Fra Tommaso Campanella, Vol. 2 - 41

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negarmi l'esperienza, o scriver a V. B. che «non la voglia vedere,
è un negar lo spirito di Dio, che _ubi vult spirat_, et seguir lo
spirito degli huomini: _Venite cogitemus adversus Jeremiam_» etc. Così
il Campanella mostrava anche da questo lato che la sua pazzia era
finita e già da qualche tempo, tanto che avea visto anche con altri
il diavolo, e poi, dopo lungo aspettare in penitenza, Dio l'aveva
esaudito ed oramai si sentiva in grado di far cose mirabili ad utile
del Cristianesimo. Quali abbiano dovuto essere queste cose, delle quali
diè «molti capi», si può comprenderlo dagli elenchi più volte indicati,
estraendo da essi i capi relativi appunto all'utile del Cristianesimo:
dovè quindi promettere di far il libro in dimostrazione della prossima
fine del mondo coll'unione di tutte le genti costituendo una gregge
ed un solo pastore, far il libro contro i politici e Machiavellisti,
un libro per convertire i Gentili delle Indie orientali, un libro
contro i Luterani, ed andare in Germania ottenendovi la conversione
di due Principi protestanti e il discredito completo di Calvino,
fare al ritorno 50 discepoli contro gli eretici etc. etc. Di certo
egli dovè promettere anche di far miracoli, come non cessò poi di
prometterli più o meno esplicitamente fino al 1611; ed anche nella
sua prima lettera al Papa e in una lettera posteriore allo Scioppio,
pubblicate entrambe dal Centofanti, si dolse che il Nunzio e il Vescovo
di Caserta avessero chiamato finzioni, delirii od astuzie, per uscire
dal carcere, i suoi presagi, i suoi segni nel sole, luna e stelle, e
i miracoli che avrebbe fatto per costringere ogni anima a riconoscere
il Vangelo. Questo d'altronde emerge dalle osservazioni medesime fatte
da costoro, quali il Campanella le narrò al Papa, da doversi dire in
verità rispondenti a quanto sappiamo del carattere dell'Aldobrandini,
che ci è abbastanza noto, e del Gentile, che parecchi documenti ci
mostrano spietato ed esorbitante non meno del Mandina[457]. Secondo il
nuovo Vescovo di Caserta, il Campanella voleva «far miracoli falsi per
scampare od allungar la vita»; sicchè, nel concetto di questo Vescovo,
pel disgraziato filosofo si trattava sempre di avere a perdere la vita
più o meno presto. Dobbiamo intanto dire che il Vescovo di Caserta,
per parte sua, ebbe a scrivere qualche cosa a Roma intorno a tale
colloquio, ma il Nunzio non scrisse certamente nulla, come ci mostra
il suo Carteggio del 1605, ultimo anno di ufficio per lui: che anzi in
una sua lettera del 24 agosto 1605 al Card.^l Valenti, tenuto allora
provvisoriamente da Papa Paolo «nel luogo che si sogliono adoperare i
proprii nipoti», passando a rassegna, per sua giustificazione, i casi
di torto giurisdizionale da lui trattati, egli non citò punto il caso
del Campanella, e quindi dalla parte del Nunzio, non meno che dalla
parte di Roma, rimaneva non curato il torto ricevuto in persona del
povero filosofo, contentandosi che la sua causa non fosse spedita.
Dalla parte del Campanella poi ognuno avrà notato come, tanto presso il
Vicerè, quanto presso il Nunzio, egli non fece la menoma richiesta che
la sua causa fosse spedita; nè veramente espresse mai più un desiderio
simile per lungo tempo, se non sotto certe condizioni.
