Fra Tommaso Campanella, Vol. 2 - 22

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Termoli provvide che fosse interrogato di ufficio fra Pietro Ponzio
sulla asserta domanda di perdono fattagli dal Lauriana in Gerace, ed
egualmente che fosse istituita una perizia calligrafica sulla lettera
che era stata presentata come scritta dal Lauriana a Ferrante Ponzio; e
furono questi gli ultimi Atti processuali complementari, che si fecero
durante la commissione tenuta da quel rispettabile Prelato.
Il 21 novembre, d'ordine de' Signori Giudici, il Prezioso riceveva in
Castel nuovo la deposizione di fra Pietro Ponzio[226], il quale, con
molte particolarità e citando i testimoni, espose la comunicazione
fattagli dal Lauriana in Gerace nella carcere detta la Marchisa;
l'inquietudine da lui mostrata perchè si trovava «in mano del diavolo»
avendo deposto molte falsità in materia di S.^{to} Officio contro
fra Dionisio e il Campanella, ad istanza del Pizzoni e parimente del
Visitatore e compagno dietro minacce e promesse; la determinazione
del Lauriana di volersi ritrattare con la dimanda del come dovesse
procedere, e il rifiuto fattogli da esso fra Pietro di volersene
occupare, per non trovarsi intrigato in queste faccende dubitando di
commettere errore; la consegna di una lettera scritta dal Lauriana
a Ferrante Ponzio per dimandare a costui il consiglio rifiutatogli
da esso fra Pietro, e l'invio di detta lettera al suo destino; la
non avvenuta ritrattazione del Lauriana in Gerace per paura dello
Spinelli e dello Sciarava, e la dimanda di perdono avuta da lui in
tale occasione; la nuova comunicazione fattagli in Napoli di volersi
ritrattare, con l'invio di un'altra lettera a Ferrante Ponzio, la quale
ultima lettera era stata presentata nella causa della congiura, mentre
la prima, passata nelle mani di fra Dionisio, era stata presentata
nella causa dell'eresia.
Il 3 e 4 dicembre furono raccolte le deposizioni di due periti
calligrafi su questa lettera dal Vicario napoletano Ercole Vaccari
«congiudice» nella Curia Arcivescovile. Gio. Antonio Trentacapilli
«scrittore» disse che «essendo prattico, et versato nel scrivere
diverse sorte di lettere cossi cancellaresche, come tonde, et corsive,
potria conoscere per qualche similitudine di tratti, e di sillabe et
di ligature di sillabe, et conietturare si fussero scritte da una mano
istessa»; e mostratagli la lettera del Lauriana in data di Gerace 10
ottobre 1599 ed alcune sottoscrizioni del Lauriana medesimo agli Atti
processuali, disse: «fatta la comparatione da lettera à lettera, da
sillaba à sillaba, da tratto à tratto, e da carattere à carattere della
lettera, et sottoscrittioni di fra Silvestro da Lauriana, dico che la
sudetta lettera è stata scritta con inchiostro bianco, et con penna
accomodata sottile, et le sottoscrittioni... sono state scritte con
inchiostro più negro, et con penna accomodata più grossa, et per tale
differentia non si può conoscere chiaramente che siano scritte di una
istessa mano, però come esperto et al mio giudicio giudico et dico che
alcune lettere delle sottoscrittioni... hanno similitudine in parte
colle lettere della sottoscrittione della lettera sudetta».--Di poi
Alfonso Peres esercitato in tenere la scola di scrivere et di abbaco»,
interrogato, egualmente, col formulario medesimo conchiuse: «dico et
confermo come esperto et prattico di diverse sorte di lettere scritte à
mano, che tanto la sottoscrittione che stà in piedi di dette lettere...
come anco le sottoscrittioni che dicono lo frà Silvestro de lauriana
hò deposto ut supra sono state et sono scritte da una stessa mano».
