Fra Tommaso Campanella, Vol. 2 - 25

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di Cancellaria, è di Don Giovanni sanges de luna, dandoli conto
come si erano trovate è dove, et in particolare dissi che alcune di
quelle scritture erano state trovate dentro di una cassetta di detto
fra Dionisio pontio, et detto Don Pietro et Don Giovanni le veddero è
lessero, et alhora medemo il vicerè ordinò fussero date sicome foro
date al detto Sig.^r don Giovanni sanges de luna, il quale se le
pigliò in suo potere, e ben vero che tre à quattro di quelle carte
restorno in potere del vicerè, il quale ordinò che se notassero che
scritture fussero, et credo che don Giovanni le notasse, et quali
foro quelle che si pigliò il vicerè io non le so, è mi ricordo che
io ci viddi una carta nella quale era una mano pinta, ò fatta con la
penna et inchiostro, altro in particolare non mi ricordo, è poi io mi
licentiai dal vicerè et me n'andai»[265]. Probabilmente le scritture
che il Vicerè tenne presso di sè furono quelle di segreti, ricette
e sortilegi, le quali destavano curiosità: ad ogni modo doverono
certamente destare curiosità sopra tutte le altre quelle della difesa
di fra Dionisio nella causa di eresia, per le quali si potè avere una
notizia abbastanza precisa di detta causa. Riesce poi notevole che il
Vicerè non abbia fatto trasmettere al S.^{to} Officio le carte che
cadevano sotto il dominio di quel tribunale: è impossibile ammettere
che egli non vi avesse dato importanza, ma si può meglio ritenere
che egli non le abbia trasmesse per evitare un motivo di ulteriori
lungaggini. Invece se ne diè moltissima cura fra Dionisio, che non
quietò, finchè non venne ordinato di pigliare informazione su questa
faccenda delle scritture.
Non appena potè, fra Dionisio mandò al Vescovo di Caserta un memoriale,
supplicandolo di venire in Castello «per cose importantissime di
S.^{to} Officio»; e il 26 agosto, innanzi al Vicario Arcivescovile e
al Rev.^{do} Antonio Peri, trovandosi impedito il Nunzio ed assente il
Vescovo di Caserta, fu interrogato circa il memoriale mandato[266].
Egli disse che coloro i quali gli si erano esaminati contro, in
materia di eresia e di ribellione, avevano assaltato lui ed il germano
fra Pietro, l'avevano ferito alla fronte con effusione di sangue, e
poco dopo, fatta una ricerca nella sua camera, erano state trovate
scritture proibite in una cassa, la quale apparteneva al Bitonto,
che l'avea portata presso di lui perchè la conservasse; e ne' giorni
seguenti aveva visto quelle scritture in mano del Barrese, venuto in
Castello per dimandargli se fossero sue, e credeva che il Bitonto gli
avesse «fatto il tradimento» d'accordo col S.^{ta} Croce, Soldaniero
e Gagliardo, tanto più che fra Pietro, il quale si trovava, come egli
stesso, in un criminale, avea minacciato costoro di volerli denunziare
al S.^{to} Officio per cose gravissime. Chiese quindi che si pigliasse
informazione intorno a quelle scritture, che ne fossero gastigati gli
autori o possessori, che si desse a fra Pietro suo germano il modo di
poter presentare i capi di accusa contro que' suoi nemici, che fossero
costoro «separati e posti in clausura», tanto perchè potesse scovrirsi
la loro perversità, quanto perchè erano incorsi nella scomunica.