Scorsero non meno di 10 mesi dal detto colloquio, e il 13 agosto
1606 il Campanella si spinse a rivolgersi direttamente al Papa,
moltiplicando anche questa volta i reclami e le lettere in più sensi
e non trovando requie per molto tempo. Sicuramente tanto ritardo non
provenne dall'essersi rassegnato, e lo dimostrano i gridi di dolore
che sovente erompono nelle dette lettere; ma bisogna dire che egli
non nutriva alcuna speranza di essere ascoltato, e però non si mosse
di nuovo se non quando avvenne un fatto tale da tenere in agitazione
vivissima l'animo del Papa; fu questo l'interdetto scagliato a Venezia,
seguito dalla superba resistenza del Governo Veneto, e dall'abbandono
del Papa in una pessima condizione da parte di coloro medesimi che gli
aveano offerto aiuto. Allora appunto il Campanella tentò di profittare
dell'occasione e scrisse la sua lettera, nella quale comincia col
giustificarsi degli stratagemmi usati durante la causa (e certamente
del principale tra essi che era stato la pazzia, come risulta dal veder
citata l'autorità di S. Geronimo), si appella mostrando la necessità di
venir tradotto a Roma e l'impossibilità di consentire che il giudizio
della congiura ed anche dell'eresia termini in Napoli, fa un racconto
delle cose di Calabria e degli avvenimenti posteriori come può farlo un
giudicabile, riconosce commessa da lui la colpevole imprudenza di aver
servito alla «revelation presente» ed esservi stato un «voluto, non
fatto, eccesso», chiede per giudici il Bellarmino e il Baronio ma non
in Napoli, coll'affermare che ha cose grandi, parole di cielo, da dire
al Papa e alla Chiesa, ed aggiunge un poscritto in cui dichiara avere
avuto nuova delle cose di Venezia, occorrere una guerra spirituale e
la chiamata di tutte le persone sante a Roma, per parte sua obbligarsi
a mostrare con miracoli stupendi la verità del Vangelo ed allungare le
profezie laddove sia necessario. Questo poscritto apparisce l'occasione
vera della lettera, la quale è seguita poi da un'altra, o, se piace
meglio, da un allegato, in cui pel fatto di Venezia insiste sempre
più sulla necessità di venir tradotto a Roma, narra le rivelazioni
avute dal diavolo fintosi angelo tre anni prima, e per esse la caduta
di Venezia nel 1607 con la perdita di gran parte dell'autorità del
Papa, la caduta della dignità Pontificale e del Senato Cardinalizio
dietro uno scisma dopo il 1625; narra poi la comparsa successiva di
altri diavoli che l'afflissero, e in sèguito, dietro preghiere a Dio,
le rivelazioni vere che ebbe con gli avvertimenti da dover dare a S.
S.^{tà}, e suggerisce consigli, e cita profezie, e dichiara di voler
parlare a S. S.^{tà} e poi morire etc. etc.
Importa commentare quest'altra mossa del Campanella, sempre più degna
di attenzione comunque rimasta senza il menomo effetto. Non a torto
dovè sembrargli molto opportuna l'occasione per rivolgersi al Papa. Fin
da' primordii del suo Pontificato Paolo V si era mostrato assolutamente
deciso a far rispettare ad ogni costo l'immunità ecclesiastica, e
dopo di aver fatta e facilmente vinta una quistione con Lucca e poi
con Genova in condizioni davvero esorbitanti, avea voluto farne
un'altra anche con Venezia, che non si era mai adattata a riconoscere
l'immunità ecclesiastica negli Stati suoi[458]. Annunziato dapprima
con un Breve fin dal dicembre dell'anno precedente, emanato dappoi
nel solenne Concistoro del 17 aprile 1606 il gran Monitorio, che
dichiarava incorsi nelle scomuniche il Doge e il Senato Veneto per
essersi rifiutati a consegnare al Nunzio due scellerati malfattori,
il Canonico Saracino e il Conte Brandolino Abate di Narvese, Venezia
si era mostrata inflessibile, si che il Papa avea stimato opportuno
radunare un grosso esercito, e Venezia avea dovuto fare altrettanto.
