Fra Tommaso Campanella, Vol. 2 - 28

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ogni sforzo per prendere que' fuorusciti, D. Giuseppe con tutti i 48
compagni erasi rifugiato nel convento di S. Francesco in Reggio, di
dove scriveva la sua seconda lettera; ed avea già raccomandato al
Gagliardo di scrivergli dirigendosi al cognato, ed allora raccomandava
la lettera propria ad un tale, che non è nominato, con queste parole
caratteristiche, «la gentileza d' V. S. et la protetione che come
Cavaliere Cristiano tine (_sic_) de miseri gentilhuomeni travagliati
attortamente dalla fortuna et dalla giustitia ne danno animo». Il
Gagliardo avea scritto a D. Giuseppe che presto sarebbe uscito dal
carcere, che un Cavaliere suo amico, in procinto di ottenere la
commissione di capitano, aveva offerta a lui l'insegna (il posto di
alfiere) per arrolar gente, che tutta la banda avrebbe potuto andarsene
con lui alla guerra; e D. Giuseppe si dichiarava in ordine con tutti i
suoi compagni, aspettandosi di essere guidato per questo, come allora
si usava, e faceva esibizioni al Gagliardo, e si disponeva a mandargli
sei canne di tabbì per un vestito da dovergli servire all'uscita dal
carcere, ma anche con la franchezza del bandito gli diceva, «tutto
quello che V. S. ha patuto lo meritava, per haver corso con il cervello
suo balzano et non con consiglio di amici»; poi, all'ultima data,
s'impazientiva e dichiarava di ritirare la sua parola se fra un mese il
Gagliardo non avesse l'insegna, sottoscrivendo la lettera insieme con
altri compagni, «Lutio Gagleardo suo fratello, Caporal Antonio Bregandi
alias il Siciliano, Gio. bennardo Sdragona et Minichello Mullura»[298].
Non sapremmo dire se la proposta di andare alla guerra, fatta dal
Gagliardo a D. Giuseppe fosse stata un'invenzione del cervello suo
balzano, ovvero un disegno fondato sopra un fatto positivo; ma dobbiamo
attestare esserci noto da altri fonti che a quel tempo si trovava pure
carcerato nel Castello dell'ovo Alessandro Piccolomini, 5^o Duca di
Amalfi, il quale dopo avere avuto già 12 anni di carcere per parte
del Governo Vicereale ed una condanna a 10 altri anni da doversi
espiare nel Castello di Aquila, dopo di avere avuto anche un processo
di S.^{to} Officio, per bestemmie ereticali e ricerche di segreti e
sortilegi, finito con la condanna all'abiura e ad un anno di carcere,
chiedeva allora appunto la grazia di uscire dal carcere coll'obbligo
di andare a servire nelle guerre di Fiandra; ed ebbe questa grazia
dal Conte di Lemos e gli fu commutata la pena da Clemente VIII con
rescritto del 6 gennaio 1600, sicchè riesce probabile aver lui appunto
offerto il posto d'alfiere al Gagliardo[299]. Ad ogni modo riesce
maravigliosa la fiducia del Gagliardo nella sua prossima liberazione,
mentre nulla veramente poteva fargliela supporre. In ciò bisogna
vedere un effetto della sua fantasia, della quale sono egualmente
un parto le sue poche altre scritture di questo gruppo che dobbiamo
ancora menzionare. E dapprima vi sono due prologhi di commedie (oltre
una storia di S. Agata e S.^{ta} Dorotea e un principio di racconto
mitologico), che si mostrano infiorati di concetti non ispregevoli,
certamente raccolti da trattati di siffatta materia, e che potrebbero
pure rappresentare semplici ricordi di prologhi composti da altri e
da lui recitati, ma sempre scritti col colore locale e con que' suoi
curiosi modi calabresi[300]. Vi è poi una Lettera in versi italiani,
in cui finge una Lucrezia o Cieca, (forse volea dire Ciecia da doversi
intendere Zeza, vezzeggiativo di Lucrezia) innamorata di lui per averla
udita recitare in una commedia, adoperatasi a trarlo in libertà, e
finalmente rimastane ingannata, perchè egli con la scusa di andare a
visitare le antichità di Pozzuoli se n'è partito per la Calabria; una
specie di Didone abbandonata, invano confortata dalla sua nutrice Tolla
(a que' tempi vezzeggiativo di Vittoria), che sfoga il suo affanno, e
narra e rampogna e prega il seduttore che ritorni, stemperandosi in
oltre 300 endecasillabi, qualche volta zoppi, non di rado privi di
senso ovvero sconnessi, ma quasi sempre più o meno sonori, e diretti
«Al S. F. G. dela C. di G.» (evidentemente Al Sig.^r Felice Gagliardo
dela Città di Gerace).
