Fra Tommaso Campanella, Vol. 2 - 39

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Ma verso il 7 agosto, dietro nuove sollecitazioni del Nunzio,
il Vicerè non tenne più oltre nascosta la sua vera opinione
sull'incidente. A questa data[430] il Nunzio faceva sapere a Roma,
che avendo parlato di nuovo al Vicerè, l'avea trovato «diverso» da
quello di prima, perchè gli avea detto che non potendo D. Pietro de
Vera intervenire come Giudice, avrebbe scritto a Roma e nominato un
altro il quale potesse intervenire. Aggiungeva che invano egli avea
replicato al Vicerè non esser questo necessario, «perchè il fine
principale di N. S.^{re} era stato che intervenisse qualch'uno de'
Ministri di S. M.^{tà} acciò vedesse come passava la causa, la qual
cosa era fatta» (!); dimandava quindi nuovo ordine, poichè aveva
saputo dal Notaro della causa che gli Atti, le minute e le sentenze
erano in mano del medesimo D. Pietro, nè egli poteva andare oltre
«senza qualche turbatione», che non gli era parso di dover eccitare
mentre la faccenda poteva avere altro rimedio.--Ma il rimedio non
poteva essere altro oramai che quello di cedere, poichè si aveva
manifesto torto: e nessuno vorrà ritenere che il Vicerè fosse stato
mai diverso in cuor suo. Il Conte di Benavente aveva adottato un modo
di procedere del tutto opposto a quello del suo antecessore Conte di
Lemos. Per quanto costui si era mostrato attivo, insistente, premuroso,
personalmente impegnato, altrettanto egli aveva preferito mostrarsi
freddo, inerte, distratto, poco informato; e lusingando a tempo la
vanità della Curia, mezzo di riuscita sempre sicuro, avea scansato i
richiami sulla gravissima decisione da lui presa intorno al Campanella,
e fatta anche essenzialmente terminare la causa per gli altri frati,
rimanendo perfino le minute delle sentenze nelle mani della persona di
sua fiducia. Così, salvata la sostanza, occorreva solo provvedere alla
forma, ed egli poteva finalmente scovrirsi ed anche non aver fretta,
mentre al Nunzio non rimaneva che zittire. Costui avrebbe potuto e
dovuto gridare quando il Campanella venne tradotto al Castel S. Elmo
a sua insaputa, ed avrebbe potuto e dovuto ricordarglielo la Curia
vedendo che egli non se n'era dato pensiero: ma per appellarsi alle
convenzioni stabilite col Governo Vicereale, bisognava non pretendere
di trasgredirle.
I frati non cessavano d'insistere per la spedizione della loro causa,
ed il 20 agosto[431] il Nunzio ne dava conto a Roma, partecipando
essergli stato detto dal Vicerè, in risposta alle sue sollecitazioni,
che avrebbe fatto nominare in Roma la persona che desiderava in luogo
di D. Pietro de Vera.
E qui, nel Carteggio del Nunzio, cessa ogni altro documento intorno
alla causa ed intorno alla persona del Campanella. Vero è che bisogna
ammettere senza esitazione qualche lacuna nelle Lettere di Roma, e
notare una lacuna evidente di tre registri delle Lettere di Napoli,
da' primi di ottobre 1604 al 14 gennaio 1605. I soli documenti di
questo periodo, che ci rimangono, son quelli pervenutici con gli
Atti processuali inserti nel noto Codice Strozziano: 1^o il Breve
Papale del 27 ottobre 1604, calcato sull'altro precedente, col quale
si ricorda la concessione fatta già al Conte di Lemos, si menziona
la lettera ricevuta dal Conte di Benavente circa il matrimonio di D.
