Fra Tommaso Campanella, Vol. 2 - 03

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trovavasi nel Castel nuovo, e ci basterà nominare solamente Geronimo
del Tufo, Maurizio de Rinaldis, e insieme con tutti gli altri
ecclesiastici ed anche co' parenti suoi il Campanella. Mano mano molti
carcerati dal Castello dell'uovo passarono del pari nel Castel nuovo,
e segnatamente Ferrante Ponzio, Francesco Antonio d'Oliviero etc.; ma
perfino un anno e mezzo dopo questo tempo di cui parliamo ve n'erano
sempre alcuni nel Castello dell'uovo, p. es. il Gagliardo. Gioverà
rammentare in breve qualche particolarità del Castel nuovo, poichè
non ci mancano elementi per definire la parte di esso occupata da'
carcerati calabresi, il torrione in cui il Campanella fu rinchiuso,
ciò che ci sembra dover riuscire interessante al cuore di ogni persona
bennata. Come conoscono gli amatori delle cose patrie, nel Castel
nuovo si distingue il maschio o castello Angioino del 1283, fornito
delle cinque maestose torri, due delle quali verso il mare e tre
verso terra, e la falsabraca o revellino Aragonese del 1486, con le
sue torri e cortine molto basse, poi successivamente elevate, che a'
giorni nostri abbiamo visto con poco giudizio spianare. A' tempi de'
quali trattiamo, la falsabraca con le sue torri in gran parte quadre
era incomparabilmente più bassa di quanto possiamo ben ricordare averla
vista, e le cinque torri del maschio, veri torrioni si elevavano
un poco di più sul livello de' bastioni rispettivi, i quali non
raggiungevano l'altezza attuale, come si può vedere abbastanza bene p.
es. dalla gran carta di Napoli incisa da Alessandro Baratta nel 1628,
che ogni amatore delle cose belle della città ha certamente ammirata
nel Museo di S. Martino. E possiamo aggiungere che a que' tempi si
chiamava impropriamente «reveglino» lo spazio compreso tra il maschio
e la falsabraca; infatti nel processo vedremo parlarsi di uno scritto
buttato giù dalla «cancella... al reveglino _tra le due porte_, che
risponde ala finestra dela carcere del Campanella», in un momento in
cui egli veniva sorpreso da una visita del luogotenente del Castello
in cerca di scritti. Le cinque torri Angioine poi si chiamavano, la
prima sul mare, ad oriente, Bibirella, nome improntato certamente
da quella porzione di mare che essa guarda e che ancor oggi dicesi
dal volgo _beveriello_, l'altra egualmente sul mare, ad occidente,
Talassia, vale a dire marina, dal nome greco corrispondente; le due
laterali alla porta maggiore verso terra, costeggianti il magnifico
Arco d'Alfonso, si chiamavano torri della porta; l'ultima, ad oriente,
sì chiamava dell'Incoronata, dei Governatore o del Castellano, perchè
vi abitava appunto il Castellano. Siffatti nomi non s'incontrano nel
processo, ma nelle scritture ed anche ne' libri del tempo (basti
citare il Capaccio), ed importa conoscerli per potersi intendere: nel
processo s'incontra solamente più volte citata «la loggetta delle
carceri,.. il piano della loggetta,.. l'arco e il corridoio della
loggetta», dove potevano in alcune ore i carcerati minori salire e
passeggiare, ed inoltre citato, il «torrione» da cui il Campanella
dava i suoi Sonetti a Maurizio «calandoli con uno filacciolo», «il
torrione» da cui il Campanella, mostratosi pazzo, predicava la crociata
al «populo che andava a vedere ad impiccar uno», il quale spettacolo si
conosce che eccezionalmente si dava nella piazza del Castello, mentre
ordinariamente si dava nella piazza del Mercato. E vedremo da' Registri
de' Bianchi di giustizia risultare, che l'esecuzione di Cesare Pisano
