Fra Tommaso Campanella, Vol. 2 - 38

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da lui segretamente l'astrologia, studiandola nelle Effemeridi del
Magino, nell'Almanach, nel Cardano, libri che con altri ancora, e con
gli scritti, un'amica a nome Oriana, dimorante sotto le carceri, con la
quale il filosofo «faceva all'amore», conservava e poi porgeva mediante
una cordicina dietro segnali convenuti, allorchè il filosofo li voleva:
aggiunse, riportandosi evidentemente ad un periodo anteriore, che il
Campanella non era affatto pazzo, ma tale si era finto per salvare la
vita, che quando veniva gente estranea egli faceva pazzie, e poi con
lui e con fra Pietro di Stilo, il quale gli era compagno, ridevano che
avesse fatto credere di esser pazzo. Riferì inoltre che avendo più
volte discorso da solo a solo col Campanella del testamento vecchio e
del miracolo di Mosè al mare rosso, egli avea detto «che ne credesse
solo quello che havea potuto essere naturalmente, et che l'altre cose
che non potevano essere naturalmente non bisognava crederle, ancor che
fussero scritte alla biblia» etc.; che poi gli aveva pure insegnato
in Castello come dovesse adorare Dio, facendoglielo scrivere ed anche
scrivendoglielo di sua mano, cioè a dire in piedi, col capo scoperto o
coperto a volontà, guardando al cielo e recitando alcuni determinati
salmi (ved. nel d.^{to} Doc.) ma senza terminare col Gloria Patri etc.,
non credendo alla 2^a e 3^a persona della Trinità, ed invece dicendo:
«Deo optimo maximo, potentissimo et sapientissimo, io te prego è
supplico per lo fato armonia et necessità, per la potentia sapientia et
amore et per te medemo, et per il cielo è per la terra et per le stelle
erranti è fisse...». E gli aveva insegnato egualmente come dovesse
adorare il sole e la luna, guardando in piedi, coperto o scoperto,
fissamente il sole al nascere o al tramontare, e dicendo, «O sacro
santo sole, lampa del cielo, patre della natura, portatore delle cose
à noi mortali, conduttieri dela nostra Simblea» etc. per poi dimandare
ciò che desiderava; ed alla luna, «Matre di tenebre» etc. etc. facendo
lo stesso anche verso ciascun pianeta, le quattro parti del mondo
e gli angeli che ad esse presedevano. Conchiuse poi il Gagliardo
affermando, che con tali preghiere non aveva mai ottenuto nulla, che le
eresie apprese dal Pisano e dal Campanella erano «capricci di huomini
bestiali, dissoluti, senza fondamento di ragione alcuna», che il
Campanella talora gli diceva certe cose e talora il contrario, e quando
egli dimandava il motivo di queste contradizioni, gli rispondeva non
essere stato inteso bene la prima volta. Naturalmente il Campanella,
con la solita astuzia, faceva la parte del distratto: ci toccherà poi
di vedere che alcuni cenni, datici da lui in qualche lettera ed anche
in qualche opera, confermano sufficientemente le notizie deposte dal
Gagliardo; ma già fin d'ora ognuno avrà senza dubbio ravvisato il
riscontro che esse offrono con la legge naturale lodata dal Campanella,
co' suoi principii metafisici, con le cose esposte nella _Città del
Sole_ ed anche cantate nelle _Poesie_[420]. Si ha quindi un gravissimo
argomento per non dubitare del racconto del Gagliardo, della relazione
del filosofo con D.^a Oriana, la quale evidentemente sarebbe la Dianora
che abbiamo visto celebrata da lui con un Sonetto, non che dell'essere
stati insieme contemporaneamente il Campanella e il Gagliardo «al
torrione»; gioverà d'altronde ricordarsi che il Gagliardo dovè passare
nel torrione appunto nel secondo semestre del 1603 e rimanervi fino
al 2 marzo 1604, essendo stato quello il tempo delle sue strette col
S.^{to} Officio, sicchè non ci manca nemmeno l'indizio della data.
