Niccolò de' Lapi; ovvero, i Palleschi e i Piagnoni - 27

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battaglia la compagnia sulla piazzetta che si trovava entrata appena la
porta. I soldati, che avean legati i mantelli sulle groppe, e s'eran
rassettati alla meglio, apparivan bella e buona gente e bene a cavallo:
ed al comando dell'Arsoli, dato un po' di volta per la piazzetta, si
schierarono in linea. Si fece innanzi il Ferruccio, pur sempre colle
braccia all'istesso modo, ed accostatosi ai due capitani, posti nel
mezzo ed un poco innanzi dagli altri, diceva loro con voce sonora e
quel parlar tronco che tanto può sui soldati:
--Bella compagnia! uomini, cavalli, armi, tutto bene. Li vedremo
all'opera e presto, che, viva Dio! non aspettavo altro. Li farete
rinfrescare, poi v'aspetto all'alloggiamento.... Di Firenze già nulla
di nuovo? L'assalto del principe lo seppi colle lettere di jeri. Avrà
veduto che anche i mercanti se n'intendono di far bastioni e sparar
artiglierie. Ora due parole ai vostri soldati.--
E, voltossi alla truppa che gli stava dinanzi immobile ed in silenzio,
disse con un sorriso:
--Questi marrani spagnuoli qui del contado, hanno di maladette gambe
che a raggiungerli m'era fatica, voi farete la bisogna, valentuomini,
con buoni sproni e dodici braccia di lancia assaggeremo loro le reni,
se piace a Dio. Pensate che tutti combattiamo per la patria, e per
questa santa causa non risparmierò nè la mia vita nè la vostra, ve ne
avviso. Io saprò far il debito di capitano, dacchè i nostri signori
m'hanno fatto degno di tanto onorato comando. Voi pensate a far quello
di valenti soldati, chè usando altri modi io non sarei per sopportarlo.
--Ora attendetevi a riposare, chè non vi lascerò un pezzo colle mani in
mano... e, viva il marzocco! viva la repubblica!--
A questo grido rispose la compagnia ed il popolo, che in folla le s'era
radunato all'intorno; e mentre i soldati scavalcavano disponendosi a
condurre a mano i cavalli all'alloggiamento, dicevan tra loro:
--Codesto si chiama discorrere!--E non gli trema la lingua
in bocca!--È un diavolo costui, che non avrebbe soggezione
dell'imperatore.--Ohe! e' pare che converrà arar diritto con quel
muso.--S'egli ha il ruzzo di menar le mani, e noi non vogliamo altro.--
Ed un di loro volgendosi a Fanfulla che veniva zufolando sotto i baffi,
com'era suo costume, mentre buttava le staffe sulla sella, gli diceva:
--E che ne dice il nostro Fra Bombarda?--
--Fra Bombarda dice: Quando tu avessi il fiasco alla bocca, ed il
commissario ti dicesse basta, fa di non ne mandar giù una goccia di
più, se vuoi che la via del pane ti rimanga aperta. Che di musi me
n'intendo, e n'ho visto più d'uno uscir di sotto il morione, colle
setole dure abbastanza, ma come codesto n'ho visto due altri soli
sinora, quello del sig. Giovanni, e quell'altro del gran capitano. E
per ora non dico altro.--
Ed intanto la compagnia venne presto alloggiata ne' quartieri già
preparati.


CAPITOLO XXV.

Tostochè l'Arsoli ed il Bichi ebbero dato sesto alla compagnia, si
condussero dal commissario, e con esso andò anche Lamberto, che aveva
da Niccolò (ci scordammo accennarlo) avuto l'incarico di fargli
riverenza per parte sua e narrargli quegli ultimi suoi casi.
Il Ferruccio era alloggiato nella casa del Comune in Piazza, e lo
trovarono che li aspettava in una sala al primo piano ove le pareti
eran tutte coperte di gigli e di marzocchi, e su in alto, sotto il
soffitto intorno, si vedevan dipinte l'arme de' podestà che avean
retta la terra, tra quali fu il vincitore de' Ciompi Michele di Lando.
