Fra Tommaso Campanella, Vol. 2 - 24

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avuta comodità di dormire dopo di aver risposto alle interrogazioni, ed
egli non parlò più, e talora si lamentò dicendo, oh mamma mia. Erano le
11 del mattino (ora 15^a); i Giudici aveano profittato di quella seduta
per esaminare fra Dionisio sulle lettere che avea presentate; gli
ordinarono quindi di parlare al Campanella che stava nel tormento, e
di persuaderlo a rispondere formalmente, ad evitare i tormenti che per
lui erano affatto inutili, avvertendolo che il S.^{to} Officio avrebbe
procurato di ottenere da lui le risposte in tutti i modi! Fra Dionisio,
come si notò nell'Atto, «adempì l'incarico con bastante diligenza
e carità», discusse, disputò, e il Campanella gli disse che voleva
rispondere alle interrogazioni. I Giudici allora concessero che fosse
deposto dal tormento, oltrechè venisse ristorato con cibo e bevanda;
intanto gli accordarono che andasse a soddisfare certe sue necessità,
lasciandolo accompagnare da fra Dionisio, e in ciò scorse più di un'ora
di tempo (così fra Dionisio ebbe tutto l'agio di consigliarlo, ma si
può supporre in qual senso). Fecero di poi sedere il Campanella presso
il loro tavolo, l'eccitarono a rispondere e gli dimandarono perchè si
trovasse carcerato nel Castello; il Campanella rispose, che volete da
me? Avendone solo parole, lo fecero riporre nel tormento (4^a volta),
e il Campanella vi rimase taciturno, insensibile, appena dicendo di
tempo in tempo, moro, moro. E quando videro che vi stava senza dire
la menoma parola, senza muoversi, senza dar segno di dolore, finirono
per ordinare che lo deponessero, gli accomodassero le braccia, lo
vestissero e riportassero alla sua carcere, dopo di essere stato nel
tormento per circa 36 ore.
La prova data dal Campanella fu certamente grande, tanto più grande
perchè nel tormento del polledro non gli era riuscito di mostrarsi
forte. Quattro volte successive, con brevi intervalli, era stato posto
allo strazio e vi avea resistito un giorno e mezzo: i suoi amici ne
rimasero ammirati, e vedremo segnatamente fra Pietro di Stilo farne gli
elogi più entusiastici. Cosa ne avessero concluso i Giudici, si può
rilevarlo dal Carteggio dell'Agente di Toscana. Era morto allora il
Battaglino fin dalla notte di Natale dell'anno precedente, ed eragli
successo Alessandro Turaminis senese, venuto nel 1592 ad insegnare con
forte stipendio il «Jus civile della sera» nello studio pubblico di
Napoli, rimanendo anche avvocato di S. Altezza il Gran Duca per gli
affari di Capestrano e in buone relazioni col Nunzio: il Turaminis fin
dal 2^o giorno del tormento, essendone l'esito tuttora ignoto, avea
scritto a Firenze che il Campanella veniva provato «nella sveglia ad
istanza del S.^{to} Officio» sul fatto della pazzia; e il 12 giugno
scrisse, che avea lasciato «dopo hore 37 di risveglia confuso ognuno,
et in dubio più che mai se fosse savio o matto»[253]. Rimase dunque
scossa l'opinione che la pazzia fosse simulata, se dobbiamo credere
al Turaminis, che potè veramente saperlo dal Nunzio; ma vedremo tra
poco che ad ogni modo si ebbe presto motivo di non recedere da quella
opinione, ed intanto conviene fermarci un poco sulle lesioni riportate
dall'infelice filosofo in questo che fu l'ultimo de' suoi tormenti.