Pietro de Vera, che «lo stesso Nunzio pretende» aver fatto spirare
la facoltà accordatagli, e si nomina D. Giovanni Ruiz de Baldevieto
in luogo del De Vera, accordandogli identica facoltà[432]; 2^o le
note marginali, apposte nell'Elenco degl'incriminati a' nomi de'
quattro frati de' quali si dovea spedire la causa, ed esprimenti le
sentenze per loro emesse, cioè pel Petrolo un triennio in galera, per
gli altri il rilascio[433].--Si può dunque ritenere che il Vicerè
presentò direttamente a Roma il nome di colui che volea sostituito al
De Vera, onde il Nunzio non ebbe ad occuparsene nel suo Carteggio,
e che venuto il Breve potè il tribunale tener seduta tutt'al più a'
primi di novembre, e senza discussione emettere le sentenze secondo le
minute già fatte e ne' termini stabiliti fin dal luglio precedente.
Aggiungiamo qui che D. Giovanni Ruiz de Baldevieto o Baldeviescio (come
si trova talvolta nominato nelle scritture dell'Archivio di Napoli) era
anch'egli membro del Sacro Regio Consiglio al pari di D. Pietro de Vera
e di D. Giovanni Sances, ma entrato in ufficio da più fresca data, nel
1602[434]. È superfluo poi far avvertire che doveva esser clerico; ed
avendo di certo funzionato coll'apporre solo il suo nome alle sentenze,
possiamo dispensarci dal discorrere ulteriormente di lui. Intanto la
causa del Campanella rimase tuttavia sospesa. Non sappiamo se, ad
occasione delle sentenze emesse per gli altri frati, il Nunzio si sia
tenuto obbligato di spendere qualche parola col Vicerè intorno a lui:
la lacuna sopraindicata, esistente nel suo Carteggio, non ci permette
di affermar nulla su tale proposito, ma è un fatto notevolissimo che
dal 14 gennaio fino al 16 dicembre 1605, data in cui egli lasciò il suo
ufficio, nessuna parola fu spesa intorno al Campanella, sicchè bisogna
dire che il povero filosofo rimase e dal Nunzio e dalla Curia Romana
affatto dimenticato.
Invece sappiamo che se ne ricordarono gli aderenti suoi, ai quali egli
stava realmente a cuore: essi presentarono al Nunzio un memoriale che
cominciava con le parole «Ill.^{mo} e Rev.^{mo} Signore, Noi amici, e
parenti e discepoli di Fr. Tommaso Campanella Sacerdote della Religione
di S. Domenico carcerato in S. Ermo». Questo documento citato dal
Nicodemo, e così pure dal Cipriano, dietro una nota rimessa loro dal
Magliabechi intorno alle opere manoscritte del Campanella a quel tempo
esistenti nella Magliabechiana, può dirsi oramai irreparabilmente
perduto[435]; e la perdita non sarà mai abbastanza deplorata, massime
perchè le sottoscrizioni apposte al memoriale, oltre al far conoscere
i nomi de' coraggiosi cittadini che soli si diedero pensiero del
Campanella, avrebbero anche fatto rilevare il primo nucleo di quella
scuola, che andò crescendo più tardi e rappresentò in gran parte
la cultura napoletana del secolo 17^o, secolo più calunniato che
conosciuto. Ignorando la data del memoriale, non si saprebbe nemmeno
dire se esso sia stato presentato poco dopo il luglio 1604, allo scopo
di reclamare contro i pessimi trattamenti che il Campanella soffriva
senza ragione, ovvero sia stato presentato nella fine di ottobre 1604
ed anche più tardi, quando il tribunale era prossimo a riunirsi o si
era già riunito per la definitiva spedizione della causa de' quattro
frati, allo scopo di ottenere che la causa del Campanella fosse
egualmente spedita. Ma quest'ultima ipotesi è la meno plausibile, ed
anzi veramente da rigettarsi. Avremo infatti occasione di vedere più in
là che a questa data, e fin qualche anno dopo, il Campanella non voleva
menomamente che la sua causa terminasse in Napoli, e i suoi aderenti
non avrebbero mai agito in controsenso. Ad ogni modo il memoriale
rimase tra le carte inutili del Nunzio, verosimilmente con esse andò
poi a Firenze, di dove è in sèguito scomparso.