fu fatta fare «vicino la Guardiola del Castello» (presso a poco dove
fino a' giorni nostri e stata la posta delle lettere), e quella di
Maurizio innanzi la «Chiesa di Monserrato» (che sta quasi dirimpetto)
vale a dire all' ingresso dell'attuale Strada di Porto, che allora
dicevasi Piazza dell'Olmo, vale a dire di prospetto alla torre del
Castellano, senza dubbio per metterle sotto gli occhi del Campanella e
de' suoi calabresi. Da tutto ciò può desumersi con bastante certezza
che il Campanella sia stato rinchiuso nella torre del Castellano, sotto
gli appartamenti di D. Alonso de Mondezza, e che le carceri occupavano
i piani inferiori di questa torre e i bastioni vicini, tanto verso la
torre Bibirella, quanto verso la torre corrispondente della porta,
trovandosi appunto sulla sommità di questi bastioni la loggetta del
Castello. La massa de' calabresi era mista con altri là detenuti, per
imputazione o per condanna, sia in nome del potere civile sia in nomo
del potere ecclesiastico, e ne vedremo figurare parecchi noi corso
di questa narrazione: occupavano molti il carcere così detto «del
civile», occupavano altri il carcere criminale che stava più in alto
e componevasi di camere più piccole, dove erano rinchiusi uno, due e
fin quattro individui, secondo l'importanza di essi, disponendo per
solito di un sol letto ogni coppia e venendo spesso tramutati da una
camera nell'altra. I miserabili ricevevano un carlino al giorno (circa
40 centesimi), e sappiamo che così vivevano moltissimi, tra gli altri
il padre del Campanella, il Tirotta, gli stessi frati, come fra Paolo
della Grotteria, fra Pietro di Stilo, il Petrolo, il Bitonto, e senza
dubbio anche il Campanella, dopochè fra Cornelio si aveva appropriato
il danaro raccolto in Calabria per loro. Mercè qualche inserviente,
e sopratutto qualche parente venuto di Calabria per assisterli, i
carcerati potevano provvedersi delle cose necessarie al vitto, che
erano soggette a visita quando s'introducevano nel Castello; e così
sappiamo che un giovanetto Aquilio Marrapodi figlio di Gio. Angelo,
oltre il padre, serviva i Ponzii, il Petrolo, il Lauriana e il Pizzoni,
comprando «per questi monaci foglie, fave, carcioffi, radici et altre
cose da mangiare»[26]; potremmo perfino dare qualche lista della
magra spesa quotidiana che si faceva anche per taluni de' carcerati
del Castello dell'uovo, essendo notata sul rovescio di alcune carte
sequestrate al Gagliardo ed allegate nel processo[27]. Naturalmente
i carcerati non mancavano di profittare di questo mezzo e di qualche
altro ancora per mandarsi cartoline e biglietti, ciò che per altro
era proibito; ma solamente più tardi dando pochi soldi a uno de' due
carcerieri Alonso Martines ed Onofrio, nominati anche nella Narrazione
del Campanella, riuscirono ad avere diverse concessioni che a tempo
proprio vedremo. Gli ecclesiastici, servendosi, principalmente di
motti latini, poterono con tanto maggiore facilità mettersi in qualche
relazione tra loro dalle finestre: poichè sappiamo con certezza
essere stati perfino i più compromessi, dal primo momento, posti
nelle «segrete», ossia in camere capaci di una sola persona e tenute
strettamente chiuse, non già nelle così dette «fosse»; in queste furono
posti al tempo de' loro esami, quando i Giudici solevano darne l'ordine
per indurli a confessare. Le fosse si trovavano a piede del torrione
del Castello, e ricevevano luce da aperture che corrispondevano
alla parete dell'antico fossato, il quale circondava il Castello e
