Fra Tommaso Campanella, Vol. 2 - 27

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che alcune furono trovate sotto il capezzale del letto del Gagliardo,
altre in un canestro tondo appartenente a fra Pietro Ponzio, ma più
tardi, nell'accomodare il letto comune ad esso deponente e a fra
Paolo, trovarono entrambi «un libro stampato grande, in quarto foglio,
di astrologia, con molti caratteri, et un pezzo di carta dentro, nel
quale erano scritti secreti contra la corda con nomi di demonii, et
ci era il nome di felice gagliardo, et questo libro e foglio, overo
pezzo di carta, restorno in potere di fra Pietro Pontio». Infine gli fu
mostrato anche il libretto di poesie «lingua paterna» (le poesie del
Campanella), e riconobbe che era di mano del suddetto fra Pietro.
Il 19 marzo, con un ritardo verosimilmente prodotto dalla necessità di
trovare il Figueroa e il Navarro, vennero esaminati Felice Gagliardo
e fra Pietro Ponzio. Il Gagliardo disse essere stato carcerato in
Castelvetere per un colpo di fucile tirato in rissa ad un suo cognato,
e poi essere stato tradotto in Napoli per la causa della ribellione,
dopochè Cesare Pisano, venuto nelle stesse carceri di Castelvetere
e quivi visitato da fra Dionisio e dal Campanella, lo avea nominato
in tortura qual complice nella detta ribellione. Chiesero allora i
Giudici di che aveano parlato al Pisano il Campanella e fra Dionisio;
ed egli rispose che aveano parlato segretamente, e non ne sapeva nulla,
ma che fra Dionisio gli aveva poi detto che avesse dato credito a
quanto gli diceva Cesare Pisano, e soggiunse, «io credo che mi volesse
significare che havesse credito à quello mi diceva detto Cesare à
prestarli dinari, di che ne hò fatto fede à detto frà Dionisio»
(ben si vede che rilasciava fedi senza difficoltà, e senza nemmeno
curarsi delle contradizioni in materie tanto gravi). Dietro altre
dimande disse che de' frati avea conosciuto solo il Bitonto venuto a
predicare in Condeianni; e fattagli l'obiezione, come mai, non avendo
prima conosciuto nè visto fra Dionisio, costui avesse potuto dirgli
che prestasse danaro a Cesare Pisano, rispose, «lo detto Cesare havea
detto che io era felice gagliardo gentilhomo di hierace, et cossì detto
fra Dionisio me disse quelle parole»! Ma infine si venne alla faccenda
delle scritture, e dietro varie dimande rispose, che ciascuno de'
frati carcerati, co' quali si trovava di camera, aveva una cassa, ma
egli non aveva nè cassa, nè scritture, nè libri, e solamente qualche
lettera; che in luglio «perchè in detta camera ci entrava ogn'uno et
non so che si perdío,... frà Paolo portò la sua cassa alla camera di
Geronimo Campanella patre di frà thomaso Campanella, e frà Gioseppe
(Bitonto) portò la sua cassa in camera di fra Dionisio pontio»; che il
Soldaniero diede allora al Bitonto un involto di scritture sigillate
perchè glie lo conservasse, ed egli non sapeva che scritture fossero,
ma poi il Soldaniero gli avea detto che erano scritture proibite, senza
manifestargli altri particolari sopra di esse, e che le avea fatte
trovare in camera di fra Dionisio per rovinarlo, ond'egli ne avea
rilasciata una fede, alla quale si rimetteva. Mostratagli questa fede,