Dietro dimande, disse che avea conosciuto essere quelle scritture di
carattere del Gagliardo, aggiungendo che insieme con esse avea veduto
in mano al Barrese anche le sue scritture di difesa e i capi del fisco
in materia di S.^{to} Officio (così profittava dell'occasione, se pure
non l'aveva egli stesso provocata, per giustificare i suoi ritardi e
prender tempo ulteriormente): disse ancora che tutti e tre que' ribaldi
l'aveano percosso, ma il S.^{ta} Croce l'avea ferito, mostrando la
ferita, medicatagli «dal chirurgo del Castello nomine Scipione» di
cui non sapeva il cognome (Scipione Camardella). Diede l'elenco de'
testimoni, e dichiarò causa della rissa l'aver voluto fra Pietro Ponzio
discacciare dalla camera sua il Gagliardo «per alcuni furti et perche
haveva inteso che andava vendendo magarie»; aggiunse che la cassa del
Bitonto era stata solamente circa otto giorni in camera sua.--Verso lo
stesso tempo, Camillo Adimari sporse querela al Vicario Arcivescovile
contro fra Pietro Ponzio, perchè aveva insultato esso querelante
pacifico e quieto, e gli avea dato uno schiaffo in presenza della
maggior parte de' carcerati, onde chiedeva una diligente informazione
su questa insolenza e un provvedimento di giustizia. Naturalmente
fra Pietro non poteva starsene tranquillo, dovea rispondere alla
provocazione e già avea mostrato, per mezzo di fra Dionisio, che non
gli mancava la materia per la risposta. D'altra parte ancora, non
si saprebbe dire perchè, il Lauriana mandò al Rev.^{mo} Vicario un
memoriale, supplicando di essere riesaminato. Ma il tribunale non
si riscaldò menomamente, non diè segno di vita per tutto il resto
dell'anno, nè ripigliò poi le sedute senza una sollecitazione del
Card.^l di S.^{ta} Severina. Evidentemente le sollecitazioni efficaci
dalla parte del Governo di Napoli erano venute meno.
Come abbiamo avuta occasione di accennare, il Vicerè fu in questo
tempo afflitto da una malattia che lo condusse alla tomba. Fin dal
giugno erasi recato a Pozzuoli, con la speranza di guarire da certi
edemi che gli erano comparsi e che si dicevano «pienezza di carne»;
quindi era tornato a Napoli prendendo stanza a Chiaia. Ma a' primi
di settembre già susurravasi essere la malattia dell'intestino retto
e dover finire con una «fistola penetrante»; se ne indicava anche
la cagione, attribuendola alla intemperanza dell'infermo, per la
proclività ad accettare i banchetti offertigli continuamente da' Nobili
e forse graditi alla sua Signora più che a lui. I medici erano in
moto, e come faceva sapere il Residente Veneto al suo Governo, il 18
7bre ritenevasi ottenuto un miglioramento, per una medicina che «una
parte de' medici si era arrischiata a dargli dopo molti dispareri». Una
insignificante relazione sullo stato dell'infermo, con richiesta di
consiglio e rimedio, fu inviata dalla casa del Vicerè al dottor Diaz
a Pisa, e leggesi in quel grande emporio di notizie che è l'Archivio
di Firenze[267]: ma un medico di provincia, che abbiamo già avuta
occasione di nominare, Giacomo Bonaventura, predisse francamente
male, e questo esatto pronostico gli valse l'onore di esser chiamato
al servizio di Clemente VIII, avendo Gio. Geronimo Provenzale dovuto
recarsi all'Arcivescovado di Sorrento, che gli era stato concesso nel
1598 e che si godè fino al 1612[268]. Dopo di aver molto penato, «con
febbre, flusso, siero e fistola penetrante», il 19 ottobre il Vicerè
venne a morte; a 57 anni di età, dopo 57 giorni di malattia, come
notarono gli studiosi de' numeri di quel tempo, calcolando il principio
della malattia dal giorno in cui pel suo aggravamento si divulgò; essi
notarono ancora che a breve intervallo venne a morte anche il fratello
suo da lui tanto stimato, l'Arcivescovo di Taranto. Il Parrino ci ha
tramandato le notizie delle pompe funebri, con l'elenco de' distinti
personaggi che portarono sulle loro spalle la salma del Vicerè, tra
i quali Carlo Spinelli; così pure le lodi dell'estinto, il compianto
dei cittadini etc. etc. e questa volta bisogna dire che abbia ragione,
poichè dopo la condotta per lo meno scempiata del Conte Olivares
suo predecessore, la condotta del Conte di Lemos apparve tanto più
degna di encomio. Non mancarono a' canti delle vie, come già in certi
altri momenti del suo governo, le così dette pasquinate e i cartelli
infamatorii, sfogo abbastanza frequente e per lo più espresso in modi
goffi, ma che pure gioverebbe e non sarebbe sempre difficile conoscere
rovistando le antiche scritture: bisogna pertanto notare che p. es.