Così mentre uno de' periti rimaneva in dubbio, l'altro affermava che la
lettera in quistione era veramente del Lauriana.
Dopo tutto ciò non sapremmo dire quale fosse stata, intorno a'
meriti della causa, l'opinione formatasi dal Vicario Arcivescovile
e dall'Auditore del Nunzio, mentre della persona stessa del Nunzio,
tenutasi così a lungo lontana, non accade dover parlare per ora; ma
in quanto al Vescovo di Termoli sappiamo benissimo che rimase sempre
più perplesso e dubbioso, nè soltanto sull'eresia, ma di rimbalzo
anche, e maggiormente, sulla congiura; lo sappiamo da' cenni della sua
corrispondenza con Roma, inserti negli ultimi Sommarii del processo
compilati in Napoli, e parimente da un brano di lettera del Nunzio
scritta più tardi. Il Nunzio, in una circostanza in cui ebbe a parlare
di fra Marco Visitatore, disse di sapere che costui «era mal sodisfatto
del Vescovo di Termoli... per l'opinione che teneva, et se ne lasciava
intendere, che l'essamine fatte da lui et da fra Cornelio in Calabria
fussero state fatte più per sodisfattione de Ministri Regii che per
la verità»[227]; e realmente anche più di questo troviamo ne' cenni
delle lettere scritte dal Vescovo a Roma, de' quali è tempo oramai
di tener parola. Abbiamo già avuta altrove (vedi pag. 126) occasione
di dire che il Vescovo diede continuamente ragguagli al Card.^l di
S.^{ta} Severina di ciò che veniva rilevando negli esami de' frati,
e di ciò che gli riusciva di sapere anche per vie estragiudiziarie:
così il 19 maggio, due giorni dopo che il Campanella erasi nell'esame
mostrato pazzo, diè ragguagli su questa pazzia, sulle ragioni che
l'aveano fatta nascere, su' motivi che c'erano per crederla simulata,
sulla necessità di adoperare la tortura. Egualmente intorno al Pizzoni,
mostratosi con la spalla lesa, fece conoscere che era rimasto storpio
per la tortura avuta nell'altro tribunale; intorno a fra Dionisio,
mostratosi anche impossibilitato a sottoscrivere i processi verbali,
fece sapere in qual modo atroce fosse stato tormentato. Nè mancò
poi di scrivere, «non sembra verosimile che fra Dionisio, senza
grande familiarità col Soldaniero giovane a 22 anni, avesse voluto
comunicargli tante eresie»; e d'altra parte, «Aloisi spagnolo già
Fiscale in Calabria (lo Sciarava) mi hà detto, che fra Gio. Battista
da Pizzone non voleva confessare contro il Campanella avanti il
visitatore, ma che esso li disse non hai tu detto la tale, è tale cosa
d'heresia? et che all'hora testificò». Ancora non mancò di far sapere
che «quando Cesare Pisano fu esaminato, il 19 ottobre 1599, già il
Campanella era carcerato». E circa il processo di Calabria scrisse
senza esitazione: «questo mi pare malissimamente fondato, et primo per
quel che spetta à tutto il processo non si vede fondamento alcuno, et
quella scrittura, che è stata posta inanzi al processo (l'elenco delle
36 proposizioni ereticali), è un compendio fatto di tutto il processo
dopo che è stato finito, come mi hà detto à bocca frà Cornelio e dalla
scrittura istessa appare». Circa poi la congiura fece sapere avergli
fra Cornelio detto «che Fabio di Lauro di anni 20 fu il primo che gli
rivelò il capitolo della ribellione, il quale Fabio riferì ad esso
Vescovo medesimo avergli fra Dionisio manifestato che il Papa voleva
il Regno di Napoli e molte altre cose inverosimili, dalle quali si
desume essere il primo fondamento di tale Ribellione molto tenue anzi
falso». Non mancò nemmeno di far rilevare la nessuna delicatezza de'
