Fra Tommaso Campanella, Vol. 2 - 11

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perocchè non avrebbe fatta la republica se non si fosse avverata
la mutazione; secondochè provasi dalla confessione sua»; e come i
Veneti non furono ribelli, quando per mettersi al sicuro da' barbari
occuparono gli scogli e il mare Adriatico e fecero la repubblica, così
essi pure non lo sarebbero stati nell'occupare i monti se la mutazione
si fosse avverata.
Continuando, passa a ribattere le testimonianze raccolte contro
di lui. I testimoni aveano deposto «che egli voleva ribellarsi
appoggiato agli aiuti de' turchi, de' banditi e de' predicatori»: ma
non lo convincevano intorno a ciò, sia perchè egli non poteva ambire
l'impossibile ed era amico degli spagnuoli, come avea già provato, sia
perchè que' testimoni o parlavano per detto altrui, o erano complici ed
uomini scelleratissimi, ed anche aveano fatte confessioni estorte per
forza e per inimicizie. Tutti aveano detto che egli metteva innanzi le
mutazioni, laonde non vi era intenzione di ribellarsi ma di difendersi
da' nemici del Re e del Papa; quanto essi aveano aggiunto proveniva o
da cattiva intelligenza, o da inimicizia, o da malvagità, e nelle cose
aggiunte a lui sfavorevoli erano «varii», e nella cosa principale a
lui favorevole, cioè la profezia, erano uniformi, onde risultavano a
discarico più che a carico. D'altronde la profezia di una mutazione
è sempre apparsa così vicina alla ribellione medesima, che tutti i
Profeti, come Michea, Geremia, Amos e del pari gli Apostoli e Cristo
Signor nostro, furono incolpati di tale delitto; qual meraviglia che
lo sia stato lui poveretto? Ma egli non si appoggiò mai all'aiuto
de' turchi; nessuno lo disse se non per detto altrui, e lo stesso
Maurizio che parlò co' turchi non disse che vi era stato mandato da
fra Tommaso, ma che vi era andato spontaneamente; e ciò quantunque
gli fosse nemico. Gli era nemico, perchè dubitò che esso fra Tommaso,
il quale lo rimproverò pel salvacondotto stabilito co' turchi, lo
rivelasse; inoltre perchè esso fra Tommaso, mediante una domestica,
avvertì Giulio Contestabile che Maurizio si era nascosto nella piazza
di Stilo per ucciderlo, e questo non succedendogli, nello stesso giorno
Maurizio si portò a S. Maria di Titi per uccidere fra Tommaso e lo
perseguitò per 7 miglia. E però Maurizio risultava degno di fede quando
negava di essere stato mandato presso i turchi da lui, non già quando
deponeva contro di lui per inimicizia; poichè era testimone unico,
nemico, e facinoroso, che aveva ucciso più persone e volle vendicarsi
di ciò che esso fra Tommaso avea deposto in iscritto contro di lui in
Castelvetere, come rilevavasi dal processo. Allorchè esso fra Tommaso
lasciò Davoli e Maurizio, trovandosi insieme con fra Domenico, veduti
in mare i turchi li sfuggì, malgrado avesse visto il salvacondotto dato
da essi a Maurizio; e però non avea confidenza ne' turchi, sebbene
avesse detto doversi essi dividere sotto due Re secondo la profezia
di Arquato astrologo, ed uno di costoro dover venire alla fede ed
alla repubblica; ma Maurizio faceva queste cose perchè fosse temuto
ed avesse danaro dagli amici, servendosi male de' detti di esso fra
Tommaso, al pari degli scellerati ed eretici i quali abusano anche dei
detti degli Apostoli. E poi Maurizio ridotto agli estremi ebbe speranza