«Questi mesti sospiri è questi versi
da le mie proprie man vergt' e scritte (_sic_)
coss' cantando, e sospirando muore
del bel Meandro in su l'herbose rive
il bianco Cigno à la sua morte appresso
se cancellanti (_sic_) e malamente intesi
seranno i tristi miei dolenti versi
fia solo (oime) perche sarà la carta
dal proprio sangue mio machiata e lorda
allor dovean l'invidiose parche
che dispensan l' vite de i mortali
haver finito d'avoltare il fuso
lo stame di mia vita all'hor potei (_sic_)
chiudere in bella et honorata sera
i miei sì belli et honorati giorni
quando te vidi in quella Real Sala
rapresentare in detti versi belli
il pastor Ergasto».......
E così via via, prendendo raramente fiato e non giungendo neanche a
dire l'ultima parola con tanto diluvio di versi. Il P.^e Cherubino
dichiarò questa scrittura «litera amorosa,.. simpliciter enarratur
amor unius ad alterum, neque miscentur aliqua, quae aliquo modo
sapiant haeresim». Ci resta infine a menzionare ancora un'altra
lettera che dovè essere stata scritta al Gagliardo, in caratteri molto
grossi segnati con la matita o forse col carbone, da uno che stava
nella segreta, in questi termini: «Patron mio V. S. me mandi per il
Carceriero il suo pastor fido et la fida ninfa che non so quello mi
fare il giorno, mandatime si avete alcuno altro spassatempo, il grinto
voli ch'io amo scosse che vostra Matri ami o la cara del Carpio et il
carniero del barone (gergo di convenzione tra carcerati), avisatime
alcuna cosa et dite al Sig. Scipione (Scipione Moccia Auditore del
Castello), e al sig. Gio. Paulo (ignoto) che si adattano al favorirme
con il Sig. Castellano farne uscire de qua o farme unire con mio
Compare» (notiamo che Orazio S.^{ta} Croce dicevasi compare del
Gagliardo e trovavasi allora egli pure in segreta).--Così uno de'
«passatempi» del Gagliardo era la poesia, un altro la negromanzia, e
tutto ciò che di lui abbiamo potuto conoscere ci mostra che questo
giovane a 22 anni, audace, pieno d'ingegno e di fantasia, potè poi
realmente, nel trovarsi a contatto col Campanella in Castel nuovo,
di venirgli accetto, guadagnarne la confidenza, averne comunicazione
di cose le più intime che posteriormente si fece a rivelare in
punto di morte; ma pur troppo senza ombra di coscienza, capace di
tutte le improntitudini, egli può ispirarci fede limitatamente, e
le sue assertive dovranno sempre essere vagliate con la più grande
circospezione.
