Niccolò de' Lapi; ovvero, i Palleschi e i Piagnoni - 44

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Le città d'Italia s'empirono di sbanditi fiorentini, che vi giungevano
smunti dalla fame del lungo assedio, dalle fatiche del doloroso
viaggio, e lo spettacolo delle loro calamità, la vista de' vecchi,
delle matrone, de' fanciulli strappati violentemente ed a tradimento
alle loro case, fece levare un grido universale d'indegnazione contro
gli autori di tanta scelleratezza, e destò forse il rimorso nel cuor
di coloro che avrebber potuto e non la vollero impedire.
Di pari errori, seguiti da pari rimorsi, è piena l'istoria d'Italia.
Molte famiglie fiorentine, senza aspettar il bando della nuova Balia,
uscirono volontarie dalla città, e riparandosi in qualche angolo fuor
di mano del dominio, cercarono di potervi rimaner oscure e dimenticate,
forse parendo loro di non perder così interamente la patria. Alcune si
ritirarono a Serravezza, ove al dì d'oggi ancora, per tradizione, si
mostran le case che occuparono codesti fuggiti.
Nel centro della catena de' monti Apuani, che si stendono a man destra
da chi va da Lucca a Sarzana per la via di Pietrasanta, e mostrano
le loro nude e scoscese roccie accavallate e sporgenti l'une dietro
l'altre con infinita varietà d'accidenti, di contorni e di tinte; nel
centro, dico, di questi monti s'apre una stretta e sinuosa valle per la
quale, scendendo dalle altezze delle Panie, scorre la Versilia limpida
e fresca, sotto l'ombre di folti ed antichissimi castagni. Lo sbocco di
questa valle, mascherato dall'intreccio di due gioghi dirupati ed alti,
si nasconde a chi da lungi vi diriga lo sguardo, quasichè la natura
abbia voluto con amorevole antiveggenza, preparar luoghi che servisser
di rifugio ai deboli contro la violenza de' forti.
Risalendo la Versilia, ad un miglio dentro la montagna, si trova
Serravezza, ove s'allarga un poco la valle pel confluire d'un altro
torrente che viene dal M.^e Altissimo. Quivi, sul finire di settembre,
s'eran ricoverati Lamberto colla sposa e il cognato, ed era con essi
Selvaggia, Fanfulla, Maurizio ed il piccolo Arriguccio.
Il tempo trascorso dalla morte di Niccolò sino a quest'epoca l'avean
passato a M.^e Murlo, ove Laudomia era, come vedemmo, rimasta inferma,
e dove per la tremenda nuova della fine del padre, che non fu possibile
nasconderle, cadde in più grave pericolo della vita; ed a stento
avea, dopo più settimane, potuto alzare il capo dal guanciale. Ebbe
lunga e penosa convalescenza, resa più lenta dal cocente e continuo
pensiero del padre, de' fratelli, della patria: e dalla disperata vista
della Lisa che le avean ricondotta da Firenze. In quello stato, che
divide da persona che s'ami con un abisso cento volte più doloroso
e tremendo della morte medesima: perchè è men duro piangere spenta
un'intelligenza, dalla quale s'ebbe lungo ricambio di pensieri e
d'affetti, che trovarla degradata e sconvolta.
La pazzia della Lisa non era furibonda, e, neppur in apparenza
almeno, continua. Passava l'ore, e le giornate talvolta, in una cupa
e taciturna immobilità, tenea gli occhi spalancati, fissandoli in
terra col guardo intensissimo, e per così dire, impietrito, e talvolta
con voce bassa diceva: «Era un traditore!» A momenti pareva pur che
riconoscesse le persone, intendesse le loro parole; ma eran brevi lampi
in un'immensità tenebrosa.