il Residente Veneto biasimò sempre tali manifestazioni contro il
Lemos, e talora con parole estremamente acerbe[269].--Successe come
Luogotenente generale D. Francesco de Castro secondogenito del Lemos,
il quale pure altra volta, in assenza del padre andato a Roma, avea
governato il Regno con lo stesso titolo. Già sappiamo che allora non
mancò d'insistere perchè il negozio de' frati avesse un termine, ma non
apparisce che avesse fatto sollecitazioni in questo periodo del suo
governo, avendo invece cominciato a farle molto più tardi.
Intanto i frati languivano già da un pezzo e continuarono a languire
nella più squallida miseria, circostanza da notarsi per comprendere
alcune delle poesie del Campanella, che a suo tempo dovremo passare a
rassegna. Una lettera del Nunzio, scritta fin dal 7 7bre al Provinciale
de' Domenicani di Calabria[270], ci fa sapere che da' conventi di
quella Provincia erano stati una volta mandati danari perchè fossero
distribuiti a' carcerati, ma che appunto il Campanella, il quale ne
avea «bisogno più che gli altri come malato, non hebbe nulla»; e
però il Nunzio aveva ordinato che fosse risarcito con la somma che
allora si diceva pronta per lo stesso oggetto, e che tutti i danari
rimanessero in mano di un corrispondente del Campanella in Napoli, il
quale l'avrebbe provveduto di quel che gli fosse occorso, ed avrebbe
badato, «sendo mentecatto», che non gli fossero rubati; aggiungeva
poi il Nunzio che di tempo in tempo avrebbero dovuto mandarsi altre
somme. Ma non apparisce che i danari, i quali si dicevano allora
pronti, fossero stati così presto disponibili; essi doveano passare per
varie mani e poteano per lo meno incagliare per via. Difatti vedremo
più in là che una somma di D.^{ti} 200 inviati da Calabria, con ogni
probabilità quella medesima per la quale avea scritto il Nunzio, ebbe
a patire la detta traversìa ed anche qualche cosa di peggio. Nè ci
mancano documenti da' quali si desume che i poveri carcerati, nel tempo
cui siamo pervenuti, doverono reclamare più volte a Roma e poi anche a
Napoli, perchè si provvedesse alle cose necessarie pel loro vitto.

IV. L'anno 1602 cominciò con una sollecitazione del Card.^l di S.^{ta}
Severina al Vescovo di Caserta, per la quale si vide presto cessata la
sospensione della causa[271]. Il 4 gennaio, a nome della Congregazione
de' Cardinali colleghi il S.^{ta} Severina scriveva che non si era
saputo più nulla intorno alla causa, che oramai per la morte del
Vescovo di Squillace, pel lungo tempo trascorso etc. non c'era nulla da
attendersi sulle informazioni commesse in quella diocesi, che infine
si voleva conoscere se fosse stato provvisto al vitto de' carcerati,
come più volte erasi da Roma ordinato a' loro superiori.--E gli 11
gennaio i carcerati dirigevano anch'essi un memoriale al Vescovo[272]
facendogli sapere che in quel giorno si era recato presso di loro lo
scrivano dell'Inquisizione (forse il Prezioso) per intendere i loro
bisogni, ma avea «dimostrato non troppa intentione di charità», e
quindi supplicavano che si provvedesse. Tutti i frati apposero la loro
firma a quel memoriale, ma pel Campanella l'appose il carceriere Alonso
Martines, e da ciò ben si rileva che egli continuava sempre a mostrarsi
pazzo.