in origine poteva anche ricevere acqua dal mare; del resto non ne
mancavano di quelle affatto oscure, e rinomata fra tutte era la fossa
del _miglio_ o del coccodrillo, nota fin dal tempo degli Aragonesi,
nella quale il Campanella narrò di essere stato posto prima del
tormento. Alcuni lavori fatti durante la prima metà di questo secolo,
ad occasione dell'ampliamento della fonderia di cannoni là eretta,
posero in mostra queste fosse con lagrimevoli iscrizioni ed anche con
qualche residuo di scheletro, la qual cosa ribadisce che il torrione
delle carceri, dimora del Campanella, sia stato quello che abbiamo
indicato[28]. Si aveano dunque, da sotto in sopra, le fosse, la carcere
del civile a pian terreno, le carceri criminali che occupavano i due
piani superiori: e sappiamo che nel primo periodo della prigionia il
Campanella trovavasi in una carcere criminale del piano più elevato, e
Maurizio in un'altra del piano più basso immediatamente sottoposta alla
prima, sicchè poterono talvolta scambiarsi qualche parola, e perfino,
mediante un filo, trasmettersi qualche carta[29]. Ogni lettore umano,
passando in vista del Castel nuovo, vorrà, speriamo, rivolgere uno
sguardo a quel torrione, con un pio ricordo de' generosi, che tanto vi
patirono senza che l'opera loro sia stata nemmeno riconosciuta.
A due cose attese il Campanella assiduamente fin da' primi tempi della
sua prigionia in Napoli, sollecitare la ritrattazione da coloro i
quali aveano rivelato, dare animo a coloro i quali si erano mantenuti
negativi o in qualunque modo gli si mostravano tuttora amici. Come
già in Calabria, così in Napoli, egli rivolse le sollecitazioni
particolarmente al Pizzoni e al Petrolo; non occorse che sollecitasse
il Lauriana, perchè anzi costui in Gerace gli avea scritta egli
medesimo una lettera, nella quale, gli comunicava l'esame di
Monteleone, gli prometteva con giuramento che si sarebbe ritrattato,
e finiva per dimandargli il modo di potersi ritrattare. Nè stentiamo
a credere che talvolta le sollecitazioni del Campanella non sieno
state espresse in forma di preghiere, onde i sollecitati poterono
dire di avere avuto da lui «minacce»; se non che i pochi documenti
che ne sono rimasti non lo confermano, e d'altronde vi furono tanti
motivi di asserire e di smentire a vicenda queste cose, da non poterne
facilmente assodare la verità. Al Petrolo, come dicemmo a tempo e
luogo, avea fatte alcune sollecitazioni per via, tra Squillace e
Gerace, direttamente; altre glie ne potè fare mediante Cesare Pisano
in Monteleone, e poi ancora altre in Napoli ne fece di persona dalla
finestra. Così gli avrebbe detto che bisognava ritrattarsi o altrimenti
capiterebbe male, che era caduto in irregolarità avendo deposto in
causa capitale contro particolari etc.; ma vedremo ulteriormente,
che quando si pose a scrivere Poesie gli scrisse anche un Sonetto al
medesimo scopo, ed in esso non si leggono minacce bensì le maggiori
lusinghe. Al Pizzoni poi avea pure fatte sollecitazioni mediante fra
Pietro Ponzio in Gerace, ed altre glie ne fece in Napoli per lo stesso
mezzo, giacchè vedremo con certezza aver lui potuto parlare con fra
Pietro dalla finestra; ma poi gli riuscì di mettersi in comunicazione
diretta col Pizzoni mediante lo scambio di un Breviario, e ciò che se
ne disse in sèguito mostra che nemmeno vi furono minacce; ecco pertanto
come il fatto venne riferito[30]. Si trovavano ciascuno in una segreta.
Il Campanella dimandò al carceriere Alonso Martines un Breviario, e
il carceriere gli portò quello del Pizzoni. Nel Breviario «fra Gio.