Siccome però ne' suoi modi non era nulla che potesse dar a temere,
veniva lasciata in sua libertà, ed una contadinella soltanto avea
l'incarico di tenerla d'occhio quando si riusciva a condurla fuori di
casa: chè un medico, al quale s'era potuto chieder consiglio, avea
suggerito si facesse stare, per quanto fosse possibile, all'aria ed in
luoghi ameni ed aperti.
Un giorno, adoperandosi con quel sottil senso d'astuzia che suol ne'
pazzi sopravvivere all'intelletto, riuscì, mentr' era fuori colla
sua guida, ad allontanarla per pochi momenti. Quando la villanella
tornò al luogo ove aveva lasciata la Lisa, questa era scomparsa, nè
per quanto cercasse e corresse tutto all'intorno le venne fatto di
rintracciarla od udirne novella, e tutta piangente dovette pur tornare
a casa e narrare il fatto alla famiglia, che sbigottita uscì tutta,
meno Laudomia, in cerca della povera fuggita, e correndo le pendici
ed i boschi sottoposti al castello la venivan chiamando tratto tratto
frugando e rifrugando ogni macchia, ogni siepe, ogni cespuglio. Fu
tutto inutile; ed a notte chiusa soltanto, afflitti e malcontenti,
tornarono alla pieve, nè venne loro fatto, per quanto ne' susseguenti
giorni moltiplicassero le ricerche e l'inchieste, di scoprire ove fosse
capitata.
Ma una lettera scritta in que' giorni dal Vanni, custode della villa
del Barone, a Baccio Valori, ne darà notizia al lettore, e perciò la
riportiamo qui tutt'intera.
«Magnifico messer Baccio, signor mio onorandissimo.
--Dipoi dell'ultima lettera vi mandai per Cecco cavallaro, nella quale,
chome era debito mio, vi davo notizia del facto di que' gentilhuomini
che voi ci mandasti, che schomparsono senza che nè per me nè per alcuno
di questi dintorni si sia possuto haverne notitia insin al dì d'hoggi,
non s'è manchato di usare ogni diligentia per eseguire li vostri
chomandi, ma non s'è possuto insin ad hora saper niente di messer
Troilo, che nissuno ha veduto qui attorno che pare cosa impossibile, a
non essersi partito per l'aere, che qualcuno non l'havessi veduto.
--Jeri essendo entrato nella villa, che non c'ero più stato dal giorno
che costoro ci vennono, mentre attendevo ad aprir le finestre per dar
aria, onde le cose della V.ª M.ª si mantenghano in buon essere, come
è debito mio, venni alla chamera gialla, et aperto l'uscio, mi parve
entrare in una sepoltura per l'inestimabile puzza di morto ch'era là
entro, che a non voler ammorbare, ebbi a spalanchar usci, finestre et
quanto c'era.
--E cerchando diligentemente d'onde il decto puzzo potesse uscire,
m'avvidi che saliva dal buco del trabocchetto accanto al letto, che la
Magn.ª V.ª molto ben chonosce. Io chorsi per una fune et attachatovi
un lume lo calai giù, ma non potetti discerner nulla per esser quella
bucha tanto profonda, et ancho per essersi spento il lume che ancora
non era sceso 20 braccia. Se il luogo fosse più agevole m'ingegnerei
scoprire chi sia stato buttato laggiù, ma e' converrà, a volerlo
sapere, romper muri, et volte, che per altra via non ci conosco modo:
et perchè aspetto li chomandi della V.ª Magn.ª.
--Mentre mi travaglio per questa faccenda, che ero solo nella villa,
mi udii camminare alle spalle, et voltomi vidi una giovane che entrò
in chamera a furia, tutta in disordine, et alla guardatura m'avvidi
presto, che avea dato di volta: assai bella giovane, et al vedere
gentildonna, et m'avviluppò un monte di sciocchezze come usano i pazzi,
et voleva le insegnasse dov'era _quel traditore_, et un po' mi bravava,
un po' piangeva, et mi si raccomandava, tanto chè io hebbi a durar
fatica grandissima, a tormi di dosso questa tribolazione. Chi fosse
costei, et qual fusse questo traditore io non potrei dirlo che pocho
stette che se n'andò al modo stesso ch'era venuta, dove la portava la
sua pazzia, et questi pecorai dicono haverla veduta che prendeva su pel
monte jer sera all'annottare, e volendola fermare si difese a graffi,
et si fece lasciare, et dicono che si messe correndo su pe' boschi. Che
non avesse a capitar male, che di lupi ne girano parecchi su per queste
vette.
