Fra Tommaso Campanella, Vol. 2 - 14

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del Campanella cercando di salvare la propria, e quanto alle minacce
avute, noi ci siamo già manifestati nel senso che poterono esservi,
dovendo il Campanella sentirsi esasperato contro questi suoi scempiati
compagni, i quali avevano dapprima udito benevolmente le sue opinioni,
si erano anche impegnati a propagarle, e poi le avevano manifestate a'
Giudici rigettandone sopra di lui tutta la responsabilità.
Il 17 maggio, 3^a seduta del tribunale, in cui cominciò ad intervenire
l'Auditore Antonio Peri invece del Nunzio, si procedè all'esame
del Campanella; ma egli, già mostratosi pazzo innanzi che si desse
principio alla causa, continuò a mostrarsi tale. Gli si deferì il
solito giuramento, ed egli non diè segno di capire; gli si disse di
lasciare le finzioni, poichè altrimenti, per avere la risposta precisa,
si sarebbe ricorso a' rimedi opportuni, vale a dire alla tortura, e
gli si offerse il Diurno, sul quale avrebbe dovuto giurare toccandolo,
ma egli rispose «voletemelo legere» continuando a mostrare di non
capire; allora fu rimandato alla sua carcere[157]. E si passò a fra
Pietro di Stilo, il quale, con fina ironia, disse che non avrebbe
voluto mancare di dire la verità per uomini quali il Campanella e fra
Dionisio, mentre dal volgo erano allora chiamati inimici di Dio e del
Re; negò di aver mai parlato con alcuno delle opinioni del Campanella,
e solo ammise di averlo lodato come sapiente quale era stimato da
tutti, affermando che un gran numero di persone di ogni ceto accorreva
a vederlo, e ripetendo i nomi de' più particolari amici di lui, il Vua,
Marcantonio Contestabile e il Prestinace (tutti già posti in salvo),
il Caccia «quale fu squartato dalle galere, et Giulio Contestabile
quale veneva più presto per il fratello che per il Campanella» (non più
dichiarato intimo amico costui, ora che si trovava in pericolo ed erano
già sbolliti i primi rancori). E noverò tra loro anche il Soldaniero,
cui egli avea portata una lettera del Campanella, continuando a
negare di aver mai saputo ciò che quella lettera contenesse, negando
anche di aver saputo mai che fra Dionisio fosse stato in relazione
col Soldaniero. Egualmente negò di aver mai persuaso o tentato di
persuadere alcuno (cioè il Soldaniero) che non rivelasse le opinioni
eretiche di fra Dionisio, che volesse credere alle opinioni di costui,
e che andasse dal Campanella. Quanto poi alle opinioni eretiche del
Campanella, disse di aver solamente saputo da alcuni birri i quali
accompagnavano i prigioni, che il Campanella diceva di esser profeta e
negava l'inferno e il paradiso, ma direttamente egli avea da lui udito
soltanto che vi era poca differenza tra' peccati di lussuria ritenuti
assai diversamente gravi (attenuazione notevole). Sempre dietro
dimande, ripetè che il Campanella gli avea due volte detto di dover
essere monarca, come gli era stato vaticinato pure da un astrologo;
e in quanto a sè, ripetè di aver detto per burla voler prendere
moglie, e di non aver mai sognato che avesse a predicare contro la
fede[158]. Così, evidentemente, fra Pietro continuava a non negare ciò
che riusciva impossibile negare, e difendendo sè stesso si sforzava
di difendere in pari tempo il Campanella, attenuando perfino le cose
altre volte da lui medesimo deposte.--Si venne allora all'esame anche
di fra Silvestro di Lauriana, di fra Paolo della Grotteria, di fra
Giuseppe Bitonto. Il Lauriana disse non aver altro a dire se non che
pativa continue minacce da parte del Campanella ed egualmente di fra
Dionisio perchè si ritrattasse, rivelando che costoro continuamente si
scrivevano cartoline, e che qualora si facesse ricerca sulle persone
di fra Pietro e di Ferrante Ponzio, forse si troverebbe qualche cosa;
onde i Giudici fecero fare immediatamente questa ricerca sulla persona
di fra Pietro che era in Castel nuovo, mentre Ferrante era in Castello
dell'uovo, ma non si trovò nulla. Inoltre, dietro interrogazioni, il
Lauriana affermò di essere andato col Pizzoni presso il Visitatore,
per denunciare i fatti del Campanella, dopochè il Campanella era
stato nel loro convento; e disse di non sapere propriamente che
persona fosse il Pizzoni, non avendolo avuto in pratica, ed attenuò
di molto ciò che altra volta avea dichiarato a carico di lui, dicendo
che mentre leggevano insieme un libro del Campanella, il Pizzoni,
da lui interrogato, avea risposto che alcune cose del Campanella
gli piacevano ed altre no (scuse sicuramente concertate tra loro).