primi Giudici scrivendo: «si fecero dar molti denari per provedere à
questi carcerati et non gli è stato provisto, mà frà Cornelio li ha
spesi in venir à Roma, et si come intendo ne diede conto alli superiori
in Calabria»[228]. Passando al processo di Napoli e toccando i fatti
accaduti prima del suo arrivo, fece conoscere che le due lettere
scritte dal Lauriana a fra Dionisio circa l'esame fatto in Calabria, e
sorprese da' carcerieri, non si trovavano nel processo della congiura,
e che «D. Pietro De Vera gli riferì che erano state forse perdute
giacchè erano state portate al Vicerè»; e così pure che il Breviario in
cui si conteneva la corrispondenza del Pizzoni col Campanella nemmeno
si trovava, come «gli riferì il notaro della causa», aggiungendo che
del pari «D. Pietro De Vera gli disse che il detto Breviario era
stato perduto, giacchè dato al Vicerè ed all'Arcivescovo di Taranto»
(fratello confidente del Vicerè); le quali ultime notizie su' danari
di Calabria, sulle lettere e sul Breviario, in fondo venivano a
mostrare tutta l'incuria del Nunzio, al quale, e come Nunzio e come
Giudice della causa della congiura, incombeva l'obbligo di guardare
alle cose de' frati con ogni diligenza. La conclusione del Vescovo
presso il Card.^l di S.^{ta} Severina fu questa: «i frati carcerati
debbono essere tradotti alle carceri del S. Officio in Roma per cavarne
la verità»; e su tale conclusione insistè anche con altre lettere,
scrivendo: «questi rei non furono ben difesi, perchè furono perdute
due lettere e il Breviario di cui diè notizia fra Dionisio Ponzio,
e perchè non fu trovato un Dottore che avesse voluto scrivere in
dritto a favor loro, e credo che in questa causa i testimoni habbiano
deposto per isfuggire il foro secolare, per li essempi quotidiani che
havevano avanti all'occhi, il qual timore si vede che persevera in
essi mentre sono nelle forze de i ministri Regii, ma tengo per cosa
certa che se fussero fatti venire à Roma si scopriria la pura verità
dei negocii passati, et parmi apunto che questo negocio sia simile a
quello di bitonto»[229]. Aggiungiamo che il Vescovo trasmise pure a
Roma un memoriale di fra Dionisio intorno alla causa della congiura,
concepito negli stessi sensi. Il memoriale, di cui ci dànno notizia
egualmente i Sommarii de' processi, era diretto a S. S.^{tà}, e fra
Dionisio vi diceva essere innocentissimo tanto per l'eresia quanto per
la ribellione, credere di averlo abbastanza provato per l'eresia, ma
dubitare di poterlo pienamente provare per la ribellione, allegando
le molte ingiustizie patite da parte de' Ministri Regii, a' quali
importava grandemente che non si scovrisse la sua innocenza, e il non
aver potuto trovare un procuratore che non gli fosse sospetto. Faceva
conoscere che molti condannati all'ultimo supplizio aveano disdette
le cose deposte contro gli altri tanto in materia di ribellione che
di fede, ma i Ministri Regii aveano proibito che si mettesse in
iscritto qualche cosa intorno a ciò; esponeva la crudelissima tortura
avuta e le inumanità sofferte in sèguito; conchiudeva supplicando il
SS.^{mo} si degnasse comandare che gli fosse data opportuna facoltà
di potersi legittimamente difendere, che fosse rimosso dalle carceri
secolari e tradotto nelle ecclesiastiche poichè in tal modo avrebbe
potuto difendersi, che la causa della ribellione non fosse spedita
sul processo sin'allora fatto come nullo ed invalido, appellandosi
al SS.^{mo} e protestando della nullità di tutta la causa e di
qualsivoglia Atto di essa.
