Niccolò de' Lapi; ovvero, i Palleschi e i Piagnoni - 28

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nulla potesse entrare in Firenze, e furon cotanto orribili le torture
colle quali straziavano que' poveri contadini che cadeano nelle loro
mani, che presto non si trovò più chi fosse tanto ardito da porsi
all'impresa. Il Bentivoglio, soldato nel campo imperiale, descrive
nella satira seconda (citata anco dal Pignotti) l'atroce fatto d'un
povero contadinello che fu colto mentre conduceva a Firenze un asino
carico di biada e fieno. Da otto spagnuoli gli vennero al primo recise
le parti nascoste, e poi messolo allo spiedo l'arrostiron vivo, a fuoco
lento, pillottandolo come s'usa colla cacciagione.
Ma neppur la fame non abbatteva ancora ne' Fiorentini il costante
proposito di difendersi, e le nuove che di giorno in giorno venivan
giungendo delle frequenti e fortunate imprese del commissario
Ferruccio, rendevan anzi questo proposito più fermo che mai. Egli s'era
reso padrone di S. Miniato, come aveva promesso, salendo il primo
sulle mura, che furon vinte per iscalata: ed essendosi frattanto,
ribellati i Volterrani, e datisi al papa, egli fece istanza alla
Signoria di venir mandato a sottometterli; premendo d'usar prestezza
onde non avesser tempo di sforzare il commissario Bartolo Tebaldi, che,
ritiratosi nella rocca, gagliardamente si difendeva.
Abbiam la fortuna di poter offrire al pubblico la lettera propria del
Ferruccio alla Signoria, colla quale le rese conto del suo operato in
questa occasione.
Alli Dieci della guerra[53].
_Noi arrivammo qui alli 20 a ore 21 ed avemmo ad entrare nella fortezza
a colpi d'artiglierie; e quando fummo tutti arrivati al ridotto
d'essa feci saltar dentro tutte le fanterie e trar la sella a tutti
li cavalli, ed ad uno ad uno li messi nella cittadella, faccendo dar
ordine subbito a rinfrescarli alquanto, ma non trovai con che, chè a
premere tutta la fortezza non vi si trovò più che sei barili di vino
con tanto pane che ne toccò un 1/2 per uno e non più, e vi giuro a Dio
che se io non aveva avuto avvertenza di far pigliare ad ogni uomo
pane per due giorni, e così portar meco due some di sale e 25, o 30
marraioli con picconi ed altre cose che fanno mestiere ad espugnare una
Terra, ed una soma di polvere fine da archibusi, che io non ci avrei
trovato modo che li vincitori non fussero stati vinti senza combattere.
Rinfrescati alquanto li feci metter a battaglia, e feci aprire la porta
di verso la Terra ed a bandiere spiegate li assaltai da tre lati, ed
in tutti tre trovammo un intoppo di trincee che a volerle passare vi
morirono 50, o 60 uomini de' più segnalati che fussero nelle bande
fra delle nostre e delle loro; nè si mancò per questo di non passare,
e passati li pigliammo insieme con la piazza di S. Agostino, dove
avevano fatto il fondamento loro, e quello che ci dette più molestia
fu l'essere combattuti da tre bande per aver loro traforato le case
di sorte che passavano d'una nell'altra et offendevano senza poter
essere offesi. Le forze de' nemici fecero alquanto temere le nostre
fanterie, per esser due mezzi cannoni a ridosso di quelle trincee su
detta piazza, e spararono due volte per uno con qualche danno nostro.