Altro non acchade per hora, che humilmente raccomandarmi alla V.ª
Magn.ª.
Del Barone adì... Agosto 1530.
_Il vostro Servo_
_Vanni._»
Baccio Valori, al quale era nato il sospetto della mala fine di
Troilo, e che anco a un dipresso ne indovinava gli autori senza che
ne provasse, come si può credere, una troppo viva afflizione, pensò
bene non fare su questo caso maggiori ricerche, contentandosi d'aver
un creditore di meno, senza andar cercando nè il come, nè d'onde
questo vantaggio gli fosse venuto. Scrisse a Vanni di far buttare nel
trabocchetto due some di calce viva, lasciar aperte le finestre sinchè
il puzzo fosse dissipato, e del resto non si curar d'altro. Queste
furono le onorate esequie di Troilo, e qui finisce la sua istoria.
Quella della povera Lisa finisce anch'essa; chè nè la sua famiglia, per
quanto lunghe e ostinate ricerche ne facesse, nè alcun uomo di que'
paesi non ebbe più notizia veruna del come fosse andata a finire.
Morì di stento in qualche solitudine ignota? Fu pasto de' lupi
accennati dal Vanni? Lo sapremo il dì del giudizio. Ma se ci vien meno
ogni certezza su questi fatti, non ci manca però qualche congetura,
e col lettore paziente e cortese, che avendoci accompagnati sin qui
possiam oramai considerare come un amico d'antica data, non vogliamo
aver segreti nè usar reticenze. Nel 1580, vale a dire 50 anni dopo
l'assedio, alcuni cacciatori cercando i gioghi sopra S. Marcello
giunsero ad un luogo nascosto tra le rupi aride, pieno di sassi,
desolato e selvaggio, ove molte caverne entrano ne' fianchi del monte
senza che si sappia ove vadano a riuscire. In questa solitudine,
detta insin ad oggi Macereto (forse per le macerie che l'ingombrano)
costoro trovarono una vecchia coperta di vilissimi panni, non però
luridi e negletti, come suol portarli chi per mestiere è mendico. I
capegli sciolti, e lunghi insino al ginocchio; le scendevano dal capo
spandendosi tutt'intorno sulla persona quasi un velo d'argento. Il
viso pallido e macilente. Lo sguardo basso e doloroso. Era ginocchioni
sull'entrata d'una di quelle spelonche, innanzi ad una croce fatta
rozzamente di due rami di castagno tenuti insieme da una vermena di
vinco. Non si mosse e non si volse al giunger de' cacciatori, che
fermatisi a considerarla maravigliati e riverenti, udiron che tratto
tratto sospirando diceva «Dio mio! Dio mio! Son tanti anni che piango
per lui!... Gli avrai tu perdonato?....»
E rimasta muta qualche momento, ripeteva poi la sua preghiera, e sempre
colle stesse parole. Ritrattisi costoro s'informaron da' contadini
dell'esser suo, ed udirono che dai più era tenuta una santa, ma nessun
seppe dire chi fosse o di dove fosse venuta. Narravano, che dopo
aver inutilmente tentato di condurla a vivere nell'abitato, le avean
accomodato un po' di lettuccio in quella spelonca, ed or gli uni or
gli altri le portavano di che campare. Un giorno poi finalmente la
trovarono stesa sul suo lettuccio, bianca e fredda come un alabastro,
e fatti certi ch'ell'era passata, la seppellirono nel campo santo di
S. Marcello. Fosse l'esempio di costei, o qualsivoglia altra cagione,
si trovò sempre d'allora in poi chi abitasse quella spelonca, ed a dì
nostri due povere vecchie vi menan vita romita e selvaggia.
