Fra Tommaso Campanella, Vol. 2 - 08

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la Theologia, et appartiene al S. Officio, non a loro». Ci fermiamo a
questo punto, non senza raccomandare a' lettori di percorrere tutto il
resto che il Campanella narrò a tale proposito. E ripetiamo che non
vi sono altre notizie capaci d'illustrare il fatto, ma dobbiamo ad
ogni modo avvertire che questi Articoli profetali di cui qui si parla,
dettati al notaro della causa della ribellione ad istanza del Sances,
non debbono confondersi con quelli che il Campanella scrisse egli
medesimo come una delle sue difese: noi li abbiamo trovati nel processo
di eresia, presentati in giugno dell'anno seguente, e dovremo parlarne
più in là.
Come abbiamo visto dalla lettera del Nunzio sopra riportata, l'11
febbraio già si era dato al Campanella «il termine e la commodità»
per la difesa, e si era deciso di seguire con gli altri lo stesso
metodo, cioè quello delle torture acri. Infatti può ritenersi con
sicurezza che i fol. 35 e 36 del volume siano stati occupati dalla
ratificazione della confessione del Campanella e dal decreto per
l'assegno del termine e deputazione dell'Avvocato; ed ecco il fol. 37
occupato dall'Atto della tortura data a fra Dionisio[94]. Il Riassunto
degl'indizii contro costui ci dice che gli fu dato egualmente il
polledro e non confessò nulla, e un brano di lettera del Vescovo di
Termoli, inserto ne' Sommarii del processo di eresia, ci fa conoscere
che «fu tormentato con 'l tormento del polledro, et delle 19 funicelle
(_sic_) con le quali era tormentato 7 se ne ruppero nell'atto della
tortura datali per ribellione»[95]; vedremo nel medesimo processo che
fino a tutto giugno egli non potè firmare gli Atti che lo riguardavano,
e dovè segnarli portando la penna stretta tra' denti, giacchè i polsi
torturati non si prestavano. Dopo fra Dionisio venne la volta del
Pizzoni, il quale ebbe la corda aggravata da' funicelli per quasi due
ore, e nemmeno confessò[96]: come riferì lo stesso Vescovo di Termoli,
«fù ligato con li funicelli e posto alla corda per la causa della
ribellione et è restato stroppiato d'un brazzo»; infatti vedremo che
una delle sue spalle non guarì mai più, e questa lesione l'avviò alla
morte durante il processo di eresia. Nella stessa seduta, o in una
seduta successiva, furono interrogati il Clerico Gio. Battista Cortese
e il Sacerdote D. Andrea Milano, che si ricorderà essersi trovati
nominati in una lettera di Claudio Crispo a Geronimo Camarda, la quale
parlava della congiura e futura vittoria nel mese di settembre: non
sappiamo ciò che essi risposero, ma possiamo ritenere per certo che
non si passò oltre contro di loro. E si ripigliarono subito le torture
col Petrolo, che ebbe la corda per due ore ed egualmente non confessò:
sappiamo da lui medesimo la specie di tortura avuta, poichè quando
l'ebbe di nuovo nel 1603 per l'eresia, rivolto al Nunzio esclamava,
«hoggi fanno tre anni, e fù pur Sabbato come hoggi che hebbi un'altra
volta la corda». Poi si venne a Giulio Contestabile che non era stato
interrogato ancora, onde si raccolse la sua deposizione che riuscì
negativa; e si passò al Bitonto e gli si diede la tortura «ad sciendum
complices et fautores citra prejudicium probatorum», ed egli come tutti
gli altri, ad eccezione del Campanella, non confessò, sicchè il metodo
vantato dal Nunzio non riuscì. Possiamo affermare che non vi furono
altre torture di frati, e però in conclusione l'ebbero solamente il
Campanella e fra Dionisio mercè il polledro, il Pizzoni, il Petrolo
e il Bitonto mercè la corda forse in tutti aggravata da' funicelli
per due ore: questo risulta dal cenno fattone in coda a' rispettivi
Riassunti degl'indizii che si conservano in Firenze; e dietro la scorta
del medesimo fonte dobbiamo dire che per fra Paolo della Grotteria si
procedè al solo interrogatorio, mentre pel Lauriana, per fra Pietro di
Stilo e fra Pietro Ponzio non vi furono nemmeno altri interrogatorii,
e si ritennero sufficienti quelli fatti da fra Marco e fra Cornelio e
dal Vescovo di Gerace.--Immediatamente dopo il Bitonto ebbe la tortura
anche Giulio Contestabile, per quasi due ore _cum funiculis_ come dice
il Riassunto degl'indizii compilato contro di lui, ed egli nemmeno
confessò: naturalmente così a lui come a tutti gli altri, mano mano
che si esaurivano gli Atti offensivi, era decretata la consegna della
copia del processo, l'assegno del termine per le difese, la deputazione
dell'Avvocato ufficioso qualora non avessero un Avvocato particolare;
e vedremo tra poco che il Contestabile si provvide di un Avvocato
particolare.
