Fra Tommaso Campanella, Vol. 2 - 29

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del d.^o Castello»; fino a tale punto si estendevano le ingerenze
delle mogli de' Castellani[306]. Veniamo a Masillo Blanco ossia Gio.
Tommaso Blanch, come leggesi sotto la sua deposizione. In questa egli
si disse figlio del Barone di Olivito (_int._ Oliveto) dell'età di 19
anni, carcerato da oltre 13 mesi per un «preteso insulto» in persona
di Ottavio Stinca (l'insigne avvocato che abbiamo avuto occasione di
menzionare in questa narrazione); gli scrittori di cose nobiliari e
sopratutto il Carteggio del Nunzio, ci dicono il resto[307]. Era uno
de' più giovani figli di Francesco Blanch, 2^o Barone di Oliveto, e
di Lucrezia Capecelatro, la cui discendenza brillò moltissimo nella
carriera militare: il terzogenito di costoro, Alfonso Blanch, si
distinse più di tutti nelle guerre del Piemonte e morì in Fiandra,
nell'assalto di Capelle, avendo sotto i suoi ordini il fratello Mario
cavaliere gerosolimitano, che fu poi ucciso da' vassalli in Oliveto;
il De Lellis non parla di questa brutta fine di Mario, ma ne parla
il Nunzio nel suo Carteggio, perocchè il principale tra gli uccisori
fu un clerico, ed opponendo le solite difficoltà delle prerogative
ecclesiastiche il Vicario della diocesi non volle consegnarlo per più
anni, finchè il Governo, stanco delle tergiversazioni, lo fece prendere
e sommariamente impiccare. Forse nella difesa di questo clerico ebbe
parte lo Stinca, onde i due fratelli Vincenzo e Gio. Tommaso Blanch,
entrambi clerici per poter godere delle prerogative ecclesiastiche,
gli fecero «un brutto assassinamento con ferite et in casa propria»
secondochè scrisse il Nunzio a Roma; e il disgraziato dottore, un
po' troppo tardi, si munì di licenza d'arme «con 4 suoi creati» come
si legge ne' Registri _Sigillorum_[308]. Vincenzo Blanch riuscì a
mettersi in salvo, ma Gio. Tommaso fu preso, e penò molto ad ottenere
la remissione al foro ecclesiastico. Aggiungiamo che tanto Vincenzo,
quanto Gio. Tommaso medesimo ed anche l'altro fratello Michele,
finirono con abbracciare la carriera militare e vi si distinsero tutti.
Vincenzo morì in Fiandra alla presa di Ostenda, Gio. Tommaso, divenuto
Capitano d'infanteria, si segnalò nell'assedio di Vercelli, fu promosso
Sergente maggiore nel Barese e sposò D. Anna Gattola: ma al tempo
del quale trattiamo, essendo giovanissimo e spensierato, non farebbe
meraviglia se si fosse accordato co' frati per assumere la parte che
rappresentò nell'informazione della quale andiamo ad occuparci. Rimane
a parlare di Gio. Francesco d'Apuzzo. Egli era di Acerra, avea 23
anni, trovavasi imputato nientemeno che di parricidio, ed avea già
due volte avuta la tortura: nel Grande Archivio non manca intorno a
lui un documento che conferma la specie dell'imputazione fattagli, la
quale imputazione senza dubbio non lo raccomandava presso i Giudici
menomamente[309].