di salvarsi, deponendogli contro; giacchè glie lo persuase un certo
fiscale in abito di confratello, promettendogli la vita sotto la parola
Regia, come in sèguito udì dalla bocca di lui esso fra Tommaso, e vi
erano per testimoni sacerdoti e persone dabbene che l'affermavano. «Nè
esso fra Tommaso volle servirsi de' banditi come nemici del Re, ma
come uomini armati, volgendoli al bene: perocchè propose di servirsi
anche di uomini probi non banditi, come rilevasi dal processo. A'
Principi amici poi egli dichiara non aver rivelato nulla, non perchè
fosse cosa cattiva, ma perchè agli uomini felici ogni presagio di
mutazione rincresce». Quanto a Claudio Crispo, costui rivelò per
orribili tormenti non scritti in processo; ed era bandito, omicida e
nemico di esso fra Tommaso, il quale non avea voluto trattarne il
matrimonio ed avea detto al Pizzoni che avvertisse il Signore del luogo
che Claudio voleva ammazzarlo, onde si rifiutò di recarsi a Davoli
quando egli ve lo chiamò per mezzo del Petrolo; adunque non meritava
fede. Quanto al Caccia, al pari del Pisano, era stato esaminato in
foro non ecclesiastico, ed era bandito ed omicida, nemico egualmente
di esso fra Tommaso, il quale ricettò nella sua cella Marcantonio
Contestabile quando egli voleva ucciderlo per averne avuto un colpo di
archibugio; ed avea detto di aver parlato con fra Tommaso nel giugno,
mentre aveagli parlato nella settimana santa, e poi sul punto di morte
si era ritrattato. Quanto al Pisano e a Gio. Battista Vitale, oltrechè
erano scelleratissimi, non aveano mai parlato con fra Tommaso; e nel
carcere di Castelvetere non si parlò di quello che disse il Pisano,
come lo provavano la sconvenienza della cosa e le testimonianze del
Bitonto e di fra Dionisio; il Vitale poi sul punto di morte si era
ritrattato. Quanto al Pizzoni, esso era scandaloso, scellerato ed
infame (e qui nota ad una ad una tutte le colpe di lui minutissimamente
ed anche ingenerosamente, con un odio manifesto); avea promesso di
ritrattarsi nelle cartoline scritte entro il Breviario, e si era una
volta ritrattato, e poi era tornato alle prime dichiarazioni, onde
dovea dirsi bilingue, detestato da Dio nell'ecclesiastico, e qual fede
potea fare? Il Lauriana era falsario, come lo provavano le sue lettere
mandate a fra Dionisio ed a' fratelli Ponzii, e varie altre circostanze
rilevate nel processo; era infame, come lo provava la sua vita
anteriore; ed esso fra Tommaso nella sua confessione non lo nominò,
poichè essendo infame non aveagli mai parlato, ed anzi si rifiutò di
farlo accogliere nel convento di Stilo, onde gli divenne nemico. Fra
Domenico Petrolo poi nemmeno meritava fede, perchè si lasciò persuadere
dal Lauriana mentre era nella medesima fossa, nella quale scrisse
esservi stato posto perchè dicesse il falso; inoltre in Lombardia aveva
avuto penitenze come manesco.
Dopo di aver combattuto i testimoni, il Campanella combatte i primi
giudici, accenna all'imputazione di eresia, discute le quistioni di
dritto, e formola la sua conclusione. Fra Marco di Marcianise era
vecchio nemico di fra Dionisio per le controversie de' frati Riformati.
Fra Cornelio lombardo era egualmente nemico di fra Dionisio per molte
cause fratesche, e poi avea preso danaro; 100 ducati da Mesuraca per
fare un processo capitale, 50 ducati da' parenti di Cesare Pisano per
favorirlo, 100 ducati da fra Vincenzo Rodino e fra Alessandro di S.
