i turchi quando
costoro si sarebbero divisi giusta la predizione di Arquato astrologo;
che se nel Regno esisteva qualche durezza, essa dovevasi ai difetti del
popolo e de' ministri, non già del Re; che nella prossima mutazione del
mondo il Re Filippo avrebbe rappresentata la parte di Ciro, secondo
i detti di Esdra e di Isaia, poichè dovea liberare la Chiesa dalla
Babilonia de' turchi e degli eretici, edificare Gerusalemme, cioè
Roma, e stabilire il vero sacrificio dovunque nel mondo, girando il
suo imperio col sole, ogni ora facendo giorno in qualche parte del
Regno suo e celebrandosi continuamente la Messa in siffatto giro, la
quale sentenza era invalsa tanto, che Fulvio Vua sindaco di Stilo
l'avea riprodotta nel recitare il prologo di una rappresentazione
della Passione di Cristo, citando il Campanella fra' battimani
generali. Così egli era stato sempre pel Re ed avea procurato che gli
altri lo fossero, ne conservava l'immagine ed amava coloro che le
facevano onore, come erano in grado di attestare fra Pietro di Stilo,
il Petrolo, fra Scipione Politi, tutti gli Stilesi; nè poteva dirsi
che egli si fosse infinto, mentre avrebbe agito contro sè medesimo,
perocchè se voleva tra due mesi distruggere il dominio del Re, come
mai così accanitamente l'edificava? e come mai il Popolo poteva
credergli in tanta contraddizione? conchiudendo: «l'edificazione è
attestata da molti e probi uomini, la distruzione segreta da pochi e
scellerati, a chi crederete voi o giusti giudici?». Escluso quindi il
movente dell'ambizione e della malevolenza contro la Maestà, rimaneva
il movente della profezia, e non già contro ma a tutela della Maestà.
E qui egli si fa a citare tutte le previsioni, tutt'i prodigi, tutte
le profezie ad una ad una (sono state già accennate troppe volte
e possiamo dispensarcene), aggiungendo di avere interpretate le
imminenti mutazioni a favore del Re e della Chiesa, col servirsi delle
affermazioni de' Profeti e de' Santi, col sostenere che prima della
fine del mondo doveva esservi «un solo ovile ed un solo pastore in una
sola Repubblica cristiana, a capo della quale il Pontefice Romano», che
«il Re avrebbe adunato i Regni e il Papa li avrebbe accolti nel suo
ovile con maggior potestà». E dice che i frati di S. Domenico doveano
preparare tale repubblica, e con autorità sacre e profane dimostra
la futura repubblica, preludio della celeste, desiderio degli uomini
pii e de' Profeti, de' Poeti e de' Filosofi, da verificarsi con la
fusione di tutti i principati in un Regno Sacerdotale ammesso anche da
Platone; e nota che riusciva esaltato il Re Filippo, posto da Dio per
soggiogare tutte le genti e i Regni, onde il senso della repubblica
predetta «era utile al Re prima che al Papa». Aggiunge non poter essere
condannato nemmeno quando le mutazioni predette non si avverassero,
poichè egli seguiva i Padri e i Santi, che pure errarono; egli non
era Profeta ma seguiva i Profeti, e d'altronde nota che chi scorge i
segni è tenuto a mostrarli, citando in ciò l'esempio di Geremia e il
precetto di S. Pietro. Prevede intanto un argomento del Fisco, l'avere
cioè lui detto che bisognava «fare la repubblica con l'eloquenza e
con le armi ne' monti»: e risponde che spettava a' Domenicani il
prepararla, e lo dimostra con molte autorità, aggiungendo che pure a'
filosofi spetta trattare della repubblica, ed egli, filosofo cristiano,
come S. Tommaso, Egidio ed altri, ne trattò scrivendo il libro della
Monarchia universale dei Cristiani che trovavasi presso il Card.^l
S. Giorgio, ed in Stilo scriveva un libro sulla maniera di formare
quella Monarchia secondochè avea promesso nel libro anteriore; donde
bellamente provavasi «che egli non avea voluto preparare la repubblica
per sè stesso, ma preparare pel Papa e pel Re un seminario di uomini
grandi nelle lettere e nelle armi, acciò potessero essere inviati dal
Re e dal Papa pe' negozii di pace e di guerra, e mostrare il preludio
della repubblica grande universale» etc. Prevede ancora un'obiezione,
cioè, chi gli avea data una missione simile? E risponde che avea «avuto
nell'animo un istinto divino appoggiato da segni e da profezie», che
Dio gli avea dato de' segni, ed egli avea considerato a proposito
servirsi del cattivo evento in bene, e così «ciò che disse non fu
un tentativo di ribellione ma una cautela contro il male imminente,
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