Napoli, così vicina, non poteva rimanersi indifferente, e dal Carteggio
del Residente Veneto Agostin Dolce si rilevano, con le rispettive
date, i fatti avvenuti allora nella città. I Gesuiti, irritati anche
per essere stati espulsi da Venezia i frati del loro ordine insieme
co' Teatini e Cappuccini ossequenti al Papa, gridavano nelle scuole
contro Venezia e diffondevano per la città alcuni presagi tratti
specialmente dal libro di M.^o Antonio Arquato medico (in ciò i Gesuiti
s'incontravano col Campanella). Il Nunzio Mons.^r Guglielmo Bastoni
Vescovo di Pavia, successo all'Aldobrandini fin dal dicembre passato,
benediceva pubblicamente la capitana delle galere che partivano sotto
il comando del Marchese di S.^{ta} Croce per fare una dimostrazione
ostile a Venezia, mentre un inviato, Ugo de Moncada, andava a Roma per
dichiarare il Vicerè pronto a vendicare con la persona e col Regno
le offese che fossero fatte a S.^{ta} Chiesa, emulando le offerte
del Conte di Fuentes Governatore di Milano e de' Duchi di Modena e
di Urbino. Ma appunto a' primi di agosto si venne a sapere che il
Marchese di S.^{ta} Croce si era limitato a veleggiare nelle acque
di Brindisi, ciò che in realtà non era tollerato da' Veneziani, ma
avea finito poi col rivolgersi contro i pirati di Durazzo ed espugnare
questa città; che per armare le galere si era preso il danaro de'
privati dal Banco di S. Eligio; che bisognava pensare a provvedersi di
grano poichè quello promesso, da doversi estrarre dalla Marca d'Ancona,
non sarebbe più venuto; che mancando il danaro, ed essendo le gabelle
divenute insopportabili, già si pensava di sospendere il pagamento
degli interessi agli assegnatarii (creditori dello Stato) come poi si
verificò; che per tutte queste ragioni non si sarebbe passato alle
armi, e in ultima analisi da Spagna erano venuti anche ordini di non
passare alle armi[459]. Naturalmente il Campanella dovè giudicare che
oramai poteva provarsi presso un Papa tanto attaccato all'immunità da
pretenderla anche là dove non c'era mai stata, e tanto poco avveduto
da compromettere a quel modo l'autorità Pontificia, riducendosi poi
a supplicare almeno l'invio da Napoli di un'Ambasciata a Venezia
per trattare la pace, ciò che fu commesso a D. Francesco de Castro
accompagnato dal Duca di Vietri, due nostre vecchie conoscenze.
Egli credè pertanto necessario rannodare la sua mossa alle precedenti,
dare alla sua lettera l'impronta di un «appello», che secondo lui
dovea render nullo il giudizio compiuto, siccome disse tanti anni
dopo nella sua Narrazione, e credè anche necessario rifare la storia
delle cose di Calabria, spingendosi ad affermazioni che crediamo
inutile dimostrare insussistenti dopo tutto ciò che abbiamo visto nel
corso della narrazione nostra. Basterà citar quelle, che l'eresia fu
trovata da' frati, che il negozio de' turchi fu inventato da lui per
non morire, che furono appiccati sul molo uomini per altra causa, che
fecero confessare a Maurizio _sub verbo regio_ mille bugie, che tutti
morendo si ritrattarono. Ma gioverà notare due cose: l'una, il bisogno
che sentì sempre di non essere messo a fascio con fra Dionisio divenuto
maomettano, «di cane fatto lupo pe' gridi di mali pastori»; l'altra
il nessun desiderio ed anzi il rifiuto di vedere spedita la sua causa
in Napoli. Su quest'ultimo punto egli si espresse recisamente: non
consentirebbe in Napoli a giudizio alcuno, perchè era odiatissimo,
perchè non vi erano _aequa jura_, perchè avrebbero detto al Nunzio che
era finita la causa e lo condannasse senza ascoltarlo (così difatti
avrebbe dovuto accadere). Nè si trattenne dallo scrivere: «questi
giudici anche ecclesiastici più tosto mi vorrebber trovar nocente che
innocente, perchè... non si fidano nè ponno difensarmi la innocenza, se
in me la trovano, come Nicodemo non difese Christo; ma sendo colpevole
senza briga ponno starsi e gratificarsi con questi Signori», mentre
«non hanno alcuna autorità se non di farmi male, perchè son ligati al
farmi bene». In somma la sua causa era straordinaria e dovea trattarsi
in Roma, annullando, s'intende, ciò che si era fatto sin allora, ed
egli volea che si dimandasse la persona sua, anche con l'obbligo di
restituirla a Napoli qualora fosse trovata in falso. Più tardi poi
disse che non aveano potuto conchiudere la causa della congiura in
Napoli, perchè non aveano in che condannarlo: questa contradizione non
ha bisogno di commento.