Abbiamo poi anche un documento notevole raccolto in altre scritture
d'Inquisizione, che attesta del pari essersi il filosofo, nel periodo
anzidetto, trovato nel torrione del Castel nuovo separato dagli
altri frati: è la deposizione di un carcerato della Vicaria in una
Informazione presa contro fra Pietro di Stilo quando era già uscito dal
carcere. Un Ciommo ossia Girolamo dell'Erario, dimandato se fosse mai
stato in altre carceri oltre quelle della Vicaria, rispose di essere
stato, precisamente verso il marzo 1604, nel Castel nuovo; e «prima
(egli disse) fui posto in una fossa dove stetti per otto giorni, dopoi
fui levato da la fossa, et fui messo alo torrione dove stava uno che
si diceva fusse Campanella, et portava la chierica come portano li
frati, non intesi di che ordine fusse, et il Carceriero, et Campanella
dicevano che era Calabrese, et per un mese in circa dimorai à quello
torrione con lo Campanella, è ci venevano altri carcerati, è poi ne
erano levati. Et essendo stato con lo Campanella da un mese, fui
messo dopoi ad un altra carcere di castello, dove trovai uno monaco
che andava vestito da monaco con le veste bianche, che si chiamava
frà Pietro, uno mastro Marco scarpellino... _etc._, et alla carcere
di frà Pietro dimorai da un mese in circa, dopoi fui tormentato in
castello per la causa mia, è fui messo al civile del castello, dove
stavano diversi carcerati, tra li quali ci erano tre frati vestiti
di bianco, che uno havea nome frà Paolo, deli altri non mi ricordo
lo nome» etc.[421]. Questa separazione anche di fra Pietro di Stilo,
questa differenza di trattamento, più duro per fra Pietro e meno duro
per gli altri frati, meritano del pari di essere avvertite. Sorge
naturalmente il pensiero che fra Pietro, l'amico intimo del Campanella,
avesse dato motivo di richiamare sopra di sè l'attenzione del Governo:
rimanga intanto assodato che nel marzo 1604 il Campanella trovavasi nel
torrione, e non sembri puerile se facciamo avvertire che egli vi si
trovava tuttora in abito laicale, riconoscibile solo pel suo capo raso
e per la sua «corona»; qualunque fatto anche minimo della persona sua
ci apparisce sempre memorabile.
Nè questo è tutto. Rammentino i lettori que' duc.^{ti} 200 inviati
da' conventi di Calabria in sussidio de' frati, e la stentata
distribuzione che ne faceva il Prezioso dietro ordini successivi del
Vescovo di Caserta: un ordine del 2 settembre 1603 assegna duc.^{ti}
due a ciascuno de' quattro frati carcerati, non più 5, mancandovi il
Campanella: questo stesso si verifica in due altri ordini posteriori
(27 febbraio e 9 giugno 1604). Non sarebbe impossibile che specialmente
nel 1^o ordine del 2 settembre 1603 fosse corsa una pura e semplice
dimenticanza del Campanella da parte di quel Vescovo, che se ne curava
così poco e così male: egli vi dimenticò certamente fra Paolo della
Grotteria, ma ve l'aggiunse subito come il documento mostra, e così
avrebbe potuto aggiungervi nel tempo stesso il Campanella; laonde
bisogna dire che il 2 settembre era già accaduto qualche cosa di nuovo
per il povero filosofo, e non abbiamo bisogno di far notare come questa
data collimi più che sufficientemente con quella del luglio o agosto
che vedremo or ora da lui accennata. L'ultimo ordine di pagamento poi,
l'ordine del 9 giugno 1604, fu provocato da due memoriali de' frati,
e segnatamente uno di essi reca che «li poveri _quattro_ frati di
S.^{to} Domenico carcerati nel Regio Castello novo» si trovano ignudi
ed affamati, senza il denaro della Corte da più mesi e senza alcuno
indizio di prossima spedizione, onde supplicano che si dia loro quel
poco danaro rimasto e si parli a S. E. per la spedizione della loro
causa[422]; adunque nemmeno da questo lato figura più il Campanella,
e parrebbe veramente che soli quattro frati fossero rimasti in Castel
nuovo e che il Campanella non vi si trovasse più. Ma non è possibile
passar oltre alla deposizione di Ciommo dell'Erario sopra riportata; e
quindi persistiamo nel ritenere che il Campanella alle date suddette
trovavasi anch'egli nel Castel nuovo, bensì ristretto nel torrione,
toltagli qualunque comunicazione con gli esterni ed anche co' frati
suoi compagni; questi non ne parlarono ne' memoriali presentati,
essendo loro vietato di comunicare con lui, e forse pure avendo dovuto
persuadersi, che a voler fare causa comune con lui non sarebbero mai
più venuti a capo di nulla.