Il 13 gennaio, innanzi al Vescovo di Caserta e al pro-Vicario
generale Curzio Palumbo, che a questo periodo del processo sostituì
definitivamente il Vaccari nell'assistenza alle sedute, fu esaminato
di nuovo fra Dionisio e gli fu dimandato se volesse dire altro,
poichè le risse e le inimicizie da lui deposte non erano materia di
S.^{to} Officio. Fra Dionisio rispose che aveva inteso deporre sulle
scritture trovate in camera sua e mostrategli dal Barrese, per le quali
voleva essere punito se mai fosse risultato colpevole. Aggiunse poi
che il Soldaniero, comunque scomunicato per averlo percosso, e già
prima scomunicato anche dal Vescovo di Tropea per violata immunità
ecclesiastica, non se n'era mai curato nè se ne curava, continuando
ad ascoltare la Messa nella Chiesa del Castello.--Certamente il
tribunale dovè allora rivolgersi a S. Eccellenza per avere le scritture
in quistione, giacchè poco oltre un mese dopo, per ordine di S.
Eccellenza, le scritture gli furono inviate: ma non credè di dover
ritardare per questo la spedizione della causa principale, non si curò
dell'avere fra Dionisio esposto che gli erano state tolte anche le
scritture di difesa e i capi del fisco, procedè agli atti ulteriori e
poco dopo abilitò, come allora si diceva, il Soldaniero ad uscire dal
carcere. Fra Dionisio ebbe a sentirsene gravemente offeso, e pensò
allora di rivolgersi al S.^{to} Officio di Roma, dal quale vedremo in
sèguito ordinato di procedere alla debita informazione sulla faccenda
delle scritture. Non meno ebbe a sentirsene offeso fra Pietro Ponzio,
il quale poco tempo prima avea potuto finalmente presentare i suoi capi
di accusa, una denunzia formale in materia di S.^{to} Officio contro i
laici intervenuti nella rissa e qualche loro aderente, tra gli altri
contro il Soldaniero. Entrambi i Ponzii erano stati tenuti quattro mesi
ne' criminali del torrione, e può intendersi facilmente come fossero
anche per questo divenuti furiosi.
Dobbiamo qui dire che nella stessa data, 13 gennaio 1602, fu iniziato
un processo secondario contro Orazio S.^{ta} Croce continuato poi
contro Felice Gagliardo, sulla base appunto della denunzia presentata
da fra Pietro Ponzio, la quale veramente, oltre il S.^{ta} Croce e il
Gagliardo comprendeva anche Giulio Soldaniero e un Ferrante Calderon
dottore spagnuolo del pari carcerato[273]. I lettori intenderanno che
riuscirebbe impossibile seguire tutti i particolari di questo processo,
condotto a sbalzi per due anni interi, senza intralciare orribilmente
la narrazione del processo principale ed anche correre il rischio di
non finirla più; ma non possiamo dispensarci dal darne alcuni cenni,
i quali veramente sono necessarii a chiarire certi fatti del processo
principale, senza contare che ci fanno apprendere come si passava la
vita nel Castel nuovo quando c'era il Campanella. La denunzia di fra
Pietro mandata al Card.^{le} Arcivescovo di Napoli, recava le seguenti
cose, illustrate ed ampliate poi nel corso del processo a questo modo:
1^o Contro il S.^{ta} Croce; che era un pubblico bestemmiatore e diceva
anche continuamente «santo diavolo» (esclamazione calabrese ancor oggi
comunissima); che giocando a dadi col carceriere avea detto «Dio, non
ti credo, se la prima volta ch'io giocarò con Martines non mi farai