Ciò che abbiamo visto da lui scritto su tale proposito nella sua
Narrazione trovasi già riferito anche in più Lettere ed in qualcuna
delle sue opere, col ricordo che era stato «sette volte tormentato»; e
per l'ultimo tormento trovasi detto, più o meno, che avea perduta «una
libbra di carne nelle parti deretane e diece libbre di sangue», che
«era uscito sano dalla fossa (int. dalla sua tristissima condizione)
dopo sei mesi», che avea «riacquistata la sanità per la diligenza
dell'ottimo uomo, il chirurgo Scamardelli»[254]. Senza dubbio in tutto
ciò deve riconoscersi qualche esagerazione ed anche una inesattezza
tipografica. Per intendere che il Campanella sia stato sette volte
tormentato, bisogna computare ciascuna delle quattro riposizioni nel
tormento verificatesi durante la veglia, e perciò noi abbiamo procurato
di notarle: il conto torna solo col sommare le quattro riposizioni
nella veglia, la corda semplice avuta a tempo del Vescovo di Termoli,
e le due riposizioni nel polledro avuto per la congiura; nè sarà
inutile ripetere ancora una volta che tutti questi tormenti furono
dati sempre da Giudici deputati dal Papa, dietro ordine o consenso
espresso del Papa, sicchè non riesce giusto attribuirli agl'inumani
spagnuoli, pur riconoscendo che questi avrebbero fatto molto peggio
se avessero potuto. Non è dubbio poi che la veglia abbia prodotto una
ferita lacero-contusa con mortificazione ed emorragie consecutive,
sebbene le valutazioni della carne e del sangue perduto appariscano
fatte con molta larghezza: di certo vedremo risultare dal processo, che
due mesi e mezzo dopo il tormento il Campanella trovavasi pur sempre
a letto, assistito da suo padre e suo fratello ancora prigioni. Chi
era intanto l'ottimo uomo, il chirurgo Scamardelli che gli prestò le
sue cure? Ognuno comprenderà facilmente quale interesse egli ci abbia
destato, ma nessuno potrà mai immaginare quanti sforzi ci abbia costato
il conoscerlo, sino a che non ci venne l'idea di consultare i libri
parrocchiali della Chiesa del Castello nuovo. Sapevamo che in ogni
Castello si tenevano a que' tempi, con misero stipendio, un medico ed
un chirurgo, e pel Castello di S. Elmo ci era riuscito di trovare che
funzionava allora da medico-chirurgo un Bonifazio del Castillo con
cui senza dubbio il Campanella dovè aver che fare quando più tardi
fu trasportato a S. Elmo, ma pel Castello nuovo le scritture di più
Archivii non ci aveano rivelato che il medico Gio. Geronimo Orabona
fino all'anno 1591[255]: d'altronde nel processo attuale trovavamo,
per altre cure delle quali si parlerà in sèguito, nominato il chirurgo
Scipione, e da un pezzo ci eravamo accorti che in tutte le opere del
Campanella, non impresse sotto gli occhi suoi, le storpiature di nomi
sono abbastanza frequenti. I libri parrocchiali del Castello nuovo
ci hanno appunto mostrato che il chirurgo era Scipione Camardella (o
Cammardella), appartenente ad una famiglia da molti anni dimorante in
quella fortezza e stretta in parentela con molte persone ivi impiegate:
onore a lui, che seppe ricondurre a sanità il povero filosofo, e
meritarne la stima e la riconoscenza[256].
Come abbiamo accennato, il 5 giugno, 2^o giorno del tormento del
Campanella, i Giudici vollero profittare del trovarsi riuniti, per
esaminare fra Dionisio intorno alle lettere che avea presentate.