Vi sono infine i cenni datine dal Campanella medesimo in più lettere
ed anche nell'opera dell'_Atheismus triumphatus_, che scrisse dopo
questo periodo, sebbene, come abbiamo già detto, egli siasi ingegnato
di fondere insieme il passaggio al torrione e quello alla fossa di
Castel S. Elmo. In una sua lettera al Papa, in data del 13 agosto 1606,
egli scrisse cosi: «Hor sono tre anni (e quindi verso il luglio o
l'agosto 1603) havendo interrogato il demonio che si faceva angelo, e
compariva ad una persona da me instrutta a pigliar l'influsso divino,
al qual mi pareva disposto per la sua natività che mirai, rispose di
tutti i regni che dimandai... (_seguono molte rivelazioni singolari
specialmente intorno a Venezia e a Roma_). Io accorto che era diavolo
in molti segni, et avvisando quella persona dicendoli che dimandasse
segnali come Gedeone et altre industrie, promesse il diavolo darli
poi; ma comparse ad un signore in uno specchio, che trattava farmi
fuggire, e lo fè che mi tradisse e rivelasse; e fui posto in questa
fossa pur dal diavolo predettami». Ecco qui un disegno di evasione
trattato e scoperto, che vedremo affermato anche dal Nunzio e che,
naturalmente, ci occuperà di proposito; ma per ora lo mettiamo da
parte. Al Card.^l Farnese, pochi giorni dopo, il Campanella scrisse
pure: «M'occorse ver la natività d'una persona, li dissi ch'era
inclinata alla profezia, li donai il modo di disponersi all'influsso
divino, e perchè egli era scelerato, li comparse il diavolo e dicea
esser angelo, e ci donò avviso di molte cose future in molti regni
del mondo e del Papato e di Venetia ch'ha a rovinare. Io poi dimandai
segni come Gedeone; s'era Dio o angelo, ci li promesse, e perchè non
insegnassi a colui a scoprir il diavolo, esso diavolo mi fece ponere
in questa fossa con stratagemma stupenda che non posso scrivere».