Giorgio per liberarli dalla carcere. Lo Sciarava, giudice nell'altro
foro, era stato giudice e parte, avea magnificata la causa della
ribellione per magnificare sè medesimo presso il Re, trovavasi da due
anni scomunicato dal Vescovo di Mileto patrono di esso fra Tommaso;
avea preteso la ribellione essere fomentata da Prelati e da Principi,
ed aveva amministrati tali e tanti tormenti da far dire ad ognuno più
di quanto sapesse, mentre anche i calabresi, per natura loro, credono
di esonerarsi col dire più di quanto sanno non solo contro i nemici
ma anche contro gli amici. E poi soggiunge: «Non deve pregiudicare
ciò che falsi testimoni affermano, l'aver lui voluto fondare eresia,
poichè questo deve discutersi non già ritenersi in anticipazione, nè
egli ne fu mai confesso o convinto, benchè ne sia stato veementemente
sospetto; e la sospizione si è verificata anche in persona di Profeti
e di Santi, che trovansi condannati come eretici e seduttori. Nè in
Calabria è possibile fondare eresia senza le forze de' Principi,
siccome egli disputò nel libro della Monarchia, e se avesse avuta
questa intenzione sarebbe andato in Germania o a Costantinopoli. Così
mostransi riprensibili le parole sue mal comprese, non già la sua
vita e i suoi costumi, circa i quali egli chiede di essere inquisito
benchè si trovi diffamato. E i suoi travagli passati non lo rendono
cattivo, ma forse piuttosto timido, giacchè la cattiva azione fa l'uomo
cattivo.... Oramai si è fatto palese che i pensieri di fra Tommaso
erano rivolti all'unione de' Cristiani». Soggiunge ancora: le pruove
testimoniali dicono tutto al più aver lui voluto ribellare solamente di
seconda intenzione, cioè nel caso in cui fossero avvenute mutazioni.
Ma bisogna distinguere il reato commesso e il reato semplicemente
voluto, e quello contro la persona del Re e quello contro il Regno.
Chi l'abbia commesso merita la morte e non può darglisi di più; chi
l'abbia solamente voluto merita qualche cosa di meno; chi l'abbia
voluto di seconda intenzione merita anche meno di chi l'abbia voluto
di prima intenzione; e chi non è suddito merita meno del suddito, e il
frate meno del clerico secolare, poichè la Religione Domenicana dipende
immediatamente dal Papa; chi poi dice bene del Re merita anche meno.
Inoltre non ci fu mai un concerto, ma ci furono colloquii accidentali.
Così nella casa di Gio. Jacopo Sabinis esso fra Tommaso andò a far la
pace tra' Contestabili e Carnevali; erano presenti Maurizio e Gio.
Gregorio Prestinace suo compare venuti per la pacificazione, e cadde
il discorso sulle mutazioni, ma nessuno intervenne per la ribellione,
che nessuno di loro avea mai ideata. A Pizzoni esso fra Tommaso andò
sollecitato tre volte da fra Gio. Battista, e comunque vi fossero
altre persone, il colloquio si tenne solamente tra lui, fra Gio.
Battista e Claudio Crispo: non erano presenti fra Dionisio e gli altri,
e però non ci fu concerto; esso fra Tommaso parlò al Crispo dietro
istanza di fra Gio. Battista per trattenerlo nella difesa di lui, non
già per la ribellione, e andò pure a vedere una fabbrica di carta,
ed aveva compagni perchè la strada non era sicura. A Davoli neanche
vi fu concerto, poichè il Rania e Maurizio non furono presenti al
colloquio che esso fra Tommaso ebbe con Gio. Paolo di Cordova e Gio.