uscire da questo Castello con un Crocifisso alle mani et un chiappo in
canna» (un laccio al collo per essere appiccato), e poi avea seguitato
a giocare col Martines; che avea detto essere «il diavolo assai più
potente di Dio, perchè Dio non aiuta gl'innocenti e il diavolo aiuta li
suoi vassalli li tristi»; che non dava alcun segno di devozione, non
andava a Messa nè recitava officio nè rosario, e ne' giorni solenni
era visitato da una certa Delia sua antica concubina, con la quale
stava di giorno e di notte, mangiava e giaceva in presenza anche de'
frati, ed essendogli stato ciò proibito avea proferita una laidissima
proposizione (la quale perciò sarà meglio non ripetere); che avea
ferito fra Dionisio nella rissa, e trovandosi scomunicato non se n'era
dato mai pensiero, anzi alle osservazioni fattegli avea risposto con
un proverbio calabrese, «meglio essere scomunicato che comunicato
all'imprescia» (comunicato in fretta). 2^o Contro il Gagliardo; che
era un pubblico mago e disegnava circoli con nomi di demonii, ed un
libro con circoli disegnati trovavasi nelle mani degli ufficiali del
Castello, anzi una volta un soldato con una gamba di legno, che stava
al Castello dell'ovo, venuto ad esigere danari da lui avea detto che
in quel Castello gli erano state trovate carte contro Dio; inoltre
che nel Castel nuovo un certo Marcantonio Buono calabrese veniva a
visitarlo per cose magiche, ed un giorno rimasti soli fecero insieme
suffumigi con zolfo «e una pignatella piena di mill'imbroglie», e
Geronimo Campanella entrando nella camera se n'uscì subito spaventato e
cacciato dal puzzo gridando che là «ci erano cento mila diavoli», che
in presenza de' carcerati si era vantato di rapporti carnali avuti con
la suocera e la sorella della suocera, dicendo che era più dolce avere
di tali rapporti con le parenti, e bene avea fatto Mosè a prescriverli;
che pubblicamente ritenevasi aver lui scritto col proprio sangue
una carta al diavolo donandogli anima e corpo; che era ladro, e in
tutte le sue azioni avea sempre mostrato poco timore di Dio. 3^o
Contro il Soldaniero; che da due anni scomunicato per Cedoloni affissi
alla Cattedrale di Tropea, e poi incorso nuovamente nella scomunica
per aver percosso sacerdoti _suadente diabolo_ non si era curato
dell'assoluzione, continuando a udir la Messa e conversare con tutti
_absque resipiscentia_. 4^o Contro il Calderon; che avendo chiesto
a fra Pietro su che si fondava il Campanella per sostenere prossimo
il dì del giudizio, ed avendo udite citazioni della scrittura e de'
Padri, e tra esse qualcuna di Esdra, si era lasciato dire essere Esdra
semplice storico e non profeta; che avendo udita la citazione di S.
Vincenzo Ferreri, cui Cristo aveva ordinato di predicare nell'occidente
la prossima ora del giudizio, come leggevasi nel Breviario, si era
lasciato dire queste essere ciarle fratesche per accrescere onore alla
religione; che discorrendo della fede ne' beati ed in noi viatori,
si era lasciato dire altro essere ciò che noi crediamo ed altro ciò
che quelli vedono, ed esservi differenza non solo nel principio e
nel mezzo, ma anche nelle conclusioni della fede; che infine si era
lasciato dire la fede vera procedere dall'esperienza e non dall'udito,
nè voler credere se non ciò che vedeva.