Egualmente al Card.^l S. Giorgio riferì la cosa medesima, con poca
differenza di parole e con questa circostanza di più, che il diavolo
«fè capitar male quel pover'huomo», senza dirne altro[423]. Non occorre
poi riportare testualmente i brani dell'_Atheismus triumphatus_
allusivi allo stesso fatto, avendo avuta già da un pezzo occasione
di riportarli (ved. vol. 1.^o pag. 21 in nota). Il Campanella in
essi parla di «un astrologo moderato» spinto dalla superstizione di
Aly Aben ragel, avido di sperimentare la dottrina de' Santi, che
istruì un giovane incolto nel modo di pregare gli Angeli de' pianeti,
lo dispose con le orazioni e le cerimonie, e il giovane cominciò a
vedere cose mirabili, apparendogli uno spirito che si fingeva Angelo
o luna, o sole, o Dio: l'astrologo per mezzo di costui ebbe risposte
su cose gravissime, ma essendosi accorto che si trattava del demonio,
si vide il falso angelo con inganni incredibili separare il giovane
dall'astrologo e condurlo a morte violenta, oltrechè si vide un
altr'uomo, che aspettava certe promesse fatte prima del caso del
giovane, condotto a malanni atrocissimi etc. etc. Avremo in sèguito a
commentare tutto questo garbuglio, ma già si vede manifestamente che si
tratta qui delle relazioni passate tra il filosofo e il Gagliardo, con
le preghiere al sole, alla luna, alle stelle, e con tutte le altre cose
insegnategli mentre componeva appunto la sua opera di _Astronomia_,
essendo l'astrologo e l'altro uomo, posti in iscena nell'_Atheismus_,
una persona sola, il Campanella. Le lettere chiariscono i racconti
dell'_Atheismus_, ed esse, come abbiamo veduto, ci menano al luglio o
agosto 1603 quanto alle pratiche astrologiche fatte dal Gagliardo con
l'assistenza del Campanella; d'altro lato il processo del Gagliardo ci
mena al 2 marzo 1604 quanto alla separazione di lui dal Campanella,
giacchè appunto in tale data egli fu liberato dal carcere, per poi
tornarvi di nuovo ed essere condannato all'ultimo supplizio due anni
dopo. Manifestamente quindi la data del luglio e agosto 1603 è quella
del passaggio «nel torrione del Castello» dove il Campanella di certo
si trovava tuttora il 2 marzo 1604, giacchè il Gagliardo difficilmente
avrebbe mancato di dirne qualche cosa laddove ne fosse stato tolto
prima: risulta perciò ben giustificata anche l'affermazione di Ciommo
dell'Erario, d'averlo visto nel torrione in marzo 1604 separato dagli
altri frati, e come il non trovare il Campanella contemplato negli
ordini di pagamento della sovvenzione ai frati in data del 2 settembre
1603, e 27 febbraio 1604, non implica che egli fosse stato già tradotto
a S. Elmo, così non l'implica nemmeno il non trovarsi contemplato in
quello del 9 giugno 1604. Vedremo poi che non mancano altri argomenti
per farci dire che il Campanella dovè essere tradotto dal torrione
nella fossa di S. Elmo appunto verso il luglio 1604. E se vogliamo
indagare perchè sia stato posto nel torrione in luglio o agosto 1603,
ne troviamo facilmente il motivo, ricordando che appunto in tal tempo
giunse la notizia dell'imbarco di fra Dionisio sull'armata turca, con
le sue ciarle già narrate della prossima liberazione del Campanella.
Il fatto della conversione di fra Dionisio alla fede maomettana, che
recava un aggravio manifesto a' giudizii già gravi intorno alle imprese
disegnate in Calabria, fu sentito dal Campanella al punto, da vederlo
schermirsene con tutti gli argomenti, possibili ed impossibili, in
ciascuna delle lettere che scrisse nel 1606-1607, non appena vide
la necessità di far udire la sua voce direttamente ai personaggi
altolocati. Il fatto poi egualmente grave dell'imbarco sull'armata
turca, veleggiando verso il Regno, fu dissimulato dal Campanella
costantemente, e col proposito suo di volerlo dissimulare si spiega
benissimo l'aver confuso il passaggio al torrione del Castel nuovo,
il disegno di evasione scoperto, il trasporto a Castel S. Elmo, tre
avvenimenti affatto distinti e verificatisi in tre tempi diversi.
