Fra Tommaso Campanella, Vol. 2 - 02

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voglia mal celata di rendere la concessione illusoria. In un'altra
lettera del 19 si ripetevano le medesime cose, dicendosi, quanto agli
esami degli ecclesiastici, che S. S.^{tà} «giudicava conveniente
che mentre s'interrogavano delle materie concernenti tal congiura,
v'intervenisse qualcheduno per il Fisco Regio conforme all'instanza
del Vicerè», donde parrebbe che volesse concedersi tutt'al più la
presenza di un Avvocato fiscale Regio: dichiaravasi poi S. S^{tà}
molto soddisfatta del vigore mostrato dal Nunzio nella difesa della
giurisdizione, avendo «preteso vanamente i Ministri regii di procedere
di propria autorità nel caso, et nelle persone de i sodetti». Ma la
Corte di Napoli non aveva preteso di assistere vanamente al giudizio,
sibbene di prendervi parte, poichè aveva anzi preteso che il tribunale
dovesse comporsi tutto di laici, e i Ministri Regii non erano tanto
dolci da contentarsi delle semplici apparenze, onde la quistione ebbe
a durare ancora un pezzo.--Nella stessa data del 19, il Nunzio poteva
finalmente scrivere a Roma che il Vicerè, dietro le sue lagnanze, avea
mandato al Castellano un altro biglietto, col quale gli ordinava di
ammettere chiunque fosse stato da lui inviato per eseguire qualunque
suo ordine. E scriveva pure al Card.^l di S.^{ta} Severina, dicendo
che gli ecclesiastici inquisiti erano 14 (ancora non sapeva che erano
in maggior numero), e la carcere sua era «una sola et non interamente
sicura per simili huomini», e però avea ricercato il Vicerè che si
contentasse metterli in Castel nuovo a sua istanza come era seguito:
donde risulta sempre più manifesto non esservi stata veramente
mai, tra il potere civile e l'ecclesiastico, una quistione intorno
al doversi quegl'inquisiti tenere nelle carceri Regie o in quella
del Nunzio, il quale, al pari di tutti i suoi predecessori e dello
stesso Arcivescovo, continuamente profittava delle carceri Regie per
gì'inquisiti ed anche pe' condannati di una certa importanza. Infine
scriveva ancora il Nunzio a' Vescovi di Squillace e di Gerace, dicendo
che i carcerati erano giunti e si doveano con loro eseguire gli ordini
che S. S.^{ta} avrebbe dati. Ci mancano le lettere di questi Vescovi, e
così pure quella del Card.^l di S.^{ta} Severina, alle quali il Nunzio
rispondeva, e però non conosciamo il motivo preciso di queste risposte
del Nunzio abbastanza oscure; ma parrebbe che il Card.^l di S.^{ta}
Severina avesse giudicato poco corretto che gl'inquisiti ecclesiastici
fossero tuttora rimasti in mano delle forze Regie, e che i Vescovi di
Squillace e di Gerace avessero fatto tardivamente avvertire che si
badasse bene alle qualità di clerici nelle persone del Caccia e del
Pisano.
Non si saprebbe dire veramente perchè il Nunzio avesse tardato fino
al 23 novembre per mandare a riconoscere gli ecclesiastici carcerati,
mentre ne aveva facoltà fin dal 15: comunque sia, a quella data egli
mandò il suo Auditore, il Rev.^do Antonio Peri fiorentino, che vedremo
figurare anche troppo durante il processo di eresia, poichè il Nunzio,
occupato in altri affari, si fece sovente sostituire da lui. Lo mandò
al Castellano con un suo biglietto che può leggersi tra' Documenti; qui
occorre soltanto notare essere stato questa volta il Castellano più che
gentile, avendo non solo fatta dare una stanza per gl'interrogatorii,
ma anche «offerto ministri et ogni altra cosa per la tortura»!