Co' criterii odierni non si potrebbe comprendere come mai fosse stato
tratto in iscena questo povero dottore; ma bisogna sapere che nelle
cose di S.^{to} Officio non si transigeva facilmente in quel tempo, ed
al contrario di quanto generalmente si ritiene, lungi dall'essere il
tribunale della fede mal tollerato, vi si accorreva molto volentieri,
come lo dimostrano le «spontanee comparse» contro la propria persona,
numerose al punto da far rimanere stupiti allorchè si esamina una
collezione di scritture di questo genere. Ad ogni modo sulla denunzia
suddetta di fra Pietro Ponzio, cui si aggiunse la querela di Camillo
Adimari contro fra Pietro per lo schiaffo che costui gli avea dato,
querela del resto malamente diretta al tribunale della fede e però
inutile, si diè principio al processo in quistione. Funzionarono
quali Giudici il Vescovo di Caserta, Curzio Palumbo ed Antonio Peri,
nella sola prima seduta; poi Curzio Palumbo e D. Manno Brundusio
Fundano, clerico, Segretario del Vescovo di Caserta, nella 2^a seduta
e in qualche altra[274]; più tardi funzionò il solo Curzio Palumbo
qual deputato speciale, e talvolta senza questo titolo, che anzi
in qualche decretazione figurò il Cardinale Arcivescovo Gesualdo, e
il nuovo Vicario generale Alessandro Graziano. Un notevole elenco
di testimoni fu dato da fra Pietro ed anche dall'Adimari, e questo
riesce di molta importanza per noi. Oltre i frati, D. Francesco
Castiglia, il carceriere Martines e il sottocarceriere Antonio Ettorres
(_sic_), vi figuravano pure Francesco Gentile, Geronimo e Gio. Pietro
Campanella, il Marrapodi, il Conia, l'Adimari medesimo (dato da fra
Pietro); Geronimo Baldaia, Marcello Salerno: il Notaro Prezioso, che
dovea farne la ricerca, scrisse i nomi di questi ultimi, eccetto
quello di Gio. Pietro Campanella forse per dimenticanza, e vi segnò
a lato il rispettivo domicilio, onde si legge, «Geronimo Campanella
è in Stignano, Geronimo Conia à Castellovetere, Camillo Adimari è
d'altomonte non si sà dove sia» etc; quanto a Francesco Gentile si
legge, «è stato carcerato e liberato, non se sape dove habita», e
poi, «à mezzo cannone alla banda de la fontana, sagliendo ad alto
passata la fontana» (una via di Napoli molto conosciuta). Raccomandando
all'attenzione de' lettori questa notizia sul Gentile di cui avremo
ad occuparci più in là, osserviamo per tutti i calabresi suddetti
che erano già liberi nel tempo in cui fu scritta dal Prezioso quella
lista, ed anche l'Adimari era libero, onde aggiungevasi quest'altro
motivo perchè la sua querela rimanesse abbandonata: il processo della
congiura era dunque finito per essi prosperamente, nè il S.^{to}
Officio avea posta l'_empara_ per quelli che aveva esaminati in materia
di fede, vale a dire Marrapodi, Conia, Adimari e d'altra parte Geronimo
Campanella, sicchè avea lasciato cadere le imputazioni dapprima accolte
contro di loro. Ma la data in cui fu scritta la lista del Prezioso non
è determinata; si può solamente dire che dovè essere scritta tra il
febbraio e l'aprile 1602, e però tale sarebbe la data approssimativa
del rilascio della maggior parte di que' carcerati, mentre sappiamo che
taluni di loro, come il Baldaia ed anche il Salerno, erano liberi da un
pezzo; difatti dobbiamo ritenere essere stata scritta la lista quando
trovavasi ancora in ufficio il Martines, che dal processo sappiamo aver
patita l'esonerazione in maggio, mentre poi il processo fu avviato
realmente nel mese di marzo, e continuato a riprese in luglio, agosto,
settembre e novembre. Dapprima, il 13 e 19 gennaio, fu esaminato fra
Pietro Ponzio per lo svolgimento della denunzia presentata; di poi
si attese fino al 6 marzo per esaminare il Soldaniero, il quale già
trovavasi fuori carcere e ad ogni modo pervenne a giustificarsi,
affermando che nella rissa si era limitato a dividere i contendenti, e
che in Tropea non era stato scomunicato lui ma un Camillo di Fiore al
quale egli era subordinato; inoltre il 7 e 19 marzo furono esaminati
quali testimoni fra Pietro di Stilo e il Petrolo, che confermarono
i fatti asserti nella denunzia, e gl'illustrarono fornendo tutti i
particolari sopra esposti. Si effettuò poco dopo la pace tra i Ponzii
e il S.^{ta} Croce, e costui, assolto dalle censure, venne quindi
esaminato intorno alla rissa (28 marzo), nella quale affermò aver presa
parte solo per dividere i contendenti, ed essere la ferita di fra
Dionisio imputabile non a lui ma al Soldaniero. Dopo questo esame il
processo rimase lungamente interrotto, nè venne ripigliato che scorsi
quattro altri mesi, nel luglio; dobbiamo dunque anche noi interromperne
l'esposizione.