Veniamo appunto alla faccenda del disegno di evasione scoperto e del
passaggio a S. Elmo. Come dicevamo, il Nunzio ne fece menzione egli
pure nelle sue lettere a Roma. Dopo circa otto mesi di silenzio,
ripigliando la sua corrispondenza, nella lettera del 23 luglio 1604
egli ritesseva la storia delle peripezie avvenute per la spedizione
della causa; riproduceva il fatto del matrimonio di D. Pietro de Vera,
ricordava la risoluzione presa da S. S.^{tà} per tale circostanza,
esponeva le sue sollecitazioni continue per venire «a qualche
conclusione». E soggiungeva: «Ma l'essersi scoperto quà un certo Greco
che praticava di fare scappare di Castello Fra Tommaso Campanella,
come scappò Fra Dionisio Pontio et un'altro suo compagno, hà tenuto
il negotio sospeso in modo, che non si è potuto trattar della sua
speditione. Finalmente sabato passato fummo insieme, et quanto al
detto Campanella S. E. l'hà fatto condurre nel Castello di S. Elmo,
et non vuole che per ancora si tratti della sua speditione, crederò
io, per quanto scuopro, per non haver interamente chiarito questa
pratica che si teneva per la sua liberatone. Trattammo degli altri
quattro che restavano» etc.[424]. Se non c'inganniamo, dal contesto
della lettera del Nunzio appariscono due fatti non contemporanei, la
scoperta di certe pratiche per far fuggire il Campanella, la quale
avea per qualche tempo tenuto sospesa la spedizione della causa, e
il trasporto del Campanella a S. Elmo del tutto prossimo alla data
della lettera, per un motivo che il Nunzio mostra di supporre e che
difficilmente persuaderà alcuno, giacchè per continuare a chiarire le
pratiche dell'evasione non occorreva tradurre il Campanella a S. Elmo;
dovè quindi esservi un altro motivo che il Nunzio volle dissimulare, e
la cosa riuscirà confermata da quanto saremo per dire. Innanzi tutto
cerchiamo d'indagare chi mai abbia potuto avere tanta pietà pel povero
prigioniero da intavolare trattative di evasione, chi mai abbia potuto
essere quel Greco che praticava di farlo fuggire, come pure in che data
potè questo accadere.
Sappiamo dalle notizie sparse nel processo di eresia che molti
venivano nel Castel nuovo, ed entravano col carceriere nella stanza
del Campanella per vederlo quando era pazzo; ma evidentemente bisogna
guardare un po' in alto per la faccenda in quistione. Senza dubbio ebbe
a visitarlo più o meno spesso il Marchese di Lavello Gio. Geronimo del
Tufo, ed abbiamo visto che «nel 1603» ci fu una sua visita ricordata
nel _Syntagma_. Pertanto il Residente Veneto, in data del 3 febbraio
1604, riferiva al suo Governo, che pareva si andassero «risvegliando
novi pensieri del Campanella che si trova in Castello per li trattati
da lui maneggiati in Calabria», che era stato ultimamente di ordine
del S.^r Vicerè «carcerato il Marchese di Laviello, di casa del Tuffo,
sospetta alla Ecc.^{za} sua che tenesse le mani in simili negotii», e
che ad essi si attendeva con molta diligenza etc.[425]. Ecco un nome
ed una data che fanno volgere a buon dritto la mente sul progetto di
evasione stato scoperto: il Residente potè non essere informato della
cosa a fondo, e tutto il suo Carteggio mostra che davvero non lo fu
mai; ma non gli mancò la notizia di diligenze che si facevano, e di una
carcerazione, che riesce del tutto naturale credere motivata da qualche
indizio o sospetto di maneggio in tale faccenda. Anche il Gagliardo
nelle sue ultime deposizioni ricordò l'avvenimento senza accennare a'
motivi, ciò che mostra essere stato da lui pure ignorato il progetto
di evasione e la scoperta fattane: ma riescono sempre notevoli i
termini ne' quali si espresse, avendo ricordato che il Marchese «per
un tempo stette carcerato in detto Castello»[426]. Considerando che il
Gagliardo ne uscì nel marzo 1604, bisogna conchiudere che il Marchese
ne fosse già uscito a questa data, e però vi fosse rimasto un mese
o poco più: naturalmente tale circostanza mena a ritenere essersi
avuto per lui un semplice sospetto ben presto chiarito senza solida
base, oppure aver lui avuta una parte del tutto secondaria ed anche
inconsapevole ne' maneggi per l'evasione. Chi dunque potè provvedervi?