Non essendo le ultime scritture suddette del dominio del S.^{to}
Officio, con le deposizioni del Figueroa e del Moya chiudevasi la
lunga e noiosa informazione sulle scritture proibite. Noi abbiamo
voluto esporla in tutti i suoi particolari, non solo per dar notizia
di tutti gl'incidenti verificatisi durante il processo, singolarmente
poi di questo che ci fece avere le Poesie del Campanella, ma anche per
mettere in luce tutti gli elementi capaci di farci intendere le qualità
del Gagliardo. Aggiungiamo che i colpevoli delle scritture proibite
pervennero con le loro deposizioni a far cadere ogni cosa sulle spalle
precisamente del Gagliardo, sicchè costui ebbe a darne conto egli solo:
fu dunque stralciato questo carico dal processo principale e riunito
agli altri della ferita inflitta in rissa a fra Dionisio e delle
proposizioni eretiche, onde abbiamo veduto istituito quel processo
secondario contro il S.^{ta} Croce e lo stesso Gagliardo, che avrebbe
dovuto comprendere anche il Soldaniero e Ferrante Calderon (cfr. pag.
239-240). E per finirla intorno a questo processo, notiamo qui, che
contro il Calderon dovè aprirsi un processo speciale, poichè non lo
troviamo esaminato ulteriormente; contro il Soldaniero, non avendo lui
osservato l'obbligo di rimanere in Napoli ed essendosene partito per
la Calabria, si prescrisse una apposita informazione, si confiscò la
cauzione data, si ordinò a' Cursori quarumvis Curiarum di citarlo a
comparire fra tre giorni, sotto pena di essere dichiarato scomunicato
oltrechè confesso e convinto del delitto appostogli, e fu carcerato di
nuovo in Calabria ma dopo qualche tempo, sicchè avremo agio di parlarne
con comodo; relativamente poi al Napolella, essendo stato perdonato
dalla Marchesa della Valle, supplicò il Vescovo di Caserta per la sua
liberazione, impedita dall'_empara_ interposta dal S.^{to} Officio, e
l'ottenne (9 luglio 1602) con la fideiussione di 25 once d'oro prestata
da un Michele Cervellone palermitano[301]. In tal guisa rimasero
sotto il processo già istituito i soli S.^{ta} Croce e Gagliardo. Si
ripigliarono dunque gli esami, il 12 luglio, cominciando dal S.^{ta}
Croce, il quale si ricorderà che fin dal marzo era stato già esaminato
intorno alla rissa e alla ferita inflitta a fra Dionisio (ved. pag.
241-42). Egli fu questa volta esaminato intorno alle cose della
fede, e disse che si trovava «lo più maravegliato huomo del mondo»
per tale imputazione, negando ad uno ad uno tutti i capi di accusa e
qualificandoli invenzioni de' suoi nemici, vale a dire de' frati ed
anche del Martines, al quale egli avea «fatto perdere le chiavi» perchè
convivea pubblicamente con la cognata nel Castello ed angariava i
carcerati con le estorsioni; d'altra parte fece intendere che sebbene
in Calabria «li villani e rustici sogliono dire questa parola Santo
diavolo, tutta volta li gentil homini e persone civile non lo dicono»,
ed espose i buoni principii che professava e le divozioni che faceva,
ed affermò che prima della rissa pagava cinque grana alla guardia, come
le pagavano anche gli altri carcerati, per essere condotto alla Messa.
Ma nel giorno medesimo fu esaminato qual testimone il Bitonto, che
ribadì la maggior parte delle accuse e diè pure cattive informazioni
sul Gagliardo. Con tutto ciò il S.^{ta} Croce fu, come allora dicevasi,
«abilitato» ad uscire dal carcere, coll'obbligo di tenere per carcere
il domicilio che avrebbe indicato in Napoli e di dare per questo una
cauzione di 25 once d'oro, che fornì un Rev.^{do} D. Marcello Palermo
(18 e 23 luglio): in sèguito trovò più comoda per lui una casa «nel
fondico d'Eliseo alla carità dove si dice la pigna secca», e si rinnovò
l'obbligo impostogli e la fideiussione del Palermo; deve dunque dirsi
che per lui era finito egualmente con un'assolutoria il processo della
congiura. Gli fu poi dato per Avvocato, a sua richiesta, il solito D.