Tommaso di Franza, «onde riesce chiaro non esservi stato da parte di
fra Tommaso fermo consiglio, se fatalmente le mutazioni non avessero
fornita l'occasione». Egli non merita pena, avendo solo razionalmente
dubitato pe' segni o per le profezie; nè è responsabile dell'essere
molti morti per questa causa, poichè tutti erano omicidi, e Dio
permise che morissero per avere abusato de' detti di fra Tommaso e per
gli altri loro peccati. Anche le predicazioni degli Apostoli e de'
Profeti eccitarono molti rumori, ma la predicazione di fra Tommaso
fu a vantaggio della repubblica sì del Re che del Papa. I socii di
Catilina convinti e confessi di congiura per mettere a fuoco la patria
e distruggere il Senato, avendo giurato col bere sangue misto con
vino, perchè non giunsero a consumare la loro scelleraggine, trovarono
una parte di Senatori che con Cesare disse non doversi dare loro
la morte: e non troverà misericordia presso cristiani fra Tommaso,
che non commise scelleraggine, non si ricinse di armi, non mosse a
sedizione,... nè è suddito, nè Principe o potente da cui possa temersi
qualche cosa? I Dottori dicono, che è in facoltà del giudice consegnare
o no un clerico alla Curia secolare, vista la condizione della persona:
la condizione deve intendersi relativamente all'atto in quistione non
già relativamente ad ogni altra cosa, e qui c'è difetto di condizione
spettante alla sostanza dell'atto, poichè essendo fra Tommaso inabile
a ribellare e per natura, e per fortuna, e per professione, non deve
credersi che abbia cercato di ribellare, anche quando fosse un cattivo
soggetto. Oltracciò il Papa nel suo Breve dice che si consegnino alla
Curia secolare coloro i quali sono legittimamente convinti, e fra
Tommaso non è convinto, sia perchè manca il corpo del delitto, sia
perchè i testimoni sono complici, nemici e scellerati, ed anche varii
intorno alla cosa, al modo, al luogo e al tempo. E la convinzione deve
intendersi nel senso del reato commesso, non già soltanto voluto, e
se la convinzione manca, la condanna deve pronunziarsi secondo il
dritto canonico, non secondo il dritto civile: nè la ragione politica
lo consiglia, poichè è odioso lo spargere il sangue di un sacerdote,
massime pel motivo di profezia; e il popolo lo loderebbe quando
avvenisse qualche sciagura. Tutti i testimoni ne' tormenti negano di
essersi accordati con fra Tommaso intorno alla repubblica; adunque
fra Tommaso fu solo a volerla, ciò che è impossibile, e così essi
lo assolvono, e «mostrano fra Tommaso aver detto questo nella sua
confessione pel minor male, sotto l'impressione del tormento, macerato
dal carcere, dalla fossa e dall'inedia».
Ed ecco la conclusione: «Meglio è che sia messo in custodia fino al
tempo della predizione sua, sì che il popolo ne vegga la falsità,
ovvero si penta acciò non accadano i mali quando siano veri; come
avvisava Geremia... Che se avvenga danno al Regno, egli si offre di
risarcirlo al doppio; poichè della morte sua il Regno non rimane
edificato ma scandalizzato, laddove si verifichi qualche sciagura,
come apparisce dalla perdita delle navi sofferta[129]. La morte è una
cautela di mali futuri, non già de' passati: a ciò meglio provvede
il carcere in materia di predizioni e novità». E ripigliando le sue
considerazioni sul processo aggiunge di non dover morire, perchè non è
ribelle nè di 1^a nè di 2^a intenzione, perchè non è convinto, perchè
seguendo il fato predisse e desiderò preparare un bene da un male; e
le inimicizie, tra tutti quelli che volevano ciò, mostrano non esservi
stato tra loro alcun proposito di ribellare, poichè la cospirazione
esige l'unione degli animi e molta confidenza, e tra loro non ve ne
fu; vi fu abuso delle predizioni da parte di taluno. La ribellione non
venne dimostrata con qualche atto, ma solo concepita nell'intenzione;
null'altro il fisco può provare dal processo, ma non si può provarlo
nemmeno dalle parole di fra Tommaso agli altri, poichè egli poteva
altro dire ed altro intendere; ma dalle parole sue nel tormento non
si prova l'intenzione di ribellare, bensì il contrario, e però contro
di lui non c'è nulla. Finisce chiedendo i suoi libri e la facoltà di
essere esaminato, e dimostrando che non si deve seguire il Palermitano,
il quale dice che nel caso di delitto di ribellione il clerico ha da
essere consegnato alla Curia secolare, poichè le teoriche di costui non
sono soltanto erronee ma perfino eretiche[130].