la ratificò, negando di sapere che specie di scritture fossero state
trovate nella cassa. Chiesero allora i Giudici se il Pisano avesse
parlato con lui di cose ereticali e se egli ne avesse fatta denunzia
a' superiori come era obbligato; ed egli rispose che il Pisano ne avea
parlato anche in presenza dell'Adimari, del Conia e del Marrapodi, e
consigliatosi col suo confessore D. Pietro Manno, dietro ordine di
costui egli scrisse e mandò per D. Pietro medesimo un memoriale al
Principe della Roccella, il quale lo partecipò al Vescovo di Gerace,
e il Vescovo quando poi vennero «li rumori universali di Calabria»
mandò un Commissario che l'esaminò. Così finì la sua deposizione,
con un nuovo garbuglio, per lo quale venne poi commesso dalla Sacra
Congregazione di Roma e sollecitato dal Vescovo di Caserta l'esame di
D. Pietro Manno in Gerace.--Fu quindi esaminato fra Pietro Ponzio[288],
ed egli narrò il trasporto della cassa del Bitonto presso fra Dionisio,
per furti verificatisi nella camera in cui si trovavano e dovuti al
Gagliardo, la sua istanza al carceriere che ponesse costui in altra
camera e la rissa avvenuta per questo, la voce corsa che il Soldaniero
e il S.^{ta} Croce si erano concertati di far trovare le scritture
proibite presso fra Dionisio, la ricerca fatta anche in camera sua con
la scoverta di un libretto di poesie che egli teneva sul letto, e di
altre scritture che stavano sotto la materassa del Gagliardo. Riconobbe
il libretto di poesie e disse, «è scritto di mano mia et è intitolato
(_int._ dedicato a) francesco gentile, e son sonetti del Campanella
e di diversi altri autori, che sono andato radunando, et vanno per
tutta questa città di napoli». Fece avvertire che il Gagliardo soleva
scrivere con caratteri di diverse maniere, ed aggiunse che avea visto
presso il Bitonto una carta con un circolo e un segreto «per havere
una donna», che il Gagliardo avea rilasciato ad un paggio carcerato in
Castello a nome Nicolò, ottenendone per compenso un vestito di velluto.
Confermò inoltre che, dopo la ricerca delle scritture, fra Paolo avea
trovato un libro stampato di astrologia con un circolo e un segreto
contro la tortura di mano del Gagliardo, e disse averlo letto insieme
con gli altri frati e poi consegnato al luogotenente del Castello.
Scovrivasi per tal modo un nuovo fatto e sempre a danno del Gagliardo,
contro il quale non agiva soltanto fra Pietro per iscagionare suo
fratello, ma si erano rizelati senza ritegno principalmente i già suoi
complici in materie sortileghe per iscagionare le persone proprie, e la
quistione delle scritture proibite veniva ad allargarsi sempre più.
Il 21 marzo fu di nuovo esaminato il Bitonto per quest'altra scrittura
del Gagliardo da lui scoverta, e disse che ne' giorni scorsi avea
veduto il Gagliardo scrivere una carta e poi darla segretamente a un
paggio di D. Andrea de Mendozza figlio della Marchesa della Valle,
carcerato per ordine della Marchesa e chiamato Nicolò, il quale avuta
la carta venne a farla leggere ad esso Bitonto per sapere se poteva
starci bene in coscienza, e udito che la carta recava la scomunica
a chi la teneva, glie la lasciò. Ed esibì la strana scrittura a'
Giudici, i quali la fecero unire con le altre scritture proibite.