Senza alcun dubbio i frati non avrebbero potuto avere un Giudice
più del Vescovo di Termoli benigno verso di loro, pur essendo ad un
tempo severo applicatore della giurisprudenza inquisitoriale. La
sua benignità emerge da tutti gli esami fatti e rifatti con tanta
diligenza, e massime dalle diverse sue dimande d'ufficio rivolte
agl'inquisiti; ma rifulge straordinariamente nel giudizio che si
permise di enunciare intorno alla congiura, e nella conclusione alla
quale si dichiarò pervenuto intorno a tutta la causa. Egli giudicò
il primo fondamento, su cui era stata poggiata la faccenda della
congiura, «molto tenue, anzi falso», ciò che per altro disse unicamente
a riguardo delle ciarle che Fabio di Lauro riferiva essergli state
manifestate da fra Dionisio, e ci preme assai che non rimangano
equivoci su tale punto; ma il vedere quel fatto messo in rilievo da
lui, che non aveva l'obbligo di occuparsene, mostra bene qual fosse
l'animo suo verso gl'inquisiti. E sempre meglio ancora lo mostra la
conclusione da lui palesata, che cioè i rei dovessero essere tradotti
nelle carceri di Roma, sottratti al terrore delle forze de' Ministri
Regii, «che se fossero fatti venire a Roma si scopriria la pura verità
de i negocii passati»; con la quale conclusione egli non disse già
que' frati innocenti, degni di essere liberati, ed anche qui ci preme
che non rimangano equivoci, ma accolse appieno i desiderii loro, i
desiderii adombrati da fra Dionisio nel suo memoriale e abbastanza
apertamente espressi anche dal Campanella, che nella sua pazzia e
durante la tortura gridava «al Papa al Papa, quà bisogna che venga
il Papa». Senza dubbio il Vescovo di Termoli, ignaro de' riguardi e
delle transazioni abituali tra le due Corti, onde talora giungevasi
fino a conculcare la giustizia e a sacrificare gl'innocenti, non
teneva conto delle difficoltà che si opponevano all'adempimento
della sua conclusione; dovea quindi di necessità trovarsi in un
ordine d'idee ben diverso da quello del Nunzio, che già abbiamo visto
esclusivamente tenero della buona amicizia tra il Papa e il Vicerè,
condiscendente alle richieste Vicereali purchè si salvasse l'apparenza,
incurante non solo degl'interessi degl'imputati ma perfino del buono
andamento della giustizia verso di loro, e, come vedremo in sèguito,
censore singolarissimo dell'opera del suo collega, ciò che per certo
rappresenta il migliore elogio di costui. Animato dal puro e semplice
amore per la verità, il Vescovo di Termoli dovea sentirsi imbarazzato
vedendo quante circostanze aveano concorso ad ottenebrarla, la
prepotenza ed immanità de' Giudici Regii, la nequizia de' primi Giudici
ecclesiastici, la ferocia degli odii frateschi, lo spirito di profitto
da una parte, la sete di vendetta dall'altra, il terrore incusso
agl'inquisiti da tutti i lati; e dovea soffrirne pure non poco, amiamo
crederlo, per quel sentimento di affetto che il Campanella avea saputo
da lungo tempo ispirargli, e che se non giunse mai a farlo deviare un
solo momento da' suoi doveri d'Inquisitore, lo rese certamente sempre
più caldo nella ricerca della verità. Ma la morte venne a toglierlo da
tanta inquietudine, e venne anche a togliere a' frati inquisiti l'unico
sostegno, su cui potevano contare nella loro infelice condizione.

III. L'anno 1601 s'iniziava con tristi auspicii pe' poveri frati.
Il 1^o gennaio il Vescovo di Termoli moriva nel convento di S.^{ta}
Caterina a Formello, presso la porta Capuana, convento del suo ordine,
in cui si era negli ultimi mesi recato, abbandonando quello di S.