Nell'udire un simile sfoggio di cortesia da parte del Castellano,
Mons.^r Nunzio, che fino allora non era riuscito a nulla con lui,
dovè rimanerne lusingato tanto, che non mancò di riferire anche
quell'offerta a Roma[16].--È necessario pertanto fare la conoscenza
di questo Castellano. Egli era D. Alonso de Mendozza e Alarcon, di
nobilissima famiglia, discendente da quel D. Ferdinando di Alarcon, il
quale tenne prigione Re Francesco di Francia dopo la rotta di Pavia, fu
creato Marchese della Valle Siciliana e poi anche di Rende, e maritando
l'unica sua figlia a un Mendozza, volle che tutti i successori
prendessero perfino il suo nome, onde si ebbe una serie di Ferdinandi
de Mendozza e Alarcon Marchesi della Valle, che ingarbuglia un poco
la storia della famiglia. D. Alonso era terzogenito di D. Diego de
Mendozza, quarto figlio di D. Ferdinando Pietro Gonzales de Mendozza,
2.^o Marchese della Valle, che morì governando lo Stato di Milano;
egli avea sposato D. Maria de Mendozza figlia di suo zio D. Alvaro
e di D. Anna di Toledo. Secondo il costume del tempo, l'ufficio di
Castellano del Castel nuovo era da anni nelle mani dei Mendozza. Dopo
la morte di D. Ferdinando Pietro Gonzales, 2.^o Marchese della Valle,
era passato al figlio D. Alvaro, e in una delle assenze di costui, che
guerreggiò in Fiandra con molto valore, fu retto da D. Diego padre di
D. Alonso; più tardi, nel 1595, D. Alvaro medesimo con licenza del Re
ne fece rinunzia a D. Alonso suo genero, e tale rinunzia fu confermata
nel 1596, continuando poi nel medesimo ufficio, dopo la morte di D.
Alonso, anche i due figliuoli di costui D. Alvaro e D. Diego iuniori
successivamente[17]. Tutti questi particolari non debbono reputarsi
inutili, che anzi dovremo darne ancora altri più in là, essendo stato
il Campanella in relazione con qualche persona della famiglia Mendozza
e della parentela di essa.
Ecco ora un saggio della ricognizione fatta dall'Auditore del Nunzio il
23 novembre; ne prendiamo alcuni brani dal 1.^o volume del processo di
eresia, dove essa trovasi inserta. Precisamente come scrisse il Nunzio
a Roma nella stessa data, si volle rilevare quali e quanti fossero gli
ecclesiastici inquisiti, i loro nomi ed il luogo in cui si trovavano
carcerati: così per la prima volta s'incontra un breve interrogatorio
del Campanella e di tutti gli altri ecclesiastici, con la descrizione
degli abiti di coloro che furono presi travestiti da secolari; non
di rado vi s'incontra pure la notizia della patria, parenti, età
e circostanze in cui ciascuno fu preso[18]. Il Campanella venne
interrogato prima di ogni altro, e diamo qui la descrizione che se ne
fece, e le due risposte che si ebbero alle due interrogazioni fattegli.
«Fu esaminato un certo giovane, con barba nera, vestito di abiti
laicali, con cappello nero, casacca nera, calzoni di pelle, ferraiolo
di lana come volgarmente si dice panno di Morano arbaso, e deferitogli
il giuramento» etc. rispose: «Signore, Io mi chiamo Fra Thomasi
Campanella dell'ordine di San Domenico, sono di una terra chiamata
Stilo in Calabria ultra, mio patre si domanda Geronimo Campanella et
mia matre Catherina basile. L'essercitio mio è di Religioso, dire
l'offitio, messa, predicare et confessare, et l'habitatione mia è in
Stilo nel convento detto Santa Maria di Gesù di detto ordine di S.