Vedendo io con gli occhi questo, fui forzato di fare di quelle cose
che non era l'offizio mio, e così imbracciai una rotella, dando
coltellate a tutti quelli che tornavano indietro. Finalmente saltai
su quel riparo con una testa di cavalli leggeri armati di tutt'arme,
con una picca in mano per uno, insieme con parecchie lance spezzate
che io ho appresso di me, et insignoritosi del riparo cominciarno a
pugnare innanzi, e guadagnammo la piazza con l'artiglierie et con
grande occisione di loro togliendo loro due insegne, et vi morì un
capitano, et così ci volgemmo a combattere casa per casa tanto che
c'insignorimmo del tutto. Assalicci la notte nè si potè andare più
innanti, ed eravamo in modo stracchi che nessun fante poteva stare in
piè. Feci tirare quelle artiglierie che avevamo lor tolto, sotto la
fortezza, et mettervi le sentinelle, et lasciai a guardia della piazza
il sig. Cammillo con tre altri capitani, e così ci stemmo sino a questa
mattina, dove di nuovo riordinai le genti et le messi in battaglia
per dare l'assalto. Trovammo che avevan fatto tutta notte bastioni et
attraversate le strade con certi pezzi d'artiglieria grossa, nè per
questo si temeva, che andava alla volta loro. Impauriti d'aver perduto
parte della terra et vedendo tanti morti per le strade, e d'esser
fuggiti quelli tanti tristarelli che ci erano Fiorentini con il gran
Ruberto Acciaioli padre di tutti, accennarono di voler parlamentare, e
così detti la fede al Commissario Taddeo Guiducci, et se altri della
Terra venissino parlare con me volendomi domandare quello che io
desiderassi. Risposi loro che volevo la terra per li miei Signori o
per forza o per amore, et che volevo che fusse rimesso nel petto mio
quel bene et quel male che avevasi a fare alli Volterrani; et loro
mi chiesero tempo di due ore per poter far consiglio con gli uomini
della Terra, et che verrebbono con pieno mandato. Non lo volsi fare
perchè vedevo che mi volevan tenere a bada fino a tanto che il soccorso
che era per via comparisse. Detti lor tempo sinchè tornassero loro
dentro le trincere, con far loro intendere che se fra una mezz'ora non
tornavano con risoluzione di quello che avevo loro imposto, che io
farei prova di acquistare quel resto con l'arme in mano come ho fatto
sino a qui. Et così se ne andorno et tornarno fra 'l tempo, e di più
menarno con loro il capitano Gio. B. Borghesi che era colonnello di
tutti li altri capitani. Arrivati a me si buttorno in poter mio, et che
li Volterrani si rimettevano in tutto e per tutto in me e nella mia
discrezione. Et così li accettai promettendo la fede mia di salvare la
vita al commissario et a tutti li fanti pagati, et tanto ho osservato;
et subbito li feci passare in ordinanza per mezzo delle bande nostre
et metterli fuori della Terra. Et perchè Taddeo Guiducci mi pareva nel
tempo che noi siamo di troppa importanza a lasciarlo, l'ho ritenuto
appresso di me con animo di non li fare dispiacere nessuno, avendogli
data la fede mia, et ancora se l'è guadagnata con fare qualche opera
che mi è piaciuta. Onde io prego le SS. VV. che gli voglino perdonare
fino a quello che io gli ho promesso, che, come di sopra ho detto, gli
detti la fede mia di non lo far morire._
_Partiti li soldati imperiali, presi la piazza, e messi a guardia
dell'artiglierie tutti li cavalleggeri, et le guardie alle porte, et
spartiti li quartieri, che questa volta non furono ne' borghi, feci
mandare un bando che ciascheduno Volterrano fusse trovato con l'arme
cadesse in pena delle forche. Oggi farò descrizione di esse et ne li
priverò del tutto a causa che non possino più adoperarle contro di noi,
come questa volta hanno fatto. Anche oggi si farà bando per vedere
tutte le portate del frumento, che intendo che ce n'è gran copia, et le
farine che ci fussero fatte et altre grane rimetterò nella cittadella
con più prestezza che si potrà, et tutte le artiglierie mandate da
Andrea Doria, che pare che l'abbin fatto a posta per renderci il
contraccambio. Di quelle di Ruberto prese l'artiglierie son due cannoni
di libbre 70 di palla per ciascuno et due colubrine che mai veddi le
più belle artiglierie et meglio condotte, et 1/2 cannone et un sagro
che fanno il numero di sei pezzi grossi con palle 80, con qualche
poco di polvere et salnitri; et domani che saremo alli 28 manderò
un trombetto alle Pomerance et uno a Monte Catini, et di quello che
seguirà per il prossimo li darò avviso._
_Quando parrà tempo alle SS. VV. quelle mi daranno un cenno che io
cavalchi per la volta di Maremma a liberare Campiglia, Bibbona, Buti
et tutto il paese, et se ne caccerà quelli ladroni di strada che vi si
trovano accasati, et quando io intenderò la passata di Fabbrizi per
la volta di Pisa, non mancherò di mandare quelle forze, che per me si
potrà a quella volta; nè mancherò di mandare a Empoli una banda a causa
si renda più sicuro, ancorchè si trovi assettato dall'arte che le donne
con le rocche lo potrebbono guardare. Nè altro ho che dire, salvo che
pregare quelle che mi voglino consentire la sede data al Guiducci, et
questo voglio che sia il premio di tante mie fatiche._
15 _luglio_ 1530.