Se costei fosse la povera Lisa, non lo possiamo asserire: posto
però che fosse essa realmente quale non dovè essere l'amore di
quell'infelice se, dopo tanti dolori, tanti tradimenti, dopo aver
tutto perduto, persin il senno, il solo amore per quel traditore le
rimase intatto nel cuore, e tanto potente, che insin agli ultimi anni
ed all'ultimo respiro, non potendo far altro, pregava e piangeva per
lui!...................... ........................
Nei primi giorni d'ottobre, Lamberto, che potea in certo modo dirsi
ora mai capo e guida della sua brigata, avea dovuto pensare a levarla
di M.^e Murlo, ove per la troppa vicinanza di Firenze, e pei sospetti
del nuovo stato, vivevano in continuo pericolo. Si condusse con essa a
Serravezza, non senza disagio grandissimo per la povera Laudomia, della
quale il caso della Lisa avea più che mai dissestata la vacillante
salute. Sublime dono dell'anime veramente nobili e virtuose è il
mantenersi tranquille e serene anco nelle più terribili prove. Questa
pace del cuore che l'invidiosa impotenza degli spiriti volgari scambia
coll'apatia, fu cagione che Laudomia rimanesse in vita, e potesse grado
a grado ricuperar le forze, e, per così dire, rinascere ad una nuova
esistenza.
Nella casa ove s'erano alloggiati, una delle prime entrando nella terra
dalla parte di Ripa, stavano tutti assai comodamente, rimettendosi
di tanti travagli colla quiete di quella vita intima, domestica e
divisa dal rimanente del mondo, che tanto giova agli afflitti, e per
ogni uomo è pure il sommo dei beni.... ma a quanto pochi è dato il
poterne godere!.... La dolcezza di questo vivere non dovea tuttavia far
dimenticare a Lamberto ed a Bindo l'augusto pensiero della patria, le
ultime parole di Niccolò ed il giuramento pronunciato da essi sulla sua
tomba. Appena ebbero dato assetto stabile alle loro cose, cominciarono
a considerare in qual miglior modo l'opera loro potesse giovare al
grande intento di restituire a Firenze la sua libertà. Nel primo
stordimento di una tanta rovina, i fuorusciti Piagnoni, sparsi per le
città italiane, riprendevano a stento la facoltà di sperare e formar
disegni per l'avvenire, come allo scoppiar d'un fulmine gli uomini
penano qualche momento prima di rivedersi in viso l'un l'altro. Presto
però cominciarono ad accozzarsi e parlar tra loro, e corrisponder per
lettere, ed ordir quella tela d'imprese spicciolate, deboli, sconnesse,
che invece di spezzar le catene de' fiorentini, le ribadirono. Fu
risoluto da' due cognati, tener dietro e partecipare a qualunque
novità fosse per farsi, e deliberarono, che Lamberto rimanesse, e
Bindo partisse per visitare le città d'Italia ov'era maggior numero di
fuorusciti, e vedendo l'occasione propizia, ne avvertisse il cognato,
che non avrebbe tardato a concorrere ove lo chiamassero più santi
doveri che non son quelli della famiglia. Bindo partì, ed andò seco
Fanfulla, che fatto esperto della vita di frate, non provava nessun
desiderio di ritornarvi.
Giacchè siam a parlare di questi due attori del nostro racconto, diremo
brevemente, e senza curarci d'anticipar sull'epoche, quel che sappiamo
de' fatti loro, onde non dover poi interrompere il filo di quel poco
che ci resta a narrare.