Domenico, et si ben mi ritrovo vestito di questa maniera, è perchè
fuggiva l'ira di miei inimici che mi persequitavano, cioè l'Avocato
fiscale Don luisi Sciarava et Gio. Geronimo Morano che mi veniva
appresso»... «Nell'anno 1581 mi pare ch'io entrassi nella Religione,
et per prima era chierico». Due cose si fanno qui notare: l'una è che
sua madre vien detta Caterina Basile, mentre è stato assicurato che
ne' libri parrocchiali leggevasi Caterina Martello, e su questo ci
siamo già spiegati fin dal principio della nostra narrazione (ved.
vol. 1.^o pag. 2); l'altra è che il Campanella scusa qui la sua fuga
dicendo che gli «veniva appresso» Gio. Geronimo Morano, non Maurizio
de Rinaldis.--Seguì l'interrogatorio fatto a fra Pietro di Stilo, nel
quale si parlò ancora del Campanella, e ne diamo semplicemente le
risposte. «Havrà da dudeci anni ch'io sono entrato nella Religione, et
havrà da undici anni che hò fatto la professione, et di presente quando
fui preso carcerato steva à Stilo nel monisterio di S.^{ta} Maria
del Gesù dove io era vicario»... «In detto convento vi erano quattro
sacerdoti di messa et uno laico assistenti computati con me, et fra
Dionisio Pontio ci soleva venire come una furia, et andava et veniva;
li quattro sacerdoti sono prima io, il secondo fra Thomasi Campanella,
il terzo fra Domenico di Riaci, il quarto fra Simone della Motta (si
noti che il Petrolo non c'era), et non fu di altri che fugissero di
detti frati solo il Campanella avertito da fra Dionisio pontio che
venne à dire che era stato avisato che veniva il s.^r Carlo Spinello
contro di loro, et così si ne partirno, et questo è quello ch'io so
della fuga loro».--Lasciando poi tutti gli altri interrogatorii,
riporteremo soltanto quelli di fra Domenico Petrolo, di fra Giuseppe
Bitonto e di fra Dionisio, con la descrizione de' loro travestimenti.
Quanto a fra Domenico si scrisse: «Fu esaminato un certo giovane con
piccola barba, vestito di abiti laicali, con casacca nera di panno
d'arbascio, calzoni di panno color lionato, con ferraiolo egualmente di
panno nero d'arbascio, dietro giuramento» etc. rispose, «Io mi chiamo
fra Domenico de Stignano dell'ordine di S.^{to} Domenico, et son figlio
ad Augustino petrone (_sic_) et a lucretia pelegia, et l'essercitio
mio è di studente sacerdote di Messa, et ha dui anni ch'hò predicato
et sono stato assignato al convento di Cosensa et deputato al convento
di S.^{ta} Maria di Gesù di Stilo»; nè gli fu dimandato altro. Quanto
a fra Giuseppe Bitonto, troviamo: «Fu esaminato un certo giovane con
barba castagnaccia, vestito di abiti laicali, con giubba bianca,
cappello nero e calzoni di arbascio nero e ferraiolo di panno nero,
con giuramento interrogato» etc. rispose, «Io mi chiamo fra Gioseppe
Bitonto di san Giorgio et sono sacerdote di Messa et lettore» etc.
«Quando fui preso carcerato fui preso in casa fuori alla vigna d'un
mio zio, che mi ni era ritirato là per pagura di non essere preso, già
che si diceva che tutti l'amici del Campanella dovevano essere presi
et però mi ritrovo in questo habito che mi presero che steva dormendo,
et li sbirri mi levorno la tunica et l'habito, et in questo carcere di
notte e giorno stò solo». Infine quanto a fra Dionisio si scrisse: «Fu
esaminato un certo giovane con barba nera vestito di abiti laicali, con
casacca di ciambellotto, calzoni di scottano nero e ferraiolo nero,
con giuramento interrogato» etc. rispose, «Io mi chiamo fra Dionisio
Pontio da Nicastro et son frate dell'ordine di S.^{to} Domenico et
l'essercitio mio è di sacerdote lettore et predicatore et mio padre
si chiamò Jacovo pontio et mia madre si chiamò lisabetta monizza»...