Tutto ciò fu compìto nella 2.^a metà di febbraio e 1.^a metà di marzo,
con molta sollecitudine, poichè intendevasi finir presto ogni cosa, per
liberare i parecchi prigioni poco o punto indiziati e quindi passare
alla causa dell'eresia, come il Nunzio facea sapere a Roma. Difatti
nello stesso periodo or ora indicato furono liberati dapprima otto,
poi altri quattro, in tutto dodici incriminati ecclesiastici, come si
rileva da due lettere del Nunzio, l'una del 3 e l'altra del 10 marzo,
che gioverà riportare testualmente. «La causa della ribellione si tira
avanti con ogni diligenza, et di già si è ordinato la liberatione di
8 fra Frati et Clerici che si trovavono presi per diversi sospetti
senza fondamento et 4 altri spero ne liberaremo domani, poichè i
principali sono tutti essaminati, et di già si vede in che il negotio
potrà principalmente parare, et per che la medesima Ecc.^{za} mi hà
richiesto che i Calabresi che dovranno come hò detto liberarsi non si
lascino così subito ritornare in Calabria, gli hò detto che si farà con
un Precetto che non partino di Napoli senza licenza, parendomi cosa
che come propone possa esser di qualche consideratione, che tornino
là persone avanti che il negotio si finisca che sieno informati come
gira, et ne suscitino qualche nuovo bisbiglio; procurerò che si risolva
quanto prima per manco incommodo di quei poveri huomini» (3 marzo). «La
causa della ribellione si tira avanti con la solita diligenza, et di
già se ne sono liberati 12 fra regolari et Clerici, et la prohibitione
del partirsi che le scrissi con altra si è ristretta à due frati
Domenicani, che non tornino in Calabria senza licenza, et altrove
vadino dove vogliono» (10 marzo). Non si potea veramente procedere con
maggior sollecitudine: il tribunale teneva sedute quasi ogni giorno,
come si rileva da un'altra lettera del Nunzio della stessa data (10
marzo) che dice, «dal Venerdì in poi che l'occupo in dettar lettere,
et le feste, gli altri tutti si va in Castello»[97]. Trattandosi
d'individui non trovati delinquenti, ai termini del Breve i Giudici
aveano facoltà di pronunciare senz'altro la sentenza; per essi non
c'era la limitazione di procedere _usque_ _ad sententiam exclusive_,
ed è poi facile conoscerne i nomi guardando l'Elenco degl'incriminati
ecclesiastici[98]. I primi otto furono: D. Gio. Battista Cortese, D.