Battista pose molti signacoli di carta larghi, fatti à posta di certi
modelli di musica rigati con le note, et d'una lettera nella quale
si vedea che li fosse stato dato avviso, che la Causa era già stata
rimessa al sig.^r Nuntio et à Don Pietro di Vera, et in detti signaculi
scriveva ch'esso fra Gio. Battista havea detto à frà Silvestro che
insieme seco deponesse cose di santo officio per scampar quella gran
furia, perchè in quel muodo la Corte secolare à viva forza l'harebbe
punito per l'heresie, e Ribellione, il che non harebbe fatto per la
sola ribellione, ma di fatto l'harebbe appiccati, già che quelli di
Catanzaro, che la revelorno, dissero, ch'il Papa la favoriva» etc.
Dimandava anche il Pizzoni, in quelle cartoline, chi fosse stato quel
frate che, secondo la cronaca di S. Domenico, ebbe dalla B.^{ta}
Vergine la rivelazione che mai monaco di S. Domenico sarebbe stato
eretico, se molto tempo innanzi non avesse deposto l'abito, e diceva
di confidare che avrebbe potuto facilmente ritrattarsi, e ricordava
diverse autorità, come il Cipolla Veronese, che permetteva dir cose di
eresia a' condannati a morte per essere protetti dal S.^{to} Officio,
e S. Girolamo che concedeva il mendacio ad _evadendam mortem_. E il
Campanella, conservando presso di sè alcune cartoline più importanti,
scrisse sulle altre «che havea fatto molto bene, et che frà Domenico
Petrolo à sua persuasione havea seguitato l'esempio d'esso frà Gio.
battista, con l'istesso intento di ritrattarsi, et che quel frate della
revelatione ut supra fù Reginaldo si ben si ricordava etc., et li diede
esso Campanella molte altre authoritati per tal difesa». Ma passato
e ripassato tra loro questo Breviario, ed esaurite le cartoline,
cominciarono a scrivere sul Breviario medesimo, ove poteasi vedere di
mano del Campanella scritto «bene et fideliter... ut lacrimas emiserim
prae laetitia», ed inoltre «Micheas propter timorem mortis prophetavit
falsum, et adiuratus se se retractavit, 3.^o Reg. 24». E il Campanella
si diè anche premura di far sapere queste cose a fra Dionisio che stava
in un'altra segreta; ed avendogli mandata scritta «dentro un pasticcio
una cartella di simili andamenti, entrati in sospetto li carcerieri,
aprirono il pasticcio, et trovata la cartella quella presentarono al
Vice Rè, come anco per veder così scritto et scacacciato il Breviario,
quello anco presentorono al medesimo Vice Rè, et si disse, che furono
da lui rimandate al fiscale». Siffatte cose, verificatesi durante un
certo periodo di tempo, furono poi riferite da fra Dionisio; e potrebb'
essere che vi sia stata qualche esagerazione da parte del relatore,
ma bisogna convenire che nulla vi s'incontra d'inverosimile, salva
sempre la quistione della serietà delle cose che si comunicavano i due
scrittori nelle cartoline e nel Breviario. Poichè all'uno ed all'altro,
sotto tutti gli aspetti, conveniva scrivere in quel senso; ma si
può dubitare che esprimesse la verità il Pizzoni, il quale infatti
non fece di poi nulla di ciò che scrisse, e si deve dubitare che
esprimesse la verità il Campanella, il quale, mentre dicevasi allietato
fino alle lagrime, ad ogni buon fine metteva in tasca qualcuna delle
cartoline scritte dal Pizzoni, che egli oramai avea potuto ravvisare
«bilingue». Vedremo infatti che al momento in cui il Campanella fu
spogliato per essere sottoposto alla tortura, gli fu trovata una delle