_Li nomi di quelli tristarelli usi a sollevare li popoli a partito
vinto son questi:_
Agnolo di Donato Capponi.
Giuliano Salviati et un certo Giovanni di.... de' Rossi.
Lionardo Buondelmonti fratello del cavaliere, e
Ruberto Acciaioli, padre di tutti.
Sforzati così i Volterrani tornarono sotto il giogo de' Fiorentini;
e giogo veramente si potea dire, poichè privati d'ogni libertà, ed
anco poco ben trattati, non avean parte veruna alle deliberazioni di
Stato. Gl'ingiusti modi tenuti con loro non meno che con Pisa, Pistoja
e l'altre città del dominio, impedì che nel comune pericolo essi
andassero di buone gambe alla difesa, ed anzi accrebbero l'impaccio,
dovendosi impiegare molte forze a tenerle soggette. Tanto è vero che
l'oppressione de' deboli genera faville, le quali covano ignote e
sprezzate per lunga stagione, ma scoppiano pure alfine in incendio, e
consumano l'oppressore.
Di questa verità Firenze ne offerì un tristo esempio, nè la giusta
ammirazione che c'ispira la sua ultima difesa, c'impedirà di riconoscer
le colpe e gli errori che contribuirono alla sua rovina. Si crederebbe,
che fra gli uomini di stato d'allora correva questa sentenza: _Pisa si
dee tener colle fortezze e Pistoja colle parti_? Si crederebbe, che la
crudele astuzia di attizzare gli odj, pei quali le parti Cancelliera e
Panciatica, empievan di sangue il piano e la montagna di Pistoja, si
potesse chiamare ragion di stato? e si credesse accorto non solo ma
lecito ed onorevole l'usarla? Se in questo furono accorti i Fiorentini,
il fatto lo mostrava all'ultimo dell'assedio, quando, se Ferruccio
fosse potuto giungere sotto le mura di Firenze, era quasi impossibile
non la salvasse: ma egli, parte ingannato, parte persuaso dal capitan
Melocchi di S. Marcello che pensava a distruggere i Panciatichi suoi
nemici più che a liberar Firenze, si trattenne tanto, che potè in mal
punto essere assaltato e rotto, come vedremo, dagli imperiali. Ecco
qual frutto colsero i Fiorentini di sì loro sottile ed accorta ragion
di stato!


CAPITOLO XXVI.