Adunque mentre i frati uscivano di carcere, all'infuori del Petrolo
che dovè essere tradotto nello Stato ecclesiastico per servire sulle
galere di S. S.^{tà}, il Campanella rimaneva in Castel S. Elmo,
indefinitamente carcerato. Nella Narrazione egli disse, che i frati
«subito in Napoli et altri in Roma fur aggratiati e diventaro priori
et officiali nella religione..,» mentre in quanto a lui «non volsero
mai permettere che andasse alli carceri di Roma, nè che si facesse
la causa sua di ribellione a Napoli, perchè non poteano condannarlo
in altro, e perchè non andasse a Roma dove sapean c'havea d'esser
liberato. Però con crudeltà et astutia grande lo posero in Castel
Santelmo dentro a una fossa oscura 23 gradi sottoterra, sempre alla
puzza oscuro et acqua, et quando piovea s'empia d'acqua, e mai ci
entrava luce, stava inferrato sopra uno stramazzo bagnato con appena
mezzo reale di vitto malamente». Che il Petrolo abbia dovuto essere
graziato della galera in Roma, e gli altri dell'esilio in Napoli,
bisogna ritenerlo senz'altro, tale essendo il costume della Curia in
quel tempo, e ne abbiamo pure veduta qualche cosa in persona di Giulio
Contestabile. D'altronde le anzidette deposizioni ultime del Gagliardo,
in data del 12 luglio 1606, ci danno notizia che fra Pietro di Stilo
nella 1^a metà di quell'anno era già nel suo convento in Stilo, non
sappiamo se in carica o no; ed un'Informazione presa contro fra Pietro
Ponzio in Nicastro in data di dicembre 1604, ci dà notizia che fra
Pietro trovavasi allora nel convento dell'Annunziata di Nicastro ed
era divenuto abbastanza audace, avendo in Chiesa, ed in presenza del
Vicario capitolare, del Clero e di un numerosissimo pubblico, osato
d'interrompere e protestare durante la predica di un Cappuccino che
sosteneva la credenza dell'Immacolata Concezione[436]. Che poi il
Campanella sarebbe stato liberato in Roma non possiamo menomamente
dubitare: abbiamo veduto qual'era la giurisprudenza del S.^{to} Officio
intorno a ciò, ed abbiamo fatto avvertire che il Governo Vicereale non
poteva non preoccuparsi di questa circostanza, e tanto più ricorrere
ad ogni mezzo per non lasciarsi sfuggire di mano l'infelice filosofo.
Ma che non sia stato permesso di far la causa della congiura, «perchè
non poteano condannarlo in altro», deve ritenersi un assurdo, e nel
tempo stesso una delle tante affermazioni equivoche, alle quali il
Campanella fu troppo sovente obbligato a ricorrere nel resto della sua
vita: la causa era stata già fatta, rimanendo solo il dover formulare
la sentenza; e dopo la condanna da lui avuta per l'eresia, con la
quale egli non era stato riconosciuto pazzo, dopo la condanna per la
congiura avuta dagli imputati di second'ordine, dal Contestabile, dal
Pittella ed in ultimo luogo dal Petrolo, il Nunzio non avrebbe potuto
non condannarlo, nè occorre dire che l'altro Giudice, compagno del
Nunzio, non avrebbe esitato un momento ad emettere un voto conforme.
Infine quanto all'essere stato cosi duramente trattato in Castel S.
Elmo, ed anche all'esservi stato tradotto con crudeltà ed astuzia
grande, bisogna accettarlo pienamente. Senza dubbio si diè prova di una
grande astuzia, per riuscire a tenere il Campanella nelle mani eludendo
i dritti di Roma, e di altrettanta crudeltà nel farlo macerare in
quella specie di carceri senza un motivo ragionevole, mentre anche il
disegno di evasione era un fatto già vecchio di alcuni mesi. Nè si può
dubitare delle pessime condizioni in cui egli ebbe a trovarsi, poichè
qualche notizia contemporanea intorno alle carceri gravi di Castel S.