Dietro altra domanda poi disse, che pure un Marc'Antonio Bruno di
Condeianni, dimorante in Napoli alla piazza dell'olmo, era venuto
più volte nel carcere, ed avea avuto segreti dal Gagliardo, e si era
lamentato che gli avea fatto spendere 10 ducati senza alcun profitto,
aggiungendo che spesso si chiudevano in camera e scrivevano, ed una
volta «haveano fatto non sò che pignatello al foco, pieno di capelli et
ossa, cera et altre forfantarie che il fuoco ce havea immorbati tutti,
et questo lo vedde ancora fra Paolo della grottaria e fra Domenico
di stignano» (ma c'è ragione di credere che costoro, e massime il
Bitonto, fossero consenzienti a queste prove di suffumigi). Aggiungiamo
che la novella scrittura fu subito mandata al P.^e Cherubino, che la
qualificò col «sapit haeresim manifeste», e fu unita con le altre
costituenti il 2^o gruppo o gruppo delle scritture appartenenti al
Gagliardo[289].--Frattanto venne subito chiamato Nicolò Napolella,
giovane a venti anni, nativo di Napoli e paggio come sopra si è detto,
il quale credè opportuno mettersi in assoluta negativa, onde il suo
interrogatorio ci risulta un modello di pervicacia nell'inquisito e di
pazienza ne' Giudici. Sempre dietro dimande disse aver conosciuto il
Gagliardo nel Castello, ma non aver mai trattato di segreti con lui;
averlo visto sei o sette giorni prima, ed avergli parlato in frotta con
molti, «e si raggionò come stai, come la passi, e vi bascio la mano»!
Disse aver conosciuto anche il Bitonto, ma non avergli mai parlato
di scritture nè chiesto consigli, aggiungendo, «faccionosi li fatti
loro, è mi lascino stare, è non mi vadano inbrogliando à queste cose».
E i Giudici, «che dica chi sono quelli che lo voleno inbrogliare, et
in che»; ed egli si fece allora a narrare che la sera precedente fra
Pietro l'avea chiamato in disparte, dicendogli di avere informato il
tribunale del segreto per amore dato al Gagliardo e raccomandandogli
di deporre che era vero, ed egli avea risposto «buono» (_int._ «bene»,
espresso alla spagnuola); poi l'avea condotto presso il Bitonto che
gli disse e gli raccomandò la cosa medesima, ed egli avea promesso, ma
nella notte ci avea pensato meglio e si era deciso a non farne nulla,
dicendo, «mi sono risoluto di non dannare l'anima mia». E i Giudici,
«in che cosa si pensava di dannare l'anima sua»: ed egli, «in dire
una falsità; avanti voglio che si perda tutta la Calabria che dire
una falsità»! E i Giudici dimandarono chi fosse stato presente alla
chiamata di fra Pietro, e l'ammonirono di nuovo di dire la verità sul
fatto del segreto; ed egli nominò Ferrante Caldarone e Simone Garzia
spagnuoli, ed anche fra Paolo; ma sul fatto del segreto disse, «non
è vero niente».--Immediatamente vennero esaminati i tre testimoni
indicati dal Napolella. Simone Garzia disse che in quel momento
medesimo il Napolella gli avea parlato della chiamata avuta da fra
Pietro nella sera precedente, ed egli avea risposto che non sapeva tal
cosa. Il dottore Calderon della città di Pax, di anni trenta, disse che
nel passeggiare sulla loggetta col Garzia e col Napolella avea veduto
fra Pietro accompagnato da un altro frate, chiamare il Napolella in
disparte, parlargli segretamente e poi condurlo alla camera in cui
stavano il Petrolo e il Bitonto. Infine fra Paolo accertò egli pure
la stessa cosa.--Fu allora interrogato fra Pietro, e costui disse
che veramente avea chiamato il Napolella in presenza di fra Pietro
di Stilo, e l'aveva avvertito che dietro la sua deposizione intorno
al segreto sarebbe stato certamente esaminato, e però attendesse a
dire la verità; che il Napolella si era mostrato dolente del Bitonto,
perchè avea divulgato il fatto del segreto, che egli non volea si
sapesse da alcuno e specialmente dalla Marchesa della Valle; che
allora lo condusse dentro la camera in cui stava il Bitonto, il quale
gli fece intendere che trattandosi di cosa di S.^{to} Officio era
stato obbligato di agire come aveva agito.--Ed ecco in iscena fra
Pietro di Stilo, il quale confermò ogni cosa, spiegando essere il
Napolella dolentissimo che il Bitonto avesse pubblicata la faccenda
del segreto, perchè «stando lui male con la Sig.^{ra} Marchesa dela
valle che havesse fatto casare lo figlio per via di magarie, si saria
confermata in questa opinione et non l'haveria mai fatto escarcerare
de Castello»[290]. Aggiunse aver visto la carta del segreto in mano al
Bitonto, ed aver avuto preghiere da fra Paolo e dal dottore Calderon
perchè facesse buono ufficio verso il Napolella acciò non fosse
rovinato presso la Marchesa; aver avuto inoltre preghiera dal medesimo
fra Paolo, perchè non facesse cattivo ufficio verso il Gagliardo e il
S.^{ta} Croce, considerando che erano calabresi (tutto ciò dava forza
grandissima al fatto in quistione, rimasto vacillante per l'assoluta
negativa del Napolella).--Infine fu esaminato anche il Bitonto, il
quale confermò che il Napolella era venuto con fra Pietro presso di
lui, ed avea detto che quando fosse stato interrogato sul fatto del
segreto, avrebbe manifestato la verità.