L'allegrezza sparsasi in Firenze per la sottomissione di Volterra venne
presto turbata dalla perdita d'Empoli, chè lasciato dal Ferruccio
a guardia di Andrea Giugni e Piero Orlandini, per la costoro viltà
venne espugnato e mandato a sacco dagl'imperiali. Condotta a fine
quest'impresa, si drizzarono a Volterra guidati dal marchese del Vasto
da Inigo Sarmiento ed altri capi, e riunitisi a Fabrizio Maramaldo,
strinsero la terra con furore sperando ritoglierla al Ferruccio,
che senza punto smarrirsi per le soverchianti forze degl'inimici, o
pei sospetti de' cittadini di dentro, si difese francamente sempre,
tantochè alla fine, dopo molta uccisione, disperatisi dell'impresa, se
ne levarono.
Allora si vide come il cuore d'un uomo solo basta talvolta, a guisa
di favilla che cada su un ammasso di polvere, ad accenderne mille. I
fiorentini infiammati dalle rapide ed ardite imprese del Ferruccio
(quantunque un nuovo e più terribil nemico si fosse aggiunto a' loro
danni, e la peste scopertasi nel monastero di S. Agata cominciasse
a serpeggiare per la città) risolsero non pertanto d'uscir di nuovo
contro i tedeschi, che sotto il conte Lodovico di Lodrone alloggiavano
in S. Donato in Polverose.
Ripugnando ed opponendosi, come il solito, Malatesta, che non
acconsentì se non quando conobbe esser egli solo contro l'opinione
dell'universale, venne stabilita quest'impresa ed ordinato s'eseguisse
a modo d'incamiciata.
Uscì Stefano Colonna per la porta di Faenza con duemila fanti armati
di picche e partigianoni: per porta al Prato Pasquino, Corso col suo
colonnello per la porticciuola, Maìatesta lungo la riva d' Arno con
1500 fanti acciocchè i nemici dal campo non potessero, guazzando il
fiume, venire ad offendere a tergo gli assalitori.
Mancavano due ore a giorno, e pel caldo grande erano i nemici immersi
nel sonno. Fattosi avanti Pasquino più presto che non volea l'ordine
dato, si risentirono le guardie della prima trincera, e levarono il
rumore, che udito dal sig. Stefano lo fecero correre all'assalto.
Superato ogni ostacolo, e cacciandosi innanzi i tedeschi, che
sbalorditi e sonnacchiosi disordinatamente si difendevano, ajutando lo
spavento e la confusione gran quantità di trombe da fuoco, che Giovanni
da Torino gettava fra loro, giunse colle sue bande ad assaltare il
monastero.
Il conte di Lodrone aveva intanto raccolto un nodo di duemila tedeschi,
che colle picche spianate attendevano a difendersi da' furiosi
assalti d'Ivo Biliotti (il quale a dir del Varchi, abbassando il capo
com'era suo costume, si gettava contro i nemici gridando ai suoi
«_su, valentuomini, mescoliamci!_») e degli altri capitani e giovani
fiorentini, che con tanto disperato furore combatterono quella notte
da esserne rimasta poi lunga ed alta meraviglia fra quelle vecchie ed
agguerrite bande, che mal potevano resistere a tanta furia. Mentre
colla peggio de' lanzi durava ostinata la battaglia, s'era fatto
giorno; ed uditosi il romore nel campo del principe, egli aveva spinto
una grossa banda di cavalli in ajuto de' suoi, e dove era ufficio di
Malatesta combatterli e ributtarli al guado del fiume, la qual cosa,
ogni poco che impedisse il soccorso, avrebbe data vinta l'impresa ai
Fiorentini, egli invece, da quel traditore ch'egli era, si ritrasse
dentro le mura, e mandò ordinando al sig. Stefano di sonare a raccolta.
Dovettero le milizie, così vilmente abbandonate, ubbidire al comando
per non venir tolte in mezzo, e volgendo pur sempre il viso al nemico,
che poco avea in animo di molestarle, si ridussero ordinate dentro le
porte; e parte avvedendosi alfine dei disegni di Malatesta, si cominciò
tra popoli a bisbigliare di tradimento, ed a sospettare del fatto suo.