La mente ricorre subito a Cristoforo Pflugh, ed a' Fuggers de' quali
abbiamo già dato notizia a proposito dello Pflugh; le promesse di
Cristoforo, ed anche una parola del Naudeo, il quale nel Panegirico
ad Urbano VIII, enumerando i tentativi fatti per la liberazione del
Campanella, citò i «tot evanidos Fuggerorum ausus», ci aveano indotto
a ritenere che con ogni probabilità i potenti mezzi di questa famiglia
avessero potuto preparare l'evasione; le notizie poi dell'Epistolario
del Fabre ora pervenuteci col nuovo libro del Berti, mostrando che
in particolare Giorgio Fugger, dopo questo tempo, fissò perfino una
somma di 10 mila ducati per aiutare la liberazione del Campanella,
convalidano sempre più tale opinione[427]. Aggiungiamo inoltre che
non deve recar meraviglia l'intervento pure di quel certo Greco che
praticava di farlo scappare, secondo la notizia datane a Roma dal
Nunzio. Il Carteggio Veneto ci mostra che da un pezzo trovavasi nel
Castel nuovo un Pietro Lanza, bandito di Corfù, al quale facevano capo
i parecchi Greci che venivano in Napoli con progetti di imprese da
corsari contro i turchi. Il Lanza, già capo delle spie del Levante per
conto del Governo Vicereale, si era dilettato di simili imprese perfino
nell'Adriatico, che la Serenissima considerava come suo Golfo: dietro
richiami del Residente il Vicerè Conte di Lemos lo rinchiuse nel Castel
nuovo (6 novembre 1599), ma dandogli tutto il Castello per carcere e
speranza di prossima libertà. Egli propose allora alla Viceregina, e
costei accettò, di mandare due feluche in corso alla Vallona «nelle
viscere de i stati da mare di quella Serenissima repubblica», come
diceva lamentandosi il Residente, e nel marzo 1600 fu liberato per
tentare l'impresa, essendo stato il suo ufficio già dato a un Jeronimo
Combi: fatti i preparativi, il Lanza si unì con un Michele Protetri,
egualmente bandito di Corfù e corsaro, venuto in Napoli a rilevarlo,
e con lui si partì di notte segretamente (7 maggio 1602). Cercarono
insieme d'impadronirsi di una nave Buduana nelle marine di Otranto, ma
non riuscirono: il Lanza tornò a Napoli e dovè rientrare nel Castel
nuovo (7 agosto 1602). Quivi egli non cessò mai di far progetti contro
i turchi, lusingando le cupidigie spagnuole, e giunse a prevalere su
Jeronimo Combi e ad avere diversi incarichi di spedizioni segrete: nè
gli mancarono mai collaboratori levantini, specialmente Greci, che
venivano in Napoli e si dirigevano appunto a lui nel Castel nuovo,
con disegni di sorprendere senza pericolo, sicuramente, il tale o tal
altro Castello turco e farvi ottima preda[428]. Riesce quindi del tutto
verosimile che qualcuno di costoro siasi preso l'incarico di procurare
la fuga del Campanella, e che inoltre rappresenti quel Signore il quale
poi finì per tradirlo e rivelarne i disegni, secondo ciò che ne lasciò
scritto il Campanella medesimo.