Gio. Andrea Milano, fra Scipione Politi, fra Francesco di Tiriolo,
D. Marco Petrolo, fra Pietro Musso, D. Domenico Pulerà, fra Vittorio
d'Aquaro; gli altri quattro furono D. Colafrancesco Santaguida, fra
Giuseppe Perrone di Polistina, Giovanni Ursetta e Valentino Samà. Di
tutti costoro vennero esaminati solamente il Cortese e il Milano; e
i due Domenicani, a' quali si vietò di tornare in Calabria, doverono
essere il Tiriolo ed il Musso, mentre contro fra Giuseppe di Polistina,
come contro qualche altro, non si potè neanche compilare un Riassunto
d'indizii, non essendosi trovata in processo cosa alcuna. Rimasero
dunque in carcere nove frati Domenicani compreso il Campanella, e
dippiù il clerico Giulio Contestabile; vi pervenne poi molto più tardi,
come vedremo a suo tempo, il clerico D. Marco Antonio Pittella, il
quale era scappato di mano alle guardie in Calabria, ma fu ripigliato
nel 1601. E non è dubbio che gli Atti difensivi ebbero immediatamente
corso pel Campanella, per fra Dionisio e per gli altri frati; così pure
per Giulio Contestabile, e vi è motivo di ritenere che co' suoi mezzi
costui abbia potuto far precedere la difesa della sua causa, essendo
stato in grado di presentare in suo favore, senza ritardo, documenti,
testimoni ed un Avvocato proprio.
La Difesa scritta per Giulio Contestabile ci fa intendere le accuse
formolate dal Fiscale contro di lui, e ci dà notizia de' documenti
e testimoni da lui presentati[99]. Secondo il Fiscale, Giulio
Contestabile dovea dirsi uno de' capi della congiura dietro la
Dichiarazione del Campanella, la cui amicizia con Giulio era confermata
da sei testimoni uditi in Calabria, come pure dietro le deposizioni del
Caccia, del Vitale e dello stesso Maurizio nell'ultima sua confessione;
inoltre dovea dirsi reo di fatti e detti in dispregio di S. M.^{tà}
dietro le rivelazioni del Campanella e del Petrolo, e indirettamente
anche di fra Pietro di Stilo. I documenti prodotti da Giulio furono:
un certificato di buona vita e fama, rilasciato dall'Università, clero
e particolari di Stilo; l'istrumento pubblico di pace tra' Contestabili
e Carnevali, stipulato mercè l'opera del Campanella e non ratificato;
le fedi di tre Confessori che aiutarono a ben morire il Caccìa,
attestanti la revoca della sua confessione fatta per forza di tormenti.
I testimoni furono quattro: essi affermarono principalmente (con poca
verità) che Giulio e il Campanella erano nemici prima del maggio 1599,
fin dal gennaio di quell'anno, ma dal maggio «nè si parlavano, nè si
cavavano la berretta». E l'Avvocato si appoggiò moltissimo a questa
circostanza dell'inimicizia anteriore, e cercò di confermarla anche
col fatto, che appena venuto lo Spinelli in Calabria, Giulio avea dato
accuse scritte contro il Campanella, e procurata presso D. Carlo Ruffo
commissionato dello Spinelli una commissione pel cognato Di Francesco
in persecuzione del Campanella e complici, come pure il Campanella avea
date egualmente accuse scritte contro Giulio ed avea sedotto il Petrolo
a far lo stesso, mentre poi le sue affermazioni non poteano far fede,
essendo lui «notato d'infamia per avere abiurato _de vehementi_»[100].
Invalidò inoltre le deposizioni del Caccìa, notando che costui non avea
determinato il genere di discorsi passati tra Giulio e il Campanella,
che era stato esaminato da un tribunale incompetente, e poi in ultimo
avea revocato i suoi esami presso i Confessori. Invalidò la deposizione
del Vitale, notando che non era stata fatta la ripetizione di lui
innanzi a' Commissarii Apostolici, nè egli avea potuto conoscere da
Maurizio la partecipazione di Giulio nella congiura, mentre Maurizio
medesimo avea rivelato che la cosa gli era stata detta dal Campanella
nelle carceri di Napoli, ed allora il Vitale era stato già giustiziato.