Attilio Cracco, e gli furono dati i capitoli del fisco col termine di
due giorni per formare gl'interrogatorii (29 agosto): ma egli espose
che tutto procedeva dalle inimicizie capitali contratte, con Alonso
Martines per avergli fatto perdere l'ufficio, co' frati in generale
a motivo della rissa, col Bitonto in particolare «perchè mandato da
fra Dionisio alla casa di esso comparente fu, insieme coll'altro,
autore di farlo trovare inquisito di ribellione»; e però dava la
ripulsa a tutti i testimoni e chiedeva essere spedito secondo gli Atti
medesimi (12 settembre). Ad istanza del fisco fu esaminato ancora
il Martines già carceriere, il quale confermò le accuse principali,
senza punto mostrarsi nemico del S.^{ta} Croce. Ma costui, prima che
la causa fosse spedita, pensò bene di partirsene per la Calabria,
come spessissimo facevano gli «abilitati», lasciando i fideiussori
alle prese col fisco, e dando a questo, per siffatta via, un cespite
ragguardevole di entrata. Furono allora esaminate dal Prezioso, per
commissione del Vicario, Lucrezia Papa l'albergatrice con altre due
donne (17 novembre), ed accertata la fuga del S.^{ta} Croce venne
«incusata» la cauzione e carcerato D. Marcello Palermo, il quale,
per la fideiussione prestata e per qualche altro conto che dovea
saldare, riuscì appena a liberarsi nel principio dell'anno successivo,
sborsando D.^{ti} 30, avuti, come egli disse, «per carità d'alcuno
timoroso d'Iddio».--Quanto al Gagliardo, le cose andarono molto più
in lungo, poichè si era commesso al Vescovo di Gerace l'esame di
quel D. Pietro Manno, che egli avea nominato qual suo confessore pel
tempo in cui trovavasi nel carcere di Castelvetere, (ved. pag. 255) e
gli Atti relativi a tale commissione, benchè compiuti con la maggior
sollecitudine, giunsero nelle mani del Vescovo di Caserta non prima
del 1603, ed il processo potè proseguirsi e terminarsi stentatamente
dal maggio 1603 al marzo 1604. Per tutto questo tempo non breve, il
Gagliardo continuò a rimanere in mezzo a' frati; intanto la commissione
data a Gerace risultò negativa, ed egli, esaminato dal Vicario Curzio
Palumbo per delegazione dei Commissarii della causa principale, non
mancò di profittare del trovarsi già fuori carcere, a quel tempo, fra
Dionisio e il Bitonto, e scovrendo specialmente quest'ultimo cercò di
scusarsi mercè una serie di garbugli sostenuti con una improntitudine
singolare[302]. Narrò che al tempo del suo primo esame que' due frati
gli consigliarono di negare ogni cosa, perchè altrimenti sarebbe
stato bruciato dal S.^{to} Officio, ma volendo ora manifestare la
verità, riconosceva che quelle scritture erano di mano sua nella
più gran parte, avendole copiate per conto del Bitonto ed anche del
Pizzoni (il morto), i quali gli davano in compenso un carlino al
giorno e gli dicevano che erano cose di filosofia; e mostrategli le
scritture, indicò specificatamente quali di esse, ed anche quali parti
di esse, erano state copiate da lui e quali dal Bitonto, affermando
di non sapere da chi fosse venuto ed a chi fosse stato poi restituito
l'originale; ammise che la carta data al Napolella era stata scritta
da lui, ma sotto la dettatura del Bitonto, il quale diceva essere un