Il 21 maggio, dal Vescovo di Caserta e dal Peri vennero esaminati
tutti i testimoni[310]. D. Francesco di Castiglia depose aver veduto
il Pizzoni poco prima che morisse, chiamato dal carceriere Martines
insieme col Blanch e con un altro (il d'Apuzzo), ed avere udito dal
Pizzoni che volea sgravare la sua coscienza, essendosi esaminato
contro fra Dionisio e il Campanella perchè così gl'impose un monaco
di cui esso deponente non ricordava il nome (fra Cornelio), a fine di
declinare la giurisdizione laica e liberarsi; che perciò ne avessero
fatta testimonianza scritta, avendone lui già discorso col Curato e
con altre persone, ma esso deponente non volle intrigarsi in questa
faccenda, tanto più che il Pizzoni diceva esservi altre persone che
lo sapevano. Dietro dimande aggiunse che non era stato ricercato da
fra Dionisio nè da alcuno de' fratelli Ponzii per tale testimonianza,
e non ignorava quanto importasse far testimonianza falsa specialmente
in materia di S.^{to} Officio. Nulla gli fu dimandato intorno alle
dichiarazioni di volersi ritrattare fatte dal Petrolo.--Si passò
al Blanch, il quale depose esser andato presso il Pizzoni infermo,
richiesto dal Martines insieme con Gio. Francesco dell'Acerra, perchè
il Pizzoni volea dichiarare di aver deposto il falso in Calabria
e in Napoli contro fra Dionisio e il Campanella per sottrarsi al
foro temporale; aver trovato nella camera del Pizzoni il Castiglia,
ed aver udito dal Pizzoni che erano attesi perchè volea si facesse
detta scrittura, la quale fu distesa da Gio. Francesco (d'Apuzzo) e
sottoscritta da lui, dal Martines e dallo stesso Pizzoni ma con la
mano sinistra, essendo storpiato a destra. Dietro dimanda aggiunse
aver conosciuto il Petrolo, che più volte gli avea dichiarato voler
ritrattare le sue deposizioni contro il Campanella e fra Dionisio, le
quali erano false, ed aver presentato per questo un memoriale al Nunzio
ed un altro al Papa; aggiunse pure esser morto il Pizzoni pochi giorni
dopo fatta quella scrittura, la quale rimase in potere dello stesso
Pizzoni, che volea darla al suo confessore perchè fosse presentata.
È da notarsi che i Giudici non lo interrogarono sul contegno del
Castiglia in quella circostanza.--D. Gaspare d'Accetto depose non aver
mai trattato nulla col Pizzoni nè prima nè dopo l'infermità da cui
fu colto; essere stato a Massa (suo paese nativo) ed al ritorno aver
trovato il Pizzoni senza la favella; esser possibile che Don Francesco
della Porta, il quale lo sostituì nell'ufficio di Curato, sapesse
qualche notizia della dichiarazione per cui veniva interrogato.--Gio.
Francesco d'Apuzzo disse essere stato condotto dal Martines presso
il Pizzoni insieme col Blanch, e non ricordarsi bene se il Castiglia
fosse venuto con loro o si fosse trovato già nella camera del Pizzoni;
avergli il Martines detto che il Pizzoni si volea ritrattare per
disgravio di coscienza e che ne facesse scrittura, ond'egli si pose a
scrivere quanto il Pizzoni diceva, ed infatti diceva di ritrattare ciò
che avea detto contro il Campanella e fra Dionisio, così in materia
di eresia come di ribellione, avendolo detto per isfuggire il foro
temporale; essere stata quella carta sottoscritta da lui, dal Blanch
e dal Pizzoni (non più anche dal carceriere), «atteso francesco de
Castiglia non ci si volse intromettere», ed essere rimasta quella carta
in potere del Pizzoni, che diceva volerla dare al suo confessore.