Invalidò ancora la rivelazione di Maurizio, notando sempre che non era
stata fatta la ripetizione di lui innanzi a' Commissarii Apostolici, ed
aggiungendo che egli non avea potuto parlare col Campanella trovandosi
rinchiusi non solo in carceri separate ma anche in torrioni separati
(fatto non vero), nè poteva credersi che Giulio fosse entrato in un
concerto nel quale erano capi il Campanella e Maurizio, entrambi
notorii nemici suoi. Infine, quanto all'avere Giulio oltraggiato il
ritratto del Re, gli bastò mettere in rilievo le contraddizioni tra
le rivelazioni del Campanella e quelle del Petrolo, e tra le prime ed
ultime rivelazioni del Campanella medesimo.--Con siffatti argomenti
l'Avvocato potè far ritenere Giulio Contestabile qual semplice
sospetto di complicità, e così poi, allorchè molto più tardi si venne
alla sentenza, il Contestabile, aiutato forse anche dalle potenti
raccomandazioni delle quali vedremo che disponeva, riuscì a cavarsela
con la condanna ad una pena relativamente mite.
Poco dopo, o tutt'al più contemporaneamente, venne fuori la Difesa
del Campanella scritta dal De Leonardis: e in sèguito di essa una
Replica di D. Gio. Sances. Ad entrambi questi Atti possiamo facilmente
assegnare la data delle prime settimane di marzo, poichè certamente
durante il marzo le difese doverono essere discusse: vedremo infatti
esservi state negli ultimi giorni di marzo e primi di aprile le feste
di Pasqua, e poco dopo, il 12 aprile, la richiesta del Sances a'
Giudici di venire alla spedizione della causa. La Difesa scritta dal
De Leonardis mostra che pel Campanella non ci furono nè documenti
nè testimoni a discarico: nulla di simile vi si trova citato, e
chiaramente vi si scorge che l'Avvocato sentiva di scrivere per una
causa persa, giacchè il Campanella non poteva non dirsi convinto
e confesso qual capo della congiura o tentata ribellione[101].
Fin dall'esordio della Difesa l'Avvocato non potè fare a meno di
riconoscere una criminosa cospirazione contro la Real M.^{tà}; se
non che goffamente magnificò la clemenza e la bontà di Filippo
III, per avere ordinata questa Difesa, ed affermò che da parte sua
avrebbe voluto dilaniare e fare a brani con Neronica voluttà «simili
facinorosi delinquenti», e dichiarò che per obbedienza agli ordini
del Vicerè presentava al Nunzio e al De Vera «dottissimi e religiosi
Giudici Apostolici» le ragioni che gli parevano favorevoli alla causa.