Luigi, e il 2 gennaio era sepolto nell'attigua Chiesa di S.^{ta}
Caterina. Nessuna memoria speciale ricorda il buon Prelato, ma in una
lapide posta non lungi dalla sacristia, rilevata dall'Engenio[230]
e poi, a quanto pare, dispersa, si leggevano i «Nomi e Cognomi
dell'Ill^{mi} Cardinali, e Rev.^{mi} Arcivescovi et Vescovi che sono
sepolti in questa venerabil Chiesa, come quivi di sotto sono scritti,
e la maggior parte sono sepolti con li Padri sacerdoti», e l'ultimo
dell'elenco, l'11^o, era «il Rev.^{mo} Maestro Alberto di Firenzuola
del medem' ordine Vescovo di Termoli, morì à 3 di Gennaio 1601» (sic).
Le circostanze della sua morte ci sono interamente ignote finora.
Nel Carteggio del Nunzio una lettera del 3 gennaio, dopo notizie di
tutt'altro genere, reca anche questa: «hieri si diede sepoltura al
Vescovo di Termoli in S.^{ta} Caterina à Formello, dove si era ritirato
come frate di quella Religione di S. Domenico»[231]; nè si trova una
parola sola di chiarimento e anche meno di compianto per la perdita
del collega Giudice in una causa di tanto rilievo! La Narrazione del
Campanella poi, a proposito di questa morte, reca qualche parola che
ha tutto l'aspetto di una insinuazione, oltre le solite affermazioni
spinto che il Campanella sapeva ben trovare a sua difesa: «Sendo per
la causa del S. Officio venuto dal Papa per Commissario il Vescovo
di Termoli M. Alberto Tragagliola, e si scoperse la falsità del
processo di ribellione per le molte ritrattation che fur fatte dalli
testimoni vivi e morendo; e per le contradittioni, e sconvenienze, e
manifeste scolpationi dell'heresie trovate per schifar la pena della
finta ribellione, el detto Vescovo si fè intendere, che volea liberar
tutti, anche che il Vicerè e Fiscali con promesse e minacce lo voleano
levar di questo proposito, e venne a morte, Dio sà perchè, e disse
morendo «mi dispiace ch'io moro, e non ho liberato questi frati» e lo
scrisse al Papa». Adunque la morte del Vescovo sarebbe stata forse
procurata nientemeno che dal Vicerè e da' fiscali: ma nulla veramente
autorizza ad accogliere un sospetto si grave, nè quel Vescovo avea
propriamente scoperta la falsità del processo della congiura, il quale
trovavasi fuori la sua ingerenza, nè volea propriamente liberare tutti
i frati; e se avesse scritto al Papa in questo senso, i Sommarii de'
processi ecclesiastici non avrebbero mancato di riferirlo. Ben potè
rincrescergli che morendo rimanevano i frati senza alcuno appoggio; e
dal complesso delle affermazioni del Campanella deve anche conchiudersi
che il Vescovo effettivamente non faceva un mistero assoluto delle
opinioni che su que' negozii si avea formate, e «se ne lasciava
intendere», come il Nunzio scrisse più tardi a Roma.
Naturalmente un'interruzione si verificò nel corso del processo, non
solo perchè dovè sostituirsi un nuovo Giudice al Vescovo di Termoli,
ma anche perchè doverono in Roma studiarsi gli Atti processuali fin
allora compiuti per mandare a Napoli istruzioni su quanto rimanesse a
farsi ulteriormente. E frattanto il Governo Vicereale raddoppiò le sue
insistenze, perchè si terminasse una volta la causa dell'eresia, e si
potesse così spedire quella della congiura. Già abbiamo visto che fin
dall'8 settembre, nel mandare a Roma la copia del processo offensivo e
ripetitivo, il Nunzio avea partecipato le premure fattegli dal Vicerè e
da' suoi Ministri; ma dopo di aver mandata la copia anche del processo
difensivo, non cessò mai di sollecitare una risoluzione, e di far
conoscere le vive istanze dei Ministri Regii e de' «Deputati insieme
seco nella causa della ribellione», vale a dire anche di D. Pietro
de Vera certamente dietro doglianze del Vicerè. Così nella lettera
stessa di annunzio della morte del Vescovo di Termoli, e in molte altre
successive, del 19 e 26 gennaio, del 2, 16 e 23 febbraio e del 15
marzo, non si trova altro che una serie di comunicazioni nello stesso
senso, leggendosi: sono stato sollecitato «nè solo hora ma infinite
altre volte per il passato, si che hò havuto et hò che disputare»...;
«vengo di nuovo sollecitato molto per la speditione della causa de'
frati»...; «son di continuo molestato da questi Ministri Regii per la
speditione della causa della ribellione» etc.[232]. Queste lettere, non
pubblicate dal Palermo, son rimaste ignorate; ma vede ognuno quanta
importanza esse abbiano per raddrizzare certi giudizii molto inesatti,
che sono stati proferiti sulla condotta del Governo spagnuolo nella
faccenda del Campanella.