Il commissario sedeva presso una gran tavola ov'era costume render
ragione. Salutò i nuovi arrivati, che entrarono ancora tutti armati
quali erano venuti di Firenze. Ad un suo cenno sedettero e disse
l'Arsoli:
--Questi, sig. commissario è messer Lamberto, che voi conoscete di nome
se non di veduta.--
--Ah! rispose Ferruccio facendogli festa col viso, ho caro conoscervi
ch'io non ho il maggiore amico di messer Niccolò, e so quanta stima
egli faccia di voi.--
Lamberto allora, fattigli prima i saluti del suocero, gli venne
narrando tutto il caso di Troilo, e com'egli avea lasciato il campo e
datosi tutto alla parte Piagnona. Disse poi il suo matrimonio colla
Laudomia, il motivo ed il modo ond'era stato interrotto, e vedendo che
il Ferruccio gli prestava grandissima udienza, gli narrò dell'oscuro
avviso ricevuto per via, di non so quali insidie tramate contro di
essa, chiedendogli insieme licenza di spedire un uomo apposta a Firenze
affinchè potessero guardarsi ed investigar la realtà e l'ordine di
questa trama.
--Io vi do questa licenza molto volentieri, e se il servigio della
città lo concedesse, vi direi andate in persona; ma una buona spada val
tant'oro quanto pesa, a questi giorni, e non posso privarmene; conosco
che dev'esser una gran passione per voi, messer Lamberto, lasciar una
tale sposa per torre invece la lancia.... almeno così suppongo...
(disse sorridendo) chè io di queste cose poco me n'intendo, ed alla
vita mia non ebbi mai tant'agio ch'io potessi pensar a donne... A ogni
modo, un par vostro saprà aver buona pazienza, chè ora i nostri amori
hanno ad essere cogli archibusi e le bombarde.--
--Quanto a questo spero mostrarvi che so il mio debito, e che il mio
primo amore è della patria e non d'altri.--
Così rispose Lamberto, con un viso ardito che non lasciava dubitare
ch'egli mentisse; fatta poscia riverenza al Ferruccio si tolse di
quivi, trovò presto d'un cavallaro che fu contento portar a Firenze
la lettera per Laudomia. La scrisse Lamberto più presto che potè, ed
in essa le narrò distesamente tutto l'accaduto in quella notte senza
ommetter sillaba di quanto era stato discorso tra esso e Selvaggia.
Dopo aver molto raccomandato che facessero in modo di scoprire se
quest'insidie eran vere, oppur supposte da costei per puro dispetto,
mostrando, quanto a sè, propendere per quest'opinione, entrava a
deplorare e mostrar rammarico dell'aspro modo da lui tenuto con
quell'infelice, svolgendone insieme a Laudomia i motivi, e mostrando
poi alla fine in quanta agitazione d'animo si trovasse al presente sul
fatto di costei.
La passione che provava per questo accidente la seppe esprimer
benissimo, e forse troppo, chè scrivendo in furia, e coll'animo
preoccupato, non ebbe campo di pesare e calcolar molto le parole,
e l'effetto che sarebber per produrre su quella che con mente più
tranquilla le avrebbe lette. Si faceva in ultimo a pregar Laudomia,
volesse metter subito gente in moto, mandar sulla strada d'Empoli, ed
in quelle vicinanze, per iscoprire che ne fosse stato di Selvaggia; ed
avendo avuto a dire tante cose, col tempo che lo stringeva, conchiuse
la lettera in modo più tronco, che al certo non avrebbe fatto, se la
cosa non fosse stata di tanta premura.
Com'ebbe scritto, piegò la lettera in quattro, come s'usava in quel
tempo, e traforatala, la chiuse con una funicella, della quale fermò i
capi con un sigillo.
Partì il cavallaro, e seppe così ben pungere un cavalletto che avea
sotto, che verso le ventidue scavalcava al portone de' Lapi.
Mona Fede venne ad aprire: prese la lettera, e con gran festa corse
nella camera di Niccolò ove egli si trovava colle figlie, ed a caso
v'era anche Troilo. Laudomia, conosciuto dalla sopraccarta chi le
scriveva, disse tutta allegra ed un poco arrossita:
--Oh! povero Lamberto, già m'ha scritto!--e principiò a leggere. A mano
a mano che leggeva le si vedea tratto tratto mutar viso, mostrando ora
maraviglia, ora mestizia, ora compassione, ed in ultimo parve sulla sua
fronte serena si stendesse persino l'ombra d'un sospetto.