«Io fui preso carcerato à Monopoli dove io era fugito et scappato da
molti soldati nel convento di piczoni, perche mi fu detto da claudio
crispo che erano venuti detti homini per carcerare li frati in detto
monisterio». Si può qui notare che egli dicevasi avvertito dal Crispo,
il quale era stato solito di dimorare in quel convento e forse allora
vi mancava, non già dal Caccia il quale veramente l'aveva avvertito, e
non conveniva che fosse nominato, per nascondere che era là venuto in
sua compagnia.--Facendo questa rassegna, l'Auditore ebbe a trovare non
14 ma 21 ecclesiastici, come si rileva dalla Ricognizione originale, ed
ebbe a sapere che altri tre di loro erano stati rinchiusi nel Castello
dell'uovo, probabilmente per semplice disavvertenza: questi erano
infatti fra Pietro Ponzio, Cesare Pisano e Giulio Contestabile, ma
nella lista che ne fu redatta lo stesso giorno e che può leggersi tra'
Documenti[19], fu messo non già il Contestabile, sibbene Gio. Tommaso
Caccia che era stato già giustiziato! Chi si permise tale sostituzione
evidentemente dolosa? Sarebbe difficile dirlo; ma poichè insieme
coll'Auditore non v'era alcuno ufficiale Regio che avrebbe potuto far
nascere tale equivoco, bisogna piuttosto dire che l'abbia fatto nascere
il Nunzio medesimo, per mostrarsi ignaro di questo grave e d'altronde
irrimediabile oltraggio arrecato alla giurisdizione. Il Vescovo di
Squillace fin dal giorno 11 avea scritto un'altra volta al Nunzio
nominandogli in particolare un clerico, naturalmente della propria
diocesi, che con ogni probabilità dovè essere il Caccia; il Nunzio gli
rispose che questo clerico era stato condotto in Napoli, e intorno a
lui doveva eseguirsi l'ordine che S. S.^{tà} darebbe, come altra volta
gli avea scritto[20]; sicchè il trovarselo nella lista gli potè servire
di ottima scusa. Ma se questo non fosse stato un artificio suo, avrebbe
dovuto poi venire il giorno delle lagnanze e de' risentimenti presso
il Vicerè, allo scoprirsi dell'inganno; ora siffatto giorno non venne
mai, e ciò mostra che Mons.^r Nunzio non vide perchè non volle vedere,
o per lo meno che le sue grandi cure intorno alla giurisdizione non
erano dirette a proteggere le persone ecclesiastiche, le quali potevano
perfino scomparire senza che egli se ne avvedesse.
Nel medesimo giorno 23 novembre il Nunzio mandò a Roma la notizia
della ricognizione fatta e la lista de' carcerati ecclesiastici, che
raggiungevano appunto il numero di 23, con l'osservazione che se
n'erano trovati 9 di più ed un solo clerico selvaggio. Nel giorno 26
tornò sull'argomento e ripetè l'istanza che venisse l'ordine circa
le persone le quali doveano costituire il tribunale per l'eresia,
accertando che in questa materia i Ministri Regii non avevano alcuna
pretensione d'intervenire, ma soggiunse: «temo bene che nel capo
della congiura e ribellione non sia per bastare à medesimi Ministri
l'intervenire, ma che vorranno apparirci principali, et che sotto lor
nome si faccino i Processi non ostante che di ragione non convenga,
per che ritraggo che dicono altra volta haverlo usato, et che sia
solito de Principi in simili casi proceder de facto». Questo gli venne
confermato poco dopo dal medesimo Vicerè in una udienza avuta, e
mentre egli insisteva sulla necessità «che tutto apparisse fatto coram
Judice ecclesiastico», il Vicerè mandò a chiamare il Reggente d'Aponte
(che era Gio. Francesco Marchese di Morcone, cugino del Consigliere,
figlio di Gio. Antonio e di Costanza Lanaria), e costui disse che
«havevano trovato che con altre occasioni era stato dalli Antecessori
di S. S.^{tà} commesso ad uno de Ministri Regii che intervenisse come
delegato Apostolico in trattar simili cause»; il Vicerè soggiunse che
se ne farebbe istanza a Roma. Il Nunzio allora non obiettò altro, ma
chiese che i tre ecclesiastici rinchiusi nel Castello dell'ovo si
facessero condurre in Castel nuovo, e l'ordine in questo senso fu
subito dato; fece in pari tempo notare che i carcerati ecclesiastici
si erano trovati in maggior numero, ma un solo veramente era clerico
selvaggio, e il Vicerè disse che non pensava che erano tanti! Insomma
il Vicerè all'occorrenza rappresentava anche la parte dell'ingenuo, e
mostrava sufficiente abilità in questo armeggio.