Ma non erano ancora scorse 24 ore, e il Napolella, riflettendo meglio
sul caso suo, mediante il carceriere Martines mandò al Vescovo di
Caserta un memoriale, con cui esponeva che per essere stato esaminato
all'improvviso aveva avuta tanta paura da non aver saputo cosa si
dicesse (eppure avea mostrato di saperlo molto bene); laonde supplicava
Monsignore, che si degnasse «di restar servita di novo venirlo a
saminarlo, che dirra la ystessa e pura verità come passa chi li ha dato
detti scritti».
Così il giorno seguente, 22 marzo, innanzi al Vescovo di Caserta
assistito dal suo segretario D. Manno Brundusio, fu esaminato dapprima
il Napolella, che riconobbe il memoriale mandato e confessò di aver
narrato al Gagliardo che «amava una donna ma non sapeva se si era
dismenticata» di lui, onde il Gagliardo gli volle dare quel rimedio
perchè la donna non se ne scordasse; e riconobbe lo scritto avuto e
attestò di averlo mostrato al Bitonto e di averlo poi lasciato nelle
mani di lui quando udì che recava la scomunica. Dietro dimande, disse
che non in questa circostanza, ma fin da tre mesi scorsi, il Gagliardo
gli avea chiesto «un paro di calzoni usati per amor de Iddio» ed
esso glie l'avea donati; che dopo il suo esame avea udito tenere il
Gagliardo «mala fama di queste poltronerie». Infine scusò il non aver
detto prima la verità, allegando l'essere «giovanetto di poca età... è
travagliato di carcere longo tempo», e l'aver dubitato che accettando
quel fatto ne sarebbe venuta la rovina sua.--Si passò allora all'esame
di Orazio S.^{ta} Croce, il quale, sempre dietro dimande, disse che
era stato già carcerato in Siderno e a Castelvetere il 22 luglio
1599, per aver bastonato un tale che gli aveva uccisa una giumenta,
e poi era stato incolpato della ribellione e tradotto in Napoli; che
nelle carceri di Castelvetere udì esservi già venuti il 2 luglio il
Campanella e fra Dionisio per far liberare Cesare Pisano; che costui
parlava di cose contro la fede e tutti i carcerati ne presentarono
memoriale al Principe della Roccella per mezzo di Mario Scadova
carceriere. Inoltre che conosceva Felice Gagliardo, gentiluomo di
Gerace, che non aveva mai udito dir male di lui, e solo da pochi giorni
aveva udito che veniva processato «per fatochiaro». Ed avendo detto che
era in grado di conoscerne il carattere, gli furono mostrate le solite
scritture (tanto del 1^o che del 2^o gruppo), e le riconobbe tutte di
mano del Gagliardo, eccettuandone quella sulla musica che gli veniva
mostrata insieme con le altre, ed includendovi quella contenente la
poesia in dialetto calabrese, a proposito della quale disse crederla
di mano del Gagliardo «tanto più che lui fà professione di fare versi
è sonetti volgari» (non gli fu mostrata la scrittura contenente il
segreto dato al Napolella, forse perchè era stata trasmessa al P.^e
Cherubino, ma intanto per tutte le altre potea dirsi decisivo il
giudizio del S.^{ta} Croce, uomo competentissimo e non sospetto).--Si
continuò ancora l'informazione esaminando fra Pietro Ponzio[291]. Si
volle sapere da lui se conosceva il carattere del Gagliardo e se era
a sua notizia che si dilettasse di far versi; ed egli rispose che lo
conosceva, e che veramente il Gagliardo si piccava di far versi e
sonetti, tanto che nei giorni scorsi avea fatto versi a fra Dionisio,
cercando di pacificarsi con lui e chiedendogli perdono. Gli furono
quindi mostrate tutte le scritture che si reputavano di mano del