Elmo ce le mostra appunto a quel modo. In sostanza quindi, menzionando
i suoi patimenti, egli non esagerò di molto, così nelle poesie e nei
libri, che sappiamo aver sempre continuato a comporre coll'assistenza
di fra Serafino di Nocera malgrado i rigori che soffriva, come pure
nelle parecchie lettere, che conosciamo avere scritte al Papa, a'
Cardinali etc. dopochè si era già da qualche tempo deciso a smettere
apertamente la sua pazzia: non esagerò menzionando «il Caucaso»
in cui si trovava qual Prometeo novello, la fossa nella quale era
sepolto, l'acqua che lo bagnava ne' giorni di pioggia, il giaciglio
fradicio, il puzzo e il freddo, il vitto poco e sporco da provvedersi
con 17 tornesi (40 centesimi), l'inverno e la notte continua «con tre
hore sole di luce la sera et il giorno un poco a 22 hore per dire
l'officio» sicchè invidiava «alle mosche et a' serpi la mirabile gratia
della luce»[437]. Egli mostrò allora di attribuire questi crudeli
trattamenti al Capitano del Castello amico de' suoi nemici, cioè Carlo
Spinelli, Principe della Rocella, Barone di Gagliato, Barone di Bagnara
e D. Loise Sciarava, amico de' «Satrapi» che avevano tanto guadagnato
coll'ammettere la congiura. Sappiamo che Castellano di S. Elmo era
D. Garzia di Toledo, già tornato in quel tempo dalla missione di
Governatore di Calabria ultra, e poi, nell'aprile 1605, mandato a Porto
Longone qual Commissario della fabbrica di una fortezza, onde talvolta
il Campanella si dolse non più del Capitano ma del Luogotenente del
Castello[438]. D. Garzia dunque, co' suoi «50 leopardi» (i soldati
spagnuoli) si sarebbe permesso di trattare così male il Campanella,
impedendogli anche di parlare al Vicerè, com'egli avrebbe voluto, e
ciò per suggestione de' Satrapi, i quali consigliavano il Vicerè «di
non darlo al Papa e non lasciare che si difendesse secondo i canoni e
la ragion naturale»: ma è chiaro che D. Garzia obbediva agli ordini
ricevuti, e verosimilmente li eseguiva con un eccesso di zelo, facendo
egli pure, secondo la curiosa espressione del Campanella, «come quelli
che son pagati a piangere i morti, che gridano più che li figli e
mogli che si doglion davero»; nè c'era da fare col Vicerè nuove difese
secondo i canoni e la ragion naturale, quando un Breve del Papa aveva
definito il modo di trattare la sua causa e questa era stata già
trattata, oltrechè una decisione egualmente del Papa avea mostrato
chiaramente che non c'era da ritenerlo pazzo.