Trattavasi di sapere se appartenesse veramente a lui la lettera o
memoriale diretto a' Giudici, se appartenesse al Petrolo la lettera
inviata con quel memoriale ed in che modo esso fra Dionisio l'avesse
ricevuta. Fra Dionisio accertò quanto si volea sapere, dicendo di aver
ricevuta la lettera del Petrolo già da otto o nove giorni per mezzo
di Felice Gagliardo carcerato per la congiura, il quale glie l'avea
data passandola per la fessura superiore della porta del carcere,
in cui si trovava egli solo e sempre chiuso. E i Giudici non se ne
brigarono ulteriormente, nè chiamarono a nuovo esame il Petrolo come
costui dimandava.--Si fecero invece, nella stessa seduta, ad esaminare
fra Pietro di Stilo intorno alla sua lettera ed alle scritture,
del Campanella con essa inviate, cioè le Difese con gli Articoli
profetali[257]. Fra Pietro, sempre dietro dimande, disse che fin
dall'anno scorso, nel principio di quaresima, il Campanella gli avea
mandate certe carte scritte per mezzo di un figliuolo che serviva nelle
carceri ed egli non sapeva dire chi fosse; costui glie le passò per
la fessura inferiore della porta a nome del Campanella, dicendogli
per ambasciata che le facesse copiare e le tenesse a sua richiesta,
perchè erano carte che gl'importavano. Ed egli, nella settimana santa,
fece copiare il 1^o fascicolo da fra Pietro Ponzio venuto allora a
stare nel suo carcere, e diede l'altro ad un compatriotta, Vincenzo
Ubaldini di Stilo, il quale dimorava in Napoli con un suo fratello,
presso un Signore che non sapea dire chi fosse e che avea udito essere
andato alla guerra, e il detto Ubaldini l'avea fatto copiare da un
copista[258]. Aggiunse che gli originali non c'erano più, perchè il
copista non volle restituire quello a lui consegnato, dicendo che era
cosa curiosa, e l'altro, consegnato a fra Pietro Ponzio perchè lo
copiasse, fu dato al Pizzoni insieme con la copia, e costui non volle
restituir nulla dicendo che erano cose sospette; quando poi trovò
quelle scritture, nel cercare un foglio di carta sotto il materasso del
letto in cui era morto il Pizzoni, trovò pure l'originale predetto,
ma fatto a pezzi e ridotto in altro uso, e c'erano stati presenti il
Bitonto, fra Paolo ed anche il Petrolo ammalato. Aggiunse che aveva
bensì lette quelle scritture, ma senza capir nulla dei profetali, e
facendosi spiegare da fra Pietro Ponzio qualche cosa del fascicolo che
egli copiava: inoltre che il martedì o un altro giorno della settimana
santa, il Campanella «che non si era ancora publicato pazzo» mandò a
chiedergli le copie fatte e se le tenne dalla mattina alla sera e poi
glie le rimandò; ed allora vi appose certe note, che riconobbe essere
di mano del Campanella ma scritte con carattere più piccolo del solito.
Aggiunse infine che non avea mostrato ad alcun altro quelle scritture,
nè sapeva che alcun altro le avesse viste all'infuori de' già nominati,
e che non le avea presentate prima perchè non le avea potuto aver
prima.--È superfluo dire che molte circostanze di tale racconto erano
mentite: lasciamo da parte il non conoscere il figliuolo che a nome
del Campanella avea portato gli originali delle scritture (forse
Aquilio Marrapodi) e il copista laico che avea trascritto una di esse;
lasciamo da parte che quelle scritture erano state sempre nelle mani
del Pizzoni, e poi ancora rimaste ignorate sotto il materasso fino a
circa tre mesi dopo la morte di lui; ci limitiamo a dire esserci noto
con bastante certezza, che il Campanella attendeva a comporre quelle
scritture anche quando si era già mostrato pazzo, che di tempo in tempo
mandava qualche pagina scritta a fra Pietro di Stilo, e che i frati
vi annettevano anch'essi molta importanza, sperandone forse un grande
effetto pel buon esito de' loro processi. Abbiamo a tempo opportuno
esposto con larghezza la materia di tali scritture, che rappresentavano
le Difese del Campanella nella causa della congiura: potrebbe sembrare
che il Nunzio, uno de' Giudici in detta causa, avesse dovuto sentir
l'obbligo di trasmetterle al tribunale proprio; ma per Verità quella
causa era finita pel Campanella, e non rimaneva a' Giudici che
mettersi d'accordo sulla sentenza da doversi pronunziare. Un Giudice
coscienzioso non avrebbe certamente mancato di occuparsene ad ogni
modo, ma tale non era il Nunzio, su cui, ben più che sul Sances, il
Campanella avrebbe fatto senza dubbio cadere i suoi risentimenti, se
non si fosse trovato nella necessità di parlarne il meno possibile; non
farà quindi meraviglia che quelle Difese fossero rimaste inserte nel
processo dell'eresia, utili solamente a noi, che abbiamo così potuto
avere la comodità di esaminarle. Ma perchè furono esse presentate al
tribunale dell'eresia? Evidentemente, nel presentarle, fra Pietro
di Stilo non potè aver altro scopo, che quello di fare un tentativo
disperato per allontanare almeno temporaneamente l'amministrazione
della veglia, senza punto sospettare ch'esse avrebbero potuto andare
perdute. E il tentativo non riuscì, ed anche la perdita non influì in
alcun modo sull'esito della causa della congiura.