Volendo dunque determinare la data della scoperta delle pratiche
di evasione, non ne avremmo altra più verosimile che quella della
carcerazione del Marchese di Lavello, cioè il gennaio 1604; e sarebbe
pure, naturalmente, di poco anteriore la data della comparsa del
diavolo con le sue rivelazioni, e dello spavento incusso a quel
Signore che rivelò il disegno della fuga. Potrebbe sembrare una grossa
obiezione la difficoltà di una riunione di più individui, perfino
con qualcuno estraneo, in una carcere dura: ma bisognerebbe non aver
mai conosciuto la curiosità de' carcerieri, prigioni e visitatori di
ogni genere, in fatto di cose soprannaturali, sempre supposte feconde
di grandi guadagni, in grazia de' quali non c'è nè compromissione nè
rischio che valga a trattenere. E se è certo che nel marzo 1604 il
Campanella trovavasi tuttora nel torrione del Castel nuovo, bisogna
dire che la scoperta delle pratiche di evasione non abbia avuta
influenza sul mutamento di Castello, e bisogna trovare un altro motivo
per ispiegare il passaggio a Castel S. Elmo. Ritenendo che questo
passaggio sia avvenuto nel luglio 1604, in un tempo del tutto prossimo
alla data della lettera con la quale il Nunzio faceva conoscere la
avvenuta riunione del tribunale Apostolico, troviamo facilmente il
motivo del trasporto a S. Elmo nell'essersi voluto dal Governo che il
tribunale si riunisse per la spedizione della causa degli altri frati
senza potersi occupare del Campanella, tanto più dopochè il Nunzio
aveva insistito nel voler sentenziare egli solo; con ciò ci spieghiamo
pure che il Nunzio abbia voluto dissimulare questo avvenimento
rincrescevole, compiuto in dispregio di lui e della Curia. È chiaro
infatti che dovendo il tribunale riunirsi, qualora il Campanella fosse
anch'egli rimasto nel Castel nuovo, non si sarebbe potuto evitare,
senza recriminazioni e contrasti, che il Nunzio lo avesse fatto almeno
venire alla sua presenza, mentre egli trovavasi là rinchiuso qual
suo prigione, a sua istanza e sotto la sua autorità, secondochè fin
da principio era stato convenuto con Roma. C'imbatteremo poi, nel
progresso di questa narrazione, in parecchie circostanze che riescono
a confermare la data del luglio 1604, e non mancheremo di notarle a
misura che si presenteranno. Vogliamo intanto far avvertire che la
scoperta del progetto di evasione non diede propriamente motivo di far
finire il processo del Campanella nella barbara guisa in cui finì, ma
diede soltanto occasione di giustificare in qualche modo il sistema
dell'inerzia che era stato deciso ed attuato già da molto tempo; quando
vi fu pericolo di vedere questo sistema compromesso, si venne nella
determinazione di allontanare il Campanella ordinandone il trasporto a
S. Elmo.
Come abbiamo avuta occasione di dire, i quattro frati minori, mal
ridotti, insistevano vivamente per la spedizione della loro causa, e
tolta di mezzo la persona del Campanella, vennero finalmente i Giudici
a riunirsi e ad occuparsene nella 2^a metà di luglio 1604. D. Pietro de
Vera, che per tanti e tanti mesi non si era prestato, si decise allora
a prestarsi, ma sarà bene rilevare dalle parole testuali del Nunzio
in qual modo: «Trattammo degli altri quattro che restavano, et l'uno,
Fra Domenico da Stignano, come più colpevole, fummo d'accordo che si
condennasse per tre anni in Galera, gli altri che restavano, attesa la
purgatione fatta da loro con li tormenti, si licentiassero, con questo
però che non potessino tornare in Calabria per tempo à beneplacito di
S. S.^{tà} Et quando si cominciorono à dettare le sentenze, scoprendo
che in esse il Sig.^r D. Pietro di Vera voleva esser nominato come
prima, contradissi, et gli mostrai la lettera che tenevo. Rispose che
non voleva risolversi sopra questo, senza parlarne prima con S. E., et
se bene gli replicai che questo non serviva à niente, toccando à N.