Ma l'avvedersi ed il voler ora riparare era tardo. Malatesta,
antiveggendo di lunga mano la possibilità di venir sospettato ed anco
scoperto, s'era governato in modo che l'evento non lo cogliesse nè
sprovveduto nè disarmato. Conversando co' più reputati cittadini aveva
saputo guadagnarseli, qualunque fosse la loro opinione circa lo stato,
«ed ai popolani (usiamo le parole del Busini) dicea della libertà; ai
malcontenti, del papa; agli ambiziosi, biasimava questi e quelli, e
lodava uno stato di pochi ec.» con siffatte arti essendogli riuscito
persuadere ad ogni setta di cittadini ch'egli teneva per essa, non
gli mancava mai chi lo difendesse dalle accuse che gli si apponevano
nell'universale, come non mancarono alla fine cittadini più ingannati
che colpevoli, i quali l'ajutassero a compiere lo scellerato suo
tradimento.
Di più, cominciando ad avvedersi che la Signoria dubitava della sua
fede, s'era levato dal palazzo Serristori, ed alloggiato invece in
casa i Bini[54], sotto colore d'esser più a portata pei bisogni
dell'assedio, ma in effetto, per aver più vicina la porta Romana, la di
cui torre ben armata e provvista, era in mano d'uomini suoi, e potea
servirgli ad un serra serra, come di fatto gli servì. Egli non si
lasciò più vedere gran fatto fuori di casa, e quando usciva era bene
accompagnato, facendo soprappiù tener bonissima guardia giorno e notte
intorno al suo alloggiamento, e, chiamato in Palagio, o non vi volle
andare, o se qualche volta v'andò, fece pigliar il portone e le scale
da gran numero di suoi soldati, temendo, com'egli diceva, di non fare
il salto di Balduccio d'Anghiari[55].
Rassicurato così dal timore di poter essere oppresso, e parendogli
oramai preparate le cose, e matura l'occasione, si dispose con nuove
frodi a coglierne il frutto. Il Ferruccio, che da Volterra, per la
Maremma, s'era condotto a Pisa, e nel quale stava oramai riposta
l'ultima speranza della repubblica, avea avuto l'ordine di condursi a
Firenze, e non par da dubitare, che ove egli avesse assaltato il campo
imperiale nel tempo stesso che le milizie l'affrontassero di verso la
città, non fosse riuscito risolvere finalmente l'assedio.
Malatesta, che più di tutti tenea per ferma la riuscita di cotale
impresa, ordinò, pel mezzo d'un suo fidato ribaldo, detto Cencio
guercio, di abboccarsi segretamente di notte col principe d'Orange
sotto le mura fuor di porta Romana, e quali pratiche tenesser fra loro
non si seppe mai, ma pare probabile, che il traditore dando notizia al
principe della mossa del Ferruccio, gli promettesse di non far atto
nessuno contro il campo, mentr'egli fosse andato ad incontrare il
commissario, e di cotal promessa gli desse una polizza scritta di sua
mano. Il fatto sta che la polizza fu poi trovata in petto al cadavere
del principe morto pochi giorni dopo.
Il disegno di Mala testa ebbe pienissimo effetto, e nella rotta di
Gavinana, avvenuta poco appresso, l'Orange ed il Ferruccio rimaser
morti e svanì l'ultima speranza di salute che rimanesse ai Fiorentini.
Il seguito di quest'istoria ci offrirà l'occasione di ritornare sui
particolari di quella memorabil giornata, ma prima dobbiam ritrovare
gli attori del nostro racconto, che la storia de' pubblici avvenimenti
narrati sin qui, ci conduce ad un'epoca ove i casi della famiglia de'
Lapi, principale scopo del nostro lavoro, ci pajon meritevoli d'una
qualche attenzione.