Dietro dimande aggiunse essersi lui offerto di fare questa deposizione,
ed esserne stato quindi ricercato da fra Dionisio; aggiunse inoltre
avere più volte udito dire dal Petrolo che si volea ritrattare di
quanto avea deposto, e che avea dato più volte memoriali a questo
fine.--D. Francesco della Porta disse aver confessato il Pizzoni
solamente pochi giorni prima che morisse, avergli anche amministrata
l'estrema unzione, ma non essersi mai parlato di ritrattazione tra
loro, essersi invece parlato pel Castello di una scritta fatta dal
Pizzoni vicino a morire; aggiunse aver udito che il confessore di
questi frati Domenicani era un Domenicano vecchio.--Fu poi esaminato
il Petrolo circa la sua pretesa volontà di ritrattarsi, espressa e
comunicata a più persone, ed ecco l'importantissima deposizione che
egli fece: «Signori, la verità è che io non posso vivere in queste
carceri alle persecutioni che mi fanno li frati, non solo li carcerati,
et altri dela religione, mà hanno sollevato tutta la Calabria contra
di me, con dire che io habbia infamata la provintia è la religione con
quello che hò deposto, et che per ciò io per defendermi et mantenermi,
vado dicendo con li carcerati è con altri per posser vivere con poco
di quiete, et per non essere offeso, che mi voglio retrattare sempre
che haverò commodità, per mantenerli così in speranza perche non mi
offendano, mentre stò quà, et anco che non facciano offendere li miei
in Calabria, mà la verità è che non lhò ditto mai con animo di volerlo
mettere ad effetto, perche quanto hò deposto avanti di Monsignor
Vescovo di termole bona memoria è stata la pura è semplice verità. Et
per questo non hò di che retrattarmi, et per amore di Iddio vi prego
che questo negotio stia secreto, perche altrimente pericolaria dela
vita et dell'anima». E i Giudici ordinarono che di questa deposizione
non si rilasciasse copia[311].--Infine fu esaminato il Capece sul 2^o
articolo, sul quale era stato dato per testimone, vale a dire sulla
volontà di ritrattarsi espressa dal Petrolo a più persone; e il Capece
depose non saperne nulla.
Così quest'ultima difesa di fra Dionisio, che sarebbe stata utilissima
egualmente al Campanella, non riusciva punto bene. Il 3.^o articolo
non era neanche messo in discussione; il 2.^o articolo provocava
la deposizione del Petrolo tanto brutalmente esplicita; il 1.^o
articolo veniva infermato notabilmente dalle deposizioni del Curato
e del Sagrestano male a proposito citati dal Castiglia. Da questo
lato dobbiamo rilevare che il Castiglia, il quale veramente avrebbe
potuto fare impressione su' Giudici, si mostrò abbastanza impacciato
nella sua deposizione; ma ad ogni modo attestò il fatto essenziale,
e non si comprende come i Giudici non si fossero creduti in obbligo
di udire su quel fatto il Martines ed anche il Domenicano confessore
del Pizzoni, che avrebbero potuto recarvi luce grandissima. Tuttavia
bisogna ricordare che si era avuta una dichiarazione scritta per
conto del Pizzoni vicino a morire, avendo lui voluta sgravare la sua
coscienza per quegli scritti di fra Dionisio che si aveva appropriati
(ved. pag. 200); e non avrebbe dovuto allora sgravare la sua coscienza,
se veramente questa gli rimordeva, sul fatto tanto incomparabilmente
più grave che era la sua falsa deposizione? E non avrebbe dovuto fra
Dionisio dare per testimone quel Domenicano confessore del Pizzoni,
che dicevasi avere avuta la dichiarazione scritta intorno a quel
fatto? Relativamente al Petrolo, ben si apponeva fra Pietro di Stilo,
che ne dubitava in modo assoluto nello scrivere alle persone di casa
Prestinace; il Petrolo non ebbe neanche bisogno del tormento per
confermare quanto avea deposto. Temè d'incorrere nell'accusa di falsa
testimonianza col disdirsi, o veramente la sua coscienza non gli
permise di disdirsi? Tutto sommato, riesce difficile non abbracciare
questa seconda opinione; ad ogni modo egli non si disdisse nè sulla
ribellione nè sull'eresia come si era sperato. Quando le copie degli
esami raccolti furono date a fra Dionisio, costui, non trovando quella
dell'esame del Petrolo, potè capire come la cosa fosse andata: non di
meno il Campanella, dapprima nelle sue Lettere tanto spesso citate, più
tardi nella Narrazione ed anche nell'Informazione, scrisse che «fatto
poi processo nel S. Officio... tutti li testimoni si ritrattaro in
utraque causa», come pure che «li monaci fur in S. Officio ritrattati o
convinti di falsità». Per lo meno il Campanella non fu bene informato:
solamente il Lauriana fu sufficientemente provato falso testimone, ma
il Pizzoni e il Petrolo, i due testimoni davvero gravi per lui, non si
poterono dimostrare ritrattati niente affatto, ed è superfluo notare
quanto la cosa debba dirsi importante.