III. Nel Castel S. Elmo si chiuse finalmente alla scoperta il
periodo della pazzia del Campanella, e si chiuse col suo rivolgersi
dapprima al Vicerè per mezzo di fra Serafino di Nocera, mandando ad
esporgli taluni suoi concetti che costituivano promesse mirabili
pel bene del Regno e quindi in favore del Re; poi col rivolgersi al
Nunzio e al Vescovo di Caserta, procurandosi una visita di costoro
ed esponendo in essa gli studii fatti e certi suoi concetti intorno
alla fine del mondo, gl'inganni avuti dal diavolo e poi le grazie
avute da Dio con le rivelazioni vere, onde potea far cose mirabili
ad utile del Cristianesimo, delle quali cose presentava l'elenco in
un memoriale. A queste prime mosse tenne poi dietro più tardi il suo
rivolgersi al Papa, ad alcuni Cardinali ed anche all'intero Senato
Cardinalizio, quindi al Re di Spagna, all'Imperatore, agli Arciduchi di
Austria, segnatamente dopochè gli venne procurato l'aiuto di Gaspare
Scioppio, inviando lettere che ritessevano la storia delle cose sue,
giustificavano la pazzia pregressa, ripetevano le promesse delle cose
mirabili in vantaggio della Chiesa e dello Stato, presentavano l'elenco
delle opere fin allora scritte, conchiudevano col supplicare che fosse
udito e posto alla prova. Indubitatamente ciascuna delle dette mosse
del Campanella fu coordinata a certi suoi pensieri, che egli andava
esprimendo in varie e successive opere di occasione, alle quali attese
col maggiore impegno comunque sepolto in una fossa tanto orribile; e
diciamo opere di occasione, perocchè esse furono scritte con lo scopo
manifesto di procurarsi grazia presso gli arbitri della sua sorte,
presso il Vicerè e gli Agenti del ramo temporale e spirituale della
Curia Romana, infine anche direttamente presso la Curia e tutti i
potenti capaci di aiutarlo, sforzandosi di far acquistare di sè un
miglior concetto nel campo politico e nel religioso, di mostrare quali
e quanti servigi egli avrebbe potuto rendere laddove fosse posto in
libertà. Riuscirà quindi utilissimo vedere in precedenza le opere che
compose, con tutti gli accidenti della composizione di esse, in questo
periodo che comprende gli esiti de' processi e che dalla fine del 1602
può protrarsi al 1605-1606, data almeno del termine della pazzia,
giacchè il termine del processo della congiura non si vide per lui mai
più.
Cominciamo dunque dal ricordare che il 1602 era stato impiegato dal
Campanella per una piccola parte nella composizione della _Città del
Sole_, e per la massima parte nella composizione della _Metafisica_,
la quale verosimilmente fu compiuta ne' primi mesi del 1603 (ved. pag.
305). D'allora in poi egli dovè subito metter mano a' _4 libri di
Astronomia_ contro Aristotile, Tolomeo, Copernico e Telesio, indicati
anche col titolo _De motibus astrorum juxta physica nostra_ e forse
indirizzati alla memoria di Giulio Cortese, come abbiamo detto altrove
potersi desumere da un brano dell'opera «Del Senso delle cose» che
ha richiamata la nostra attenzione[439]. Sulla data di composizione
dell'Astronomia non cade dubbio: la troviamo infatti registrata fra
le altre opere negli elenchi inviati il 1606 a' Card.^{li} Farnese e
S. Giorgio; la troviamo del pari nell'elenco inviato il 1607 al Re di
Spagna coll'altro titolo _De nova astronomia libri 4_ etc., aggiuntovi
che erano rimasti «imperfetti», la quale ultima circostanza, motivata
con ogni probabilità da' nuovi travagli sopravvenuti, dovè impedirgli
di mandare l'opera allo Scioppio nel 1607. D'altra parte la cosa ci
è confermata abbastanza dalle deposizioni ultime del Gagliardo, per
le quali abbiamo già veduto che nel 1603 il filosofo si occupava di
Astrologia e certamente ancor più di Astronomia, avendo per le mani,
con quel singolare ripostiglio, il Magino, l'Almanach, il Cardano,