Dopo il tormento della veglia si ebbero le relazioni de' medici periti;
il 7 giugno fu scritta quella del magnifico Pietro Vecchione, il 15
quella del magnifico Giulio Jasolino. Costoro appartenevano alla più
elevata categoria de' medici allora in voga, e non sarà inutile darne
qualche notizia, onde riuscirà manifesto che le ricerche sulla pazzia
del Campanella, se vennero condotte con precipitazione, almeno in
quanto alle persone de' periti vennero prese certamente sul serio.
Pietro Vecchione da Nola, col suo esercizio d'insegnante privato,
secondo il costume napoletano, aveasi acquistato tanta riputazione,
che giovane ancora, di circa 33 anni, sulla proposta del Cappellano
maggiore era stato dal Conte di Lemos il 15 ottobre 1599 nominato
lettore della «theorica della medicina ordinaria», cattedra fra le più
stimate, alla quale sovente si chiamavano anche i non napoletani, e già
occupata da Filippo Ingrassia (insieme con la pratica) dal 1547 al
1553, da Giovanni Argenterio nel 1556, dal Covillas nel 1560, da Gio.
Geronimo di Cotrone da Nola (o viceversa) nel 1565, da Salvio Sclano
nel 1570, da Innocenzio Canti nel 1577, da Quinzio Buongiovanni nel
1579, da Latino Tancredi in qualità di straordinario nel 1589, tutta
una serie di uomini stimati altamente. Esercitava poi la pratica con
immenso successo, ma del resto era uno de' molti, anzi troppi, che
non avevano scritto mai nulla, facendo parte di quella beata falange
degli uomini illustri _inediti_, specialità non napoletana soltanto ma
italiana, ancor oggi niente affatto estinta, e prova sciagurata che
la sua è la via meno disputabile per ottenere la pubblica stima, le
alte cariche, i primi onori: il Vecchione infatti ebbe frequentemente
accresciuto il suo stipendio, nel 7 giugno 1612 passò alla lettura di
pratica, succedendo al Buongiovanni, morì Protomedico nell'aprile 1619.