Il 24 maggio, il Vescovo di Caserta decretò che fossero consegnate
a fra Dionisio le copie degli ultimi esami, ma tale consegna non fu
eseguita prima del 18 giugno[312]. Per l'abitudine poi di quel Vescovo
di trattenersi fuori Napoli durante i forti calori estivi, la causa
de' frati non progredì nel luglio e nell'agosto. Soltanto si procedè
a qualche Atto per Valerio Bruno, il quale con un primo memoriale al
Vicario Palumbo, e poi con un secondo al Vescovo di Caserta (20 e
28 agosto) reclamò contro l'_empara_ interposta dal S.^{to} Officio
alla sua liberazione mentre era stato «liberato dalle altre cause», e
supplicò di essere spedito e abilitato. Il Vicario emise l'opinione che
fosse di nuovo interrogato e poi spedito, e il Vescovo emanò da Caserta
un decreto per l'abilitazione, la quale fu accolta anche dal Nunzio e
dal Vicario generale Graziano e subito eseguita, con la fideiussione
prestata dal padre del Bruno, e con l'obbligo di non partire da Napoli
sotto pena di D.^i mille e della galera ad arbitrio de' Giudici: nella
quale fideiussione una circostanza degna di nota si è, che dal Bruno
venne indicata per domicilio legale la casa di Carlo Spinelli a S.^{ta}
Lucia a mare, donde si scorge che lo Spinelli non abbandonava coloro i
quali gli aveano reso servigi. E stando pur sempre in Caserta, il 30
agosto, il Vescovo spedì un ordine in nome suo e dei suoi colleghi,
perchè fosse citato fra Dionisio _ad dicendum_ nel palazzo del Nunzio,
dove coll'Avvocato di lui sarebbe stata spedita la causa nella sua
prossima venuta a Napoli[313]. Quest'ordine singolare, con l'assegno
di un giorno non determinato, era un modo di mostrarsi obbediente alle
ingiunzioni che venivano da Roma dietro le sollecitazioni che il Nunzio
riceveva in Napoli dal Vicerè. Abbiamo infatti dal Carteggio del Nunzio
che il Governo Vicereale non cessava di tener d'occhio l'andamento del
tribunale di S.^{to} Officio, ed ogni qual volta ne vedeva sospese
le sedute, ricominciava le sue lagnanze. Così il 2 agosto il Nunzio
scriveva al Card.^l Borghese (successo nelle cose dell'Inquisizione al
Card.^l di S.^{ta} Severina morto il 1.^o giugno 1602), che più volte
il Vicerè gli avea ricordata la spedizione de' frati inquisiti di
eresia «per che poi si potesse spedir anche il negotio della Ribellione
trattato son già circa due anni», e il giorno precedente gli avea
pure fatto scrivere dal suo Segretario Lezcano un biglietto in tale
proposito; laonde pregava che si desse ordine a Mons.^r di Caserta di
mandare a Roma le scritture e quanto si era fatto per la spedizione
della causa. Il 9 agosto ripeteva le istanze, dietro sollecitazioni
avute da D. Gio. Sances «Fiscale di permissione di N. S.^{re} nella
causa della rebellione di Calabria»; e nella stessa data il Card.^l
Borghese gli facea sapere, che scriveva contemporaneamente al Vescovo
di Caserta di mandare «il resto delle scritture co' voti de' signori
Congiudici», sicchè verso la metà di agosto pervenivano finalmente
gli ordini di concludere, e il Vescovo di Caserta era obbligato ad
occuparsene senza ritardo.