--Gran cosa è questa! disse alla fine tutt'altro che tranquilla in
volto; e porgendo la lettera a Niccolò, soggiunse:--Ora vedete voi quel
che convenga fare.--
Niccolò la prese, ma parve che quella lettura facesse sull'animo suo
tutt'altro effetto, e piuttosto lo rallegrasse.
--Egli è il gran giovin dabbene, disse alla fine, che vuoi ch'io ti
dica? bisogna far quel ch'egli consiglia.... non vedo altra via.--
Voltosi poi a Troilo, col quale s'era ogni giorno più venuto
addomesticando, e tanto maggiormente ora di lui si fidava, dopo aver
veduto con quanta prontezza si fosse proposto di partir in iscambio
di Lamberto, gli disse, pur guardando Laudomia, quasi le domandasse
licenza:
--Con buona pace di Laudomia, io voglio che leggiate questa lettera....
vedrete che cuore abbia il nostro Lamberto.... e che se volevate andar
alle archibusate per lui, la cortesia non era sprecata.--
Troilo, nel vedere che de' suoi disegni ne dovea pur esser trapelato
qualche cosa, non potè a meno di non far un arresto, ed in cuore
trasecolava, non potendone immaginare il come, tanto più in così breve
spazio di tempo. L'atto che gli sfuggì, fu dagli astanti interpretato
in tutt'altro senso, e l'attribuirono ad una natural maraviglia d'un
caso cotanto strano, ed egli, vedendo che la lettera non nominava
persona, si venne presto rassicurando.
--Non v'è dubbio nessuno, disse alla fine, bisogna far ciò ch'egli
dice. Lasciatene il pensiero a me, ch'io troverò chi saprà benissimo
disimpegnare quell'incarico. Date qua quella lettera, ch'io tenga a
mente i segnali di codesta donna, perchè possa riconoscersi, e s'ella
non è sotterra si troverà.--
Così dicendo uscì, mentre Niccolò, tutto lieto, gli gridava dietro:
--E così? non te lo dicevo io, che a trovarne un altro come quel giovin
dabbene vi sarebbe da fare?--
Laudomia, uscita anch'essa poco dopo Troilo, salì in camera e vi si
chiuse. Non sapeva, o non voleva dirsi il perchè, ma non si sentiva
il cuore a modo suo: e provando una cotale indefinibile ripugnanza ad
esaminarlo a minuto in quel momento, attese a non so che sue faccende
per aver in che occupare il pensiero.
Ove la buona giovane avesse voluto scendere a questo esame, sarebbe
forse d'un in un altro pensiero venuta a far molte osservazioni su
questa tanto calda pietà di Lamberto, sulla troppo laconica conclusione
della sua lettera, avrebbe provato forse il desiderio d'esser sola a
sentire tanta compassione per le costei sventure.... Dio sa quante cose
avrebbe trovate in quel suo povero cuore! non volle tuttavia troppo
scrutarlo in quel momento.
Ma il seme caduto una volta nel solco ha egli bisogno d'altri ajuti?
lavora solo, germoglia in silenzio, e quando dà segno di sè spuntando
dal suolo ha già messo le barbe.
Troilo intanto s'era dato da fare per trovar di questa Selvaggia, che,
in modo per esso tanto inconcepibile, parea informata de' suoi disegni;
e certo nè Lamberto, nè persona al mondo avea in quel momento maggior
desiderio di lui che si rintracciasse. Spedì gente, e fece far tutte
le inchieste possibili, e vi volle a ciò un pajo di giorni, ma fu
inutile, non se ne potè saper nuova.
Visto alla fine che si dava in non nulla, ne fu scritto a Lamberto (e
la lettera la portò Maurizio, che trovato un altro cavallo raggiunse
così il suo padrone) il quale, se ne rimanesse afflitto e malcontento,
non è da dire. Egli intanto, seguitando la fortuna del Ferruccio a
Volterra, a Pisa ed in ultimo a Gavinana venne passando un tempo,
durante il quale lo stato di Laudomia e degli altri attori di questa
istoria non ebbe a provare notabile alterazione. Gli ultimi casi che
afflissero poi la casata de' Lapi, e coi quali verrà a concludersi il
nostro racconto, sono strettamente legati a quelli della città, ed
all'intero ed ultimo esterminio della libertà fiorentina: ci conviene
dunque con largo e rapido pennello dipingere ad eterna infamia dei
vincitori, ed a gloria eterna de' vinti, la sua dolorosa agonia, e come
alla fine rimanesse spenta del tutto.