Quanto a Giulio Jasolino, Jazzolino o Azzolino, calabrese[259], già
distinto allievo dell'Ingrassia, era un vecchio cultore di anatomia
e chirurgia assai accreditato, e basta dire che fu maestro di Marco
Aurelio Severino: non ebbe lettura pubblica essendo allora la cattedra
di chirurgia ed anatomia occupata da Giuseppe Perrotta di Fratta, che
fu il primo a riunire insieme nel pubblico studio in un modo definitivo
queste due branche d'insegnamento; ma scrisse alcuni opuscoli, tuttora
pregiati da que' pochissimi che si occupano di cose patrie, ed anche
illustrò le acque termominerali d'Ischia. Avea già circa 60 anni al
tempo di cui trattiamo, e stando in Ischia dettò la sua relazione
sul Campanella; morì vecchissimo nel 1633, e fu sepolto nella Chiesa
di S.^{ta} Chiara.--Ecco ora ciò che essi riferivano intorno al
Campanella[260]. Pietro Vecchione scrisse, che invitato a visitare
più volte fra Tommaso per riconoscere se fosse davvero desipiente e
melanconico o simulasse tale malattia, per quanto avea potuto esplorare
con la mente, con la conversazione e coll'opera, avea ben rilevato
che egli aberrava nell'immaginativa, nel discorso e nella memoria;
ma poichè non avea visto alcuno de' sintomi che sogliono trovarsi
negl'infermi di tale malattia e v'erano grandi cause per simulare, era
venuto nel dubbio che quella pazzia fosse simulata. Aggiunse che ad
esplorarla con maggiore certezza occorreva lungo tempo e gran diligenza
degli astanti, ciò che non si era potuto eseguire nelle carceri in cui
esso Campanella si trovava, ond'egli non poteva affermare nulla di
certo; ma conchiuse, «per quanto mi è dato scorgere congetturalmente,
giudico che colui simuli la malattia». D'altra parte Giulio Jasolino,
con un lungo scritto, venne nella medesima conclusione, ricingendosi
di alquanto maggiori riserve, ed appoggiandosi ad un nugolo di
citazioni d'Ippocrate e di Galeno. Ciò che fa riuscire notevole per
noi questa sua relazione si è qualche notizia che vi si rileva intorno
al modo tenuto nell'osservare il povero Campanella, e qualche motivo
di congettura che vi si adduce intorno alla persona del filosofo. Il
Jasolino osservò fra Tommaso e gli parlò, a quanto pare, una sola
volta, ma certamente in presenza del Nunzio, del Vescovo di Caserta e
del Vicario napoletano: ne ebbe risposte non a proposito, e lo vide
«melancolico» nell'abito del corpo e nel colore; ma dichiarò non
potersi giovare di quest'ultimo fatto, non avendo prima conosciuto il
Campanella e non sapendo se tale temperamento fosse il suo naturale
ovvero «acquistato per il lungo patimento delle carcere et per il
gran timore et mestitia» (non si parla di altre specie di sofferenze,
e questo mostra che la visita precedè la veglia). Invece notò che
«essendo costui persona malitiosa, come si dice, vafer, callidus, et
astutus, se hà da dubitare che la sua pazzia sia simulata»: ma aggiunse
che intorno a ciò non intendeva affermare nulla di certo, e dichiarò
che una lunga osservazione poteva farsi da' custodi, e questa avrebbe
voluto, conchiudendo «che cossi si potrà chiarire della verità della
fitta, che io stimo ò pure vera pazzia». Adunque, tra il sì e il no,
il Jasolino stava egli pure per la pazzia simulata, e il giudizio de'
periti in questo senso riusciva uniforme.
Più tardi, il 20 luglio, un'altra circostanza venne a provare a'
Giudici che la pazzia doveva essere simulata[261]. L'aguzzino che aveva
dato il tormento della veglia al Campanella e l'aveva anche riportato
nelle carceri, un Jacovo Ferraro di Trani, fu esaminato dal Vescovo
di Caserta ed interrogato sopra le «parole che si lasciò dire fra
Thomaso Campanella dopò che fu sceso dal tormento». Ed egli rispose:
«essendo io intervenuto come ministro dela gran Corte dela Vicaria à
dare lo tormento dela veglia à frà thomaso Campanella predetto, dove io
intervenni continuamente, havendomelo posto in collo per consegnarlo
allo carceriero delle carceri di detto Castello novo, et cacciatolo
cossì in collo dala camera dove hebbe lo tormento fino alla Sala
reale, detto fra thomaso Campanella mi disse da sè le formate ò simili
parole, che si pensavano che io era co...... (_int._ sciocco) che
voleva parlare? et à queste parole non ci fu nessuna persona presente».