Ma un po' di commento occorre al fatto della comparsa del diavolo tre
anni prima, invocato da una persona che egli aveva istrutta a pigliar
l'influsso divino (sicuramente il Gagliardo), delle rivelazioni avutene
anche circa Venezia e il Papato, e poi della comparsa di altri diavoli
nella fossa, col sèguito delle grazie ottenute per via di flagelli e
di studii, dell'avere avute altre rivelazioni, dell'esser divenuto
capace di far miracoli, o, secondochè disse poco dopo, dell'aver
visto angeli ed avuto autorità come quella di S. Giovanni a' farisei
e potestà di far miracoli più stupendi che quelli di Mosè[460]. La
frequenza ed asseveranza, con le quali il Campanella parlò in prosa ed
in versi della comparsa del diavolo, delle rivelazioni avute e delle
conseguenze di esse, non possono non fare un certo peso; e la cosa
riesce di tanto maggiore interesse, in quanto che segna il punto di
partenza del suo passaggio definitivo, reale o simulato, nel campo
delle credenze cattoliche pure, e quindi riflette il vero problema
difficilissimo della vita del Campanella, cioè l'essenza delle sue
intime convinzioni religiose. Potrebbe ammettersi un'allucinazione, ma
non mai la «lunga aberrazione mentale», che il Centofanti ha invocata
e che si vede ricordata ancora da altri, mentre il Campanella medesimo
non fece poi un mistero che la sua pazzia era stata simulata, e lo
ripetè egualmente in prosa ed in versi troppe volte, sebbene in qualche
determinata circostanza siasi contraddetto[461]. Ci sembra pertanto che
invece dell'allucinazione riesca più verosimile trattarsi di un fatto
molto semplice, dell'evocazione de' diavoli esercitata dal Gagliardo,
amplificata e messa innanzi dal Campanella così per premunirsi contro
qualche nuova denunzia al S.^{to} Officio specialmente da parte
del Gagliardo, come per procacciarsi qualche via di uscita nelle
sue tristissime condizioni, giustificando il suo ritorno nel retto
sentiero con un evento straordinario, ed eccitando la curiosità e
l'interesse del Papa, mentre poi, alla peggio, avrebbe potuto tutt'al
più acquistarsi una riputazione di stravagante, che sarebbe sempre
riuscita giovevole alla conclusione della sua causa. Benchè si possa
dire aver lui veramente professata l'esistenza di spiriti buoni e rei,
o «più o meno buoni», custodi de' pianeti e delle stelle ed anche
vaganti pel mondo, dal processo di eresia conosciamo che con gli amici
suoi avea sempre riso del diavolo nelle condizioni e forme comunemente
ammesse; e conosciamo che il Gagliardo si era occupato realmente di
diavolerie, con ogni probabilità sotto gli occhi del Campanella, ma