La «2^a Delineatio» è rappresentata dagli Articoli profetali. Sono
15 articoli ne' quali il Campanella mostra la necessità di occuparsi
de' segni e delle profezie, espone e giustifica quanto avea raccolto
in tale materia, ed infine ricorda anche i segni speciali visti
in Calabria, onde era stato condotto a determinare l'inizio delle
imminenti mutazioni nel 1600 e nel primo settenario del nuovo secolo.
Andremmo troppo in lungo nel volerne dar conto; e trattandosi di cose
le quali riescono a chiarire il punto di partenza della sua azione, ma
non propriamente la sua azione ne' fatti della congiura, crediamo bene
potercene dispensare. Egli li scrisse in aggiunta alla sua 1^a Difesa,
per dimostrare «che non si era infinto allo scopo di covrire un male»,
come appunto ivi dichiarò; non rappresentavano quindi propriamente una
difesa, ma un allegato della difesa, e questo si rileva anche dalla
loro intestazione. Il Campanella si proponeva di svolgerli innanzi
a' Giudici coll'aiuto del libro sulla Monarchia de' Cristiani e del
libro sul Regime della Chiesa, l'uno in potere del Card.^l S. Giorgio,
l'altro lasciato in Stilo; e chiedeva questi libri, e si protestava
della nullità degli atti se i libri non fossero dati, come si legge
appunto nella fine degli articoli.
Dobbiamo ora fare qualche commento su queste Difese, e segnatamente
sulla 1^a di esse. Lasciando da parte la forma, notiamo che varii
tentennamenti appariscono ne' concetti medesimi esposti dal
Campanella, ed in ultima analisi non è assolutamente negato il fatto
di un disegno partecipato con sollecitazioni a diversi aderenti,
banditi e non banditi, di un concerto per far la repubblica nei
monti, avvalendosi di mutazioni in vista ed aiutandosi con le armi e
le prediche; ma questo fatto è semplicemente attenuato e fornito di
spiegazioni, il cui valore doveva senza dubbio riuscire quistionabile
assai nella mente de' Giudici. D'altronde non si vede efficacemente
combattuto il cumulo di testimonianze raccolte contro di lui, ma
anch'esso appena attenuato e fornito di spiegazioni non sempre felici;
sicchè non è pienamente negata la reità, ma solo rimpiccolita al
punto da respingere per essa la pena di morte ed ammettere la pena
del carcere indefinito. Mentre si propone di sostenere che non abbia
cospirato, comincia col dimostrare che «non fu mosso a cospirare nè
dall'ambizione nè dalla malevolenza, ma guidato dalla profezia»;
intende di provare non esservi stato concerto, e frattanto parla
di «coloro i quali aderirono a lui con retta intenzione», e spiega
che «volle servirsi de' banditi non come nemici del Re, ma come
uomini armati convertendoli al bene, e propose di servirsi anche di
uomini probi non banditi»; ed è superfluo insistere sul buio fitto
della natura delle mutazioni, della condizione della repubblica da
fondarsi, del Regno sacerdotale unico «utile al Re prima che al Papa»,
dell'essersi mosso a preparare la repubblica «per istinto divino e
perchè spettava a' Domenicani il prepararla», e parimente degli scopi
singolari affibbiati a tale repubblica. Non riesce poi certamente
a combattere i testimoni dicendoli «complici e scelleratissimi»,
giacchè l'esistenza del reato veniva con ciò tristamente ribadita, e
per la giurisprudenza del tempo nel reato di Maestà anche i complici
valevano a convincere; nè riesce esatto dicendo che «tutti ne'
tormenti aveano negato di essersi accordati con fra Tommaso intorno
alla repubblica» e però fra Tommaso sarebbe stato il solo a volerla,