Fra Paolo poi disse non occorrergli dire altro, e negò di aver mai
saputo tentativi di qualche carcerato verso altri carcerati perchè
revocassero le deposizioni fatte; negò di aver mai trattato cosa alcuna
col Campanella; affermò che quel libretto di cose superstiziose,
trovato sulla sua persona, era stato in suo potere due giorni soli,
e spiegò che avea avuta la condanna alla galera per aver minacciato
il P.^e Provinciale Pietro Ponzio, il quale fu poi ucciso mentre egli
già trovavasi alla catena. Finalmente il Bitonto disse che avea bensì
visitato due volte il Campanella, di cui era familiare, ma senza avere
avuto nemmeno agio di trattenersi con lui; nominò quelli che aveano
in sua compagnia visitato il Campanella, e li dichiarò tutti uomini
dabbene, all'infuori del Pisano, che era tristo e volle accompagnarlo
senza potersene liberare, ed abitò con lui otto giorni (contraddicendo
con ciò la sua prima deposizione); disse pure non aver mai udito
eresie da alcuno, ma solo nelle carceri avere udito dal Pizzoni e dal
Lauriana che il Campanella e fra Dionisio aveano sparse eresie, e
fattagli l'osservazione che sapevasi nel tribunale aver lui applaudito
a certi discorsi eretici e segnatamente alla proposizione che la Messa
si celebrava per bere ancora una volta, egli rispose di non saperne
nulla[159].
Dobbiamo qui aggiungere che nella stessa data del 17 maggio venne
presentata al Vescovo di Termoli una denunzia contro il Campanella
da parte di fra Agostino Cavallo di Cosenza. Sappiamo che costui era
Provinciale di Calabria in quell'anno[160], ed avea dovuto venire in
qualità di definitore del Capitolo generale che allora celebravasi in
Napoli, al pari di fra Giuseppe Dattilo egualmente di Cosenza, stato
già Provinciale due altre volte ed appartenente alla fazione del
Polistina. Fra Agostino consegnò al Vescovo di Termoli una scritta
in cui esponeva che, avendo udito essere stata a lui affidata la
causa del Campanella, per disgravio della sua coscienza gli faceva
conoscere che il Campanella già da dieci anni in circa, stando in
Cosenza, avea stretta amicizia con un ebreo chiamato Abramo, sospetto
negromante e possessore di spiriti familiari, amico stretto anche
di fra Dionisio; che col detto ebreo erasi il Campanella partito da
Calabria, e di tutto ciò poteva aversi notizia anche da fra Giuseppe
Dattilo.--L'indomani, d'ordine del Vescovo di Termoli, il Prezioso
andò a raccogliere la deposizione di fra Agostino, ed alcuni giorni
più tardi raccolse pure quella di fra Giuseppe Dattilo. Fra Agostino
confermò la pratica dell'ebreo col Campanella in Cosenza, in Montalto,
in Altomonte (_sic_), di dove poi essi se ne andarono insieme a Napoli,
con tutte quelle particolarità da noi già esposte a tempo debito in
questa narrazione: confermò pure la pratica dell'ebreo con fra Dionisio
in Catanzaro, notando che era corsa voce essere stato poi quell'ebreo
giustiziato in Napoli come spia del turco, ed aggiungendo che allora
dicevasi aver lui vaticinato al Campanella la Monarchia del mondo e che
era stato lui, l'ebreo, la rovina del Campanella. Fra Giuseppe Dattilo
fu meno esplicito: attribuì la scoverta di ogni cosa a fra Domenico
di Polistina, e disse che a relazione di costui rimproverò in quel
tempo il Campanella, perchè volea svestirsi dell'abito religioso, ciò
che poi non fece, ma solamente se ne andò con l'ebreo a Napoli; disse
che non si ricordava bene se fosse partito con sua licenza o no, e
che in Calabria era corsa voce essere stato l'ebreo «brugiato in Roma
per ordine del Santo officio». Quanto alla pratica dell'ebreo con fra
Dionisio, non ne fece parola (e veramente il fatto era più che dubbio).