nemmeno possiamo dire che l'avesse fatto con quella larghezza e serietà
che dalle affermazioni del Campanella emergerebbero, poichè egli non
si sarebbe trattenuto dal farne parola nelle sue ultime deposizioni in
S.^{to} Officio, almeno per tentare di allungar la vita; forse egli
attese alle scene di comparsa del diavolo, secondo il suo solito,
per profitto, non che per acquistarsi la considerazione e l'ossequio
de' carcerieri, e fu in questo agevolato dal Campanella che ne avea
bisogno egualmente, laonde non dovè poi dare a quelle scene tanta
importanza, e riesce un po' duro ad accettare che invece abbia dovuto
darcela sul serio il Campanella. Conosciamo poi che non appena pose
mano a comporre poesie ed opere nella fossa di S. Elmo, il Campanella
attestò dapprima il fatto puro e semplice dell'apparizione _evidente_
di diavoli a lui occorsa, ma con la circostanza un po' singolare nel
fondo e nella forma, che per quel fatto era divenuto più uomo da bene
(come abbiamo visto in qualche poesia e nell'opera _Del Senso delle
cose_); più tardi, nell'_Ateismo_, tornò sul fatto corredandolo di
molti particolari misteriosi già più volte menzionati, nè si trattenne
dall'affermare nelle lettere che gli era stata con inganno promessa dal
diavolo scienza e libertà, e dall'affermare nelle poesie che gli era
stato pure promesso che «sarebbe esaudito», che «si canterebbe Viva
Campanella nel fine del suo carcere»[462]; d'altronde in un brano dello
stesso _Ateismo debellato_, lasciando chiaramente intendere essere
stato lui medesimo in relazione co' diavoli per mezzo del Gagliardo,
reca un'altra delle risposte avute là dove dice, «Astrologo per juvenem
interroganti de multis dixerunt, quod ipse scripsisset de libero
arbitrio, sed rectius Calvinum». Dopo tutto ciò si ammetta pure che tra
le bizzarrie del Gagliardo, durante l'evocazione de' diavoli, vi sia
stata quella di far pronostici su Roma e su Venezia; ma nessuno vorrà
credere che il Campanella abbia prese sul serio altrettali visioni,
e non le abbia rivedute e corrette, aggiungendovi del suo tante
singolari particolarità oltrechè una coda non indifferente, in vista
de' suoi gravi bisogni. Nè ci sembra punto temerario il ritenere che le
visioni consecutive degli angeli, e le facoltà ottenute da Dio, siano
del medesimo stampo; e tutto il garbuglio ci apparisce consentaneo
all'indole del Campanella, perpetuamente motteggiatrice anche nelle
circostanze più terribili, rimanendo vero soltanto che Dio gli avea
concesse facoltà intellettive ed operative straordinarie, atte a
costituirlo, secondo il suo concetto, condottiero della umanità con un
migliore indirizzo.