senza il quale aiuto non avrebbe in verità potuto trattare una materia
simile; e secondo lo stesso Gagliardo ne avrebbe trattato così nel
carcere ordinario come nel torrione, vale a dire dal febbraio o marzo
al luglio o agosto 1603 ed anche da questa data in poi, fin verso il
tempo dell'uscita del Gagliardo dal carcere, vale a dire fin verso il
marzo 1604. È verosimile poi, che se non all'entrare nel torrione,
almeno quando vide scoperto il disegno di evasione, carcerato il
Marchese di Lavello e poi protratta tanto la spedizione della causa
della congiura, penetratosi delle circostanze evidentemente aggravate,
egli abbia interrotto la composizione della pura Astronomia, e posto
mano al trattato _De Symptomatis mundi per ignem interituri_; infatti
questo trattato si vede sempre menzionato come annesso a' libri di
Astronomia nelle lettere del 1606-1607 e seguenti, e fu inviato esso
solo allo Scioppio nel 1607, senza i libri di Astronomia, col titolo di
_Prognosticum astrologicum de his quae mundo imminent_. Il Campanella
poteva servirsene per difesa, essendo ricominciato ad apparire il
bisogno di ulteriori difese, e così come già si è visto aver fatto
altre volte, egli passava immediatamente a comporre opere adatte a'
suoi bisogni: aggiungiamo che il trattato potrebbe ancora trovarsi
in qualche Biblioteca, essendo stato mandato allo Scioppio, ma per
l'autore andò certamente perduto insieme co' libri di _Astronomia_,
che gli furono tolti dietro una perquisizione ordinata dal Nunzio
il 1611, come apparisce dal _Syntagma_, nel quale per altro la data
di composizione di questi libri si mostra esposta in una maniera
impossibile. S'intende poi che il Campanella in tutto questo tempo
continuò a comporre poesie, e che esse ci furono conservate solamente
in parte, rimanendo eliminate le poesie confidenziali. È molto
verosimile che debbano assegnarsi alla prima metà del tempo trascorso
nel torrione le tre Salmodie, che vennero riportate in ultimo luogo
nella scelta data alle stampe, dicendosi nel _Syntagma_ che ve ne
furono di quelle servite a rinvigorire gli amici ne' tormenti; esse
sarebbero state composte a' primi del gennaio 1603, quando tre de'
frati suoi compagni furono tormentati, e bisogna dire che veramente
poterono servire pel solo fra Pietro di Stilo. Negli elenchi delle
opere inviati a' Cardinali ed al Re si trova anche citata tra le
Rime la «Salmodia della legge naturale e divina in tutte cose», ma
essendo stati quegli elenchi compilati il 1606-1607, parecchie altre
Salmodie poterono essere indicate sotto quella dicitura così generale;
tuttavia le tre sopradette appariscono Inni suggeriti dalla speranza
di un termine de' travagli, che a quella data poteva sembrare davvero
imminente.
Al tempo trascorso nella fossa di Castel S. Elmo appartengono di certo
molte opere e la massima parte delle poesie che furono pubblicate;
nè si può dubitare che fin dal primo momento il Campanella abbia
dovuto porre mano alla composizione delle opere, giacchè il numero
di esse riferibile a' primi anni della dimora in S. Elmo è davvero
sorprendente; e però crediamo che egli abbia dovuto ben presto trovar
modo di ottenere da' «leopardi» un maggior numero di ore di luce, alla
qual cosa provvidero verosimilmente gli aiuti di fra Serafino di Nocera
ed anche le risorse sue proprie, essendo stato sempre stimato tale
da comandare al diavolo. Una delle poesie, che apparisce la prima di
questo periodo, ce lo mostra rassegnato, come d'altronde era naturale,
dovendosi stare a vedere dove la cosa andrebbe a riuscire: alludiamo al
«Sonetto nel Caucaso», in cui il Campanella professa inutile il credere
la morte un rimedio a' guai, giacchè «per tutto è senso», e conchiude:
«Filippo in peggior carcere mi serra
or che l'altr'ieri: e senza Dio no 'l face,
stiamci come Dio vuol, poichè non erra»[440].