Dicevamo che il tribunale non credè di dover ritardare la spedizione
della causa principale per qualsiasi motivo, e difatti il 19 gennaio
1602 ordinò che fosse condotto alla sua presenza fra Dionisio, e gli
assegnò un termine preciso e perentorio di altri 15 giorni per fare
qualunque difesa se volesse farne; e fra Dionisio espose che non
aveva Avvocato, e che gli occorreva la copia delle difese sin allora
fatte. Nel giorno medesimo tenne lo stesso procedimento col Petrolo,
col Lauriana, con fra Pietro di Stilo, con fra Paolo, col Bitonto,
chiamandoli in massa alla sua presenza, e non ricordando che fra
Pietro di Stilo aveva già da un pezzo rinunziato alle difese.--Ma il
26 gennaio fra Paolo e il Bitonto presentarono egualmente la loro
rinunzia e dimandarono di essere spediti secondo gli Atti del processo
che ritenevano legittimamente compilato, dicendosi poverissimi ed
innocentissimi, cruciati da lungo carcere «per _la tentata ribellione_
pretesa e figurata in aria, con riverenza, e per l'eresia»: lo stesso
poi fecero, il 29 gennaio, il Lauriana e il Petrolo, dicendosi del pari
innocenti, innocentissimi, cruciati da lungo carcere e l'ultimo di
loro anche da un lungo tormento. Il tribunale allora, il 31 gennaio,
citò questi frati compreso fra Pietro di Stilo, ed il loro Avvocato
Stinca e Procuratore Montella, perchè dopo di essere stata intimata
tale citazione venissero sulle 19 ore (verso mezzogiorno) alle case de'
Giudici, per dire ed allegare su' capi spettanti al S.^{to} Officio ciò
che volessero, tanto a voce che in iscritto, nel diritto e nel fatto; e
l'intimazione fu eseguita il 2 febbraio. Certamente non si potè fare lo
stesso con fra Dionisio, poichè bisognava prima fornirlo de' documenti
che gli mancavano e che egli aveva indicati al tribunale per poter
fare le sue difese; e così forse accadde di dover procurare dall'altro
tribunale la copia dell'esame di Cesare Pisano innanzi allo Sciarava,
copia che trovasi inserta nel processo tra gli Atti del tempo al quale
siamo giunti, senza saperne il motivo[275].