segreto contro la corda che volea mandare ad un suo amico, e poi gli
«fece il tradimento» col sedurre il Napolella e suggerire a costui un
secondo esame in contradizione del primo, acciò apparisse che era un
segreto di tutt'altro genere avuto da esso Gagliardo, aggiunse che il
Bitonto gli era divenuto nemico, perchè amoreggiava con una donna la
quale stava sotto la loro carcere e corrispondeva con loro per un buco
fatto al pavimento, ed egli aveva anche lui le sue pretensioni verso
quella donna, e infine tutto era stato inventato da' frati, perchè egli
si era esaminato contro fra Dionisio, il Campanella e il Bitonto, nella
causa della ribellione. Negò poi di essersi vantato di aver segreti per
corrompere le donne, di aver conosciuto carnalmente la suocera e la
sorella della suocera trovando più dolce il concubito con le persone
parenti, di aver lodato per questo la legge di Mosè (giusta le accuse
originate dalla denunzia di fra Pietro Ponzio); negò inoltre di aver
mai aderito alle eresie che da Cesare Pisano erano state annunziate
nelle carceri di Castelvetere. Ed ebbe i capitoli del fisco, e gli
fu assegnato il solito Avvocato Cracco; ma rinunziò alle difese, ed
innanzi al Nunzio ed a' due Vicarii, Graziano e Palumbo, sostenne
un'ora di corda senza rivelar nulla, onde fattane relazione a Roma,
coll'assenso della Sacra Congregazione fu decretata per lui l'abiura
_de levi_, l'imposizione di alcune penitenze salutari, e il rilascio in
libertà dietro fideiussione, obbligandosi di non partire dalla città
di Napoli. Tutto ciò fu eseguito; diedero per lui cauzione di 50 once
d'oro Sigismondo Campo di Oppido e Tarquinio Granata di Tortorella, e
così il 2 marzo 1604 potè uscire dal Castello nuovo, dovendosi dire
già assoluto circa la congiura nel principio del 1602, dietro la grave
tortura sofferta con esito egualmente favorevole. È quasi superfluo
dire che senza licenza se ne partì per la Calabria. Ma avendo poi là
commesso un omicidio, fu ricondotto in Napoli e quivi giustiziato due
anni dopo, e in tale occasione venne a trovarsi di nuovo alla presenza
del S.^{to} Officio, avendo voluto fare una deposizione in disgravio
della sua coscienza; questa deposizione, molto importante per noi, ci
darà ancora motivo di parlare di lui.
Possiamo oramai tornare a' frati, e innanzi tutto ci conviene dire,
che durante l'informazione sulle scritture proibite giunse per loro
la sovvenzione prescritta da Roma a' conventi di Calabria, ed attesa
fin dal settembre dell'anno precedente; ma non ci volle poco per
ricuperarla, e ne fu pure distratta una parte. Si era in marzo 1602;
sapevasi che 200 Ducati erano giunti a Napoli con lettera di cambio
nelle mani di un frate del convento di S. Domenico, e questo frate
non compariva: il Vescovo di Caserta, in data 23 marzo, mandò un
precetto al P.^e Arcangelo da Napoli priore di S. Domenico, perchè
sotto pena di privazione del suo ufficio nel presente, e d'inabilità
a qualunque altra dignità e prerogativa nell'avvenire, carcerasse in
quel medesimo giorno il frate che avea ricevuto il danaro, e mandasse
una fede dell'eseguita carcerazione da doversi trasmettere a S.