A voler giudicare la cosa secondo quel che sappiamo della natura
del Campanella, bisognerebbe senz'altro ritenerlo del tutto vera;
ma l'essersi verificata dopo un tormento di 36 ore, in quello stato
descrittoci dall'Atto che ne fu raccolto, riesce sorprendente in modo,
da potersi perfino accogliere l'opinione di chi dicesse procurata dal
Sances l'assertiva dell'aguzzino; intanto, deposta sotto giuramento
da una persona disinteressata, essa aveva ad ogni modo un valore
incontrastabile.
Ma non ostante siffatte prove ed indizii, la giurisprudenza del tempo
accordava al tormento una forza tale, da annullare tutte le altre prove
e «purgare gl'indizii»; e giacchè il tormento era stato gagliardo e non
ordinario, tanto più l'inquisito veniva a giovarsi dell'esito avuto,
secondo le dottrine de' criminalisti più in voga. Così il Campanella
dovea giuridicamente ritenersi pazzo, quantunque tutti fossero persuasi
che egli simulasse la pazzia. E la conseguenza nel tribunale di S.^{to}
Officio non era indifferente: come «relapso» egli anche pentito
avrebbe dovuto essere degradato e consegnato alla Curia secolare, che
l'avrebbe fatto morire; essendo pazzo, non poteva più patire condanna,
e laddove fosse stato già condannato dovevagli essere risparmiata la
pena di morte, sul riflesso che avrebbe potuto un giorno rinsavire e
pentirsi[262]. Non occorre dire quanto siffatto principio sia degno di
nota, per valutare giustamente la risoluzione che da Roma venne presa
più tardi intorno al Campanella.
Le copie di tutti questi Atti processuali erano inviate mano mano
a Roma, secondochè mostrano le note di tempo in tempo inserte nel
processo dal Notaro Prezioso: ma dopo tanto movimento si ebbe una
lunga fermata, sicuramente perchè i forti calori della stagione estiva
solevano tenere lontano da Napoli il Vescovo di Caserta, e poi più
tardi perchè la malattia la quale afflisse il Vicerè, e finì per trarlo
alla tomba, fece mancare un assiduo ed istancabile sollecitatore della
causa. Appena un solo altro Atto fu compiuto nel resto dell'anno, e con
molta fiacchezza, per un novello incidente sorto in questo tempo.
Il 2 agosto avveniva tra frati e laici carcerati una rissa, della
quale non si potrebbero in modo assoluto affermare le particolarità
precise, poichè fu seguita da fatti ne' quali dovè intervenire il
tribunale, e naturalmente ogni inquisito si fece a narrare le cose a
modo suo: ne diremo quanto si potè raccogliere intorno ad essa dalle
migliori testimonianze non soltanto degl'inquisiti ma anche degli
ufficiali del Castello. Quello spirito irrequieto di Felice Gagliardo
era stato dapprima in compagnia di Orazio S.^{ta} Croce nel Castello
dell'ovo per 17 mesi, ed ivi, oltre al mantenere corrispondenza co'
banditi delle vicinanze di Reggio, che stavano in relazioni col
padrigno suo Pietro Veronese, oltre al comporre prose e versi, un po'
per bizzarria un po' per bisogno si diede a coltivare la negromanzia:
il Castellano D. Melchiorre Mexia de Figueroa, che già l'avea fatto
rinchiudere in un criminale, avvertito da' carcerati, e tra questi
anche da Jacobo Moretto, che presso di lui si trovavano molte carte di
negromanzia e già molte altre dello stesso genere ne avea lacerate,
fece egli medesimo una ricerca e prese tutte le carte che trovò, delle
quali alcune trasmise a D. Giovanni Sances, altre tenne presso di
sè, altre lasciò prendere da Scipione Moccia Auditore del Castello.