Dobbiamo aggiungere che in questo tempo fra Pietro Ponzio supplicò di
nuovo S. S.^{tà} perchè la sua causa fosse spedita, non essendosi in
lui trovata alcuna colpa[314]. Il 17 agosto il Card.^l S. Giorgio lo
partecipava al Nunzio, richiedendolo a nome di S. S.^{tà} che desse
informazione sul caso di fra Pietro, e mandandogli perciò una copia del
memoriale. In esso fra Pietro dolevasi di aver sofferto innocentemente
tre anni di carcere, di essere più volte ricorso al Vicerè, al Nunzio,
a D. Pietro de Vera senza aver mai ottenuto nulla, di trovarsi in
carcere solamente perchè fratello di fra Dionisio, concludendo col
supplicare S. S.^{tà} che si degnasse «ordinare à Mons.^r Nuntio,
et altri Giudici, che debbano con effetto provederlo di giustitia,
giudicandolo secondo la sua propria colpa ò innocenza, et non secondo
la ragion di Stato di Ministri temporali, la quale dopo tanto tempo
dovria cessare». E il Nunzio, il 23 agosto, rispondeva come già altra
volta (ved. pag. 212), che veramente fra Pietro era stato carcerato
«più per essere fratello di fra Dionisio... che per delitto che si
pretendesse contra di lui», ma «pe' suoi ragionamenti molto domestici»
avuti di notte col Campanella, era stato ritenuto conscio del fatto e
quindi da dover rimanere in carcere fino a che la causa fosse spedita:
«intanto (egli aggiungeva) il Campanella si scoperse matto, et si
fermò il negotio ne termini che si trovava, che veramente è alla fine,
et si potrebbe ogni volta spedire, ma si è soprasseduto per la causa
dell'Inquisitione»; questa si era protratta tanto che i Ministri Regii
ne aveano molte volte fatto rumore, ma già al Vescovo di Caserta era
stato ingiunto di procurarne la fine, e alla venuta di lui in Napoli
dovea ripigliarsi, ed allora egli avrebbe procurata la spedizione di
fra Pietro[315].
In fondo pel povero fra Pietro non c'erano che buone parole. Come
già una prima volta nell'anno precedente, così anche questa volta il
Nunzio promise e non attenne: benchè riconosciuto innocente, fra Pietro
aspettò invano un provvedimento speciale per lui, e dovè rassegnarsi a
vedere prima terminata la causa di eresia per tutti gl'inquisiti, tra'
quali apparve egli pure compreso, mentre neanche il Nunzio nella sua
lettera a Roma avea mostrato di essersene mai avveduto! Fortunatamente
si era già ordinato di venire alla conclusione intorno all'eresia, per
poi passare alla conclusione intorno alla congiura, ciò che ci resta
appunto a narrare esponendo gli esiti de' processi.

V. Sarà bene pertanto occuparci delle opere scritte dal Campanella in
questo lungo periodo di tempo, che comprende oltre due anni, dal maggio
1600 al settembre 1602: potremo così dare anche un qualche sollievo
all'infinita noia inflitta a' lettori coll'esposizione del processo
di eresia, inflitta veramente non per colpa nostra, ma per colpa de'
Giudici. Come avea cominciato fin da' primi momenti dell'arrivo nelle
carceri di Napoli, egli continuò a comporre poesie e prose, e per
determinare nel miglior modo la data rispettiva, sarà bene dividere
in due il periodo anzidetto. Nel 1^o, che va dal maggio 1600 al 2
agosto 1601, data della ricerca di scritture fatta dagli ufficiali
del Castello, egli senza dubbio compose tutte le Poesie che furono
trovate presso fra Pietro Ponzio, all'infuori di quelle che abbiamo
veduto costituire un primo gruppo riferibile al periodo antecedente;
inoltre compose o meglio ricompose il libro della _Monarchia di
Spagna_. Nel 2^o, che va dal 2 agosto 1601 in poi, egli pose mano alle
opere filosofiche, cominciando dal portare a compimento l'_Epilogo di
Filosofia_, o la Filosofia epilogistica, che si ricorderà essere stata
trovata sotto la finestra del suo carcere, buttata giù al momento in
cui vi entravano gli ufficiali del Castello.