dette cartoline, ed anche un sunto dell'esame del Lauriana certamente
scrittogli da costui, il quale soltanto può dirsi avere agito in
buona fede, ma sotto l'impero di una stringente necessità; poichè
evidentemente, spinto dal Pizzoni, si era posto in un brutto garbuglio,
da cui non sapeva in qual modo districarsi, e temeva molto che
ritrattandosi sarebbe capitato male.--Dobbiamo aggiungere che pure con
Maurizio il Campanella si mantenne in relazione, e, a quanto sembra,
dalla finestra, verbalmente, profittando del trovarsi le rispettive
carceri l'una sopra l'altra; ma non dovè di certo sollecitarne la
ritrattazione, ed invece si dovè forse scusare presso di lui. Come si
seppe in sèguito, continuò a dirgli qualche particolare sugli uomini e
sulle cose della ribellione disegnata e tanto acerbamente prevenuta:
ma una volta Maurizio, abbandonata ogni illusione, gli disse che
in que' travagli loro «era tempo di riconoscere Iddio, e che stava
scandalizzato di quella parola che havea detto in Stilo, che Giesu
christo era un'huomo da bene», immaginandosi esser lui «in opinione che
christo non fusse vero figliolo di Dio»; e il Campanella gli rispose
che lui, Maurizio, «non intendeva bene li negotii» nè si curò di
fornirgli spiegazioni.
D'altra parte, dicevamo, il Campanella attese a dare animo agli
amici: questo fece componendo Poesie, siccome troviamo ricordato dal
_Syntagma_, dove per altro se ne parla con una completa confusione di
tempi. Per fortuna, la raccolta che noi pubblichiamo, essendo stata
fatta in un periodo ben determinato e relativamente breve, ci mette
in grado di potere fino ad un certo punto assegnare alle diverse
poesie la propria data, oltrechè ci fornisce precisamente quelle
composte fin da principio e con lo scopo di rinforzare l'animo degli
amici, rimaste poi naturalmente inedite perchè compromettenti. Ma è
facile intendere che pochissime potrebbero riferirsi ad un periodo
anteriore al cominciamento de' processi, perocchè a questi si pose
mano con sollecitudine, e il maggior numero si collega con le vicende
del processo della congiura così de' laici come degli ecclesiastici;
laonde, per non scindere di troppo l'esposizione di queste poesie,
gioverà dapprima narrare ciò che sappiamo del processo della congiura,
e in sèguito ricercare le poesie da doversi dire composte nel periodo
in cui il detto processo fu istituito e svolto.

II. Veniamo dunque al processo della congiura pe' laici[31]. Dicemmo
che la commissione Vicereale fu data il 15 novembre a Marco Antonio
d'Aponte e a D. Giovanni Sanchez o Sances, con l'ordine di riconoscere
le informazioni e gli atti di Calabria, procedere sommariamente
_sine strepitu et forma Judicii_, e non ritardare la buona e breve
amministrazione della giustizia, servendosi di Giuliano Canale
per Mastrodatti. Vedemmo pure avere il Vicerè provveduto che lo
Xarava aiutasse il Sances, e scritto a Madrid, il 30 novembre, che
si andava già procedendo contro i laici, e il 13 dicembre, che si
sarebbe cominciato a far giustizia di alcuni. Gli ordini del Vicerè
furono eseguiti puntualmente, ed è chiaro che non si perdè tempo;
solo dobbiamo notare che a Giuliano Canale venne sostituito Marcello
Barrese, il quale servì da Mastrodatti egualmente nella causa della
congiura per gli ecclesiastici, e di tale sostituzione ci rimane
tuttora ignoto il motivo.