Ma dunque il Campanella potè mentire a tal segno? Eh sì, non c'è da
farne le meraviglie, e c'è da farle invece perchè si sia mancato di
riconoscerlo, mentre egli non mancò di dichiararlo, segnatamente
nelle sue Poesie; nè adoperò alcuna circumlocuzione nel dichiararlo,
e se i posteri non hanno voluto capirlo, la colpa senza dubbio non fu
sua. Egli disse nettamente che era «bello il mentire» in determinate
circostanze, appellandosi agli esempî della storia sacra e profana,
e non meno nettamente pure disse che i savii, per schifar la morte,
«furon forzati a dire e fare e vivere come gli pazzi, se ben _nel lor
segreto hanno altro avviso_»[463]. Nè fu propriamente lui che inventò
la trista massima «intus ut libet, foris ut moris est», bensì egli
fu costretto a seguirla; nè ci sorprenderebbe che si gridasse allo
scandalo, comunque pur oggi si tolleri con la più grande indifferenza
che quella massima sia seguita gloriosamente da tanti e tanti, senza
pur l'ombra delle condizioni del Campanella; basta considerare il
numero grandissimo degli spiriti forti in religione, e de' partigiani
de' cosi detti grandi principii in politica, che quasi sempre «nel
lor segreto hanno altro avviso» per onta e malanno dell'umanità. Ma
bisogna anche guardarsi dal comparare le cose grandi alle meschine,
e però aggiungiamo di non credere che possa rimanerne vulnerata la
fama del Campanella presso le persone non volgari. A niuno è venuto
in mente mai che la fama di Galileo Galilei sia rimasta vulnerata
dall'avere, con la sua abiura, affermato il contrario di ciò che
pensava: l'infamia è ricaduta su coloro che ve lo costrinsero, e pel
Campanella, travolto in un abisso di miserie che non ha riscontro
nella storia de' nostri uomini di lettere, non è possibile avere un
concetto diverso senza manifesta ingiustizia. Aggiungasi che egli si
credeva nato per una missione altissima, per «debellare i tre mali
estremi, tirannide, sofisma, ipocrisia», nè semplicemente con lo
scriver libri, come potrebbe supporsi dietro monche notizie della sua
vita; ed ebbe poi a provare, nel modo più efferato, «il senno senza
forza de' savii esser soggetto alla forza dei pazzi» non solamente
dall'alto, ma anche dal basso, non solamente da parte de' grandi,
ma anche da parte del popolo le cui sorti egli si era sforzato di
rialzare, ciò che gli diede amarezza infinita, come si rileva da più
punti delle sue poesie. Eppure non disperò nè si arrestò mai, ciò che
prova la ricchezza e la nobiltà della sua natura; ma necessariamente
tutte le maniere di astuzia doverono sembrargli accettevoli, anche
quelle che agli animi nostri, tanto distanti dal suo, recano molto
dolore. Così coloro i quali ebbero l'opportunità o la sagacia di
saperne o penetrarne i pensieri intimi, lo apprezzarono maggiormente
o lo vituperarono secondo i proprii umori diversi; e son note certe
qualificazioni denigranti assegnate specialmente a talune delle sue
opere più caratteristiche, certi epiteti ingiuriosi affibbiati alla sua
persona, quando non si volle o non si seppe intendere che egli aveva
idee riposte, nemmeno tenute addirittura sepolte ed erompenti sempre,
perfino mentre era obbligato ad esternare idee di tutt'altro colore
per uscire dalla sua tristissima condizione. Egli non tacque le sue
idee riposte in politica e in religione, che trovò modo di esporre con
un vero stratagemma, secondo una maniera non nuova ma più che ardita
nello stato suo, facendo la descrizione della immaginaria _Città del
Sole_; e poichè nella sua estrema vecchiezza ne curò la ristampa e
vi aggiunse ancora le _Quistioni sull'ottima repubblica_, composte
veramente da un pezzo e poi messe da parte, si ha motivo di ritenere
che a queste idee, con poche varianti, egli sia stato attaccato fino
alla morte. Intanto è costretto a salvarsi dall'ira universale, è
costretto a mostrarsi diverso da quel che è; non giunge per questo a
nascondere le sue interne credenze, e più volte anzi s'ingegna di farle