mentre invece taluni erano risultati confessi di avervi direttamente
o indirettamente aderito. E guardando alle obiezioni avverso ciascun
testimone, debolissime riescono p. es. quelle fatte al Petrolo, e
quanto al Pizzoni, niente di serio prova l'enumerazione delle sue
scelleraggini ed infamie passate, le quali non aveano mai impedito
che fosse corsa tra lui e il Campanella una grande intimità; nè prova
molto la ritrattazione da lui fatta ma non mantenuta, e l'essere stato
bilingue prova tutt'al più che gli avea mancato di fede, denunziandolo
in un reato nel quale erano complici, ma non che il reato era stato da
lui inventato. Quanto al Caccìa ed al Crispo, non riescono facilmente
ammissibili le spiegazioni date per mostrare la loro inimicizia
verso di lui, mentre egli si era mantenuto in istretta relazione con
loro, e massime con l'ultimo avea tenuto una corrispondenza scritta,
assai compromettente e caduta nelle mani del fisco; quanto al Pisano
ed al Vitale, è vero che costoro non aveano mai parlato con lui,
ma aveano pur troppo parlato co' due suoi più attivi compagni, fra
Dionisio e Maurizio, l'uno lasciato dal Campanella assolutamente
nell'ombra, l'altro posto sotto una luce orribile; d'altronde, circa
le ritrattazioni avvenute per taluni di costoro in punto di morte,
esse a quel tempo nemmeno godevano molto credito, sapendosi che erano
troppo spesso dovute alle istanze de' superstiti, e alla credenza
che fosse opera cristiana e meritoria l'aiutarli. Quanto a Maurizio,
l'inimicizia di costui non riesce concepibile, mentre in tanti tormenti
sofferti non aveva mai nominato il Campanella, e le storie postume
di tale inimicizia, come il movente delle ultime rivelazioni da lui
fatte, appariscono asserzioni inventate pe' bisogni della causa: sul
fatto medesimo dell'avere Maurizio deposto che il Campanella non
avea voluto il soccorso de' turchi, fatto ripetuto costantemente
dal Campanella, c'era un po' di equivoco, giacchè Maurizio avea con
lealtà deposto di essere spontaneamente andato presso i turchi, non
già che il Campanella fosse propriamente contrario alla dimanda di
questo soccorso, mentre invece egli appunto ne avea fatto sorgere il
pensiero. Ma del resto lasciando anche da parte tutte le testimonianze
di questi «complici e scelleratissimi», c'era la testimonianza dello
stesso Campanella, la Dichiarazione scritta in Castelvetere, suggellata
dalla confessione orale in tortura; e il Campanella nella sua Difesa
accenna appena a questa confessione, la quale era sempre della più
alta importanza, giacchè, pur quando avesse potuto dimostrare di non
essere stato convinto, gli rimaneva ancora a dimostrare di non essere
stato confesso; egli si limita a dire, col solito tentennamento, una
volta che «dalla sua confessione si provava solo che non avrebbe fatta
la repubblica se non quando fosse avvenuta mutazione», ed un'altra
volta che «dalle sue parole nel tormento non si provava l'intenzione
di ribellare, bensì il contrario», laonde questo lato importantissimo
della difesa apparisce deficiente. Infine torna anche inutile per
lui ricordare che i primi Giudici erano nemici e venali, quando le
imputazioni risultavano confermate innanzi a' successivi; inutile far
notare che lo Sciarava si era servito di tormenti gravissimi, quando la
giurisprudenza concedeva di potersene servire nel caso di lesa Maestà;
inutile distinguere il reato commesso e il reato semplicemente voluto
quando la giurisprudenza nel caso di lesa Maestà assegnava la pena