I lettori troveranno ne' Documenti la denuncia e le deposizioni dei
due frati[161], e leggendole sentiranno forse, come noi lo sentiamo,
il sospetto che a quelle rivelazioni tardive potè dare la spinta fra
Domenico di Polistina più volte in esso citato, tanto più che dalle
parole e da' concetti di que' frati, comunque pezzi grossi dell'ordine,
si rileva manifesta la loro melensaggine, della quale i nemici del
Campanella, e ancor più di fra Dionisio, aveano tutto l'interesse di
profittare. È difficile intendere che fra Agostino, così tenero della
sua coscienza, avesse aspettato dieci anni a sgravarsela, e che fra
Giuseppe Dattilo, così smemorato, avesse potuto ricordare la voce corsa
che l'ebreo era stato bruciato dal S.^{to} Officio, senza che qualcuno
si fosse data la premura di eccitarne gli scrupoli e ravvivarne la
memoria: del resto c'è anche da sospettare che costoro si mostrassero
melensi per progetto, trovandosi ascritti alla fazione del Polistina, e
volendo farsi credere ingenui.
Dobbiamo d'altra parte aggiungere che il Vescovo di Termoli si era
presto messo in corrispondenza con Roma, dando ragguaglio al Card.^l
di S.^{ta} Severina di ciò che veniva rilevando negli esami de' frati,
e di ciò che gli riusciva sapere anche per vie estragiudiziarie;
poichè con una premura lodevolissima, oppostamente all'incuria
sempre addimostrata dal Nunzio, cercava la luce dovunque, non solo
dagl'inquisiti, ma anche da fra Cornelio, dallo Sciarava, perfino
da Fabio di Lauro, oltrechè da D. Pietro de Vera, parlando loro
privatamente. Abituato a quelle ricerche diligentissime che si
adoperavano nel giudicare le materie di S.^{to} Officio, colpito dalla
feroce prepotenza de' Giudici Regii e dalla condotta per lo meno
deplorabile de' Giudici ecclesiastici nella Calabria, consapevole degli
odii feroci e criminosi che campeggiavano segnatamente nell'ordine
Domenicano al quale egli stesso apparteneva, forse anche trasportato
dall'ammirazione e dalla benevolenza che da un pezzo nutriva pel povero
fra Tommaso, non credè mai di aver fatto abbastanza per iscoprire
la verità, e vedremo che, fino alla sua morte, egli, tanto pratico
nelle cose giudiziarie, rimase perplesso e dubbioso su tutto. Delle
sue lettere non conosciamo che i punti più notevoli, i quali vennero
inserti negli ultimi Sommarii de' processi, e senza le date che pure
favorirebbero tanto più la buona nozione dell'argomento; laonde non
possiamo riportarli, come vorremmo, a proprio tempo e luogo, ma ci
vediamo obbligati a riunirli tutti in un fascio al sèguito degli atti
compiuti da quel Vescovo. Conosciamo per altro le date delle prime
lettere, che furono il 12 e il 19 maggio[162]. Il 12 maggio il Card.^l
di S.^{ta} Severina gli mandava il Sommario del processo, o meglio
de' processi ecclesiastici di Calabria (di Monteleone, di Gerace
ed anche di Squillace), Sommario compilato nel S.^{to} Officio di
Roma dal Rev.^{do} Procuratore fiscale, che era quello stesso Giulio
Monterenzio, il cui nome figura anche ne' documenti del processo