rilevare almeno a' savii, ma pur troppo i savii riescono vigilanti solo
tra' suoi avversarii o sonnecchiano affatto. Perfino nella lettera
che egli scrive in appello al Papa, lo si vede deplorare «l'ecclisse
di spirito» e che «bisogna credere o andar prigione», lo si vede
annunziare che il Cristianesimo è «la pura legge della natura, a cui
solo li sacramenti son aggiunti per aiutare la natura a ben operare»,
non lodando così certamente lo spirito della Curia, ed attribuendo a
Dio creatore una parte affatto preponderante su Dio salvatore. Nelle
opere poi, nello stesso _Ateismo debellato_, destinato a rappresentare
la sua rumorosa professione di fede atta a salvarlo, sia quando impiega
la maniera di esposizione _ad utramque partem_, sia quando adotta la
maniera di esposizione ordinaria ed _obiectionibus occurrit_, lo si
vede produrre con tanta larghezza gli argomenti degli avversarii, da
aggiungerne perfino molte volte taluni non prodotti mai e suggeriti
propriamente da lui. Il fatto trovasi notato da un pezzo quasi come
una scoperta, mentre, se fossero state sempre lette con attenzione
le cose del Campanella, si sarebbe visto che da lui medesimo non era
stato taciuto[464]: pertanto esso ti rimane molte volte incerto se
l'autore abbia veramente voluto convincerti appieno sull'opinione che
sostiene, o invece illuminarti meglio su quella che combatte; sempre
poi ti obbliga a riflettere su quello che espone e su quello che non
può esporre, su quello che spesso accenna doversi fare e che s'intende
non poter fare. Ma il nostro assunto ci trattiene dall'affisare lo
sguardo in questo orizzonte elevato, e ci richiama al penoso viaggio
pedestre che abbiamo intrapreso: solo dimandiamo di poter dichiarare
ancora una volta, che a nostro modo di vedere è indispensabile farlo
questo viaggio prima di librarsi a volo, in caso contrario si correrà
il rischio di una falsa strada[465].

IV. Noi potremmo fermarci qui, bastandoci di aver mostrato non senza
una certa larghezza le tre principali occasioni e maniere, nelle
quali il Campanella, dando un termine manifesto alla sua pazzia,
tentò successivamente ed infruttuosamente, presso lo Stato e presso
la Chiesa, di essere ascoltato per non rimanere sepolto nella fossa
di S. Elmo. Ci parrebbe tuttavia di non avere esaurito il nostro
còmpito, se non narrassimo anche il sèguito de' tentativi da lui fatti
ulteriormente ed a breve intervallo, non solo presso la Curia Romana,
ma anche presso la Corte di Madrid e presso le Corti Cattoliche di
Germania, con tutte quelle lettere e mediante tutte quelle persone che
abbiamo avuto bisogno di citare più volte.
Nello stesso anno 1606, quasi immediatamente dopo di essersi rivolto
al Papa, egli invocò l'aiuto del Card.^{le} d'Ascoli (fra Girolamo
Bernerio Domenicano, protettore dell'Ordine), e poi anche quello de'
Card.^{li} Farnese e S. Giorgio. Non è pervenuta fino a noi la lettera
diretta al Card.^{le} d'Ascoli, ma n'è rimasta soltanto la notizia
nelle altre dirette agli altri Cardinali. Queste furono scritte in
data del 30 agosto 1606, cioè 17 giorni dopo che era stata scritta
la lettera al Papa, ed offrono gli argomenti medesimi addotti al
Papa, con poche varianti ed un cenno fugace delle rivelazioni intorno
a Venezia. Sempre rifacendo la storia delle cose di Calabria in una
maniera adattata alla sua difesa, dichiarando di essersi salvato con la
stoltezza dove era odiosa la virtù e di aver finto contro la violenza
dietro l'esempio di David, annunziando grandi rivelazioni avute e le
grazie de' miracoli per beneficio della Chiesa, supplicò che fosse
ascoltato _de jure_ e che l'aiutassero a farlo chiamare a Roma anche
condizionatamente; aggiunse l'elenco delle promesse fatte ad utile del
Re e della Chiesa, come pure l'elenco dei libri fin allora composti per
dimostrare che egli era in grado di mantenere le sue promesse[466]. È
superfluo dire che non ottenne nulla; probabilmente non ebbe nemmeno
una risposta da qualcuno de' Porporati suddetti.