Non si tardò a commettere le trattative all'Ambasciatore di Spagna
ed all'Agente Vicereale in Roma. Una lettera del Vicerè, in data del
30 novembre, ci pone in grado di conoscere lo stato delle cose dalla
parte del Governo di Napoli: sarà bene riportarla qui tutta intera in
italiano[21]. «Già tengo dato conto a V. M.^{tà} dell'aver tradotto
qua i prigioni di Calabria, e della giustizia che si fece di sei di
loro all'entrata del porto. Contro i laici si va procedendo, avendo
delegato per Giudice il Consigliere Marco Antonio de Aponte, e per
Fiscale D. Giovanni Sanchez, con ordine che ci vadano sempre dando
conto in Collaterale di quanto si farà. I frati e clerici tengo posti
tutti in Castel nuovo, con ordine che stiano lì in nome di S. S.^{tà}
e del Nunzio che risiede qui per lui, ma segretamente ho ordinato al
Castellano che non lasci trarre di là nessuno. S. S.^{tà} inviò ordine
al Nunzio che risiede qui, perchè con lui, o col Giudice che egli
deputerebbe pel compimento di questa causa, entrasse sempre un'altra
persona di parte mia. Io non mi sono contentato con questo, e però
faccio istanza per mezzo del Duca di Sessa e di D. Alonso Manrrique
che mi rimetta la causa, e quando non potessi ottener questo, che S.
S.^{tà} nomini i Giudici che io le presenterò, o mi mandi un Breve
perchè io possa presto nominarli in suo nome. Perciò ho trovato un
decreto emanato al tempo delle rivolte del Principe di Salerno da
due Reggenti di questo Collaterale, nel quale si nominano Giudici
creati da S. S.^{tà} e S. M.^{tà}, e così con questo ed altre ragioni
convenienti faccio l'istanza suddetta, e in tale stato tengo il
negozio. L'Inquisizione ancora, da parte sua, tratta di volere coloro
che sono inquisiti di eresia; io vado rispondendo a tutto con buone
ragioni e parole, e almeno procurerò che i capi principali, per una via
o per l'altra, non escano di qui senza aver giustizia di loro» etc.
Quest'ultima proposizione si vedrà affermata ancora più energicamente
nelle lettere Vicereali consecutive, ed essa fa intendere il deciso
proponimento del Governo contro il Campanella e socii, malgrado che da
parte di Roma non apparisse alcuna premura di secondarlo.