Al libro della _Monarchia di Spagna_ egli attese certamente con
la maggiore assiduità, avendolo ritenuto molto giovevole per la
difesa della causa della congiura: dopo gli _Articoli profetali_,
probabilmente dalla 2^a metà del maggio 1600, dovè esser questa la sua
unica occupazione seria, onde potè poi aggiungere di seconda mano il
ricordo del libro nelle Difese già ricopiate. Noi ci siamo spiegati a
lungo altrove intorno alla data della composizione della _Monarchia_
(ved. vol. 1^o, pag. 146-47) e ne abbiamo anche detto qualche altra
cosa parlando delle Difese (ved. qui pag. 99 e 113); non sentiamo
quindi la necessità di discorrerne ulteriormente. Solo diremo, che
prima del giugno 1601, data in cui fra Pietro di Stilo presentò le
Difese al tribunale, il libro dovè essere stato già scritto e mandato
a Stilo, per farlo trovare in quel posto e farne menzione appunto
nelle Difese. Nè ci dissimuliamo che siffatto termine di un anno,
impiegato nella ricomposizione di un libro da parte di un uomo come il
Campanella, sapendosi non averne allora scritto alcun altro, riesce
estremamente lungo, sicchè tanto più si avrebbe motivo di pensare che
il libro sia stato davvero composto, non già ricomposto nel carcere; ma
ricordiamo pure che per tutto l'anno il Campanella fu guardato di molto
a causa della sua pazzia, finchè poi non ebbe a provarla col tormento
della veglia. Del resto, come abbiamo già fatto notare altrove, importa
poco che il libro sia stato composto nella fine del 1598 o nel 2^o
semestre del 1600, non essendovi gran differenza tra l'essere stato
scritto quando si meditava una congiura o quando si voleva dimostrare
che non c'era stata congiura; importa solo sapere che non fu composto
dopo dieci anni di prigionia, e che fu ad ogni modo un libro di
occasione, destinato ad addormentare od a placare la Spagna, onde
non gli si può dare la significazione che gli è stata data, e bisogna
trattenersi dal vedervi il saggio di una delle grandi aspirazioni del
Campanella.
L'autore poi dovè certamente rivedere in sèguito questo libro, e
per lo meno ritoccarne il proemio e la conchiusione, là dove, negli
esemplari manoscritti che tuttavia se ne hanno in gran copia, esso
reca l'indirizzo ora semplicemente a un D. Alonso, ora al Reggente
Marthos Gorostiola, ed ora è sfornito di provenienza e di data, ora
reca la provenienza dal conventino di Stilo e la data del dicembre
1598, aggiuntavi talvolta anche l'età dell'autore. Nel _Syntagma de
libris propriis_ troviamo registrato che egli compose la _Monarchia_
dapprima in italiano, e poi essa «giunse nelle mani di tutti,
nella lingua italiana e nella latina, dalle collezioni di Gaspare
Scioppio e di Cristoforo Flugio». Vedremo più in là che il Flugio
fu presso di lui nel 1603 e ne ebbe certamente la Filosofia che
il Campanella finì di scrivere dopo la _Monarchia_; non ci sembra
quindi arrischiato l'ammettere che abbia avuta anche la _Monarchia_
in siffatta occasione; lo Scioppio poi ebbe egli pure la _Monarchia_
con diverse altre opere verso la metà del 1607. Volendo prestar fede
al _Syntagma_, bisognerebbe dire che il Campanella abbia voltata in
latino la _Monarchia_ innanzi il 1607: ad ogni modo ci pare che le
due date diverse della consegna di questo libro, il 1603 e il 1607,
dieno la ragione del trovarlo indirizzato una volta semplicemente
a D. Alonso, e un'altra volta al Reggente Marthos con tutte quelle