di Giordano Bruno: infatti oltre la lettera di S.^{ta} Severina ne
abbiamo un'altra posteriore di questo Monterenzio, che spiega un
dubbio sorto sopra un punto del suo Sommario, ciò che dimostra pure
la diligenza grandissima con la quale il Vescovo di Termoli attendeva
alla causa[163]. Nella stessa data, due giorni dopo la prima seduta
del tribunale, il Vescovo scriveva al Card.^l di S.^{ta} Severina
partecipandogli senza dubbio che la trattazione della causa era già
cominciata: il 19 maggio poi, due giorni dopo che il Campanella
chiamato all'esame erasi mostrato pazzo, egli scriveva la sua 2^a
lettera, con la quale manifestava di credere che la pazzia del
Campanella fosse simulata, che il Nunzio da molti giorni l'avea fatto
sorvegliare ed avea saputo che parlava assennatamente, che stimava
doversi venire alla tortura «pro praecisa responsione» (secondo la
giurisprudenza del tempo); ed aggiungeva essere a sua notizia che il
Campanella non temeva la tortura, e che la pazzia era nata da che il
P.^e Gonzales, confessore di alcuni tra' carcerati, prima della sua
venuta a Napoli, aveva esortato il Campanella ad aver cura dell'anima
perchè il corpo era spedito[164]. Come mai questi ultimi fatti, di
ordine assolutamente riposto, erano venuti a notizia del Vescovo
di Termoli? Vedremo fra Pietro di Stilo, assai più tardi, esporre
ai Giudici la circostanza delle esortazioni e riprensioni del P.^e
Gonzales; è chiaro quindi che il Vescovo non rifuggiva dall'informarsi
dell'andamento delle cose da' frati medesimi, mostrandosi con loro
Giudice severo ma tutt'altro che inumano.
Si ripigliavano intanto più e più volte gli esami de' frati, e poi
si passava a quello de' testimoni. Nel medesimo giorno, 19 maggio,
si esaminavano ancora fra Paolo, il Bitonto, il Petrolo, fra Pietro
di Stilo, il Lauriana[165]. Fra Paolo fu interrogato di nuovo circa
quel libretto di cose superstiziose, e richiesto del motivo pel quale
vi si leggeva un segreto per non confessare alla corda, onde si
poteva dedurre che egli temesse di averla a soffrire; fu interrogato
ancora su' detti e fatti del Campanella, su' frati i quali si erano
congregati in Pizzoni, sull'impegno preso di dover predicare contro
la fede al tempo della ribellione. Ed egli in fondo negò ogni cosa,
nominò i congregati in Pizzoni, e all'ultima dimanda rispose «son frate
semplice et non intendo Latino, come volea predicare»?--Il Bitonto fu
interrogato circa la sua conoscenza con Felice Gagliardo e con Cesare
Pisano, l'andata in Messina con Cesare, i discorsi fatti in tale
occasione, la consacrazione di diverse ostie e lo scellerato abuso
fattone, come pure circa il motivo pel quale avea lasciato l'abito e
tolta la corona al tempo della sua cattura. Ed egli, qualificando il
Gagliardo, come il Pisano, tristissimo uomo, ricordando le circostanze
per le quali avea dovuto trovarsi con loro, negò energicamente tutti
i fatti criminosi che se gl'imputavano; e addusse una sua malattia e
il trovarsi in una vigna, per ispiegare il fatto dell'abito e della
corona, conchiudendo sul fatto dell'ostia consacrata, «mi potete fare