Gagliardo (come si era fatto pel S.^{ta} Croce), ed egli confermò che
veramente lo erano, escludendone solo quella sulla musica che disse di
mano del Pizzoni: poi gli si chiese conto delle poesie trovate a lui,
quelle del Campanella, ed in ciò importa conoscere la dimanda e la
risposta testualmente. «Et dimandato alcuni sonetti che stanno scritti
al libro n.^o septimo, che sono maledicenti, altri che trattano di
cose oscene (_sic_), et ci sono alcune cose scritte à donne amate che
sapiunt idolatriam, da chi sono stati composti detti sonetti. Resp.^t
io un altra volta me ricordo di havere deposto che ad instantia di
francesco Gentile haveva io radunato questi sonetti insiemi, deli
quali parte mene havea dato esso gentile di mano sua, li quali non so
l'authore, et alcuni altri me li hà dato il Sig. Cesare Spinola, et
particolarmente li sonetti che sono dedicati alla Sig.^{ra} Maria et
alla Sig.^{ra} donna Anna et uno à se stesso, et io ne hò avuto la
maggior parte che sono più di venticinque lhò avuti da altri carcerati,
li quali dicevano che erano stati composti da frà thomaso Campanella,
et che il Campanella lhavesse dati à Mauritio de rinaldo calandoli con
uno filacciolo dala fenestra del torrione, et che depoi la morte di
Mauritio lhavea dati alli altri carcerati uno Cesare forse che havea
servito detto Mauritio, et altri ne hò havuto da fra Giovan Battista de
pizzone» (il Vescovo di Caserta ne dava il giudizio del Qualificatore
peggiorato, e fra Pietro si schermiva almeno per quelli più scabrosi,
massime perchè composti nel tempo della pazzia, mettendo perfino in
dubbio l'autore ed al solito traendo in iscena gli assenti e i morti).
Infine gli si chiese pure conto del come avesse parlato al Napolella
delle cose che avea deposte, mentre gli era ingiunto l'obbligo del
silenzio: e fra Pietro si scusò, allegando il suo zelo di carità, e
il desiderio di accertarsi che il Bitonto gli avesse detto il vero
intorno alla scrittura data dal Gagliardo al Napolella.--Da ultimo
fu esaminato anche fra Paolo della Grotteria il quale disse di non
conoscere il carattere del Gagliardo, non avendo avuto mai amicizia con
lui, comunque egli dimorasse in una medesima stanza e scrivesse tutta
la notte (negativa tirata un po' troppo). Dietro dimande, attestò
che il Gagliardo avea pessima fama, dicendo, «et ognuno se ne lamenta
e ne dice male, et mò inganna uno et mò un altro, et dà ad intendere
molte cose de fattochiarie»; attestò ancora che la cassa trovata nella
camera di fra Dionisio vi era stata portata dal Bitonto, «che nella
ricerca fatta dagli ufficiali in camera sua molte scritture furono
trovate sotto il capezzale del Gagliardo, e andati via gli Ufficiali
il Bitonto trovò a terra un libro e disse dover essere quello il libro
che il Gagliardo dolevasi di avere perduto». Così mentre il Bitonto
deponeva che il libro era stato trovato da fra Paolo, costui deponeva
essere stato trovato dal Bitonto, e tutto induce a far ritenere che
il libro stava nelle mani di entrambi, come pure che il Gagliardo
avea bensì copiate di sua mano le più notevoli tra quelle scritture,
ma in servigio specialmente del Bitonto, il quale vi annetteva molto
interesse e le teneva suggellate e chiuse nella sua cassa. Pertanto si
riuscì a far cadere ogni cosa sulle spalle del Gagliardo, ed anche,
fino ad un certo punto, se ne trasse profitto per la difesa della
causa principale, mostrando nel Soldaniero un fatto di animosità ed
inimicizia, che costui non avea nemmeno sognato.