Naturalmente a Roma tutta questa insistenza per farle sacrificare i
dritti giurisdizionali non piaceva punto, e già, mettendo in un sol
fascio i negozii comuni e quello de' carcerati per la congiura (26
novembre), il Card.^l S. Giorgio dolevasi col Nunzio, perchè i Ministri
Regii non sapevano lasciare i loro abusi e il Vicerè non riusciva
quale si era mostrato da principio: allorchè poi comparve D. Alonso
Manrrique (2 dicembre) con quella specie di dimande sopra menzionate,
si affrettava a partecipare al Nunzio la maraviglia destata dal vedere
che i Ministri Regii pretendevano «di fare la causa soli». Ma non tardò
nemmeno a fargli sapere (4 e 5 dicembre) la risoluzione di S. S.^{tà},
che la causa della congiura dovesse farsi da lui «et da un Ministro
Regio non coniugato in sua compagnia, che non essendo Chierico pigli la
prima Tonsura per questa occasione, non essendosi lasciato persuadere
S. B.^{ne} di delegare persona meramente Laica»; ed aggiunse pure
l'altra risoluzione di S. S.^{tà} «di far venire a Roma... finita la
causa della congiura» coloro tra gli ecclesiastici che erano inquisiti
o sospetti di eresia, onde non solo non accadeva di deputare alcuno in
luogo del Vescovo di Caserta, ma neanche si doveano agitare in Napoli
siffatte materie. Evidentemente con quest'ultima risoluzione la Curia
Pontificia rinfocolava i sospetti e si preparava un'altra difficoltà,
imperocchè non poteva presumersi con qualche fondamento l'assoluzione
di tutti gli ecclesiastici, in una causa di congiura in cui vi erario
già state dieci condanne di morte con otto esecuzioni, nè doveva
attendersi agevolmente il rinvio a Roma di coloro i quali sarebbero
riusciti condannati, senza far loro espiare la pena nel Regno. Intanto,
poco dopo, il Card.^l S. Giorgio fece anche sapere che sì spedirebbe
un Breve particolare sopra il tribunale della congiura, ma desiderando
il Vicerè che la causa non si differisse ulteriormente, S. S.^{tà}
voleva che il Nunzio vi mettesse subito mano, senza nemmeno aspettare
il Breve, contentandosi inoltre «che il Fiscale e il Notaro sieno
quali il Vicerè gli vorrà».--Come si vede, pretendendo sempre di più e
con gran fretta, quasi non lasciando tempo alle repliche, il Governo
guadagnò molto e sollecitamente. Il Papa non si riserbò nemmeno la
conoscenza personale del Ministro Regio che doveva intitolarsi Delegato
Apostolico e procedere in nome della S.^{ta} Sede: bastava che, essendo
celibe, avesse la tonsura, e non avendola se la procurasse, senza
contare che avrebbe poi dovuto sempre il Nunzio trovarsi d'accordo con
questo Ministro Regio, poichè in caso di disparità chi mai avrebbe
sciolta la differenza? Ben di rado la sostanza fu tanto barbaramente
sacrificata alla forma. Una relazione di D. Alonso Manrrique in data
di Roma 4 dicembre, la quale fu poi mandata in copia a Madrid, ci fa
conoscere i particolari delle trattative da lui fatte, e le notizie
e i consigli che dava[22]. Ci basterà notare che nelle trattative
egli svolse l'argomento, che il Vicerè non si fermava in puntigli di
giurisdizione, ma solo desiderava riuscire ad accertare il delitto e
gastigarlo per soddisfazione del suo Re, e a tal fine era un mezzo più
a proposito quello de' Ministri di S. M.^{tà} che quello del Nunzio:
quanto poi alle notizie ed a' consigli che dava, gioverà riportare le
sue stesse parole. «In tal negozio mi rimane solo a dire che desidero
infinitamente che si riesca a mettere in luce la verità, essendo molti
di avviso che non vi sia nulla da accertare in riguardo al Re, e che
a' prigioni non debba mancare il tutore, come altre volte ho scritto
a V. E.; oltracciò ho potuto capire che hanno in progetto lasciar
finire questa causa, e subilo che sia conchiusa, richiedere i prigioni
per la causa della fede, e tradurli qua, dove, dicono alcuni, se si
giustificano intorno alla fede, sfuggiranno quest'altra pena, o per
lo meno ne sarà l'esecuzione poco rigorosa, come accade nelle cause
dell'inquisizione. V. E. vedrà ciò che si conviene fare. Abbastanza
buono sarebbe che agisse in guisa da far commettere al Nunzio la causa
della fede, perchè fatte costi le prove e riusciti convinti di qualcuno
de' due delitti, non avendo null'altro da far provare, si possa meglio
insistere per l'esecuzione della sentenza, chè se non si rimette costà
il fare questa causa, passa pericolo che si porti qua». Il consiglio
del Manrrique, senza mostrare un negoziatore di alta levatura, mostra
un uomo accorto, ed è superfluo dire che fu presto seguito.