Tradotto poi nel Castel nuovo, il Gagliardo venne posto in una medesima
camera con Orazio S.^{ta} Croce, con fra Paolo della Grotteria, fra
Giuseppe Bitonto e Giuseppe Grillo, di poi insieme col S.^{ta} Croce
passò a stare col Soldaniero, più tardi fu di nuovo allogato nella
camera in cui si trovavano fra Paolo e il Bitonto, e con essi il
Petrolo e fra Pietro Ponzio: naturalmente egli si strinse subito in
amicizia con fra Paolo, che sappiamo amatore di segreti e sortilegi, e
col Bitonto, che già conosceva e che si mostrò egualmente proclive a
questo genere di cose; un altro carcerato Cesare d'Azzia napoletano,
li aiutò grandemente ne' loro studî, prestando una copia manoscritta
della così detta Clavicola di Salomone, ancor oggi tenuta in onore
dagl'imbecilli che si occupano di divinazioni segnatamente pel giuoco
del lotto, inoltre un libro manoscritto di segreti, ricette, scongiuri
ed artifizii magici[263]. Il Gagliardo e il Bitonto si diedero subito
a trarre una copia di tali scritture, e s'intesero tra loro al punto,
che o per amicizia o piuttosto dietro qualche piccolo compenso, facile
ad assumere ogni maniera di responsabilità quasi bravando i rigori del
tribunale, il Gagliardo rilasciò al Bitonto una dichiarazione scritta
in presenza del Curato del Castello ed altri testimoni; con questa
affermava non esser vero quanto in processo leggevasi deposto da lui
contro il Bitonto, cioè che costui gli avea detto di stare in ordine
perchè presto vedrebbe succeder guerre, ma esservi stato falsamente
inserto da quelli che formarono il processo. Tali scritture, con altre
ancora, si conservavano in una cassa appartenente al Bitonto, e questa
cassa, non molto tempo prima dell'avvenimento che dobbiamo narrare,
fu portata dal Bitonto nella camera di fra Dionisio, ritenutane la
chiave in poter suo, pel motivo o pel pretesto che nella camera in
cui stava erasi verificato qualche furto. Ora appunto il 2 agosto fra
Pietro Ponzio disse al carceriere che facesse uscire il Gagliardo
dalla camera dove trovavasi in compagnia di loro frati, e gli suggerì
di allogarlo in un'altra camera in cui si trovava Camillo Adimari col
Marrapodi, Conia, Soldaniero e S.^{ta} Croce. L'Adimari uscito fuori
sulla loggetta del corridoio, se ne risentì, perchè già stavano troppi
letti in quella camera, e venne alle mani con fra Pietro il quale gli
diede uno schiaffo. Accorsero allora i laici da una parte e i frati
dall'altra, gli uni in difesa dell'Adimari e gli altri in difesa di fra
Pietro: segnatamente il Soldaniero, il S.^{ta} Croce e il Gagliardo, si
azzuffarono col Petrolo, col Bitonto ed inoltre con fra Dionisio uscito
dalla sua camera per quel rumore, avendo i frati «sarcene alle mani e
seggiolelle di paglia» (fascetti di legna da ardere e sedie comuni), e
servendosi i laici de' loro cinturoni di cuoio come allora si usavano.
I soldati del Castello e il carceriere intervennero e separarono i
contendenti, cacciandoli nelle rispettive camere; ma fra Dionisio fu
trovato ferito alla fronte, e dapprima disse che l'aveano ferito il
S.^{ta} Croce e il Gagliardo, poi, venuto nel Castello l'inframmettente
Padre Mendozza, disse a costui che l'avea ferito il Soldaniero.
Nella sera dello stesso giorno, da un lato il Soldaniero si presentò
al luogotenente del Castello D. Cristofaro de Moya, d'altro lato il
S.^{ta} Croce e nientemeno anche il Gagliardo si presentarono al
sergente Francesco Alarcon, dicendo che per servizio di Dio e di S.