Rimanevano tuttavia ad esaminarsi il Moya già luogotenente del
Castello a tempo della ricerca delle scritture, oltrechè il Figueroa
già Castellano del Castel dell'uovo, e il Navarro soldato del
medesimo Castello, per le altre scritture ivi trovate al Gagliardo
anteriormente. Il Moya, divenuto capitano e non più dimorante nel
Castel nuovo, fu citato più volte a voce ma non si curò di comparire;
laonde il 28 marzo fu ordinato dal Vescovo di Caserta ed intimata dal
cursore una nuova citazione in iscritto esistente in processo, con
monitorio di dover comparire l'indomani personalmente sotto pena di
scomunica _ipso facto incurrenda_, e malgrado ciò anche questa volta
egli non comparve. Ma comparve il Navarro e poi il Figueroa (20 e 22
aprile). Francesco Navarro, di Montbeltran nella nuova Castiglia,
disse aver conosciuto il Gagliardo fin dall'anno precedente carcerato
nel Castello dell'uovo, essergli state trovate dal Castellano di quel
tempo certe scritture che furono date a Scipione Moccia Auditore e
potersene avere più distinta notizia dal detto Castellano Figueroa.--D.
Melchiorre Mexia de Figueroa, di Messico nella Nuova Spagna[292],
disse di aver tenuto carcerato nel Castello dell'uovo il Gagliardo,
e perchè era molto inquieto, avere ordinato che fosse chiuso in un
criminale lui ed anche Orazio S.^{ta} Croce; narrò la ricerca di
scritture fattagli dietro avviso di altri carcerati, e la scoverta
di molte carte di negromanzia, per le quali fece relazione a D. Gio.
Sances, non nascondendo che alcune di quelle scritture furono prese
dall'Auditor Moccia, ed altre rimasero presso di lui, le quali offrì
di esibire al tribunale dopo di averne fatto parola al Sances. Dietro
altra dimanda disse che il Gagliardo avea «molta mala fama e di huomo
pessimo, et in particolare di essere necromante et fattochiaro, e
di essersi dato al demonio in anima et in corpo, et che ne li havea
fatta una scritta col suo sangue».--Venne poi finalmente ridotto
anche il Moya a comparire. Il 26 aprile il Vescovo di Caserta ordinò
contro di lui una nuova citazione per sentirsi dichiarare scomunicato
coll'affissione de' cedoloni, e non avendo il Moya neanche questa volta
obbedito, il 29 aprile lo dichiarò scomunicato, ordinando che fosse
come tale pubblicato mediante i cedoloni affissi ne' luoghi pubblici
della città, dandone all'uopo la relativa bozza[293]. Ed ecco, affissi
i cedoloni, immediatamente il Moya innanzi al Vescovo di Caserta,
il 1^o maggio, a scusarsi, dichiararsi pronto a deporre, dimandare
l'assoluzione; e nella stessa data, raccolto l'esame ed emanato il
decreto di assoluzione, venendo questa commessa al Curato di S. Anna
di Palazzo, che senza perdita di tempo assolvè il Moya ed anche i
domestici di lui, accorsi a chiedere egualmente l'assoluzione per avere
parlato con lui ne' due giorni ne' quali egli trovavasi scomunicato.