Il 24 marzo (non maggio come fu letto dal Palermo) il Card.^l di
S.^{ta} Severina partecipava finalmente al Nunzio la risoluzione di S.
S.^{tà}, che Mons.^r Vescovo di Caserta intervenisse nella causa del
Campanella e complici «nell'istesso modo che faceva Mons.^r Vescovo
di Termoli»; oltracciò l'ordine dato, dopo aver visti i processi,
di far nuove diligenze col ripetere alcuni testimoni ed esaminarne
altri, come pure di far «diligenze sopra la simulatione della pazzia
di esso Campanella» secondo che scriveva a lungo a Mons.^r di Caserta,
il quale glie l'avrebbe comunicato[233]. E nel processo dell'eresia
abbiamo appunto la lettera del Card.^l di S.^{ta} Severina al Vescovo
di Caserta; ma crediamo bene dar prima qualche notizia sulla persona
del Giudice, cui doveva oramai deferirsi ogni cosa, come già al suo
predecessore.--Vescovo di Caserta era D. Benedetto Mandina, nato
in Melfi di nobile famiglia. Aveva già prima esercitato in Napoli
l'avvocatura con un certo credito, e poi, illuminato da un grave calcio
di cavallo ricevuto ad una gamba mentre cavalcava con gran sèguito di
suoi clienti, era entrato nella Congregazione de' Chierici regolari al
convento di S. Paolo nel 1583. Successivamente trasferitosi a Roma,
perchè pure in S. Paolo era sempre consultato per faccende legali,
gli accadde la cosa medesima da parte delle diverse Congregazioni,
onde venne in credito tanto maggiore, e da Clemente VIII fu creato
Vescovo di Caserta nell'ultimo di gennaio 1594[234]; poco dopo, nel
1595, fu inviato come Nunzio in Germania, in Boemia, in Polonia,
presso Massimiliano, Rodolfo, Sigismondo ed altri Principi, a' quali
fece un'orazione nel convegno di Varsavia, determinandoli alla lega
contro i turchi e a quella guerra in cui si ebbe la famosa rotta di
Agria che abbiamo già avuta occasione di ricordare a proposito del
Bassà Cicala. Al suo ritorno, dopo la morte di Mons.^r Carlo Baldino
Arcivescovo di Sorrento avvenuta nel 1598, gli fu affidata anche la
carica di Ministro della S.^{ta} ed Universale Inquisizione Romana
nel Regno, e però, naturalmente, avrebbe dovuto a lui esser commessa
la causa del Campanella se fin da principio si fosse trovato presente
in Napoli. Tutti questi elevati ufficii da lui tenuti, a' quali venne
poi ad aggiungersi anche la sopraintendenza della Chiesa Arcivescovile
di Napoli dopo la morte del Card.^l Gesualdo, fanno intendere
l'opportunità della sua vocazione a Chierico Regolare, e fanno anche
intendere la profusione di lodi cantategli da' suoi biografi[235]. Era
caritatevolissimo, generosissimo, giustissimo; lo si disse perfino
morto in concetto di santità come il P.^e Beccaria (solo pel Vescovo
di Termoli non ci fu alcuno che sentisse il menomo odore di santità).