Secondo il costume del tempo, si procedeva separatamente e
successivamente per un determinato individuo o per un determinato
gruppo d'individui, e si sentenziava a misura che si compivano gli atti
ad essi relativi: così vi furono condanne ed esecuzioni in Calabria,
e poi in Napoli, ed analogamente vi furono altre condanne od invece
assoluzioni di tempo in tempo. Trovandosi due già condannati a morte in
Calabria, Maurizio de Rinaldis e Cesare Pisano, sopra di essi appunto
cominciò a svolgersi l'opera del tribunale, certamente per averne, se
fosse stato possibile, rivelazioni in danno anche degli altri, al quale
scopo si era giudicato meglio tenerli ancora in vita; con gli atti
relativi a costoro ebbe ad iniziarsi il 3.^o volume del processo, al
sèguito di quelli compiuti in Calabria. Maurizio non avea confessato
nulla malgrado gli orribili tormenti avuti; ricominciarono per lui
in Napoli gli esami e ricominciarono i tormenti non meno crudeli. Il
Campanella medesimo cantò che Maurizio il primo avea vinto i tormenti
antichi e sprezzato i nuovi, che avea sofferto tormenti inusitati per
trecento ore[32]. È facile qui vedere una esagerazione poetica, ma,
come abbiamo già avuta occasione di dire altrove, Mons.^r Mandina,
il quale fu più tardi Giudice dell'eresia e potè saperlo in modo
autentico, affermò che era stato tormentato per settanta ore, alludendo
con ogni probabilità a' soli tormenti avuti in Napoli. Per quanto
possiamo giudicarne, egli dovè soffrire due volte, a breve intervallo,
il tormento della veglia, ne' modi e forme che vedremo con tutti i loro
particolari in persona del Campanella, il quale lo soffrì in sèguito,
per una volta sola, nella causa dell'eresia. Comunque il tormento della
veglia dovesse durare quaranta ore, pe' modi enormemente aspri con cui
si amministrava sopratutto in Roma e in Napoli, quasi mai si giungeva a
siffatto termine, senza che il paziente cadesse in tale prostrazione da
far cessare la prova innanzi tempo, tanto più che il Giudice era tenuto
a rispondere della morte di lui se avesse soccombuto nel tormento; e la
prostrazione, quando gl'individui erano di buona tempra, ordinariamente
si verificava fra le trenta e le trentacinque ore, ed ecco le settanta
ore di tormento affermate dal Mandina. Nè rappresenta una difficoltà il
leggersi «tormenti inusitati», poichè appunto tra questi era annoverata
la veglia, e vi si ricorreva soltanto per casi straordinarii, mentre
poi d'altra parte i Giudici di professione, a differenza de' «Capitani
a guerra», doveano pure contenersi in quelle categorie di tormenti,
che erano ammesse da' Giuristi e dalle consuetudini di ciascun
paese[33]. Ad ogni modo le prove furono terribili, eppure vennero
nobilmente superate da Maurizio: il fortissimo uomo non fece la menoma
rivelazione, soffocando qualunque rancore, mentre già conosceva di
essere stato nominato fin troppo nella Dichiarazione del Campanella!