S.^{tà} in Roma. Con tutto ciò non risulta che il danaro fosse stato
immediatamente ricuperato, giacchè, malgrado l'urgentissimo bisogno
che se ne sentiva, si cominciò a disporne solamente il 23 maggio. A
questa data il Vescovo di Caserta emise i primi ordini di pagamento,
ed il Notaro Prezioso li eseguì, essendo stata a lui girata tutta la
somma, posta in deposito nel Banco del Sacro Monte della Pietà; nella
stessa guisa continuò a farsi di tempo in tempo fino al 9 giugno 1604,
giorno in cui stava ancora in cassa un piccolo residuo della somma, e
i frati reclamavano, il Vescovo ordinava, Prezioso nicchiava, e vi fu
bisogno di un ordine al Prezioso sotto pena di scomunica _ipso jure
incurrenda_! Tutti gli ordini di pagamento, le copie delle polizze di
Banco, i ricevi di ciascuno de' frati co' nomi de' testimoni presenti,
ed anche i memoriali de' frati medesimi ogni qual volta reclamavano la
sovvenzione, furono riuniti in un fascicolo allegato al processo, che
rappresenta il conto reso dal Prezioso ed è per noi di un'importanza
grandissima: poichè esso non ci mostra solamente come e quando il
danaro sia stato distribuito, ma anche ci fa conoscere le miserevoli
condizioni de' frati e la condizione speciale del Campanella, il
quale fu sempre riguardato qual pazzo, sicchè dapprima fra Pietro
Ponzio e poi fra Pietro di Stilo riceverono per lui la rata che gli
spettava; inoltre ci fa conoscere la data delle vicende successive de'
frati rimasti in Castel nuovo, e così rilevare quando fra Dionisio e
il Bitonto riuscirono a mettersi in salvo, quando fra Pietro Ponzio
fu rilasciato, quando il Campanella fu segregato e posto in carcere
duro. Circa la distribuzione del danaro, dobbiamo dire che esso non
fu veramente impiegato tutto nei bisogni de' frati: per la massima
parte fu loro distribuito, dando a ciascuno dapprima 8 ducati, poi
2, 3, 1 ducato etc., e nella distribuzione di 1 ducato fra Pietro
Ponzio non volle ricevere tale miseria dicendo di non averne bisogno;
fu anche pagata in due rate una somma per medicinali forniti a fra
Dionisio infermo dallo speziale del Castello Ottavio Cesarano, ma una
somma di D.^{ti} 14 e tarì 2 fu data al Prezioso per la copia degli
Atti offensivi e difensivi mandati a Roma, ed anzi il primo ordine
di pagamento fu per questa somma. Un ordine simile da parte del
Vescovo di Caserta risulta indubitatamente biasimevole sotto tutti gli
aspetti: egli non prese in benefizio suo, come avea già fatto altra
volta fra Cornelio del Monte, ma destinò in benefizio altrui una somma
che doveva esser sacra e non mai distratta dallo scopo pel quale era
stata raccolta; d'altronde trasgredì le prescrizioni categoriche di
un decreto Papale, che era stato emesso appena nell'anno antecedente.
Le prescrizioni erano: che per le cause del S.^{to} Officio non si
esigesse nulla da nessuno, e che si mandassero anche _gratis_ a Roma
gli Atti de' Segretarii, Cancellieri etc.; il Vescovo di Caserta non
poteva ignorarlo[303].
Ma veniamo al processo, al cui compimento occorreva solo esaurire le
ultime difese di fra Dionisio. Abbiamo già detto che il tribunale non
lasciò di provvedere intorno a queste difese durante l'informazione
sulle scritture proibite: esso fin dal 19 gennaio 1602 aveva assegnato
a fra Dionisio un nuovo termine perentorio di 15 giorni; ma fra
Dionisio chiese che gli fossero prima date le copie degli esami de'
testimoni, come pure che gli fosse assegnato un Avvocato e procuratore,
che fosse esaminato di nuovo il Petrolo, che fosse presa informazione
sulla ritrattazione fatta dal Pizzoni in punto di morte. Il 6 marzo,
quando fu chiamato all'esame sulle scritture proibite, egli rinnovò
tali dimande con una comparsa e protesta scritta esistente in processo,
dimandando di più che prima si vedesse nel tribunale «caritativo e
santo dell'inquisitione» la falsità de' testimoni a suo carico, avendo
questi medesimi deposto falsamente nella causa della ribellione, ciò
che egli non avea potuto dimostrare in quella causa per la potenza del