Erasi fin dal tempo del suo laicato «esercitato in tutte le opere di
carità nel sodalizio della SS.^{ma} Trinità de' Pellegrini al quale
avea dato il suo nome»; la generosità ed umiltà sua l'aveano ridotto
al punto che si rappezzava le vesti da sè medesimo etc. etc. Inoltre
«nell'amministrar la giustizia era innocentissimo», ma severo co'
delinquenti, ed una volta, in Caserta, gli fu dato il veleno nel vino
con cui celebrava la Messa, ed egli se ne avvide, e perdonando chiunque
glie l'avesse dato, se ne venne immediatamente a Napoli per curarsi. Da
parte nostra non ci saremmo permesso il menomo dubbio su così splendide
virtù, se non avessimo trovato fatti assolutamente opposti nella
trattazione della causa del Campanella e socii.
Ecco ora in breve quanto il Card.^l di S.^{ta} Severina scriveva al
Vescovo di Caserta nella stessa data 24 marzo; la lettera fu inserta
nel processo, iniziando con essa la serie degli atti compresi nel 4^o
volume[236]. Per ordine di S. S.^{tà} egli doveva intervenire nella
causa del Campanella «con l'istesso modo, et autorità che faceva il
Vescovo di Termole», e però gli si mandava una copia del Sommario
del processo. Dovevano farsi alcune nuove diligenze «co' testimonii
tra' quali può essere contestura, à fine di convincere il detto
Campanella, poichè degl'inditii ve ne sono assai», ma ciò nella diocesi
di Squillace, dal Vescovo di quella diocesi che allora trovavasi in
Roma e presto se ne sarebbe tornato; si erano quindi redatti in Roma
alcuni articoli addizionali per la ripetizione de' testimoni, e se ne
mandava la copia a Napoli per farli presentare in processo e darne
comunicazione legale al procuratore del Campanella, il quale avrebbe
redatti gl'interrogatorii da doversi fare sopra i detti articoli e da
doversi mandare a Squillace. Trovandosi carcerati in Napoli due di que'
testimoni, cioè Giulio Contestabile e Geronimo di Francesco (e ben si
vede che il S.^{ta} Severina non conosceva la condanna all'esilio già
in corso pel Contestabile), dovevano essere egualmente esaminati, ed
anche ripetuti su' medesimi interrogatorii ed articoli laddove avessero
deposto cose rilevanti. Infine dovevano pure per ordine di S. S.^{tà}
farsi le diligenze necessarie per scoprire la simulazione della pazzia
del Campanella a questo modo: «che si faccia visitare da Medici più
volte, et poi si habbia il loro parere in scritti, et anco se gli
dia il tormento della veglia con quella circonspettione che parerà
conveniente per scoprire, et ritrovare questa simulatione di pazzia».
Tutte queste cose egli dovea comunicare a' suoi colleghi, al Nunzio ed
al Vicario Arcivescovile.
Mandava perciò il Card.^l di S.^{ta} Severina l'elenco delle
diligenze da doversi fare in Squillace e parzialmente in Napoli,
coll'indicazione de' testimoni da doversi esaminare e ripetere su
ciascuno de' fatti che si volevano provare; inoltre gli articoli, ne'
quali si trovavano espressi i più cospicui tra codesti fatti[237].