In tutte quante le pratiche, le imprese e le fazioni colle quali i
fuorusciti fiorentini tentarono mutar lo stato di Firenze, insino alla
presa di Siena nel 1555, colla quale si spense per sempre ogni speranza
di sottrarsi al giogo mediceo, Bindo operò con quell'obblio di se
stesso e d'ogni utile proprio, con quell'ardire e quella fierezza che
lo rendevano vivo e vero ritratto di Niccolò suo padre. Nel 1535 fu a
Napoli co' principali della sua parte, che vi concorsero per domandare
a Carlo V l'osservanza de' capitoli della resa di Firenze.
L'imperatore ascoltò le loro ragioni esposte da Jacopo Nardi (lo
storico) in una lunga orazione. Ascoltò la risposta del duca
Alessandro. Diede buone parole a' fuorusciti, e ragione al duca,
stipulando tuttavia alcune condizioni, sotto le quali questi potessero
ritornare in patria.
La fiera e generosa risposta de' fuorusciti servirà, insin che duri
il mondo, d'esempio a chi si trovasse in somigliante od in egual
condizione.
«Noi non venimmo qui, risposero, per domandare alla Cesarea Maestà con
che condizioni dovessimo servire al duca Alessandro, nè per impetrar
per mezzo suo perdono da lui di quel che giustamente e volontariamente
abbiamo adoperato in benefizio della libertà della patria nostra; nè
di ritornar servi in quella città, onde non molto tempo innanzi noi
siamo usciti liberi, acciocchè i nostri beni ci fosser renduti; ma ben
ricorremmo a Sua Maestà, confidando nella giustizia e bontà dell'animo
suo, perchè le piacesse di renderne quell'intera e vera libertà, la
quale dagli agenti e ministri suoi, l'anno 1530, in nome di quella
ci fu promessa di conservare. Ora veggendo noi aversi più rispetto
alle soddisfazioni del duca Alessandro, che ai giusti meriti della
onesta causa nostra; che non si fa pur menzione della libertà, poca
degli interessi pubblici, e che anche la restituzione de' fuorusciti
non si fa libera, ma condizionata e limitata, non altrimenti che se
la si domandasse per grazia, non sappiamo altro replicare se non che,
siamo noi tutti risoluti a voler vivere e morir liberi, siccome noi
siamo nati, e di non macchiar giammai per i nostri privati comodi la
sincerità e 'l candore degli animi nostri, mancando di quella carità
e pietà, la quale meritamente è richiesta a tutti i buoni cittadini
inverso la patria loro.»
Aggiunge il Varchi (dal quale abbiam trascritta, abbreviandola, la
detta risposta):
«.....e fu cosa molto notabile che nessuno di loro volle pigliar la
grazia che l'imperatore loro fatta aveva per sua sentenza di poter
ritornare nella patria loro, riaver i loro beni immobili, e godere
quegli onori e quelle dignità che allora godevano gli altri cittadini,
ancorchè la maggior parte di loro fuorusciti fosse molto malagiata e
povera, ecc. ecc.»
Rotta la via delle pratiche, tentarono quella dell'armi, e (morto
da Lorenzino il duca Alessandro) travagliarono Cosimo, primo suo
successore, guidati da Piero Strozzi, ardito capitano ed altrettanto
disavventurato, il quale ebbe la peggio a Sestino, a M.^e Murlo (ove
furon presi Baccio Valori e Filippo Strozzi) e finalmente una totale
sconfitta dal M.^{se} di Marignano alla giornata di Marciano o di
Scannagallo in quel di Siena.
Bindo e Fanfulla, questi vecchio oltre i settanta, quegli uomo sui
quarant'anni, che avean per tanto tempo divisa la buona e la cattiva
fortuna, le speranze, i timori, i pericoli, amandosi come s'aman gli
uomini che abbian battuta insieme cotale strada, morirono entrambi il
primo nella battaglia, il secondo la notte innanzi. Di Lamberto, che si
trovava con loro, diremo poi narrando le ultime sue vicende.