Non abbiamo bisogno di dire che il carcere dell'«altr'ieri» sarebbe
il torrione del Castel nuovo. Ma la fossa non consentiva una calma
rassegnazione: ben presto egli dovè comporre ancora la «Lamentevole
orazione profetale» e un po' più tardi le «Quattro Canzoni in dispregio
della morte», così indicate nell'edizione Adami. Infatti la Lamentevole
orazione tra gli altri dolori esprime quello per la separazione dagli
amici tuttora in carcere, ciò che può riferirsi solamente a' frati
lasciati nel Castel nuovo, ed ancora esprime l'apparizione di mostri e
di draghi, ciò che fino ad un certo punto accenna all'apparizione de'
diavoli, da' quali in più luoghi il Campanella affermò di aver ricevuto
travagli nella fossa:
«Qui un mar di guai confuso
pien di mostri e di draghi
sopra di me si aduna,
e 'l tuo furor spirando aspra fortuna».
. . . . . . . . . . . . . .
«Da gli amici disgiunto
sono, e obbrobrio al mio sangue».
. . . . . . . . . . . . . .
«La gente del mio seme
m'allontanasti, e preme
duro carcer gli amici,
altri raminghi vanno ed infelici»[441].
Nelle Canzoni poi in dispregio della morte c'è l'affermazione esplicita
di aver visto il diavolo, di gustare già la dottrina di Cristo, di
essersi fatto certo dell'immortalità dell'anima, de' futuri premii e
pene etc., e nelle note si dice che allora l'autore compose questa
Canzone (la 4^a) e «scrisse l'Antimachiavellismo», la qual cosa
vedremo avvenuta in una data non molto lontana da quella dell'entrata
nella fossa:
«Or ch'han visto i miei sensi
non più opinante son ma testimonio,
nè sciocche pruove ho di secreti immensi,
già gusto quel che sia di Cristo il pane.
Deh sien da noi lontane
quelle dottrine che 'l celeste conio
non ha segnato; ch'io vidi il Demonio.
Credendosi i Demon malvagi e fieri
indiavolarmi con l'inganni loro,
benchè con mio martoro,
m'han fatto certo ch'io sono immortale,
che sia invisibil più d'un concistoro,
che l'alme uscendo van co' bianchi e neri» etc.[442].
Ben si rileva che il Campanella s'infervorava assai nelle dottrine
della Chiesa, e come nelle poesie così vedremo pure nelle prose; ma il
lato singolare del fatto è che questo venne determinato propriamente
dal diavolo, e potrebbero anche dirsi abbastanza singolari i modi
usati da lui nell'esprimere i concetti nuovamente acquistati; vale la
pena di farvi attenzione. Non apparisce intanto che egli abbia scritte
altre Salmodie nel periodo in esame. La Salmodia metafisicale è assai
posteriore, giacchè vi si parla di «sei e sei anni» di pena, di «dodici
anni d'ingiurie e di stenti»[443]; e per verità le prose l'occupavano
anche troppo.
Nel tenersi rassegnato ed in aspettativa, egli non rimase certamente
in ozio, e ben presto dovè attendere alla ricomposizione dell'opera
_Del Senso delle cose_, che questa volta scrisse in italiano, come ci
mostrano i Codici della Nazionale di Napoli e della Casanatense, la
lettera del 1607 allo Scioppio da noi pubblicata, nella quale disse
voler tradurre in latino il _Senso delle cose_ e la _Metafisica_[444],
da ultimo anche un brano dell'opera medesima, riprodotto del pari nella
traduzione fattane, che venne poi stampata il 1620[445]. È verosimile
che il Campanella siasi deciso a questo lavoro, perchè era di semplice
reminiscenza, avendolo già una prima volta fatto in Napoli il 1590,
nè esigeva essenzialmente l'aiuto di altri libri. Ad ogni modo non
dubitiamo di assegnargli la data dell'ultimo quadrimestre 1604, poichè
vedremo or ora il Campanella nel gennaio 1605 occupato in un lavoro
di altro genere, poi lo vedremo ancora occupato in altri lavori, ed
intanto troviamo il _Senso delle cose_ già inserto negli elenchi