Il nostro quadro riuscirà pallido e senza vita, posto a fronte di
quello lasciatoci dal Varchi nella sua storia, ricca di tanto colore e
di tanta azione. Se avessimo a dar un consiglio al nostro lettore gli
diremmo (tanto più s'egli è italiano) di leggerla da capo a fondo. Ma
se invece si trattasse di una lettrice? Chè anche le donne italiane
vorremmo sapesser le glorie della nostra comune patria per poterle
presto narrare a' loro bambini.... Come sperare che non si sbigottisse
al solo vedere quel grande in folio della bella edizione di Colonia,
con quella carta ingiallita, e la sua barbara ostinazione a non andar
mai a capo?
Alle nostre lettrici consacriamo dunque specialmente queste pagine, e
possa il nostro desiderio di risparmiare loro un po' di fatica e di
accender più viva la fiamma dell'amor patrio in cuori cotanto gentili,
dar potenza alla nostra penna e procacciarle favore.
A pochi giorni dopo l'inutile assalto dato dal principe d'Orange alle
mura di Firenze, la Lastra, forte castello, molto a proposito per
assicurare la strada d'Empoli, venne in potere degli imperiali, i quali
avuta la terra a patti che fosser salve l'avere e le persone, entrati
appena, scannarono il presidio, che s'era arditamente difeso a buona
guerra come chiedeva l'onore ed il servigio della città.
S'alzò in Firenze un grido d'indegnazione e di vendetta alla nuova
dell'atroce caso, e del danno sofferto; e la milizia, che ardeva di
venirne una volta a più stretto combattere, trovò il suo capitano
Stefano Colonna pronto a guidarla contro il nemico. Ordinò s'uscisse
una notte con circa mille fanti, armati quasi tutti d'arme in asta e
spadoni a due mani, con pochi archibusieri, avendo in animo di cader
inaspettati addosso agli imperiali e non combatter se non corpo a
corpo. Contenta la cosa con Malatesta, dapprima lo trovò contrario
al suo disegno. Voleva il traditore che la città si consumasse a
poco a poco negli stenti d'un lungo assedio, e queste ardite fazioni,
conoscendo egli l'ardore e l'animo di quelle milizie, gli facean temere
non riuscissero una volta a rompere il campo nemico. Per non iscoprir
troppo il suo disegno dovette nondimeno acconsentire.
La notte dell'11 dicembre, oscura e piovosa, uscì Stefano Colonna dal
bastione dietro S. Francesco, in mezzo alle sue lance spezzate con una
zagaglia in mano, avendo ad ogni soldato fatto mettere una camicia
sopra il corsaletto, affinchè si riconoscessero nell'oscurità. Come
avessero affrontato il nemico, dovevano uscire da varie porte altre
genti ad un cenno d'artiglieria dato da Mario Orsino dal bastione di
S. Francesco, e Malatesta s'era riserbato di sonare a raccolta con un
corno quando lo stimasse opportuno.
Assaltata improvvisamente la guardia del colonnello di Sciarra
Colonna a Santa Margherita a Montici, la misero in tanto disordine,
che dopo breve e mal composto combattere, e molta uccisione de'
nemici, li posero in rotta; e seguitando il loro vantaggio, pur
sempre combattendo, si spinsero innanzi, non più taciti e nascosti,
ma con alto fracasso di grida, di tamburi e di trombe, tantochè
levatosi tutto il campo a rumore ed in arme, correndo qua e là il
principe e gli altri capitani per riparare e far testa, e rannodare
i disordinati e i fuggiaschi, cominciarono gl'imperiali anch'essi a
combattere francamente. Parve tempo allora a Mario Orsino di dare il
cenno convenuto, e sparate due grosse artiglierie sboccarono dalle
circostanti porte le bande a ciò ordinate, e per più lati furiosamente
assaltarono il campo, tantochè il principe non sapendo ove volgersi,
chè da ogni parte si vedea venir addosso nuovi nemici, si gettava
ov'era più stretta la mischia, disperatamente combattendo, e fattosi
oramai morto e disfatto: e sicuramente la cosa sarebbe riuscita
com'egli s'aspettava, tanto mirabilmente la milizia fiorentina
stringeva le vecchie ed agguerrite bande tedesche e spagnuole, se
Malatesta, vedendosi a un pelo di perdere in un momento il frutto
de' suoi tradimenti, non avesse fatto rimbombare il suono del corno
(veramente allora sinistro e doloroso) che strappando la vittoria di
mano a que' prodi e generosi cittadini li chiamava a raccolta.