S.^{re} il risolver sopra ciò, stette pur nel proposito, e mi chiese
copia della lettera, et io glie la diedi, parendomi necessario metterla
anche nel processo». Così veramente D. Pietro discusse e fu d'accordo
col Nunzio, il quale si attenne all'interpetrazione che avea data
alla risoluzione Papale; e fra Domenico Petrolo fu condannato a tre
anni di galera «come più colpevole», sicchè fino all'ultimo momento
venne ammessa la colpa; gli altri poi furono rilasciati solamente
coll'obbligo dell'esilio dalla Calabria, ad arbitrio di S. S.^{tà}
«attesa la purgatione fatta da loro con li tormenti». Si vede qui
ancora una volta con quanto poca attenzione il Nunzio si era occupato
e si occupava di questa causa: per la congiura il solo Petrolo aveva
avuto il tormento, gli altri non ne avevano avuto punto, siccome
mostrano anche due loro comparse altrove ricordate (ved. pag. 242);
l'avevano bensì avuto per l'eresia e neanche tutti, essendone rimasto
esente fra Paolo, ed il Nunzio confondeva insieme l'una e l'altra
causa. Ma riesce notevolissimo quell'atteggiamento di D. Pietro nel
voler figurare come Giudice, dopo che si era tanto parlato della
risoluzione contraria di S. S.^{tà}, come del pari l'atteggiamento del
Nunzio nel volerglielo impedire. D. Pietro, Commissario Apostolico,
per tanto tempo non si era curato di leggere la risoluzione Papale che
lo riguardava, ed in ultima analisi volle prender consiglio dal Vicerè
intorno ad essa: in tal modo egli mostravasi quello che realmente
era, e che un Breve Papale non valeva a far cessare di essere, il
rappresentante del Governo. Ed il Nunzio continuava a dar prova di
una sorprendente ingenuità, obiettandogli che il parlarne al Vicerè
«non serviva a niente, toccando a N. S.^{re} il risolver sopra ciò».
Fin allora dunque il Nunzio non aveva capito ancora, che i vincoli
effettivi di D. Pietro col Governo erano ben superiori a quelli
fittizii col Papa creati dal Breve, e tanto meno avea capito che le
tergiversazioni di D. Pietro, negli ultimi tempi, non erano state
spontanee ma prescritte dal Vicerè.
Quale fosse davvero l'opinione del Vicerè su quell'incidente, non
si potè sapere prima di un altro paio di settimane. D. Pietro non
si affrettò a parlare al Vicerè, o forse meglio, sollecitato dal
Nunzio, il Vicerè diede ad intendere che D. Pietro non gli avea
parlato ancora, e giunse fino a promettere, che non appena gli avrebbe
parlato, la spedizione della causa sarebbe stata commessa «conforme
a quello che comanda S. S.^{tà}»; ma intorno al Campanella disse di
nuovo, «bisogna lasciarlo star così per buon rispetto, per il tempo
che sarà necessario».--Queste notizie trasmesse a Roma non vi fecero
punto cattiva impressione; bastava che il comandamento di S. S.^{tà}
fosse per trionfare, il resto non importava nulla. Il 30 luglio[429]
il Card.^l Borghese partecipava al Nunzio, che a S. S.^{tà} era
piaciuta la risoluzione sua di non ammettere a congiudice il de Vera
e farne capace il Vicerè, che ordinava si regolasse tuttavia conforme
alle lettere scritte ne' mesi passati, nè gli occorreva altro. E pel
Campanella? Nè S. S.^{tà}, nè alcuno de' Cardinali componenti la
Sacra Congregazione, innanzi a' quali la lettera del Nunzio era stata
letta, si diedero il menomo pensiero di lui: al contrario di quanto
si è finoggi creduto, a nessuno di loro importava che quell'infelice
rimanesse a languire nelle carceri di Castel S. Elmo e la spedizione
della sua causa fosse sospesa indefinitamente. Se vi era qualche
ragione per la quale non conveniva tenerlo nel Castel nuovo, perchè mai
non poteva il tribunale riunirsi nel Castel S. Elmo?
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