mettere nel foco e farmi ingiottire così come datum, et abiron, se
mai hò ditto, ne fatto tal cosa».--Il Petrolo fu esortato a dire la
verità, se gli fossero piaciute le opinioni del Campanella, mentre
l'aveva tanto spesso udito parlare di eresie ed aveva continuato sempre
a trattarlo, fino ad associarglisi nella fuga travestito quando era
ricercato dal S.^{to} Officio, e poi trovavansi nel processo tante cose
contro di lui da doversi ritenere convinto. Ed egli si scusò sopra
ciascuno addebito, persistendo pur sempre nel sistema di denunziare
senza parsimonia i detti e fatti del Campanella, onde ripetè che fra
Tommaso presso la Roccella gli avea detto essere stato da lui mandato
Maurizio presso i turchi, come pure esser baie le credenze sul fico
mangiato da Adamo, e in Squillace avea detto a un capo di squadra
non trovarsi morte ma mutazione di essere, conchiudendo, «in altro
son grandissimo peccatore, ma contra la fede non hò peccato».--Fra
Pietro di Stilo fu esortato egualmente a dire la verità, se fosse
stato consapevole de' fatti e detti del Campanella contro la fede
ed impegnato a predicare in questo senso a tempo della ribellione,
ciò che rendevasi credibile, essendo lui intimo del Campanella e
di fra Dionisio, ed avendo anche esortato qualcuno (intendasi il
Soldaniero) a non rivelare ed anzi a credere quelle eresie, come
constava nel processo. Ed egli negò di aver mai saputo cosa alcuna
del Campanella contro la fede, negò di essere amico di fra Dionisio,
mentre era invece amico del Polistina, confermando che fra Dionisio
era scelleratamente abituato a parlare senza ritegno della più turpe
lussuria, ed egli avea rimproverato il Campanella perchè conversava con
lui; inoltre negò di aver mai parlato con alcuno in lode del Campanella
se non per cose di filosofia.--Da ultimo il Lauriana fu interrogato sul
motivo pel quale avea suonate le campane all'armi quando i ministri
del S.^{to} Officio erano venuti a catturare certi imputati, e fu
eccitato a dire la verità, mentre era tanto amico del Campanella e di
fra Dionisio da doversi ritenere non pure consapevole ma complice delle
loro eresie ed impegnato a predicarle, come era noto per deposizioni.
Ed egli si scusò, dicendosi suddito del Pizzoni ed obbligato ad
eseguirne gli ordini ricevuti dietro erronei apprezzamenti; fece
avvertire che non era letterato e quindi non era capace di predicare,
ed aggiunse che avea comunicato al Pizzoni quanto gli era accaduto di
sapere, che aveva pure scritta una lettera dettata dal Pizzoni per
dar notizia al P.^e Generale della ribellione e di alcune cose di
S.^{to} Officio, che aveva egli medesimo portata questa lettera alla
posta di Monteleone. In tal guisa procedevano gli esami, condotti con
molta perizia e conoscenza della causa, come risulta da' documenti;
questi mostrano inoltre lo studio che il Vescovo di Termoli vi faceva,
notando al margine di essi non solo i punti più importanti, ma anche i
raffronti con gli esami anteriori, le menome varianti e le cose che gli
sembravano inverosimili.