La sera de' 4 d'agosto era in Firenze un'afa grandissima e l'aria
inerte ed infocata appariva ottenebrata e densa per una caligine
rossiccia e polverosa che opprimeva il respiro. La spera del sole
lambendo l'orizzonte si mostrava purpurea e dilatata pe' frapposti
vapori, e le cime soltanto degli edifizj ne venivan colorite d'una
tinta spenta e sanguigna. Tra le quattro massicce colonne che l'animoso
ingegno d'Arnolfo di Lapo seppe collocare sulla torre di Palagio,
a reggerne il castello, si vide a un tratto la campana grossa del
consiglio sulla quale erano in giro scolpite quelle parole: _Mentem
sanctam, spontaneam ad Dei gloriam, et patriae liberationem_ (_habeto_)
scuotersi, dondolar lenta, e poscia mostrando la vasta bocca agitarsi
più rapida finchè il grave battaglio percosse il primo colpo nella
parete di bronzo, ed una vibrazione sonora e prolungata si sparse per
l'aria seguita da altre mille; chè oramai si suonava a distesa. Questo
suono, che da secoli, ed in tante fortune della città, avea chiamati
i cittadini a trattar dell'onor o de' pericoli della patria, s'udiva
questa volta per l'occasione più dolorosa e tremenda che avesse mai
minacciato lo stato.
Era giunta in Palagio la nuova della rotta di Gavinana, e della morte
del Ferruccio; di quello che i Piagnoni chiamavano il nuovo Gedeone, e
col quale era spenta ogni speranza di soccorsi di fuori. I volti de'
cittadini calcati in piazza e per le strade che vi mettono, anneriti
dal sole e dal fumo di tante battaglie, solcati di cicatrici, ridotti
per la farne e gli stenti in forma di teschi ricoperti d'una pelle
aggrinzita, erano impressi d'un lutto profondo, disperato, ma indomito
e feroce. Dopo tanto combattere, tante vittorie, tante pericolose e
pur felici fazioni, al punto di coglierne il frutto, al punto che
ognuno s'aspettava udire: «Il commissario è comparso... egli assalta
il nemico... egli combatte.... ha vinto.... egli entra per la porta di
Faenza....eccolo... siam salvi! Ed invece udir le terribili parole:
l'esercito è disfatto ed esso ucciso!» pareva persino impossibile a
molti! chè vi son tali vite tanto venerate e gloriose, che non si stima
possa una palla o una spada osar di troncarle! Eppure il fatto era
certo, la sentenza irrevocabile; l'idea sott'intesa spesso, ma che
sempre ed in ogni occasione serviva d'ultimo rifugio alle vacillanti
speranze, il pensare, «Ferruccio è vivo!» Questa idea, questo pensiero
era a un tratto dovuto uscir d'ogni petto, lasciandovi in sua vece la
tremenda certezza d'una rovina imminente ed irreparabile. In che di
fatti potea più sperare quel misero assassinato popolo, stretto di
fuori dalla soperchiante potenza di Carlo V e del papa, abbandonato
da tutti, e travagliato di dentro dalla fame, dalla peste e dal
tradimento? Come reggere a più lunghe fatiche, al languire delle mogli,
de' vecchi, dei figliuoli? Come risolversi ad incontrar nuovi pericoli,
a protrarre la lunga ed inutile agonia, che certissimamente si sapeva
dover riuscire a pessimo fine. Quale potrebbe essere la risoluzione del
popolo più generoso, più sofferente, più ardito in cotal estremo, se
non quella di cedere alla necessità ed arrendersi?
Quale fu la risoluzione de' Fiorentini, quale il grido che si levò
nell'universale? Difendersi, e sempre difendersi.
Sulla piazza di Palagio, che ancor conservava allora la sua augusta
ed antica semplicità, e non era ornata, come oggi, dalla fontana
dell'Ammannato, nè dai gruppi di Cellini e di Gian Bologna, s'agitava
la turba del popolo, composta d'uomini d'ogni età e d'ogni stato, di
vecchi, di soldati e capitani forestieri, d'adolescenti, di frati,
di giovani della milizia, quasi tutti più o meno armati, e la fatal
nuova narrata in cento modi, con cento commenti diversi, era in bocca
d'ognuno, e ne sorgeva un ronzìo cupo e pauroso, interrotto tratto
tratto da qualche voce più alta, ora di preghiera, ora d'imprecazione o
di bestemmia; e, com'accade tra la moltitudine in siffatte occasioni,
si formavan cerchietti intorno a quelli che avean più pronto ed
efficace il dire, e se varii erano i rimedi, i modi proposti, il fine
era sempre lo stesso: combattere e difendersi.