È dunque giunto il momento di dividerci, e per sempre, dal nostro
buono e dabben Fanfulla. Al lettore, che non lo ha trattato ed avuto
in cuore siccome noi per tanto tempo, che non può immaginare, per
quante glien abbiam dette, qual bontà, qual fede, qual grandezza
d'animo fosse sotto quella sua scorza un po' ruvida e strana, non parrà
gran fatto questa separazione. Se così è, mi dolgo per te, povero
Fanfulla, che da quelli i quali avrebber saputo scriver meritamente, e
far palese al mondo la tua virtù, tu non fosti conosciuto, ed io che
ti conobbi non seppi scriverne com'era dovere! E, quel che è peggio,
questo rammarico sarà cagione che per raccontar la tua fine io sappia
meno che mai trovare stile e parole quali si converrebbero. Eppure,
tacerla al lettore, non si può!... Per uscir d'impaccio trascrivo una
lettera scritta a Lamberto dal suo servo Maurizio dalla solitudine
della Vernia, ove s'era ritirato a piangere la morte di Fanfulla, della
quale, come appare dalla sua confessione stessa, egli era pur troppo
l'involontaria, ma non del tutto innocente cagione.
_Dalla Fernia ha dì_ 3 _Ott.^e_ 1555.
_Mie patrone et signore._
«Pofere Maurizie fenire ora con ginocchia in terra et braccia in croce,
et domandare pertone, et misericordie at sue patrone, che non meritar,
ma pofer Maurizie hafer tanto crando dolori che non più torme, non più
mancia, et voler far penitentia semper semper, et haver giurato non mai
più pefer fine, et pregar Dio de morir presto, ma non poter morire si
sue Patrone non dirà Pofer Maurizie mi hafer pertonate.»
Io hora dirò tutto, tutto, proprio ferità, como è achatuta la cativa
disgrazia, che Dio, et messer Lamperte possa pertonare a pofer Maurizie
et vedere che non hafer fato cum cativa intenzione.
V.ª S.ª Ill.ª mie pone patrone, ti deve dunque sapere che in la
notte prima de la patallia de Marciane mi star con pofer vecchie
Fanfulle lontane dal alociamente a far veletta, et mi dire a Fanfulle,
Fanfulle mie hafer multo desiderio de confessar mie peccate, perchè mi
hafer pensato in sogno dofer morire in patallia de domane, et Fanfulle
risponder, mi hafer medesima desideria, ma qui non star prete nè frate,
mi allora trovate rimedie et dire, ti confessar io, et io confessar ti,
et Idio star contente de pone voluntà nostra[76], et così hafer fato.
Mi prima confessare a pone Fanfulle tutte mie peccate che star molte
grande et Fanfulle per penitentia dar con manicho da halabarde sopra
spalla mia forte, forte, molto forte, et mi dir: _paciencia, meritar
ancora più forte_. Dopo, pone Fanfulle, confessar a mi tutte peccate
sue sin da piccole fanciulle che durar più di due hore, che non finiva
più, et mi alhora pensare Fanfulla hafer fate molto più ripalterie
da pofer Maurizie, dunque meritar penitenzia de manicho de halabarde
molto più forte, et hafer dato cum molte grandissima desideria de far
pene ad anima sua, et Fanfulle un poco hafer patientia, poi non hafer
più, et dare gran colpe at pofere Maurizie et tutte due perder giuditie
et prender molta collera et pofere Maurizie hafer cativa desgrazia,
che non vedefa alle scure, de dar sopra testa de pone Faufulle che
andate in terra et dire «Pone Maurizie ti mandar me in paradise, et mi
ringraziare, et pone Fanfulle non folere più dire niente perchè star
morto, et mi piangere et piangere et sempre piangere finchè mie patrone
non hafer pertonate etc. etc.»