Si produsse allora un primo incidente tra' parecchi che in questa
causa si verificarono. Fra Pietro Ponzio, sulla cui persona era stata
fatta una ricerca di corrispondenze provocata dal Lauriana, si pose
con tanto maggiore accanimento, egli e fra Dionisio, a sorvegliare
il Lauriana e il Pizzoni, che tenevano corrispondenza tra loro. Il
Lauriana trovavasi nella carcere da basso con più di venti individui,
ed il Pizzoni stava in una delle carceri superiori con Gio. Angelo
Marrapodi, Geronimo Conia e Marcantonio Stanganella: Aquilio Marrapodi,
giovanetto quattordicenne, figlio di Gio. Angelo, serviva questi
ultimi ed anche il Lauriana, fra Pietro e fra Dionisio, ed eludendo
la vigilanza de' carcerieri portava le corrispondenze; un giorno fra
Dionisio lo sorprese, gli tolse una lettera che teneva nascosta in
petto, lettera senza firma e senza indirizzo, ma scritta certamente dal
Lauriana al Pizzoni. Con essa il Lauriana diceva di avere inviate prima
altre lettere, raccomandando di lacerarle, e di aver fatto capitare
a fra Francesco da Tiriolo (che ricordiamo aver visto carcerato per
la causa della congiura e già liberato) alcuni memoriali da doversi
presentare; infine raccontava minutamente l'ultimo esame cui era stato
sottoposto. La lettera fu mandata da fra Dionisio, mediante lo stesso
Aquilio, a fra Pietro Ponzio, e da costui fu presentata al Vescovo di
Termoli, qualificandola «un concetto importante pel progresso della
presente causa»; immediatamente, il 26 maggio, il tribunale venne ad
occuparsene[166]. Fu interrogato fra Pietro, che disse avere avuta
la lettera da quel servitorello, e crederla scritta dal Lauriana al
Pizzoni. Fu interrogato in genere il Lauriana, che negò ogni cosa. Fu
interrogato Aquilio, che affermò di servire suo padre ed anche que'
monaci pei quali comprava cose da mangiare; affermò di aver portato
lettere di secolari alla posta ma non di monaci, aggiungendo con grande
disinvoltura, «se si trova che habbia portato pur un viglietto di
questi monaci, voglio che mi sia tagliata la testa». Gli fu presentata
allora la lettera, dimandandogli se sapeva leggere e scrivere; ed
egli disse di saper «legere quando la lettera è bona et un poco
scrivere», ma affermò di non conoscere quella scrittura. I Giudici,
per convincerlo, fecero subito venire fra Pietro, il quale gli ricordò
che avea portato biglietti e lettere del Lauriana e del Pizzoni, e
n'era stato rimproverato da lui ed anche da un altro carcerato, Cesare
Bianco; ed Aquilio dovè confessare ogni cosa, e licenziato fra Pietro,
richiesto perchè non avesse detto prima la verità, con non minore
disinvoltura rispose che non se n'era ricordato, aggiungendo di aver
portato un'altra volta al Pizzoni un biglietto che il Lauriana gli avea
detto essere memoriale, che non credeva di essere stato veduto ma che
Cesare Bianco l'avea realmente rimproverato; e dietro altre dimande
rispose che il Pizzoni non potea scrivere (aveva la spalla offesa),
ma che con lui stavano suo padre e il Conia e lo Stanganella, i quali
sapevano scrivere. I Giudici vollero ancora interrogare Cesare Bianco,
che era di Nicastro e trovavasi carcerato per la congiura, e costui
confermò di aver visto il Lauriana dare il biglietto pel Pizzoni e
di averne mosso rimprovero ad Aquilio: e fatto venire il Lauriana lo
confrontarono con costui, ed egli giunse a dire, «Dio mi mandi alle
pene dell'inferno se mai hò fatto tal cosa», e licenziato il Bianco
e richiamato Aquilio, confrontarono il Lauriana anche con lui, e il
Lauriana continuò sempre a negare, e rimasto solo e presentatagli la
lettera, disse che non avea fatta tale scrittura, che essa non era
di mano sua ed egli non avea comunicato il suo esame ad alcuno. Ma
le notizie dell'esame erano precise, e potevano essere state date
solo o dai componenti il tribunale, o da lui, che aveva in tal guisa
tradito pure il segreto solito ad imporsi dal tribunale ad ognuno che
si esaminava: rimase quindi ben provato che il Pizzoni e il Lauriana
si concertavano tra loro, per esimersi dalla responsabilità che più o
meno aveano comune con gli altri frati da loro accusati; erano perciò
sospetti, ed anzi falsi, se non in quanto agli altri, certamente in
quanto alle persone proprie.