Ben poco intanto ci tratterrà il suo esame che fu raccolto dal solo
Notaro Prezioso[294]. D. Cristofaro de Moya, della città di Mensiner
nella nuova Castiglia, narrò l'istanza fattagli da un carcerato
calabrese, di cui non si rammentava il nome, perchè avesse proceduto
ad una ricerca di scritture proibite nella camera e cassa di fra
Dionisio; la ricerca eseguita alla sua presenza dal sergente Alarcon,
dal carceriere Martines ed altri; la scoperta di scritture in quella
camera ed anche in altre camere di frati delle quali non si rammentava
in particolare; la presa della cassa che fu portata al Castellano; e la
scoperta di altre scritture in essa contenute; infine la sua andata al
Vicerè con le scritture raccolte, per ordine del Castellano, e tutti i
particolari che su questo proposito abbiamo a suo tempo esposti. Dietro
dimande, disse di non aver lette quelle scritture, e solo ricordarsi di
avervi visto disegnata una mano, come pure certe ruote o circoli, e di
avere udito nel Castello, e forse anche dal Vicerè, «che erano cose di
fattochiarie»; ricordarsi inoltre che la ricerca di quelle scritture
venne fatta dietro una rissa tra carcerati nella quale fra Dionisio fu
ferito nel capo. Mostrategli le scritture, riconobbe i circoli e la
mano disegnata che altra volta avea visto, e cadendogli sott'occhio
il libretto di poesie (le poesie del Campanella) disse, «et questo
libro ancora riconosco che portai al vicere con l'altre scritture, et
lo riconosco alla coperta, et alle zagarelle, benissimo». Notiamo che
nulla egli accennò intorno alla scrittura trovata sotto la finestra
della camera del Campanella, non essendone stato nemmeno interrogato, e
però deve ritenersi che a questa data essa era già scomparsa.
Intanto il Figueroa, ottenuto certamente l'assenso del Sances, avea
subito consegnate al tribunale le carte trovate al Gagliardo nel
Castello dell'ovo e rimaste presso di lui; il P.^e Cherubino le aveva
immediatamente qualificate con una sua relazione in data del 24 aprile,
e il tribunale, costituendone un 3^o gruppo, le avea fatte riunire
alle altre. Esse vennero in tal guisa ad aumentare indebitamente il
volume delle così dette scritture proibite trovate nella cassa di
fra Dionisio Ponzio, tanto più indebitamente perchè non erano punto
proibite, riguardando tutt'altro che negromanzia. Forse il Figueroa si
studiò di non consegnare quelle che potevano farlo trovare alle prese
coll'autorità ecclesiastica come sciente e non rivelante od anche
come semplice detentore di carte proibite, avendo già altra volta,
e precisamente nell'anno al quale si riferiva la sua deposizione,
sperimentato i rigori dell'autorità ecclesiastica.[295]
Gioverà non di meno occuparci di queste carte, perocchè quantunque
riguardino materie comuni, servono bene a mostrare in tutta la sua
luce il Gagliardo, e di costui c'interessa molto acquistare una piena
conoscenza, a motivo di certe altre rivelazioni da lui avute in
sèguito. Per ordine di data precede una lettera di Pietro Veronese
padrigno del Gagliardo scritta da Gerace il 3 gennaio 1600; con essa
il Veronese gli dà notizia della salute della moglie, sorelle e madre,
lo eccita «a far cose honorate», e riverisce il Signor Orazio (S.^{ta}
Croce) dal quale ha avuta una lettera, come pure i due fratelli
Moretti. Segue una lettera di Marcello Gagliardo, scritta da Gerace
il 12 9bre 1600 forse ad Orazio S.^{ta} Croce (manca la carta della
soprascritta); e in essa si parla pure di Felice Gagliardo, si tratta