Il corpo di Bindo, morto, come accennammo nella battaglia, fu
seppellito onorevolmente. Nello spogliarlo gli trovarono in petto
una lunga ciocca di capelli bianchi: eran quelli del padre che avea
sempre portati qual segno del giuramento fatto sulla sua tomba. Molli
e vermigli del suo sangue attestavano la serbata fede. I contadini
che seppellivano il cadavere ebber rispetto a questa memoria e gliela
poser sul petto prima di colmare la fossa........................
...........................
Per narrare quest'ultimi fatti siamo stati costretti trascorrere
innanzi 25 anni. Dovendo ora far conoscere al lettore le ultime vicende
di Lamberto e delle due giovani ci convien ritornare al tempo in cui
Bindo lasciò Serravezza.
Dopo la lunga serie di agitazioni, di patimenti e di disgrazie
ond'erano state afflitte Selvaggia, Laudomia ed il suo sposo, pareva
che finalmente volesse la fortuna conceder ad essi un po' di riposo.
Il loro stato presente, la quiete de' luoghi ove avean fissata la loro
dimora, tutto pareva prometter pace e tranquillità. Ma la promessa era
fallace. La tranquillità era lontana ancora da quell'anime travagliate.
Il lettore che troverà, lo temiamo, già assai ben lunga la storia
nostra, ci saprà grado che non la veniamo allungando ancora, col
descrivere troppo minutamente le costoro passioni. D'altronde egli
può immaginarle dagli antecedenti, ed a questo punto basteranno poche
parole.
I portamenti della Selvaggia, il suo beneficio era stato tale, che
a nessuno, non che a Laudomia e Lamberto, sarebbe potuto venir in
pensiero d'allontanarla, o di negarle quel solo guiderdone che era
stato scopo di così lunghi e dolorosi sagrificj per la poveretta;
il bene di trovar finalmente chi l'amasse. Di questo bene ne godeva
pure una volta anch'essa, e vi si beava coll'ineffabile effusione che
compensa le anime ardenti di quel soprappiù di dolori al quale son
condannate dalla Provvidenza.
Nell'ebbrezza di uno stato così nuovo per lei, parendole aver ottenuto
ciò che appena si sarebbe attentata a desiderare, stimò che la felicità
della sua vita potesse consistere sempre nel veder Lamberto, e nel
goder dell'amicizia e della gratitudine dei due sposi. Tuttociò era
il paradiso messo a fronte della vituperosa miseria della sua vita
passata. Essa propose non lasciarli mai più. Lamberto e Laudomia
l'accolsero, e promisero tenerla sempre come sorella, e tutti e tre
stimarono aver fatta una combinazione maravigliosa, e che dovesse
riuscire pel migliore d'ognun di loro.
A quanti sbagli è soggetto il buon cuore (che è pur così bella e divina
cosa) se la ragione e l'esperienza non gli servon di guida! Questa
verità non avrà bisogno di commento per ogni lettore che abbia appena
venticinque anni.
Le cose andarono bene per qualche tempo. Ma dopo la partita di Bindo,
riducendosi i tre rimasti ad una convivenza più intima e ristretta,
provarono a poco a poco nelle loro relazioni reciproche un senso di
soggezione, nuovo, più sentito che ammesso, o spiegato dal raziocinio
d'ognuno; ma che molto facilmente sarà inteso e spiegato dal nostro
lettore.
Selvaggia amava sempre Lamberto: ed il bene di poterlo vedere ad
ogn'ora, del quale si teneva paga dapprima, le s'era fatto in appresso
quasi un tormento, per la necessità di progresso che è nell'amore.
Nel cuor candido di Laudomia non poteva capire quella gelosia che si
nutre di sospetto o di diffidenza, e che avvilisce egualmente chi la
prova, e chi ne dà motivo o pretesto. Ma essa non potea illudersi sulla
bellezza di Selvaggia, sul senso che dovean produrre le sue sventure,
la generosità del suo sacrificio continuo, e la sposa di Lamberto
viveva col cuor pieno d'un'ansia timida, indefinibile e dolorosa.