Si ritrassero sparsi ed a stento, e ritornarono con bell'ordine senza
venir seguiti o molestati dal nemico, al quale parea averne troppo
miglior mercato che non sperava.
Questa cotanto onorata fazione accrebbe animo grandissimo a' Fiorentini
e desiderio d'uscir di nuovo contro i nemici, e fece accorto Malatesta,
che cosa dovesse aspettarsi se non trovava modo d'attraversare ed
impedire appunto che uscissero. È cosa da non potersi credere, con
quanti pretesti, con quanti inganni e rigiri egli riuscisse sino
all'ultimo dell'assedio in questo suo scellerato proposito, in modo
che o la milizia non ottenne d'esser condotta a combattere, o se
l'ottenne, furono dal traditore ordinate le cose in modo, che senza
profitto si venisse consumando finchè la fame, le ferite e le morti
l'avesser ridotta a tale di poterne disporre com'era suo disegno.
È difficile concepire come i Fiorentini non s'avvedessero d'esser
venduti. Ma di cotali accecamenti è piena la storia de' popoli e de'
governi, e furon sempre precursori ed indizj della loro rovina.
Venuto intanto il tempo di raffermare o mutare il gonfaloniere, cadde
l'elezione su Raffaello Girolami invece del Carduccio, e fu l'ultimo
che sedesse in Palagio.
Le speranze de' soccorsi de' confederati s'andavan sempre più
dileguando, finchè s'estinsero del tutto. Francesco I, che per
iscusarsi di non ajutare i Fiorentini, aveva addotto il pretesto di
voler prima riavere i suoi figli rimasti statichi in Ispagna; riavuti
che gli ebbe non mutò proposito, ed abbandonando questi suoi alleati, i
più antichi e fedeli che avesse la corona di Francia in Italia, scrisse
a Stefano Colonna suo soldato, di partirsi da loro, e richiamò il suo
ambasciatore presso la repubblica, non curandosi di tal codardo operare
purchè si tenesse amico l'imperatore. Vecchia peste d'Italia, fidarsi
alle promesse di Francia o (per esser più veri) degli ambiziosi che se
la giuocano a palle.
Ma per trovar l'esempio di tale perfidia pur troppo non occorse questa
volta varcar l'Alpi.
I Veneziani anch'essi calpestando le promesse e i capitoli della Lega,
fecero soli accordo con Cesare, e venutane la nuova a Firenze, ove non
era sospetto veruno[49], i cittadini commossi gridavano per le piazze e
per le strade, _la loro essere stata lealtà veneziana_[50]; ma questi
nuovi ed inaspettati colpi della fortuna, non solo non raffreddarono il
proposito di difendersi de' Fiorentini, ma v'aggiunsero anzi l'impeto
d'un nuovo sdegno e del nobile orgoglio di bastar soli contro tanti
nemici.
Per contrastare all'estremo pericolo si risolsero partiti estremi, e
talvolta crudeli, come fu quello circa i beni de' Palleschi.
Vennero creati cinque ufficiali, detti Sindachi de' rubelli, e, vinta
una legge che sarebbe lungo riferire minutamente, ma che in sostanza
poneva la mani sui loro averi, accordando facoltà di venderli e persino
di costringere arbitrariamente i cittadini a farsene compratori, ove
non se ne fossero offerti spontaneamente; e, ciò che più ripugna ad
ogni giustizia, avendo anche effetto sulle cose passate, e potendosi
per essa, render nulli molti anteriori contratti ove paresser fittizj.
Legge barbara, è vero: ma, al cospetto della giustizia di Dio, chi
parrà più colpevole? il Papa che volea la rovina di Firenze, o'
Fiorentini che, ridotti all'ultima disperazione, non avean altra
alternativa fuorchè prender questi ingiusti partiti, o perire?