medesima all'uno ed all'altro; inutile discutere le condizioni in cui
si poteva consegnare il Clerico alla Curia secolare, quando il Breve
Papale aveva conceduto che le si consegnassero quelli «legittimamente
convinti o confessi». In conclusione le Difese del Campanella non
avrebbero potuto distruggere l'imputazione fattagli, perchè la sua
causa disgraziatamente era insostenibile con efficacia. Gli Articoli
profetali da lui scritti, senza contare quello serbato in petto
concernente la Monarchia a lui profetizzata dall'astrologo, valevano
bene a dimostrare che egli penetrato di certi principii superiori
aveva agito in conseguenza di essi: ma non era stata per anco fatta
a que' tempi la grandiosa scoperta della _forza irresistibile_, e
l'opera sua, comunque ricinta di certe condizioni, non era e non
poteva essere che una congiura, un disegno di ribellione, e i Giudici
non avrebbero potuto profferire altra sentenza che quella di consegna
alla Curia secolare. Egli medesimo si contentava allora di ciò che lo
rese scontento in sèguito, quando il caso glie lo fece ottenere, di
esser messo in custodia fino all'avveramento della predizione sua; e
si sa che il tempo ne era definito sino ad un certo punto, lasciando
un margine più che largo, come rilevasi chiaramente dalla stessa
edizione posteriore de' suoi Articoli profetali. Dopo tutto ciò può
ognuno formarsi un criterio intorno alla colpabilità del Campanella nel
delitto appostogli; a noi essa apparisce manifesta.
Ci rimane a parlare dell'Appendice o Lettera «ad amicum pro Apologia»,
scritta, come abbiamo veduto, subito dopo le Difese. Quale oggi la
possediamo, essa trovasi in coda a ciascuna delle tre copie ms. degli
Articuli prophetales, ultima ricomposizione, che si conservano in
Roma nella Casanatense, in Napoli ed anche in Madrid nelle rispettive
biblioteche nazionali. Il Berti fu il primo a scovrirla nella
Casanatense, e nel 1878 ne diè un sunto molto preciso, giudicandola
documento valevolissimo a smentire l'esistenza della congiura. Noi
la diamo per esteso, nella lezione della Casanatense e in quella
di Napoli, giacchè ognuna di esse è molto scorretta e può l'una
correggersi con l'altra, raccomandando a' lettori di percorrerla
nella sua integrità: essi la giudicheranno probabilmente, come noi
la giudichiamo, un documento apologetico, al pari delle lettere del
1606-1607 e della Narrazione che il Campanella scrisse tanto più tardi,
per giustificarsi alla meglio e in tutti i modi, i quali d'altronde
non escono dall'ordine de' modi da lui adottati e ripetuti sempre;
nè sfuggirà certamente la concordanza de' concetti in essa svolti
con quelli svolti nella Difesa. Diciamo d'un tratto che la Lettera
apparisce scritta ad un compagno di carcere similmente frate, con ogni
probabilità a fra Dionisio, durante la causa della congiura, dietro il
risentimento di costui perchè le mutazioni previste non erano succedute
o erano succedute a rovescio, ed anche perchè avea confessato di voler
predicare la repubblica. Ma eccone una rassegna particolareggiata. Il
Campanella vi ricorda aver detto che dall'anno 1600 in poi sarebbero
succedute grandi novità, ed afferma che sul negozio di Calabria l'amico
dovea sdegnarsi non già contro di lui ma contro sè stesso, che avea
parlato di ciò che meno comprendeva. Che egli vide una cometa marziale
la quale correva dall'oriente all'occidente, ed argomentò che sarebbe
venuta gente estranea contro i Reggitori della Provincia, ma non potè
vedere che razza di gente si fosse, e vennero i Capitani Regii e