di un invio di danaro, si fa sperare la dimanda di remissione da parte
del Principe (il Principe della Roccella che era Signore di Condeianni)
etc. Segue un'altra lettera di Pietro Veronese scritta da Gerace il
14 10bre 1600, quando egli tornava in patria dopo di aver visitato il
figliastro in Napoli: con essa il Veronese gli dà notizia della salute
de' parenti, ossequia i due Moretti, il Sig. Orazio (S.^{ta} Croce)
«et tutti quelli Signori», e gli partecipa che a Gerace «fu amaczato
gelonardo regitano come vile». Questo disgraziato verosimilmente
apparteneva alla famiglia del cognato di Felice Gagliardo a nome
Francesco Regitano, che il Gagliardo avea ferito con un colpo di
fucile, causa della sua carcerazione; l'essere stato ammazzato come
vile, nel gergo de' facinorosi ancor oggi in uso, vuol dire che era
stato ammazzato per non aver saputo tacere sulle mosse loro. Pertanto a
siffatto annunzio esulta il Gagliardo e scrive una poesia in dialetto
calabrese, intitolata «Capitolo delo scaduto», che rappresenta un'altra
delle scritture raccolte. Son 25 strofe, e ne riportiamo le prime per
saggio:
«Piangia Geraci, hor ridarà eterno,
per ch'e guarito delo antiquo mali,
hora che Gio. lonardo iju a lo inferno.
Ridi Siderno, che Matteo Spetiali
dessi li cunti à lo amaro scaduto
ridimu tutti, riditi ho (_sic_) Casali.
Non darà parapezzi[296] lu tributu,
no sarà chiu Brombaci assassinatu
hora che fu amazatu stu fallutu.
Tu Condianni statti arritiratu
e fa allegriza d'ogni cantu e locu
chi li frutti anderanno à bon mercatu.
E vui massari fati festa e giocu
cu li sacculli vostri sempri chini (int. pieni),
hora che Riggitan' e intra lu focu» etc.
E continua così fino all'ultima strofa, con vituperii ed insolenze
contro il povero morto, terminando coll'accertare che lo scaduto è
andato all'inferno e che sarà da tutti ringraziato colui che l'ha
ucciso; e il P.^e Cherubino, che in tutte le scritture del presente
gruppo non trova «nihil contra fidem vel bonos mores» definisce la
detta poesia «una facetia ridiculosa», mostrando bene che pure i
Teologi qualificatori sottostavano all'influenza de' gusti del tempo.
Seguono due lettere di un Don Gioseppe di Capoa al Gagliardo, l'una
scritta «dala per me oscura selva li 22 di xbre 1600», l'altra da
Reggio, convento di S. Francesco, gli 11 gennaio 1601: sono due lettere
brigantesche, atte a chiarire molto bene i procedimenti de' fuorusciti
di que' tempi, e massime a tal fine ci è parso bene riportarle tra'
documenti[297]. D. Giuseppe di Capoa, come si rileva dalle lettere, era
un capo di fuorusciti con 43 compagni, tra' quali Luzio fratello del
Gagliardo ed altri «amici sui et del Sig.^r Veronese che li comanda»,
tutti del resto in relazioni strette col Veronese, alla cui chiamata,
dopo il 12 10bre, partivano sotto il comando di D. Giuseppe per Gerace
senza saperne la causa; e D. Giuseppe, che avea pure nella banda un suo
parente Andrea, unitosi con lui per avere ucciso Carlo Barone e figlio,
teneva molto a non diventare un ladrone di strada, onde scriveva al
Gagliardo, «ho dato licenza a Caporale Giulio et compagni per haver
fatto un atto brutto, che si unirno con minichello et lutio il vostro,
et hanno boscato molti migliara di scuti et volevano dar parte a me, ma
per nessuno modo la volse, che tant'anni sono in campagna ho vissuto
con le mie intrate, ne habbia dio ordinato tal furfanteria». Poi agli
11 gennaio, dietro la persecuzione da parte di un Auditore che faceva
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