Due questioni egli vide nella causa: la 1^a, se il Campanella, dato
che fosse reo di tale delitto di lesa Maestà, _potesse_ consegnarsi
alla Curia secolare, e siffatta questione egli dovè riconoscere già
sciolta col Breve Papale, che ne avea dato larga facoltà a' Giudici
Apostolici; la 2^a, se il Campanella avesse commesso tale delitto
di lesa Maestà, che _dovesse_ consegnarsi alla Curia secolare, ciò
che equivaleva a condannarlo alla morte, e sopra tale questione egli
stimò aversi a considerare le circostanze del fatto e la qualità della
persona. Notò quindi che il Campanella non gli pareva «legittimamente
convinto» giusta i termini del Breve, poichè tutti i testimoni erano
socii del delitto, i quali bastavano a provare la congiura, ma non
bastavano a far condannare alla pena di morte, massime in persona
di un Clerico _in sacris_, contro il quale occorreva sempre una
forma più privilegiata che nel Laico; oltracciò tutti i testimoni
lo aveano detto capo della congiura, e per esservi congiura avrebbe
dovuto esservi concerto di molti a fine di sovvertire lo Stato, ma i
testimoni medesimi aveano detto che doveano fatalmente avvenire rumori
e rivoluzioni nel Regno, ed allora egli avrebbe sottratta la Provincia
alla potestà Regia, ma allora si era già verificata la sovversione
dello Stato. Non gli pareva poi nemmeno confesso di congiura e per
questo legittimamente convinto, mentre dalla sua confessione non
risultava «una così grande ed acerba cospirazione quale era stata
asserta da' testimoni», perchè appunto egli voleva far la repubblica
quando fatalmente succedessero rumori e rivoluzioni, e non aveva mai
approvato l'aiuto de' turchi. Aggiunse inoltre che la congiura non
doveva avere una esecuzione prossima ed immediata, e poteva anche
non verificarsi o poteva verificarsi in un senso buono, essendo
preferibile nel caso di grossi trambusti, che si costituisse la
repubblica dall'inquisito con la volontà del Papa e del Re, rimanendo
impedita la conquista a' nemici invasori. In somma trattavasi della
preparazione ad un mutamento in caso di un futuro evento dubbio, e
l'inquisito non era suddito del Re e non avrebbe quindi dovuto mandarsi
a morte come se il delitto fosse stato consumato o vi fosse stato
disegno di uccidere il Re; non era poi l'inquisito nemmeno tale da
poter sovvertire uno Stato, e quindi la pietà e l'equità de' Giudici
Apostolici poteva fargli scansare la morte, «salvo sempre il più sano
giudizio e l'autorità della Sede Apostolica», in servizio della quale
e del Re Filippo egli, l'Avvocato, avrebbe voluto volentieri morire
se fosse stato necessario!--Messe da parte le goffe ampollosità del
tempo, rimane che il De Leonardis cercò, per quanto potè, di salvare
il Campanella dalla morte: tutti i suoi sforzi furono concentrati su
questo punto, riuscendo impossibile negare ciò che fra Tommaso avea
confessato, e parecchie osservazioni dell'Avvocato, che i lettori
vorranno senza dubbio più minutamente conoscere percorrendo la Difesa
da lui scritta, offrono tutti gli elementi di una critica di quel
Breve Papale che avea tanto largamente concesso di rilasciare alla
Curia secolare gli ecclesiastici legittimamente convinti o confessi
«di ribellione o prodizione, o altri delitti di lesa Maestà», senza
tener conto di alcuna delle circostanze restrittive ammesse dalla
giurisprudenza del tempo. Una sola cosa a noi profani in giurisprudenza
apparisce imputabile al De Leonardis, la mancanza dell'argomento
che i testimoni nella più gran parte non erano stati esaminati o
ripetuti nel foro competente, e però non potevano dirsi capaci di
legittimamente convincere: ma bisogna pur riconoscere che si era fatta
una inestricabile confusione di fori, mentre da' «Giudici Apostolici»,
e segnatamente dal Nunzio, si era tollerato che figurassero nel
processo, e quindi ne' Riassunti, come elementi del giudizio, perfino
le deposizioni raccolte da fra Marco e fra Cornelio, ed anche dal
Vescovo di Gerace, nel foro di S.^{to} Officio; così la mancanza del
detto argomento non potè davvero influire in nulla. Avremo poi a
vedere che il Campanella medesimo, nella Difesa sua propria, venuta in
luce più tardi ed inserta nel processo di eresia, non trovò argomenti
migliori di quelli del De Leonardis, e distinguendo il _crimen
volitum_ e il _crimen patratum_ (distinzione che ne' delitti di lesa
Maestà non giovava) concluse doverglisi dare piuttosto la pena del
carcere perpetuo e non la pena di morte. Assai più tardi poi, nella
sua Narrazione, scrisse che il suo Avvocato «più presto avvocò contra
per diventar Consigliero»: ma anche questa volta bisogna riconoscere,
che le necessità sue l'abbiano spinto a scrivere senza alcun ritegno
tutto ciò che potè sembrargli utile a farlo uscire da una tristissima
posizione.