Troppo avveduta per non indovinare quali tormenti soffrisse Selvaggia
nel segreto del cuore: troppo amorevole per non cercare ogni via di
renderli meno amari, si trovava, quand'erano tutti e tre insieme, a non
saper quali modi tener col suo sposo, dubitava sempre apparisse troppo
aperta la corrispondenza d'amore ch'era tra loro: le pareva persino
talvolta che Selvaggia dovesse odiarla, che l'odiasse; in altri momenti
le passava come un baleno per la mente il dubbio che Lamberto potesse
o raffreddarsi o mutarsi, e se in ciò prendeva errore, poteva il suo
dubbio non parer del tutto fuor di proposito a chi stesse alle sole
apparenze.
Nel cuor del giovane non era un affetto, non un pensiero che non
fosse per la sua Laudomia; ma appunto perchè tanto l'amava, si faceva
severissimo, anzi ingiusto giudice di se stesso, sembrandogli di non
poter sentire affetto o gratitudine per Selvaggia senza profanar
quell'amore che tutto avea donato alla figlia di Niccolò. Trovandosi
colle due giovani temeva di continuo con uno sguardo, un atto, una
parola volta a Selvaggia offendere in qualche modo la sua sposa; d'onde
un cotale impaccio nel discorso e ne' modi che potea facilmente trarre
in inganno, venire attribuito a tutt'altre cagioni.
Se la convivenza tra persone poste in tali condizioni potesse avere
quell'intimità, quella scioltezza che n'è il primo, l'indispensabil
pregio, sel pensi il lettore.
Esse avean però trovato un tema di discorso sul quale, quasi su un
campo neutrale, potean le loro menti scorrere ed incontrarsi senza la
compagnia di pensieri molesti od arcani; e questo tema era la religione.
Lamberto e Laudomia per tendenza inseparabile da tutte le persuasioni
sincere e profonde, ponevano ogni studio a procurare che Selvaggia
divenisse cristiana, nè costò ad essi troppa fatica risolverla a
questo passo. Fu persuasione? Fu desiderio di seguir la medesima fede
che professava Lamberto? Fu effetto di quell'irrequieto bisogno di
cambiamento che provan le anime appassionate ed afflitte? Iddio lo sa
che cosa fu. Fatto sta, che Selvaggia ebbe il battesimo ed accolse in
cuore la nuova Fede, seguì le pratiche, i precetti, le idee del nuovo
culto, coll'ardore e coll'impeto naturale al suo carattere. Ma se avea
mutato culto, non avea potuto al modo stesso mutarsi il cuore.
L'infermità di Laudomia e le sventure, le agitazioni che n'erano state
cagione avean sin ora frapposto ostacolo all'ardentissimo desiderio
che provava Lamberto di potersi dir marito a quella cui aveva in S.
Marco dato già l'anello di sposa. A questo punto pareva tolto di mezzo
ogni ostacolo, ed il giovane con calde preghiere incominciò a stringer
Laudomia onde le piacesse stabilir il giorno della loro unione. La
figliuola di Niccolò parea non vi si sapesse risolvere, ed udendo le
appassionate istanze del suo sposo, si mostrava pensosa, esitante, e
pareva persino talvolta frenar a stento le lagrime.
Lamberto non sapea che pensare di questi modi a lei così insoliti, ed
un giorno, buttandosele ai piedi, la scongiurò di torlo ad una così
tormentosa incertezza, e d'aprirgli il cuore, come era dovere, con chi
tanto l'amava.
Erano in casa, sull'imbrunire. Laudomia senza rispondere s'alzò, e data
la mano al giovane, lo condusse fuori. Presero taciti il sentiero che
lungo le rive ombrose della Versilia conduce verso Ripa. Giunsero dove
la corrente divisa in due rami cinge un'isoletta piena di salci, di
pioppi e di nocciuoli. Vi si condussero passando sui sassi che disposti
in fila attraversano il torrente, e giunti per uno stretto sentiero ove
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