M.^{tà} facessero fare una ricerca nella camera di fra Dionisio,
rovistando tutta la camera ed una cassa che là si trovava, perchè
sarebbero venute fuori «scritture e carte triste e prohibite»; e
quegli ufficiali, insieme con due soldati e col carceriere Martines,
si portarono a fare la ricerca non solo nella camera di fra Dionisio,
facendolo stare presente, ma anche nella camera degli altri frati e in
quella del Campanella. Presso fra Dionisio fu trovata qualche lettera
e segnatamente una lettera di un Sertorio del Buono da Fiumefreddo a
lui diretta; fu trovata inoltre la cassa di pioppo bianco ma senza la
chiave, e fattala trasportare alla camera del Castellano ed avuta la
chiave dal Bitonto, ne furono estratte le «carte di fattocchiarie»,
la dichiarazione rilasciata dal Gagliardo in favore del Bitonto ed
anche le scritture concernenti la persona di fra Dionisio nella
causa di eresia, vale a dire gli articoli del fiscale contro di
lui, gli articoli suoi in sua difesa, e dippiù una «Consideratione
dell'essamina et lettura del processo de pretensa rebellione». Presso
fra Pietro Ponzio fu trovato «dentro uno marzapane grande tondo»
(canestro tondo di vimini fornito di coverchio) un libretto di Poesie
rivestito di pergamena, «con zagarelle di seta pavonazze e rangiate»
per fermagli; erano le poesie del Campanella che fra Pietro si occupava
di raccogliere e divulgare. Presso gli altri frati la ricerca riuscì
infruttuosa, ed unicamente sotto il capezzale del letto del Gagliardo,
che stava con loro, furono trovate scritture di magia con circoli e
segni; ma più si sarebbe trovato se la ricerca fosse stata condotta con
maggior diligenza, e difatti più tardi ne vennero fuora altre carte di
sortilegi. Infine presso il Campanella fu trovata qualche altra cosa,
e ne lasciamo il racconto al sergente Alarcon che così si espresse
quando fu poi esaminato più tardi su tale incidente: «Andassemo ancora
à cercare la camera di frà Thomaso Campanella, et non vi trovai altro
eccetto che una lettera serrata, non mi ricordo à chi era diretta, et
perche lui stava malato in letto, ce stava un suo fratello dentro la
camera, non mi ricordo il nome, et il patre stava fuori la camera,
et mentre si faceva la cerca, se accorse lo tenente che il fratello
di Campanella era stato alla cancella, et entrò suspetto che non
havesse buttato alcuna cosa dala fenestra, et quando fummo à basso
al reveglino trà le due porte del Castello, trovassemo una scrittura
di diece ò dodici fogli in circa scritti, quali anco io pigliai è
portai al Sig.^r Castellano»[264]. Vedremo più tardi cosa fosse
questo scritto del Campanella: diremo intanto che il Castellano D.
Alonso de Mendozza, viste le carte, il giorno dopo ordinò che fossero
rinchiusi nel torrione del Castello, in due criminali separati, fra
Pietro Ponzio primo motore della rissa e fra Dionisio ritenuto autore
delle carte proibite; ordinò inoltre che tutte le carte trovate nella
ricerca fatta fossero portate al Vicerè dallo stesso luogotenente De
Moya. Con ogni probabilità allora appunto, nell'essere fra Dionisio
preso e tradotto al torrione, vennero trovate ancora nella camera di
costui quattro lettere di fra Pietro di Stilo, in data del 3 agosto,
scritte pochi momenti prima da fra Pietro a persone amiche e parenti
di Gio. Gregorio Prestinace. Ecco ora quanto accadde delle carte
portate al Vicerè, secondochè narrò il De Moya quando fu poi chiamato
a deporre: «Le fici portare... à sua Eccellenza del vicerè di questo
Regno, che stava alhora à chiaya alle case è giardino di Don Pietro
di toledo, et io proprio in nome di detto Sig.^r Alonso castellano le
consegnai al vicerè alla presentia di Don Pietro Castelletta Regente
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