Sotto la tettoja de' Pisani, dirimpetto alla Ringhiera, era più che
altrove, accalcata la folla, più riverente l'attenzione, e non turbato
il silenzio; e dal centro di quel nodo di popolo sorgeva di tutto il
capo l'alta e venerabil presenza di Niccolò, che colla mano in alto, e
movendo in giro lo sguardo sicuro, diceva:
--Sì, popolo mio, l'esercito è disfatto.... messer Francesco è morto...
E che perciò?.... Oh! sta a vedere che il braccio di Dio si sarà
raccorciato, che la sua mano avrà perduta ogni forza per la morte d'un
uomo!.... Sta a vedere che l'Onnipotente sarà ora in impaccio a trovar
modo d'ajutarci? che gli dorrà d'essersi troppo impegnato, d'averci
troppo promesso!.... Ah, di poca fede!... (esclamava più alto) di poca
fede! Chi muove, chi fuga, o dà vittoria agli eserciti se non Iddio?
e quand'egli vi rimane, quand'egli per bocca del suo profeta v'ha
giurato di star per voi, di salvarvi, vi turba il fallito soccorso
di poche braccia?.... Sappiatemi dire di quante ebbe mestieri Iddio
per ammazzar Sennacherib ed il suo esercito? Di quante per salvar
Betulia? Speravate negli uomini; conoscete una volta che in Lui, in Lui
solo dovete sperare, che ha promesso difendervi, che ha promesso (lo
sappiam pur tutti) di mandar persino i suoi angioli a combatter per
voi[56]. Vi voleva l'estremo pericolo affinchè più chiara apparisse la
sua gloria!.... Il pericolo è giunto, è immenso.... A terra le fronti
dunque (ed egli, e tutto il popolo cadde in ginocchio) Iddio, gridiamo
tutti, Iddio! Cristo re nostro, in te solo oramai confidiamo! a te sta
ora il confondere i tuoi nemici, onde non dicano con ischerno «Ecco
come gli ajuta il loro Dio!» A noi sta il combattere, ed il morire, se
morire sarà mestieri!... su dunque, esclamò rialzandosi, su dunque,
all'armi, alla battaglia, e giuriam tutti di morire mille volte prima
che arrenderci una!--
Durante questa parlata, chi levava le mani in alto in atto di
preghiera, chi si batteva il petto, chi fremeva, chi singhiozzava, e
all'ultime parole del vecchio scoppiò, come il tuono, un urlo feroce,
discordante, di mille voci, che in mille modi ripetevano il proposto
giuramento, ed a quel grido così alto ed improvviso tenea poi dietro
un cupo e lungo mormorìo pieno di concitate parole, di minacce, di
strane e tremende proposte, e molte voci s'udivano scagliarsi qua e là
esclamando: _Ah, traditor Malatesta_! e pareva appunto quel brontolar
sordo e lontano che s'ode fra monti dopo il primo scoppio del tuono.
Questa scena, che accadeva qui sotto la loggia de' Pisani, intorno a
Niccolò, si ripeteva uguale in altre parti della piazza, ove qua e
là da molti frati di S. Marco, e dal Fojano e dal Fivizzano più di
tutti, si arringava coll'impeto e col proposito stesso, onde a seconda
del dire di codesti popolari oratori, non appena finiva il grido e lo
schiamazzo in un lato, che cominciava in un altro.