Ma ne' primi mesi del 1607 nuove e più forti speranze si destarono
nel Campanella, avendo già potuto acquistare la conoscenza di Gaspare
Scioppio oltre quella di Giovanni Fabre, spinti da' Fuggers in
aiuto suo. Qui alle notizie dell'Epistolario che diremo napoletano,
pubblicato in parte dal Centofanti e in più gran parte da noi, son
venute or ora ad unirsi le notizie dell'Epistolario romano del Fabre
dateci dal Berti, ma è a deplorarsi che la massa dei documenti di
quest'ultimo Epistolario giaccia pur sempre inedita, sicchè nemmeno si
è in grado di parlare del periodo in quistione con tutta l'esattezza
che si richiede[467]. Cristoforo Pflugh, che aveva eccitato in favore
del Campanella i Fuggers e tra essi principalmente Giorgio, eccitò pure
lo Scioppio, avendo con ogni probabilità già prima impegnato il Fabre.
La lettera autografa del Campanella allo Pflugh, da noi pubblicata,
ci mostra fuori contestazione che lo Scioppio venne eccitato da
Cristoforo: e possiamo ben dire che le relazioni tra il Campanella e
lo Scioppio cominciarono non prima del 1607. Per certo il brano di
lettera del Campanella allo Scioppio, posto dal Centofanti innanzi
tutte le lettere Campanelliane da lui pubblicate, perfino innanzi a
quella del 13 agosto 1606, fu così posto arbitrariamente, e non può
servire a dimostrare una relazione tra' due personaggi anteriore
al 1607: parlandosi, in quel brano, dell'impresa di convertire due
Principi non che di allettare i savii di Germania mercè le nuove
dottrine, risulta abbastanza chiaro che debba riferirsi al 1607, al
tempo in cui lo Scioppio era destinato a partire per la Germania
in missione presso la Dieta di Ratisbona[468]. Gaspare Scioppio
di Neumark, giovane grammatico eruditissimo, se ne stava da 8 o 9
anni in Roma, dove aveva abiurato il Protestantismo, e spiegando
un fervore rabbioso contro gli antichi correligionarii, scrivendo
successivamente panegirici al Papa e al Re di Spagna, Commentarii
sulla verità Cattolica, sull'Anticristo, sul primato del Papa ed anche
su' Priapei, era venuto in fama e al tempo stesso in molto favore
presso la Curia Romana, tanto che dovendosi mandare qualcuno invece
di un Nunzio alla Dieta di Ratisbona, Paolo V decise mandarvi lui con
la veste di Consigliere di casa d'Austria; e possiamo affermare che
già nel febbraio 1607 era Consigliere Austriaco, poichè con questo
titolo lo troviamo nominato appunto nella Disputa del Fabre «De Nardo
et Epithimo adversus Scaligerum, Rom. 1607» a lui diretta in data
del 1^o febbraio di tale anno. Quanto a Giovanni Fabre di Bamberga,
domiciliato in Roma dal 1600, egli era medico dell'Ospedale di S.
Spirito, lettore di Anatomia alla Sapienza, inoltre Prefetto dell'Orto
Vaticano onde s'intitolava Semplicista di N. S.^{re}; è noto poi che
venne più tardi ascritto alla famosa Accademia dei Lincei insieme col
Persio (1611), e divenutone Cancelliere (1614) ebbe a scrivere le
«Praescriptiones Lynceae» etc. etc. Lo scopo di Giorgio Fugger nel
proteggere tanto vivamente il Campanella, era sopratutto quello di
adoperarlo a' servigi del Cattolicismo in Germania, giudicandolo per la
sua dottrina, eloquenza ed attività, il più capace di combattere con
successo i Protestanti. Si sa che nelle feroci dissensioni religiose
di Germania i Fuggers erano tra' Cattolici più caldi, e che un Ottone
Enrico Fugger, giovinetto al tempo del quale trattiamo, distintosi poi
in molte fazioni militari sotto le bandiere di Spagna, fu quello che
in ultima analisi prese Augusta, vi depose il Senato Luterano e ve ne
istituì uno Cattolico. Non fa quindi meraviglia l'ardore di Giorgio
per liberare il Campanella, non conosciuto da lui come colpevole di
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