Nella stessa seduta fu esaminato di nuovo il Pizzoni[167]; e prima
di tutto gli si dimandò se avesse mai ricevuto lettere e memoriali
dal Lauriana, ed egli rispose negativamente. Si volle allora che
ripetesse le circostanze in cui il Campanella gli avea parlato delle
profezie e delle rivoluzioni che dovevano accadere, e dicesse come e
perchè fra Dionisio gli avea già parlato prima dell'eresie medesime
ripetutegli in seguito dal Campanella, opponendo essere inverosimile
che, mentre il Campanella indignato di non poter avere da lui
fuorusciti a sua divozione aveva esclamato «ben mi fu detto da M.^o
Gio. Battista (Polistina) che tu sei un traditore», si era tuttavia
lasciato andare a rivelargli tante eresie e tante empietà; inoltre gli
si dimandò se conoscesse complici degli errori del Campanella e di
fra Dionisio. Evidentemente si voleva cogliere il Pizzoni in qualche
contraddizione, ma egli imperturbato ripetè le circostanze di que'
discorsi, e l'occasione avutane dall'essere stati ricordati i travagli
patiti in Roma dal Campanella, e le opere composte da lui; disse che la
qualificazione di traditore, secondo l'avviso di M.^o Gio. Battista di
Polistina, gli fu data dal Campanella dopo i discorsi della ribellione
e dell'eresia e non già prima; infine dichiarò di non conoscere
complici.
Il 29 maggio si ritornò ad esaminare il Lauriana ed il Petrolo[168].
Al Lauriana si dimandò dapprima se si fosse risoluto a dire la verità
sulla faccenda della lettera mandata al Pizzoni, ed egli rispose di
averla detta la verità. Poi gli si dimandò una quantità di circostanze
in cui avea dovuto udire le eresie del Campanella e di fra Dionisio,
e se le avesse udite anche da altri, e come si fosse accorto che il
Pizzoni vi partecipava, e se veramente fosse stato dal Pizzoni esortato
a credere le eresie del Campanella, secondochè avea dichiarato nel
primo esame sostenuto in Monteleone e ratificato in Gerace. Ed egli
ripetè soltanto la scusa già data altra volta su quest'ultimo fatto,
ma per tutto il resto disse sempre di non potersene rammentare, e si
riportò costantemente al suo primo esame; «vedete llà ala mia esamina
che llà lo trovareti».--Quanto al Petrolo, gli si dimandarono diversi
chiarimenti sulle cose dette negli esami sostenuti in Calabria, e
massime come e dove il Campanella dicesse le sue eresie a frati e
secolari, come fosse egli venuto a conoscere la cifra che il Campanella
e il Pizzoni adoperavano tra loro, come e dove ed a chi il Campanella
esponesse le rivoluzioni che doveano accadere e le profezie che vi si
riferivano, e quando ed a chi dicesse di voler predicare la libertà.
E il Petrolo ripeteva le cose già deposte, conformando sempre che il
Campanella non parlava di eresie agli altri così liberamente come
faceva con lui, ma per motti e in diversi luoghi; che alla Roccella
avea vista la cifra in una scrittura, la quale il Campanella gli disse
essere una lettera del Pizzoni; che le profezie e le rivoluzioni
erano state esposte dal Campanella dapprima nella Chiesa di Stilo,
predicando all'altare sopra una sedia, ed a lui solamente il Campanella
avea detto, «par che queste profezie parlino di me»; infine che non
ricordava dove, e quando, e con chi il Campanella avesse detto voler
predicare la libertà.