Il Nunzio ricevè le lettere del Card.^l S. Giorgio per mezzo dello
stesso Governo di Napoli, poichè sovente le staffette Regie servivano
anche per lui, e il 10 dicembre, avuta un'udienza, fece conoscere la
risoluzione di Roma al Vicerè, il quale già ne era informato e potè
comunicargli la risoluzione sua di deputare il Consigliere D. Pietro
de Vera d'Aragona clerico di prima tonsura. Costui era spagnuolo e
veramente assai distinto magistrato, Consigliere dal 1588, «erudito
e giusto» come lo disse il Toppi[23]; ma apparteneva ad una famiglia
tutta devotissima al Governo, avendo pure un cugino, Diego de Vera, in
funzione di Pro-segretario del Vicerè appunto a quel tempo, inoltre
uno zio, Francesco de Vera, Ambasciatore di S. M.^{tà} presso la
Repubblica Veneta. Il Nunzio, che lo conosceva, ebbe a dichiararlo
«uno de' principali del detto Consiglio, così in lettere come in altre
qualità»[24]. E si offerse subito a cominciare la causa «etiam senza il
Breve»; ma riferendo queste cose a Roma espresse pure la sua opinione
che passerebbe altro tempo prima di cominciare, ed intanto potea venire
il Breve, «per non haver a mettere le lettere in processo per fondar
la giuriditione». Più tardi, il 17 dicembre, riferì la comunicazione
fattagli dal Vicerè dell'aver già nominato il De Vera per Giudice e lo
stesso D. Giovanni Sances per Fiscale, la visita fattagli da costoro
in sèguito di questa nomina, e la sua novella offerta di esser pronto
a trattare la causa; ma aggiunse che il Vicerè stimava a proposito
«aspettar detto Breve quanto alli ecclesiastici, poichè intanto si
potea trattar contro laici».--Oramai, concluso l'affare, il Vicerè
non avea più tanta fretta, o voleva egli pure un documento il quale
suggellasse ciò che si era ottenuto e che lo rendeva molto soddisfatto.
Questa sua soddisfazione rilevasi da una lettera che mandava a Madrid
fin dal 13 dicembre, insieme con una copia della relazione di D. Alonso
Manrrique, rilevandosi in pari tempo la sua costante premura che il
Campanella fosse gastigato e l'annunzio della prossima esecuzione di
altri laici già condannati[25] «... S. S.^{tà} si risolvè di fare
quanto V. M^tà potrà comandar di vedere da questa copia di lettera di
D. Alonso, che non mi pare si sia fatto poco; e così ho nominato D.
Pietro De Vera, che è il Decano del Consiglio, tanto per le molte e
buone parti che tiene, quanto per essere tonsurato, e credo che l'avrà
per molto bene; stimai anche nominare fiscale lo stesso D. Giovanni
Sanchez, e Mastrodatti il medesimo; così comincerà subito a procedersi
nel negozio, e di ciò che farà il dottore Marco Antonio de Ponte co'
laici si darà copia a D. Pietro de Vera e al suo compagno pel procedere
contro i frati e clerici. Odo che contro il Campanella sono ben provati
tanto il delitto della ribellione quanto il delitto dell'eresia;
procurerò, se posso, che si faccia giustizia pel primo, sebbene non
riesca a persuadermi che li vogliano tradurre a Roma per l'eresia; ma,
per sì o per no, farò istanza che quanto riguarda l'Inquisizione si
rimetta qui al Nunzio. Di alcuni de' laici che sono convinti o confessi
comincerà a farsi giustizia secondo la colpa di ciascuno; di ciò che si
farà andrò dando conto a V. M.{tà}» etc.