Deliberavasi intanto l'«abilitazione» del Soldaniero, e il 12 febbraio,
fattolo venire alla presenza de' Giudici nel palazzo del Nunzio,
lo si avvertì che dovea tenere per carcere la città di Napoli, in
guisa da non poterne partire senza licenza ottenuta da' Giudici in
iscritto, sotto pena di D.^i mille in beneficio del fisco apostolico;
e il Soldaniero si obbligò alla detta pena dando in garanzia tutti
i suoi beni, ed indicò qual suo domicilio l'alloggio di Lucrezia la
bottegaia alla Carità.--Ma i frati già avevano concertato di far
cadere interamente sopra di lui la responsabilità delle scritture di
sortilegio, e senza alcun dubbio si diedero premura di far accedere
anche Felice Gagliardo al loro disegno. Così, fin dal 2 febbraio, fra
Dionisio potè presentare al tribunale una Dichiarazione in questo
senso, scritta da Felice Gagliardo e da fra Giuseppe Bitonto, a' quali
si aggiunse inoltre fra Pietro di Stilo e fino ad un certo punto anche
il S.^{ta} Croce: costoro, più o meno, dichiaravano che alla loro
presenza, mentre stavano sulla loggetta del Castello e il Bitonto
portava la sua cassa nella camera di fra Dionisio, Giulio Soldaniero
lo avea pregato di conservargli certe sue scritture d'importanza, le
quali erano chiuse e suggellate, e il Bitonto per fargli servigio
aveva aperta la cassa e rinchiuse in essa quelle scritture[276]. Il
Gagliardo, che n'era stato per lo meno il copista insieme col Bitonto,
con la solita disinvoltura aggiunse nella dichiarazione sua che quando
il Soldaniero, dopo la rissa, fece istanza al luogotenente e sergente
del Castello perchè procedessero ad una ricerca di carte presso fra
Dionisio, disse a lui Gagliardo, «non dubitare, ch'io cilo carricata
(_int._ ce l'ho caricata) a fra Dionisio, et adesso sì che lo farò
bruggiare, perche quelli scritture che me vedesti porre in quella
cassa sono pieni di negromantie et d'invocatione di diavoli, et sarà
il complimento della sua rovina, et poco li gioveranno le defensione
sue ch'ha fatte». Quanto al Bitonto, si capisce che cadendo su lui la
responsabilità principale in questa faccenda, avea tutto l'interesse
di fare e di procurare che altri facessero simili dichiarazioni: fra
Pietro di Stilo poi vi si prestava gentilmente nell'interesse di tutti
i frati, e si vede bene che i comuni pericoli aveano in lui cancellata
ogni traccia della ripugnanza che avea sempre sentita per la persona di
fra Dionisio. A questi tre venne ad aggiungersi ancora Orazio S.^{ta}
Croce, il quale per altro attestò solamente di aver veduto il Bitonto
portare la sua cassa in camera di fra Dionisio e là deporla: con ogni
probabilità egli dovè rilasciare questa dichiarazione, del resto
veridica, a fine di cattivarsi i Ponzii co' quali gli premeva di far la
pace, che difatti fu segnata tra loro nel seguente mese e gli procurò
l'assoluzione dalla scomunica in cui era incorso. Fecero da testimoni
nell'anzidetta dichiarazione il Curato e il Sagrestano del Castello,
D. Gaspare d'Accetto e D. Francesco della Porta, inoltre il sergente
Alarcon e due altri: essi certificarono le firme de' dichiaranti, ma
solo quelle de' primi tre, la qual cosa dà motivo di ritenere che il
S.^{ta} Croce dovè intervenire più tardi.
E si ebbero finalmente le scritture che si aspettavano, verso il
20 febbraio. A questa data, secondochè si legge nella prima carta
del volume in cui quasi tutte furono riunite come allegati, D. Juan
Lezcano, segretario di S. Eccellenza, partecipò al Vescovo di Caserta
che S. E. aveva ordinato a D. Giovanni Sances di consegnare a S.
S.^{ia} R.^{ma} le scritture trovate nella cassa di fra Dionisio
Ponzio, ed insieme con esse una relazione di Marcello Barrese sul come
erano state trovate. Questa relazione o non fu fatta, o non rimase
nel processo, ciò che riesce più probabile; ma le scritture furono
consegnate tutte, per quanto è lecito giudicare dagli Atti processuali
che ne trattarono, comprese quelle trovate fuori la cassa, ed esclusa
soltanto la lettera trovata chiusa presso il Campanella, della quale
non si fece mai più parola. Alcune vennero senz'altro inserte tra gli
Atti, e queste furono: la lettera di Sertorio del Buono a fra Dionisio,
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