fisco. Così dicendo egli alludeva anche al Soldaniero, contro cui nella
stessa seduta presentava le dichiarazioni scritte del Gagliardo, del
Bitonto, di fra Pietro di Stilo e del S.^{ta} Croce, attestanti quasi
tutte, che le scritture proibite erano state fatte trovare nella camera
di fra Dionisio per astuzia del Soldaniero. Il 27 marzo, il tribunale
assegnò per Avvocato il Rev.^{do} Attilio Cracco, ordinò la consegna
della copia degli esami testimoniali fatti in difesa di fra Dionisio
e prescrisse al Cracco un termine di 10 giorni per venire innanzi a'
Giudici, nel palazzo del Nunzio, _ad dicendum_. Il 30 marzo, non appena
intimato questo decreto a fra Dionisio, costui mandò un memoriale a'
Giudici, supplicando che facessero andare il Cracco presso di lui,
poichè altrimenti il termine passerebbe invano, trovandosi infermo
e povero, e non essendosi ancora vista la sovvenzione ordinata ai
conventi di Calabria. Ma senza dubbio l'informazione sulle scritture
proibite, riuscita più lunga di quanto potevasi credere, impedì a'
Giudici di andare innanzi speditamente; d'altra parte fra Dionisio, il
15 aprile, presentò una nuova comparsa, per chiedere copia di altri
esami che non trovava fra quelli consegnatigli (l'esame del Soldaniero
in Gerace, e quelli del Priore e del Lettore di Soriano), come pure
«lettere e monitorii contro coloro che tenevano o in qualsivoglia
modo conoscevano la ritrattatione fatta dal Pizzoni»; nè prima del 19
aprile furono da lui presentati gli ultimi articoli di difesa scritti
di sua mano, ma senza l'elenco de' testimoni da doversi esaminare sopra
questi articoli[304]. L'indomani, 20 aprile, i Giudici ordinarono che
fra Dionisio, o il suo Avvocato, tra due giorni presentasse la copia
degli esami consegnatigli, perchè verificata la mancanza di quelli
nuovamente richiesti ne fosse provveduto; inoltre che del pari fra due
giorni presentasse l'elenco de' testimoni, pe' quali avea dimandate
le lettere e i monitorii. Questo elenco fu presentato il 24 aprile, e
con esso dovè presentarsi ancora la copia degli esami già consegnati
e trovarsi vera la mancanza di quelli indicati: infatti si vede nel
processo registrata la consegna de' documenti mancanti, tra' quali
pure la confessione ultima di Cesare Pisano in punto di morte, che fra
Dionisio richiese posteriormente, ed inoltre si vede registrata una
seconda consegna finale di tutti gli esami raccolti a tempo del Vescovo
di Termoli; la prima consegna reca la data del 31 aprile, la seconda
quella del 18 maggio, sicchè solamente a tale data si potè davvero
esser pronti, e il 21 maggio si potè passare agli esami testimoniali.
Gli ultimi articoli presentati da fra Dionisio non furono più di
tre[305]. Col 1.^o egli affermava che il Pizzoni venendo a morte, per
disgravio di sua coscienza, avea detto in presenza di più e diverse
persone aver deposto il falso contro fra Dionisio ed altri in materia
di S.^{to} Officio e di ribellione, ed avere solamente aspettato,
per ritrattarsi, che fosse posto in carceri ecclesiastiche. Col
2.^o affermava che il Petrolo avea dichiarato ad infinite persone
volersi ritrattare su quanto avea deposto contro fra Dionisio ed
altri in materia di S.^{to} Officio, voler mostrare tutta la radice
della falsità del processo, ed avere perciò fatto due volte istanza
a' Sig.^{ri} ufficiali di essere riesaminato. Col 3.^o affermava
che Giulio Soldaniero «per dar credenza alle falsità da lui deposte
contro esso fra Dionisio» avea fatto mettere scritture proibite in
una cassetta dentro la sua camera e poi fatta fare la ricerca dagli
ufficiali, onde egli era stato chiuso in un torrione per sei mesi
e il Soldaniero l'avea diffamato dovunque. Con questi tre articoli
semplicissimi evidentemente fra Dionisio giocava una grossa partita;
ed ecco i testimoni che egli dava per comprovarli. Sul 1.^o, Alonso
Martines _olim_ carceriere (era stato licenziato, come si è detto
altrove, appunto nel maggio), il dot.^r Michele Caracciolo, D.