Ed alle insopportabili spese della guerra, neppur bastando codesta
provvisione, si dovette presto por mano agli ori ed agli argenti delle
chiese e de' privati, i quali con mirabil prontezza portarono il loro
vasellame; e le donne le collane, gli smanigli e i giojelli alla Zecca,
ove si coniò una nuova moneta del valore di mezzo ducato con suvvi il
giglio e le parole S. P. Q. F., e sul rovescio _Jesus Rex noster et
Deus noster_.
Nel donare ai bisogni della patria gli ori e gli argenti, si può
pensare se Niccolò rimanesse addietro dagli altri cittadini. Persin
l'urnetta che conteneva le ceneri del Savonarola! volle dar anche
quella, e le ceneri le raccolse diligentemente e le chiuse in una
delle borse di seta e d'oro ch'eran nel corredo di Laudomia, ch'ella
offrì volonterosa, e che si collocò nella nicchia ov'era dapprima il
cofanetto.
Par infiammar sempre più l'universale, e fargli parer men gravi tanti
sagrifizj, s'univano i conforti e le pompe della religione, non
restando i frati di S. Marco, il Fojano, ed il Fivizzano più degli
altri, di predicare nelle chiese e per le piazze, tenendo i modi, e
seguendo lo spirito del Savonarola, e le loro calde ed ispirate parole,
rese più valide dalla austerità del costume, che in essi splendeva
purissimo, non ebber poca parte nel forte e costante operare del popolo
di Firenze, e conoscendo codesti frati quanto possano le cose strane
e non aspettate, a commovere la moltitudine, usavano spesso atti
teatrali, come fu quello del Fojano, che orando in consiglio, dopo
una lunga e concitata diceria, fece comparire uno stendardo sul quale
era dipinto da un lato Cristo vittorioso con molti soldati abbattuti a
suoi piedi, e dall'altro la croce, e porgendolo al gonfaloniere finì
pronunziando le miracolose parole udite già da Costantino, e che gli
predicevano la vittoria.
L'impulso dato con questi mezzi a uomini già infiammati di libertà e
di gloria, si palesava non solo nelle fazioni ove molti concorrevano a
combattere, ma eziandio in onorati fatti di persone private.
Un soldato accortosi un giorno che i nemici facevan cattiva guardia ad
una trincera, si mosse solo dalle mura, ed arrampicatosi sul terrapieno
della medesima giunse a strappare un'insegna che v'era piantata
sull'alto, e fra una grandine d'archibusate potè tornare con essa
illeso fra suoi.
Lo spirito de' paladini dell'Ariosto, e de' molti romanzieri di
quell'età, appariva trasfuso ne' soldati d'ambe le parti, e partorì
disfide e duelli combattuti con tutte le formalità e le pompe
cavalleresche. Per un trombetto venuto dal campo, un gentiluomo de'
nemici fece offerire agli assediati la battaglia a cavallo, che venne
accettata dal capitano Primo da Siena.
Allo scontrarsi, questi ruppe la sua lancia sulla corazza
dell'avversario e con un'acuta scheggia del mozzicone rimastogli lo
ferì un poco in un braccio; mentre l'altro pose il ferro all'arcione
del nemico, e lo passò, benchè fosse ferrato, ma senza suo danno,
sfuggendogli per soprappiù la lancia di mano nell'urto, onde fu stimato
averne la peggio.
Ma d'assai maggior momento fu il duello tra Lodovico Martelli e
Giovanni Bandini, narrato dal Varchi colle più minute circostanze:
vorremmo poter trascrivere tutt'intera la descrizione, ma ci trattiene
la sua lunghezza[51], ed anco per non parere si voglia ingrossare
questo volume di cose già pubblicate.
Il fatto si può tuttavia ridurre in poche parole.
I due giovani sopraddetti, erano stati già un tempo rivali d'amore per
la Marietta de' Ricci moglie di Niccolò Benintendi, la quale pareva
favorisse il Bandini.
Trovandosi ora questi in campo, gli fu mandato dal rivale un cartello
per provargli ch'egli era traditore, poichè armata mano veniva contro
la patria. Si scusò il Bandini adducendo, che per visitare gli amici
v'era venuto, e non per combattere; ma non ammessa dall'avversario
la scusa, si stabilì venire alla prova dell'arme, e dal Bandini,
per purgarsi dalla taccia che gli veniva apposta d'esser più astuto
che animoso, fu scelto combattere senz'altre arme difensive che una
manopola di maglia nella destra, spada e pugnale.