Venendo all'Allegazione del Sances in risposta a quella del De
Leonardis, abbiamo poco da dire[102]. Egli, rivolgendosi allo Ill.^{mo}
Presidente e al dottissimo Magistrato, stimò del tutto naturale che
il Campanella, «legittimamente convinto e confesso» del delitto di
lesa Maestà, dovesse «essere attualmente degradato e consegnato
alla Curia secolare, tanto per disposizione del dritto, quanto in
forza del rescritto di commissione del SS.^{mo} Padre». E confutando
le ragioni dell'Avvocato, fece notare che, circa la qualità della
persona, trattavasi di un frate di mancata vita monastica, assiduo co'
malfattori, già condannato ad abiurare, cospiratore contro gli Stati
del Re Cattolico per menare vita lussuriosa e seminare eresie, autore e
capo di tutto, convinto da testimoni come il Franza, il Cordova e due
altri già carcerati col Pisano (sicuramente il Gagliardo e il Conia),
i quali, sebbene socii nel delitto, in questo di lesa Maestà per una
speciale disposizione del dritto provavano; che inoltre era confesso,
come essi medesimi i «Padri» lo avevano udito, di avere eccitato a
prendere le armi e procurare amici, confesso di formata macchinazione,
soggetto ad essere degradato e consegnato alla Curia secolare anche
per un rescritto espresso del Papa, il quale volle mostrare quanto
difendesse e proteggesse gli Stati di S. M.^{tà}. Nè egli faceva
istanza che fosse condannato perchè avea già cacciato il Re e fatta la
Repubblica, ma per avere macchinato e sedotto a farla le persone che
si erano mostrate pronte, dovendosi nel delitto di lesa Maestà, per
dritto, punire con la stessa pena così la volontà come l'effetto; la
macchinazione era seguìta, e i Giudici poteano degradare questo clerico
ribelle alla Maestà Divina ed umana, causa della perdita della vita,
de' beni e dell'onore, per tanti infelici, e de' beni e della patria
per molti contumaci, costituiti anche in pericolo di vita, essendo
stato lui di ogni cosa duce, autore e capo.
Una Difesa scritta, analoga a quella pel Campanella, parrebbe che
avesse dovuto esservi anche per conto di fra Dionisio; giacchè il
Sances chiese di poi a' Giudici che spedissero la causa tanto del
Campanella quanto di fra Dionisio. Forse, essendo in sèguito costui
scappato senza rimedio, il Nunzio credè inutile conservare tale
Difesa e così essa non sarebbe a noi pervenuta; ma forse anche, con
maggior probabilità, avendo lui dichiarato di volersi servire di un
Avvocato proprio, e non essendo poi riuscito a trovarlo, rimase senza
Difesa scritta, giacchè, nel decretare il termine per le difese, i
Giudici solevano dichiarare che badasse l'inquisito a provvedersi
di un Avvocato o a chiedere quello di ufficio, mentre in difetto,
scorso il termine, il tribunale avrebbe spedita la causa anche senza
l'Avvocato. Ciò per altro non vuol dire che fra Dionisio non si sia
difeso da sè, oralmente e presentando documenti; che anzi dobbiamo
ritenerlo, trovandosi in coda al Riassunto degl'indizii contro di
lui l'annotazione «habuit defensiones _quas fecit_». Non potremmo
dire lo stesso pel Campanella, mentre in coda del relativo Riassunto
degl'indizii troviamo scritto solamente «habuit defensiones»: la
qual cosa riesce difficile a spiegarsi, e bisognerebbe ammettere che
veramente non sia stato chiamato a parlare, come di poi si dolse;
ma forse egli avea dichiarato che intendeva presentare una propria
Difesa scritta ed anche difendersi oralmente, e non giunse in tempo a
presentare la Difesa scritta, come vedremo più in là, e i Giudici poco
giustamente passarono oltre ritenendo decaduta la sua dichiarazione.