Francesco di Castiglia, il clerico Masillo Blanco (Gio. Tommaso
Blanch), il clerico Cesare d'Azzia, Gio. Francesco d'Apuzzo: ma il
D'Azzia era stato già liberato dal carcere, e con diversi altri fu
scartato dal Vescovo di Caserta, rimanendo solo il Castiglia, il
Blanch, il D'Apuzzo, ai quali vennero poi aggiunti d'ufficio il Curato
del Castello D. Gaspare d'Accetto e il Sagrestano D. Francesco della
Porta, che aveano dovuto vedere il Pizzoni vicino a morire. Sul 2.^o
articolo, oltre i suddetti, erano dati fra Antonio Capece (il cav.^{re}
gerosolimitano), il Bitonto, fra Pietro di Stilo e il Petrolo; ma tra
questi ultimi il Vescovo di Caserta accolse solamente il Petrolo e
il Capece. Sul 3.^o articolo era riprodotta la dichiarazione scritta
di Felice Gagliardo ed altri, coll'istanza che fossero esaminati
i dichiaranti nel caso in cui non lo fossero stati ancora; ma il
Vescovo di Caserta li ritenne già esaminati (la qual cosa era vera
per alcuni e non per tutti) sicchè di tale articolo non si parlò
più.--Vogliamo intanto, giusta il nostro costume, dar qualche notizia
delle persone de' testimoni accettati, ciò che riesce indispensabile
in questo momento di tanta importanza: trasanderemo quelli altra volta
conosciuti, e diremo qualche cosa del Blanch e del D'Apuzzo, come pure
del D'Accetto e del Della Porta che abbiamo bensì conosciuti ma un po'
troppo alla sfuggita. Cominciando da D. Gaspare d'Accetto, le scritture
della Cappellania maggiore che si conservano nel Grande Archivio, ed
egualmente i libri parrocchiali della Chiesa del Castel nuovo, ci fanno
conoscere i punti più notevoli della sua vita. Era di Massa Lubrense
nel Sorrentino, ed a 50 anni, nel 1591, ebbe l'ufficio di Sagrestano
della Chiesa del Castello, ufficio perduto da un D. Cesare Boffa,
dietro un processo fattogli nel tribunale della Cappellania maggiore
col titolo _De raptu et fuga uxoris Francisci Alugia militis_: pertanto
nell'anno medesimo D. Gaspare fu sottoposto anch'egli a processo, per
l'omicidio in persona di un D. Gio. Carlo Coppola, che dovea sposare
una nipote di D. Gaspare, non avea voluto più sposarla e fu trovato
ucciso; ma ne riuscì assoluto, e nel 1592 trovasi già in funzione di
P.^e Cura ne' libri parrocchiali. D'intelletto molto limitato, come lo
mostrano gli Atti del processo del Campanella ne' quali prese parte,
non apparisce punto inframmettente, e nel tempo di cui trattiamo tirava
innanzi con una licenza annuale di poter confessare e amministrare
gli altri sacramenti nel Castel nuovo, al pari di tutti gli altri
ecclesiastici dello stesso ordine, mentre anche il Cappellano maggiore,
D. Gabriele Sances fratello di D. Giovanni, sottostava a riconoscimenti
temporanei da parte di Roma, in seguito di una fiera lotta
giurisdizionale allora sorta. D. Gaspare tenne l'ufficio fino all'anno
seguente, anno in cui morì. Quanto a D. Francesco della Porta, costui
era della Diocesi di Oria, più svelto di D. Gaspare, e forse per questa
ragione meno gradito: infatti non divenne P.^e Cura che verso il 1609,
mentre alla morte di D. Gaspare, per decreto del Cappellano maggiore
in data del 3 agosto, lo divenne D. Alessio de Magistro napoletano,
«precedente (dice il decreto) la nomina nobis fatta da Maria de
Mendozza moglie e procuratrice di D. Alonso de Mendozza Castellano
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