Adunque il Vicerè poteva tenersi certo che il Campanella non la
scamperebbe, e facendo trattare in Napoli anche la causa dell'eresia,
per lo meno veniva ad assicurarsi che il povero frate non sarebbe mai
più sfuggito dalle sue mani. Vedremo che il far trattare la causa
dell'eresia in Napoli, non offendendo la giurisdizione, fu accordato
senza la menoma difficoltà, laonde non si ebbero controversie da
questo lato, e con la promessa del Breve sulla costituzione del
tribunale per la congiura nel modo convenuto, ebbe realmente termine
la contesa giurisdizionale. Noi abbiamo voluto esporla in tutti
i suoi più minuti particolari, giacchè essa non rappresenta una
delle contese ordinarie, e i suoi particolari soltanto possono dare
qualche luce su' fatti che si svolsero di poi, sull'andamento e sugli
esiti de' processi. Naturalmente il processo di congiura pe' laici
sottostava all'azione, legale a que' tempi, del Vicerè e del Consiglio
Collaterale, e il processo di eresia per gli ecclesiastici sottostava
all'azione legale del Papa e della Sacra Congregazione Cardinalizia;
basta dire che le sentenze erano profferite dai Giudici così come le
imponevano le risoluzioni superiori dietro la relazione de' fatti
delle cause. Ma sul processo di congiura per gli ecclesiastici chi
avrebbe avuto influenza? Certamente col Breve Papale il Nunzio ed
il Consigliere sarebbero risultati «Delegati Apostolici», ma poteva
attendersi dal Consigliere che si fosse posto alla dipendenza del Papa
e non già del Vicerè? Il fatto è che ciascuna delle due parti avea
presa la sua strada, che il corso delle trattative ci fa vedere in un
modo abbastanza chiaro, e ci permette di giudicare in un modo meno
fallace. Dalla parte del Vicerè si voleva il gastigo del Campanella e
degli ecclesiastici più compromessi, conforme al gastigo che già era
stato dato e si continuava a dare ai laici; bene o male si credeva
alla congiura e la si voleva punita. Dalla parte del Papa si voleva
riconosciuta «la superiorità ecclesiastica», che «tutto apparisse
fatto coram Judice ecclesiastico» secondo le espressioni del Nunzio; e
ritenendosi non esservi «nulla da accertare in quanto al Re», si voleva
che non mancasse «il tutore» agl'inquisiti, secondo l'espressione del
Manrrique. Ora se così ritenevasi, se conoscevasi pure essere stato
malamente condotto in Calabria il processo primo e fondamentale da fra
Cornelio, occorreva una tutela efficace, ed è agevole intendere che
quel Breve sarebbe venuto a tutelare i diritti giurisdizionali, non le
persone degl'inquisiti; è agevole anzi intendere che il desiderio di un
tutore rappresentava piuttosto un argomento per non lasciarsi strappare
del tutto le prerogative ecclesiastiche. Anche ammettendo, come noi
ammettiamo, che il Campanella fosse stato giuridicamente colpevole,
sarebbe stata giusta l'istituzione di un tribunale che avesse data
guarentigia d'imparzialità, e l'espediente al quale si era ricorso
non poteva riuscire a darla; poteva solo creare nuovi imbarazzi, come
difatti li creò, senza giovare efficacemente al povero Campanella.
Vedremo a suo luogo i termini ne' quali il Breve fu redatto, vedremo
anche la condotta che tenne il Nunzio ulteriormente, e rimarrà
dimostrato appieno ciò che qui affermiamo.
È tempo ora di occuparci della vita che menava il Campanella e tutta
la turba degl'infelici venuti di Calabria: ecco quanto possiamo
dirne, secondo le notizie che si trovano sparse qua e là nel processo
e nelle altre scritture di S.{to} Officio. Una parte de' carcerati
trovavasi nel Castello dell'uovo, e fra essi il Barone di Cropani,
Ferrante Ponzio, Gio. Paolo e Tiberio Carnevale, Jacobo e Ferrante
Moretti, Francesco Antonio d'Oliviero, Marco Antonio Giovino, Geronimo
di Francesco, Giuseppe Grillo, Felice Gagliardo; la parte maggiore
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