Crebbe poi l'agitazione, se era pur possibile che crescesse, per questo
fortuito accidente: un povero fanciullo del popolo minuto, il quale,
come si seppe di poi, da più mesi era rimasto abbandonato, senza
ricovero nessuno, essendogli morto in battaglia il padre, lanajolo,
e la madre di fame, avea notato, stretto dalla necessità, un luogo
sul lato del Palazzo verso la dogana ove sboccava a fior di terra un
acquajo che veniva di su dalle cucine della Signoria, e per esser
così un poco fesso il condotto, il misero fanciullo s'era accorto
di certe erbe che colle lavature delle stoviglie cadevano per quel
canale, ed ingegnandosi di dilatare la rottura, poi ricopertala alla
meglio onde altri non se n'avvedesse e non gli rapisse quel suo solo
ed ultimo bene, veniva qui sulla sera ogni giorno, e trovava, fermata
in certe cannucce che avea disposte in traverso del condotto, una
piccola quantità di bucce di frutta, d'ossicini, di legumi e d'altre
immondezze, colle quali sosteneva la sua povera vita. Questa sera
v'era venuto come il solito, tutto sfinito, chè al povero fanciullo
quel tristo pasto bastava appena appena per non morire, ma reggendosi
a' muri pure v'era venuto. Ma quel giorno, in Palagio, pel sottosopra
della nuova arrivata, o non s'era pensato a desinare nè a cena, o,
comunque fosse, per quell'acquajo non era stata buttata cosa veruna, ed
il povero sventurato orfanello, che appena avea più un soffio di vita,
non trovò nulla, e caduto boccone presso l'acquajo diede in un pianger
basso e fioco; nè trovato altro modo d'ajutarsi, cavando lungo il muro
coll'ugne, ne strappava pochi fili di gramigna che vi crescevano,
tutti arsicci, e se li cacciava in bocca, e mentre si sforzava colle
indebolite mascelle di masticarli, fu visto cader sul fianco, stirare
un momento le consunte membra, e rimaner immobile.
Notato l'atto da alcuni per caso, gli si fecero accosto, vollero
sollevarlo da terra, e trovarono che era morto; e da un frate che
s'imbattè costì fu portato via per mezzo la piazza, mentre appunto
per le parole di Niccolò e degli altri era il popolo più infiammato,
e gli animi più commossi. Il pietoso spettacolo di quel morticino
portato in collo a quel modo, colle braccia e le gambe spenzolate,
la testa arrovesciata, le labbra livide ed imbrattate dai succhi
verdi di quell'erbe, che ancor teneva strette tra denti serrati
dall'ultima convulsione, scosse i cuori di que' poveri popolani, che in
quell'infelice vedevan raffigurata la sorte de' loro figliuoli, e di
loro stessi.
--Se s'ha a morire a quel modo, gridavano alcuni, moriam piuttosto
d'archibusate!--Ah cane! Ah rinnegato Chimenti!, diceva un altro, ah!
traditore, assassino della tua patria!....--E Bindo, che si trovava fra
costoro, diceva adirato:
--Ma ditelo voi: di tante volte che siam usciti contro i nemici, fummo
vinti, ributtati una sola? Non tornammo sempre in Firenze perchè così
ci parve di fare, o (per esser più veri) per difetto di quel traditore
di Malatesta? Eh! gridiamo tutti che si vuoi uscire a combattere,
mettiamoci d'accordo noi, e converrà bene che i signori su in Palazzo
s'accordino anch'essi al nostro volere.--
Per queste parole, e per tante cause riunite, sempre più si faceva
terribile ed alto il tumulto e le grida del popolo che chiedeva
battaglia, e molti, spingendosi su per le scalere che sorgono sotto la
ringhiera ed il portone di Palagio, mostravano voler far forza alla
guardia, per entrare e turbar le deliberazioni della pratica radunata.
Si potea scorger da lontano l'onda della turba che si sollevava
da un lato, e l'agitarsi disordinato delle picche de' soldati che
s'ingegnavano raffrenarla: ma a rimettere un po' d'ordine in questa
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