Continuarono gli esami nel giugno seguente, e in essi potè intervenire
il Nunzio, essendo tornato in Napoli dalla sua Chiesa di Troia; ma
dopo quattro sole sedute egli mandò di nuovo in sua vece l'Auditore
Antonio Peri, che lo sostituì per tutto il rimanente dell'anno, sicchè
nella più gran parte del processo offensivo, in tutto il ripetitivo, ed
anche in quasi tutto il difensivo, il Nunzio non assistè menomamente.
Dal suo Carteggio rilevasi che in questo ritorno da Troia egli potè
vedere quale fosse la sicurezza delle strade, ed essere informato
sopra i luoghi intorno alle criminose relazioni tra banditi ed
ecclesiastici: non sarà inutile riportare qui un brano di lettera da
lui scritta al Card.^l S. Giorgio su tale argomento, poichè interessa
conoscere pienamente i tempi e farsi un concetto giusto di quella
abominevole miscela di frati, clerici e banditi, la quale non era
propria della Calabria a' tempi del Campanella, ma comune a tutto il
Regno anzi a tutto il mondo che diceasi civile, venendo dalle autorità
ecclesiastiche riguardata in un modo per lo meno singolare[169]. «Le
replicarò che quanto alla ricettatione de' banditi et al commercio che
tengono con loro molti Clerici, et tutti i religiosi che stanno in
certi Conventi, dove per il poco numero non si osserva regola alcuna, è
necessario provedervi in qualche modo acciò non segua così spesso che
le Chiese et i Conventi sieno violate da questi Ministri Regii (ecco
il vero e proprio inconveniente agli occhi del Nunzio), che gridono
alle stelle che dette Chiese et Conventi sieno ricetto di tristi et
d'assassini come riscontro pur troppo vero, et al ritorno di Troia
è bisognato che mi proveda di chi mi assicuri la strada, poichè la
sera che arrivai ad Ariano intesi che poco avanti erano stati rubati
due mercanti Raugei et menati via da una truppa di Banditi per farne
ricatti, onde scrissi al Vicerè della Provincia che è il Conte del
Sacco, il quale non solo mi mandò 20 Archibusieri ma venne ancora lui
su la strada per aboccarsi con me, et mi fece gran querela di quanto
hò detto, con soggiugnere che fra gli altri certi Monaci di M.^{te}
Vergine che stanno à S. Guglielmo, luogo in quelle campagne[170], non
solo raccettano, ma partecipano i loro furti, portano ambasciate fra
di loro, et sono mezi alli ricatti» etc. etc.--Continuarono dunque
gli esami coll'intervento del Nunzio, e il 7 giugno si udì per la
3^a volta il Pizzoni, rimanendo dal suo esame occupata l'intera
seduta[171]. Diremo in breve che, sempre dietro dimande, egli dichiarò
di avere udito una volta sola parlare di eresie e di ribellione tanto
il Campanella quanto fra Dionisio; e redarguito, perchè nel primo
esame avea detto di avere udito eresie dal Campanella in Stilo ed in
Pizzoni, dichiarò che in Gerace non gli era stato letto il primo esame,
e che il processo del Visitatore conteneva falsità. Addusse un altro
motivo della sua andata a Stilo, un pagamento che dovea fare ad un
frate, e ne fu redarguito da' Giudici. Narrò la sua andata a Stilo,
seguita dall'altra ad Arena, insieme col Campanella accompagnato da'
parenti armati. Disse di aver conosciuto già prima il Soldaniero, capo
di banditi, che gli avea mandato una lettera minatoria, e di averlo
poi visto passeggiare col Visitatore e fra Cornelio nel convento di
Soriano il 28 agosto, ma di non sapere se egli fosse informato delle
eresie del Campanella, sapere bensì che avea parlato con fra Dionisio;
e redarguito, perchè nel primo esame avea detto che il Soldaniero era
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