altre sfolgoranti circostanze della provenienza e della data. Giacchè
appunto nel frattempo, alla fine del gennaio 1604, come si rileva
anche dal Carteggio del Residente Veneto, era trapassato il Marthos;
avea quindi potuto il nome di lui esser posto in luogo di quello di
D. Alonso, rimanendo così eliminata ogni reminiscenza del De Roxas,
e fornita una prova più limpida dell'affezione dell'autore agli
spagnuoli, se non presso il Governo Vicereale che lo conosceva bene,
presso la Curia Romana, l'Imperatore, gli Arciduchi di Austria e il
medesimo Re di Spagna, presso tutti i potenti Principi a' quali il
povero filosofo ebbe a rivolgersi. Ma non vennero fatte nel libro
altre innovazioni, e si può dire che le piccole varianti introdottevi
sieno piuttosto dovute a' cattivi amanuensi, giacchè per lungo tempo
l'opera, assai ricercata, corse solamente manoscritta tra gli eruditi;
del resto un confronto qualunque de' diversi esemplari non è stato
mai fatto, e varrebbe la pena di farlo così per questa come per ogni
altra opera del Campanella rimasta lungamente manoscritta, poichè nelle
varianti potrebbe rilevarsi meglio la mano dell'autore e scoprirsene
anche l'animo o piuttosto i bisogni ne' diversi tempi successivi. Si
conosce che la _Monarchia_ fu pubblicata per le stampe dapprima in
tedesco, senza indicazione di luogo, nel 1623, a cura di Cristoforo
Besoldo, il quale l'ebbe certamente dal suo amico Tobia Adami cui fu
consegnata dal Campanella con le altre opere sue nel 1613; molto più
tardi fu pubblicata in latino, scorso un anno dalla morte dell'autore,
in due luoghi e con più edizioni a breve intervallo (Hardevici 1640,
Amsteleodami 1640 e poi ancora 1641 e 1643); quindi fu tradotta anche
in inglese da Ed. Chilmead con pref. di Wil. Prinae in Londra 1649,
ma nell'originale italiano fu pubblicata solamente a' giorni nostri
a cura del D'Ancona in Torino 1854[316]. Una lettera inedita del
Campanella, che noi pubblichiamo, ci mostra che l'autore fino agli
ultimi anni della sua prigionia desiderò vivamente che l'opera, insieme
con un'altra analoga, fosse data alle stampe, e ne fece dimanda al
Vicerè[317]; ma sicuramente, allorchè fu libero, non dovè più gradirne
la pubblicazione. Pertanto in Italia, durante la vita dell'autore
ed anche dopo, se ne fecero molte copie manoscritte, ed ancora ne
rimangono parecchie in varie Biblioteche, non meno di quattro in Napoli
(tre nella Bibl. naz. ed una nella Bibl. de' PP. Gerolamini), una in
Firenze, una in Lucca; e non meno di tre ne passarono a Parigi (Bibl.
Naz. Ital. num. nuov. 875, 984 e 985) e una ne giunse pure a Londra
(Mus. Brit. Egerton-collection n^o 10,689) che reca essere stata
eseguita «anno 1634 a quinto di Septembre». Non paia eccessiva tutta
questa discussione, trattandosi della _Monarchia di Spagna_, che per lo
meno riguarda troppo da vicino l'argomento nostro.
Aggiungiamo che si potrebbe credere essersi il Campanella in questo
periodo occupato pure della revisione de' «Discorsi a' Principi
d'Italia» etc. che tanta attinenza aveano col libro della _Monarchia
di Spagna_ e che furono menzionati egualmente nella sua Difesa. Ma
ricordiamo che egli ne fece menzione dicendoli inviati a Massimiliano,
e d'altronde, così come li possediamo, offrono la citazione di qualche
opera scritta ancora più tardi; bisogna quindi rimandarne l'avvenimento
della revisione a una data posteriore.