delle opere compilati il 1606, quindi lo troviamo pure inviato allo
Scioppio il 1607; d'altro lato, percorrendo l'opera, vi troviamo citata
principalmente la _Metafisica_ e i _libri Astrologici_, le ultime
opere composte dall'autore, ma non l'Antimachiavellismo e del pari i
Machiavellisti, citati in due brani dell'opera che fu poi stampata,
d'onde si rileva che l'Antimachiavellismo fu composto veramente più
tardi. Così un confronto tra i manoscritti e l'opera stampata, mentre
ci conduce a determinare la data di questa ricomposizione in un modo
abbastanza esatto, ci mostra pure che i manoscritti debbono dirsi
realmente la ricomposizione originaria dell'opera, non una traduzione
dal latino fatta per conto di qualcuno poco versato nelle lingue
antiche. Abbiamo detto che ci son due manoscritti di quest'opera, in
Napoli e in Roma; aggiungiamo che del 4^o libro di essa, costituito
dalla «Magia naturale», vi sono inoltre più copie, una in Firenze nella
Magliabechiana, due ancora in Parigi, nella Bibl. dell'Arsenale n.^o 14
e in quella di S.^{ta} Genoveffa n.^o 15. La dicitura italiana vi si
mostra oltremodo rozza; alcune parole esprimenti gli organi sessuali
e gli atti generativi non si potrebbero ripetere, e si direbbe aver
l'autore sentita l'influenza del linguaggio dell'ergastolo nel torrione
e in S. Elmo. Il Berti, ispiratosi senza dubbio alla lettura della
Monarchia di Spagna, degli Aforismi etc., ha giudicato che «queste
_versioni italiane_... fatte per lo più con correzioni e purgatezza si
potrebbero raccogliere e pubblicare»[446]; ma si tratta in realtà di
_composizioni originarie_, ed alcune tra esse, in particolare quella
_Del Senso delle cose_, sono tutt'altro che purgate. Notiamo poi
nell'opera, sotto il punto di luce del nostro argomento, il ricordo di
fra Pietro di Stilo più volte e quasi sempre in termini affettuosi;
il ricordo analogo di D. Lelio Orsini due volte; fino ad un certo
punto il ricordo anche de' Ponzii, là dove, recando un esempio, dice,
«et così nel senso che quando vedo Pietro mi pare vedere Dionisio
perchè simigliano». Notiamo ancora il ricordo indiretto del trovarsi
carcerato, là dove, parlando della calamita, dice, «non sò se miri al
polo antartico, che non mi lice parlare a' naviganti» (nella trad.
lat. «non licet misero navigantes interrogare»); dippiù il ricordo
dell'essere a lui pure riuscito, come all'Orsini, di atterrire con lo
sguardo e con la voce coloro i quali lo teneano preso, alludendo con
ogni probabilità ai momenti più acuti della sua pazzia; e da ultimo il
ricordo che «li profeti hoggi si chiamano brabanti (_leg._ birbanti)
et sciagurati dall'empio volgo», alludendo in modo chiarissimo alle
condizioni proprie. Ma sopratutto crediamo notevoli varie affermazioni
che si direbbero ostentati ripudii delle accuse mossegli nel processo
di eresia, e in ispecie le ripetute affermazioni dell'esservi angeli
e diavoli indubitatamente, dell'essere «empia» l'opinione che non
esistano demonii ma solo esorbitanze d'umore melanconico, dell'essere
«una sfacciataggine» negare che l'uomo comunichi con gli angeli e
demonii e con Dio; alle quali affermazioni si trovano associate le
altre, che «per esperienza propria» avea conosciuto solamente diavoli,
i quali gli erano apparsi e si erano sforzati di fargli credere la
trasmigrazione delle anime e la mancanza di libero arbitrio, oltrechè
gli avevano predette cose vere e false, ed egli avea pregato Dio che
gli facesse vedere angeli buoni e non l'avea «mai impetrato», ma era
diventato per la malignità del diavolo «più huomo da bene». Taluna
di queste proposizioni, così spinte, fu poi alquanto smussata nella
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