Ma durante i tormenti venne senza dubbio fatta la protesta che lo
s'interrogava «citra prejudicium probatorum»; e poi, benchè non
confesso, era pur sempre convinto, e gli si potè confermare la sentenza
di morte, condannandolo ad essere appiccato e squartato certamente con
la formola del tempo, «suspendatur in furcis adeo quod anima a corpore
segregetur, eiusque cadaver in quatuor frustra dividatur». È superfluo
poi dire che la sua casa doveva essere demolita ed aspersa di sale,
e i suoi beni dovevano essere confiscati: «domus propria diruatur
funditus, et solo aequata, in ea sale asperso, destruatur; singula
eius bona publicentur, et fisci commodis applicentur». Vi fu dunque
la conferma della sentenza di morte già pubblicata in Calabria, e non
poteva essere altrimenti; deve dirsi inoltre che vi fu una mitigazione
nella specie del supplizio, in paragone di quello tanto spaventoso
sentenziato dallo Spinelli forse a proposta dello Xarava, ed anche da
questo lato non poteva essere altrimenti, perocchè il tribunale non era
come il precedente «ad modum belli». Dopo ciò è facile giudicare quanto
il Campanella scrisse molto più tardi, nella sua Narrazione, circa
l'influenza che avrebbe avuta nella condanna di Maurizio l'amicizia e
la parentela del Sances col Morano, il quale desiderava la morte di
Maurizio per ereditarne un feudo e stringere una nuova parentela col
Sances mediante un matrimonio. Con un po' di confusione di tempo e di
circostanze, mostrato già in corso e bene avviato il processo degli
ecclesiastici che invece non era cominciato ancora, il Campanella
scrisse: «Sendo stato fatto fiscale in luoco di Xarava D. Gio. Sances,
la cui sorella havea per marito il Baron di Gagliato, fratel di Giovan
Geronimo Morano, il cui figlio per dispensa venuta del Papa stava
per pigliar la figlia unica del Barone, nepote del Sances, e perchè
detto Morano havea scorso il regno e preso Mauritio e F. Dionisio
carcerati con molto vantaggio e sperava dal Rè un Marchesato, come si
vantava publicamente, e di più desiderava la morte di Mauritio, perchè
morendo senza herede mascolo esso Mauritio, il Morano hereditava di
quello un feudo, come poi l'hereditò. Per questo il Sances oltra le
sue pretendenze et amicitia delli processanti non cercò s'era vera
la ribellione ma si sforzò verificarla, e far morir Mauritio». La
parentela del Sances col Morano è fuori contestazione, ma è un fatto
che il Sances non poteva non trovar vera la ribellione, e che Maurizio
non poteva in alcun modo scansare la morte, come nemmeno la scansò
quando più tardi fece sotto il patibolo una spontanea confessione di
ogni cosa. E dobbiamo aggiungere che alla mano della figlia unica del
Barone di Gagliato, D.^a Camilla Morano, a quel tempo di soli dodici
anni, aspirava il cugino del Fiscale, un altro D. Giovanni Sances,
figlio di D. Giulio, che difatti la sposò più tardi, nel novembre
1605, avendone in dote la terra di Gagliato e il rinomato feudo di
Burgorusso in tenimento di Stilo, e fu lui che divenne poi Marchese di
Gagliato. Non sarebbe veramente difficile che vi avesse aspirato anche
il figlio di Gio. Geronimo Morano, giacchè abbiamo nel Grande Archivio
documenti i quali mostrano la gran cura del Governo nel far tenere D.^a
Camilla in Monastero, secondo i principii dell'ingerenza governativa
ne' matrimonii de' nobili a' tempi feudali[34]. Ma è evidente che in un
simile conflitto di rivali non avrebbe potuto esservi nemmeno amicizia
tra il Sances e Gio. Geronimo. Vedremo poi come finirono i beni di
Maurizio, il quale forse potè essere semplicemente subfeudatario di
una parte di Borgorusso, mentre le ricerche più ostinate su tale punto
non ci hanno fatto sinora scovrire alcun feudo speciale di quella
regione da lui posseduto. Nella detta ipotesi la morte di Maurizio
nemmeno avrebbe profittato a Gio. Geronimo, ma a D.^a Camilla; ad ogni
modo quanto era già avvenuto, anche prima che la causa si agitasse
in Napoli, mostra nel modo più chiaro che il Sances non poteva che
dimandare ed ottenere la condanna di morte per Maurizio[35].
Intorno a Cesare Pisano, che il Nunzio aveva nella sua lista qual
clerico, e il Governo riteneva doversi continuare a trattare qual
laico, non sappiamo come si sia veramente proceduto nel tribunale
di Napoli: sappiamo solo ciò che ne disse il Nunzio quando venne a
conoscere l'esito del giudizio, scrivendone una lettera di lagnanza
al Vicerè, nella quale lo avvertiva aver inteso che contro del Pisano
«si procede con tanto rigore per il capo della ribellione, che senza
ammettergli ne anche la probanza del Clericato è stato condannato à
morte». Forse il tribunale stimò che avesse confessato abbastanza,
e che invece di far nascere la quistione giurisdizionale col rumore
di nuovi esami e nuovi tormenti, fosse preferibile dare un saggio di
vigore confermando la condanna ed eseguendola senza curarsi d'altro.