Venendo alle _Poesie_, innanzi tutto dobbiamo dire che non può non
recar maraviglia la loro quantità con indirizzi anche a persone
diverse, taluna delle quali persona veramente ufficiale, come
p. es. la Sig.^{ra} D.^a Anna che vedremo dover essere stata una
parente di D. Alonso il Castellano, in un tempo in cui il Campanella
mostravasi pazzo! Possiamo in verità rimandare le poche poesie con
siffatto indirizzo al tempo posteriore all'amministrazione della
veglia; ma neanche possiamo rimandarle tutte come vedremo, e dobbiamo
ricordare che quel tempo non raggiunse due mesi, essendo circoscritto
dal 4 giugno al 2 agosto, e la Musa doveva mostrarsi allora ben
riluttante, sicchè un numero molto tenue è lecito assegnarne al
detto bimestre; d'altronde sono anche troppe le poesie indirizzate a
persone, specialmente del bel sesso, in rapporti più o meno diretti
con la famiglia del Castellano, nè poi il Campanella dopo la veglia
avea peranco cessato di mostrarsi pazzo. Bisogna dunque conchiudere
che nel Castello, perfino presso il ceto autorevole, non mancarono
persone pietose e ben disposte verso il prigioniero; nè egli mancò
di procurarsene la benevolenza e mostrarsene grato, esaltandone le
virtù, carezzandone anche la vanità, abbandonandosi perfino al genere
erotico e lascivo, sempre col gusto de' tempi, non senza comporre versi
egualmente per conto di altri, spesso per procurarsene qualche favore
e sovvenzione nella squallida miseria in cui si trovava. Non farà
quindi maraviglia se queste poesie riescano quasi tutte scadenti, di
niun valore letterario, ma in compenso di molto valore storico; nè farà
maraviglia se in quelle poche, le quali trattano soggetti più elevati,
si notino principii politici e religiosi comuni, mentre l'autore avea
bisogno di giustificarsi, e le sue poesie doveano circolare tra persone
sovente attaccate al Governo, più sovente attaccate alla religione nel
senso volgare. Si comprende agevolmente, che non potremmo fare una
rassegna minuta di tutte queste poesie senza allungar troppo la nostra
narrazione, ma si comprende pure che non possiamo passarcela di volo,
dovendo rilevarne specialmente ciò che può chiarire la vita intima del
Campanella, ed anche la vita riposta per quanto è possibile, in questo
notevole periodo della sua prigionia.
Poniamo in primo luogo alcuni Sonetti profetali, che si trovano
disseminati nel presente gruppo di poesie, come ne abbiamo visto
disseminati anche nel gruppo appartenente al periodo anteriore, e
menzionati nel _Syntagma_ quali Ritmi consolatorii, diretti a dar
vigore agli amici. Uno di essi comincia col verso
«La scola inimicissima del vero»
e l'altro col verso
«Mentre l'aquila invola e l'orso freme»[318].
Entrambi ebbero l'onore della stampa per cura dell'Adami, ma non senza
mende, come del pari l'ebbe un terzo, che mostra quanto il Campanella
tornasse volentieri su questo tema, per ricordare «il fine instante
delle cose umane»: esso fu dettato ad occasione di una richiesta avuta
di scrivere qualche Commedia, e comincia col noto verso
«Non piaccia a Dio che di comedie vane» etc.[319].
Chi mai potè fare tale richiesta al Campanella? Oseremmo dire Felice
Gagliardo, che si è visto avere scritti più Prologhi di Commedie.
Un altro Sonetto consolatorio di genere diverso è quello poco
convenientemente intitolato «Al Principe di Bisignano», che è veramente
un ricordo dell'essere stato il Principe rinchiuso nella medesima
prigione, e dell'esserne poi finalmente uscito, onde il poeta ha motivo
di dire
«Gran forza e speme tanto essempio adduce»[320]:
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