Ad ogni modo la sorte del Campanella, e così pure di fra Dionisio, non
poteva esser dubbia, e stiamo per vedere che il Nunzio non ne fece un
mistero.
Di certo durante il marzo vi fu un poco di rilasciamento nell'attività
del tribunale; le feste di Pasqua poi, negli ultimi giorni di marzo e
primi di aprile, vennero a sospenderne affatto le sedute. Durante il
marzo la causa del Contestabile, con l'esame de' quattro testimoni, non
potè occupare molte sedute, tanto meno la Difesa orale di fra Dionisio,
ancor meno la Difesa scritta dell'Avvocato del Campanella, e d'altronde
conosciamo che i termini per le difese solevano essere brevissimi.
Bisogna dunque ammettere qualche ragione estrinseca, e questa potrebbe
ravvisarsi nell'assenza del Vicerè da Napoli in tale periodo: poichè
egli dovè finalmente adempiere la missione già troppo ritardata, di
Ambasciatore straordinario di obbedienza al Papa in nome di Filippo
III, e così venne meno la sua inesorabile insistenza[103]. Il 9 marzo
egli era partito da Napoli, insieme con la Viceregina ed una distinta
comitiva di Nobili, che erano felici di potersi mostrare servitori
affezionati a S. M.^{tà} e di poter guadagnare anche le indulgenze
del Giubileo in Roma, nè fu di ritorno prima del 27 aprile. Potremmo
narrare una grande quantità di aneddoti intorno a questo viaggio, ma ce
ne asteniamo. Diremo solamente, per quanto riflette i casi della nostra
narrazione, che tra' nobili i quali ottennero l'onore molto ambìto
di accompagnare il Vicerè vi fu il Principe della Roccella, insieme
col suo primogenito Girolamo Marchese di Castelvetere, la qual cosa
venne ritenuta un favore particolare del Vicerè dietro la brillante
condotta del Principe nella cattura del Campanella: oltracciò il Nunzio
espose al Card.^l S. Giorgio il desiderio che si trattassero in Roma
direttamente col Vicerè gli affari più gravi, e tra questi non v'era
compreso l'affare del Campanella, ma del resto, malgrado le promesse
del Cardinale, non se ne fece nulla. Era rimasto in Napoli Luogotenente
del Regno il figliuolo secondogenito del Vicerè, D. Francesco de
Castro, giovane di anni e maturo di senno, il quale non fu tiepido nel
volere spedita la causa del Campanella, ma non avea la voce autorevole
del padre, e il Nunzio poteva tanto più opporgli la sua. Il 12 aprile,
forse in previsione del prossimo ritorno del Vicerè, ma piuttosto in
sèguito di una novità manifestatasi nel Campanella, come vedremo più
oltre, il Sances chiese istantemente a' Giudici che si spedissero le
cause del Campanella e di fra Dionisio: il Nunzio si avvide allora,
abbastanza tardi, degl'inconvenienti a' quali si andava incontro,
e si oppose, e volle che si attendesse per avere nuove istruzioni
da Roma. Ecco come egli ne scrisse al Card.^l S. Giorgio in una sua
lettera del 14 aprile, che importa tener tutta sott'occhio, mentre
da essa si rileva qual fosse la posizione giuridica del Campanella e
di fra Dionisio, con la corrispondente condanna in vista. «Tornammo
due giorni sono à trattar della causa della ribellione, et perchè il
Fiscale di essa mi fece una gagliarda instanza della speditione quanto
alla persona di fra Thomaso Campanella et di fra Dionigi Pontio, non
volsi consentire che si trattasse della fine, non si sapendo ancora
dove N. S.^{re} voglia si conoschino le materie appartenenti al S.^{to}
Offitio, oltre che _reputandosi l'uno confesso che è il Campanella,
et l'altro convinto che è il Pontio, potrà facilmente essere la fine