desolarono il paese (infatti venne Carlo Spinelli avverso a De Roxas
Preside della Provincia, ma di questo pronostico sbagliato da cima a
fondo avrebbero potuto forse rimanere capacitati i Giudici, non mai
l'amico suo). Ed estendendosi ne' prodigi apparsi «che poteano muovere
ogni savio a parlare», dice che nelle sue predizioni non tocca questo
Regno più che lo stesso mondo, di cui preconizza la fine (veramente
nella Dichiarazione avea ammesso di aver predetto le mutazioni pel
Regno di Napoli), ed annunzia la fine del mondo e la Santa repubblica
aspettata da' profeti, da' filosofi e dalle genti; e dice che l'amico
non può far difese se egli non parli ai Giudici, la qual cosa non si
permette (ma pure fino ad un certo punto ne aveva parlato a' Giudici
ed anche dettato uno scritto per uso del Sances). Predice all'amico
che la congiunzione magna gli sarà fatale e non potrà sfuggire agli
spagnuoli, che gli sovrasta la morte ne' 38 anni di età, come a sè
stesso sovrasta ne' 43, e quindi gli raccomanda di trovar mezzi perchè
la causa sia finita prima di tre anni (donde si dovrebbe inferire che
la lettera fosse stata scritta dopo la sospensiva prodottasi nella
spedizione della causa, vale a dire dopo il 12 aprile, ma bisogna
sempre tener presente che si ha sott'occhio un esemplare della lettera
rifatta). Passa a giustificarsi dell'aver confessato di voler predicare
la desiderata repubblica, se fatalmente fosse avvenuta la rovina del
Regno e della Provincia, raccogliendone i residui su' monti: io,
egli dice, non ho confessato eresia nè ribellione, ma di aver voluto
profittare di un male volgendolo in bene; così non furono i Veneti
ribelli all'Impero, quando percossa Aquileia da Attila ripararono
nelle lagune e costituirono una nuova repubblica libera dall'Impero.
E poi dice che spettava a' Domenicani predicare tale repubblica, e
lo dimostra co' testi ecclesiastici, con S. Vincenzo Ferrer, S.^{ta}
Caterina, l'Apocalisse, e cita fra Rusticano, Savonarola, M.^o
Catarino, il B.^{to} Raimondo etc., e nota che quelli i quali tengono
la fede per ragion di Stato giudicano che essi pure abbiano parlato
per acquistare uno Stato, ma chi crede per ragione Divina li difende
con Davide e S. Paolo. Aggiunge che egli è umiliato troppo, che tutti
sono umiliati e flagellati troppo, che egli meritava un premio, che
quelli che non credono nelle sue predizioni se ne avvedranno, e qui
cita S. Pietro, Isaia etc. concludendo che le profezie si adempiranno,
e raccomandando a tutti di agire virilmente e sollevare il loro
cuore.--Che questa lettera si debba ritenere diretta a fra Dionisio,
come il Berti ottimamente afferma sebbene non ne dica le ragioni,
apparisce dal vederla scritta ad uno che si era sdegnato coll'autore,
che avea già prima parlato a sproposito, che era in pericolo di non
potere sfuggire agli spagnuoli, circostanze tutte riferibili appunto a
fra Dionisio. Vi sarebbe solo da obiettare che avendogli il Campanella
predetta la morte a 38 anni, nel tempo della congiunzione magna, vale
a dire nel 24 10bre 1603 come ci lasciò scritto anche nelle Poesie,
fra Dionisio avrebbe dovuto nel 1600 avere 35 anni di età; e sebbene
ci facciano difetto le notizie intorno a ciò, mancandone sempre tutti
i costituti suoi, l'età di 35 anni nel 1600 non può dirsi probabile
per lui, tanto più che conosciamo avere allora il germano fra Pietro
l'età di 31 anno, e l'altro germano Ferrante 29[131]; tuttavia fra
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