I testimoni erano parecchi. E dapprima fra Simone e fra Dionisio di
Placanica, e fra Domenico di Riace; questi erano stati nominati da fra
Gio. Battista di Placanica, siccome presenti alle due affermazioni del
Campanella, la fornicazione non essere peccato, e la legge dei turchi
essere migliore di quella de' cristiani. Dippiù Tiberio e Scipione
Marullo, Fulvio Vua, Gio. Gregorio Prestinace, Giulio Contestabile
e Geronimo di Francesco, Giulio Presterà, Francesco Bono, Fabrizio
e Paolo Campanella, fra Scipione Politi, tutti nominati dal Petrolo
come coloro a' quali il Campanella avea comunicate diverse eresie
delle quali si dava un ricordo. Dippiù altri ed altri ancora, nominati
nel primo processo del Vescovo di Squillace, siccome presenti alle
affermazioni del Campanella, del potersi salvare anche senza il
battesimo, del non esser valida la Messa celebrata da chi si trovasse
in peccato mortale. Infine anche D. Marco Petrolo, nominato da
Cesare Pisano come presente al sermone di fra Dionisio nella casa di
Gio. Alfonso Grillo; nella quale occasione poteva esaminarsi anche
Tiberio Lamberto che avea detto volere il Campanella predicare una
nuova legge.--Gli articoli, compilati dal solito Procuratore fiscale
Rev.^{do} Giulio Monterenzio bolognese, furono solamente quattro,
attestanti avere il Campanella osato affermare «etiam cum pertinacia»,
che non valeva, e dava solo qualche vantaggio temporale, la Messa
celebrata essendo il sacerdote o l'instante in peccato mortale, che
poteva esservi salvazione senza battesimo, che non occorrevano tante
religioni di frati, le quali cose erano notorie nella diocesi di
Squillace e qua e là nella Calabria anche prima della carcerazione del
Campanella. Il fatto di maggiore importanza in questi articoli fu la
qualificazione della causa del Campanella, che venne detta «di eresia
e di relapso»; per la prima volta non si parlò più di ateismo e si
cominciò invece a parlare giudizialmente di relapso, ciò che era ben
più grave nelle sue conseguenze, come abbiamo già avuta occasione di
mostrare altrove[238].
Avuta la lettera e gli atti or ora indicati, il Vescovo di Caserta
recatosi dal Nunzio, secondochè ci fa sapere una lettera di costui
del 30 marzo[239], disse che per allora gli occorreva andare alla
sua Chiesa, ma sarebbe presto tornato per condurre a termine la
causa. Ed intanto si provvide che fin dallo stesso giorno 30 marzo
fosse data all'Avvocato assegnato al Campanella la copia degli
articoli addizionali, col termine di due soli giorni per produrre
gl'interrogatorii; e il 2 aprile, il magnifico Gio. Battista dello
Grugno, che questa volta si nominò, produsse 11 interrogatorii, scritti
nelle solite maniere, ma meno banali, più conducenti allo scopo, e
in diversi punti non senza un certo acume. P. es. a proposito del
non essere necessarie tante religioni, egli volle che i testimoni
dicessero se ciò era stato affermato nel senso che non fossero
necessarie nelle città, ovvero nel senso che non fossero buoni
mezzi di salute; a proposito del potersi salvare senza battesimo,
egli volle che i testimoni dicessero se ciò era stato affermato
parlando del battesimo in re, ovvero del battesimo _in voto_. Del
resto, come Atti riguardanti la persona del Campanella, noi ci siamo
creduti in debito di riportarli tra' documenti, e i lettori potranno
giudicarli[240].--Mettiamo qui, per non intralciare la narrazione,
che gli articoli del fisco vennero subito mandati a Squillace, ma in
ultima analisi non si potè quivi conchiuder nulla, come ci mostrano
due lettere del Card.^l di S.^{ta} Severina, l'una al Nunzio scritta
il 30 marzo, l'altra al Vescovo di Caserta scritta parecchi mesi
dopo[241]. I testimoni in generale probabilmente aveano fin perduta la
memoria di quelle proposizioni; parecchi tra loro e i più importanti,
come il Vua e il Prestinace, erano irreperibili, poichè si tenevano
nascosti per isfuggire i rigori del Governo; ed oltre a tutto ciò fra
non molto tempo, nel giugno di quell'anno, il Vescovo di Squillace
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