delle loro cause il degradarli, e darli alla Curia secolare_, ma non
mi è parso che questo si deva fare in modo alcuno, senza parteciparlo
prima con S. S.^{tà} rimanendo sospesa la causa del S.^{to} Offitio. Et
se bene di questo se ne potrà fare espressa riserva, ho non dimeno per
un certo che di convenienza reputato sia bene che S. B.^{ne} lo sappia,
et comandi se in ciò gli occorre altro, questo medesimo risposi hieri
al Sig.^r D. Francesco de Castro che à suggestione, per quanto credo,
del medesimo fiscale me ne parlò tanto efficacemente, non si volendo
far capace delle ragioni che mi movevano à voler prima parteciparlo
costà, che mi hebbi à risentire, parendomi d'esser troppo stretto, et à
dire risolutamente che non ne voleva far nulla et che mi pareva strano
che in un negotio che hà durato più di 6 mesi mi si volesse ridurre ad
un' giorno, quando per haver una risposta di costà ne bisognavano 10
ò 12 che non erano anche tanti che si convenisse negarmeli, et perciò
desidero haver di questo risposta quanto prima».
La posizione del Campanella, e così pure quella di fra Dionisio, erano
dunque nettamente definite: il Campanella ritenevasi confesso, fra
Dionisio convinto, e secondo la giurisprudenza e i termini chiari ed
espliciti del Breve Papale dovevano essere, previa la degradazione,
consegnati al braccio secolare, naturalmente con quella rutinaria
preghiera altrove menzionata che la pena fosse «senza pericolo di
morte» etc., preghiera che la giurisprudenza imponeva, e che era
sottinteso non doversi tenere dal braccio secolare in alcun conto[104].
Erano dunque accolte le conclusioni del Sances, e senza dubbio,
pronunziata la condanna di degradazione e consegna alla Curia secolare,
la Curia Pontificia non avrebbe più ricevuto il Campanella nelle sue
mani per sottoporlo al processo dell'eresia, segnatamente essendovi
l'intenzione, come appunto il Papa l'avea una volta manifestata, che
gl'interessati nel negozio dell'Inquisizione si mandassero a Roma.
Il Nunzio ebbe a capire quanto male a proposito si era procrastinato
il giudizio dell'eresia, e nel tempo stesso si era largheggiato in
concessioni pel giudizio della congiura; ed il pericolo di non poter
più fare il giudizio dell'eresia, non già la menoma idea di salvare
il Campanella, indusse lui ad esigere e Roma ad approvare che si
soprassedesse alla spedizione della causa. Intanto siffatta sospensione
giunse realmente a salvare dalla morte il Campanella e così pure fra
Dionisio; ma il Governo Vicereale dovè ritenerla una manovra dalla
parte di Roma in beneficio de' frati ribelli, e dovè legarsela al dito,
poichè a' termini del Breve Papale non c'era da rivolgersi ancora
a Roma ed «aspettare il comandamento di S. S.^{tà}», ma potevasi
concretare la sentenza e poi aspettarlo. Ad ogni modo la sospensiva non
fu messa innanzi dal Governo perchè non sapeva come condannare que'
frati innocenti, secondo che è stato affermato da altri scrittori; e
vedremo anzi quanto esso insistè, durante più anni, perchè si compisse
una volta la spedizione della causa, finchè non sopraggiunsero altri
fatti, pe' quali sorse un grave sospetto che Roma volesse addirittura
salvare que' frati in dispregio del potere civile.
Da Roma, il 22 aprile, si scrisse al Nunzio che tra poco si manderebbe
una risposta risoluta, e intanto si lodava che egli non avesse
consentito alla spedizione della causa della ribellione, mentre pendeva
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