Lo argomentiamo dal conoscere la prolissa maniera di rispondere,
che il Pisano era solito di usare ne' suoi interrogatorii, onde non
sarebbe mancata poi la citazione di qualche notizia tratta da un nuovo
interrogatorio, laddove questo ci fosse stato.
La condanna di Maurizio, e così pure quella analoga del Pisano,
doverono pronunziarsi o almeno decidersi nel Consiglio Collaterale
il 10 o 12 dicembre, poichè il 13 già si trasmetteva a Madrid la
notizia di prossime esecuzioni. Difatti pel giorno 20 si allestiva
certamente l'esecuzione di Maurizio, e molto probabilmente anche
quella del Pisano, onde il Nunzio nel giorno 19 potè conoscere che
costui era stato condannato a morte, e potè scriverne in fretta al
Vicerè, facendogli notare, che non solo come clerico il Pisano avrebbe
dovuto essere giudicato pure da lui «secondo l'appuntamento fatto con
S. S.^{tà}», ma anche come molto informato dell'eresie suscitate dal
Campanella, «e forse della medesima setta», dovea essere riserbato;
«non per campargli la vita, egli scriveva, se merita perderla per
il capo della ribellione, ma per riscontro et castigo di quel che
appartenesse al S.^{to} Officio», supplicandolo di «non permettere che
la causa della ribellione humana si solleciti tanto che pregiudichi
à quella della ribellione divina, perchè si sarà in tempo di castigar
l'una et l'altra»[36]. Il Vicerè sospese allora la faccenda in quanto
al Pisano, per farla sopire e darle poi corso più tardi a modo suo,
di sorpresa. Rispose al Nunzio in termini generali, che in tutto ciò
che si poteva servirlo, stesse certo, che lo si farebbe, e sarebbero
liberati coloro che non paressero colpevoli in delitti così gravi,
etc.[37]; non prese quindi alcuno impegno determinato, ed egualmente
fece allorchè più tardi il Nunzio glie ne parlò, dimostrandogli che
bisognava sempre mantener vivo il Pisano per riscontro delle cose
del S.^{to} Officio, anche quando i suoi Ministri non lo ritenessero
clerico, come non lo ritenevano perchè non avea nemmeno indossato
l'abito clericale «non ostante che mostrasse di haver preso gli anni
passati gli ordini minori»[38]. Il Vicerè non lasciò intendere la sua
opinione, e frattanto, con molta unzione, si diè premura d'intercedere
a Roma, perchè fosse assoluto il Principe di Scilla, già scomunicato
per l'affare di Marco Antonio Capito dal Vescovo di Mileto.
Ma in quanto a Maurizio, il 20 dicembre si andò per l'esecuzione; se
non che una circostanza affatto impreveduta la fece poi sospendere
per quel giorno. Massime il relativo documento da noi trovato
nell'Archivio de' Bianchi di giustizia, ed inoltre una lettera del
Residente Veneto, ce ne dànno sufficienti particolari. Giusta la
consuetudine, il condannato doveva uscire dalle carceri della Vicaria,
ed a spettacolo pubblico traversare una gran parte della città,
percorrendo la via oggi detta de' Tribunali, scendendo pel vico Nilo
(che perciò dicevasi «degl'Impisi» e fino a' giorni nostri fu detto
«Bisi»), per dirigersi di là alla piazza del Mercato, ovvero scendendo
per la via di Toledo e girando presso Palazzo (e ben s'intende che
qui si parla del Palazzo vecchio), per dirigersi alle adiacenze di
Castel nuovo. Maurizio fu egli pure tradotto dapprima alla Vicaria, e
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