Dante da Castiglione s'aggiunse al Martelli come secondo: e Bertino
Aldrovandi[52] al Bandini.
Combatterono a Baroncelli, ove in oggi è il Poggio Imperiale. Dante
d'una stoccata nella bocca uccise Bertino. Il Bandini ferì Lodovico
sulla fronte, d'onde il sangue che grondava, togliendogli la vista,
dovette arrendersi, e portato in Firenze, in breve, molto malcontento
della mal sostenuta impresa, uscì di vita.
Volto poi l'animo de' Fiorentini ad operazioni di maggior frutto, nè
potendo più Malatesta raffrenare la loro smania d'uscire contro il
nemico, ordinò di condurli dove fosse impossibile che facessero gran
frutto, e venissero invece esposti ai maggiori pericoli. Ottaviano
Signorelli, colle più animose e meglio ordinate bande, uscito di
Porta S. Pier Gattolini assaltò le trincere di M. Uliveto, difese da
Baracone alla testa delle migliori fanterie di Spagna, mentre da Porta
S. Friano, Bartolommeo dal Monte e Ridolfo d'Assisi conducevano altre
genti alle spalle degli inimici. Anche in quest'occasione la milizia
fiorentina si portò arditissimamente, e morto il capitano spagnuolo
sopraddetto, per poco non misero in rotta i migliori soldati che
fossero allora in Europa: ma ingrossando sempre più quei del campo per
gl'incessanti ajuti di genti fresche, mandate dal principe a riparare
le perdite sofferte, convenne alla fine alla milizia ritrarsi, e senza
confusione veruna ritornarono in città lasciando gran numero de'
loro sul campo, tra i quali Lodovico Macchiavelli, figlio del celebre
Niccolò.
Il cattivo esito di questa fazione servì a Malatesta per mostrare che
egli non avea il torto quando disapprovava che s'uscisse a combattere,
e non fu bastante ad aprir gli occhi a' Fiorentini sui suoi nascosti
disegni, chè anzi, mostrando egli grandissimo desiderio di ottenere il
grado di capitan generale delle milizie forestiere, del quale avea sin
allora esercitato l'ufficio, senza averne espressamente il titolo, la
Signoria si risolse contentarlo, non avendo potuto ottenere da Stefano
Colonna che per sè medesimo l'accettasse.
In presenza di tutto il popolo radunato in piazza, collocati in
ringhiera il Gonfaloniere colla Signoria fu dunque solennemente dato
a Malatesta il bastone di capitan generale. In segno di festa s'era
inghirlandato il marzocco posto sull'angolo di palazzo, e postagli
sul capo una corona d'oro. Ed il prelibato traditore, come il Butini
chiama piacevolmente Malatesta, riccamente vestito, e con una medaglia
nel berretto, sulla quale era scritto Libertas, disse una sua lunga
orazione per ringraziare il popolo, e profferirsi pronto a metter
la vita per difendere la sua libertà, con tutte le solite novellate
di giuramenti e di promesse, che hanno sempre ingannato e sempre
inganneranno la moltitudine.
Mentre questo traditore, conducendo, senza che se n'avvedessero, i
fiorentini alla mazza, otteneva cotali onori, altri traditori di più
basso stato eran in diversi modi perseguitati e puniti, chè d'ordinario
a' meno ribaldi tocca sopportar que' castighi, che i maggiori sanno con
più sottile astuzia evitare.
Ad alcuni capitani che si fuggiron di Firenze colle loro bande furon
poste addosso di grosse taglie, e contraffatta la loro persona con
fantocci di cenci, vennero impiccati per un piede alle forche sul
bastione di S. Miniato verso Giramonte alla vista de' nemici, ed un
cartello che avevano al collo mostrava in lettere da speziali, scritto
il nome di ognuno, per fuggitivo, ladro e traditore.
Andrea del Sarto li dipinse poi sulla facciata della Mercatanzia in
Condotta, quantunque desse voce che l'opera fosse di Bernardo del Buda
suo discepolo, per non acquistarsi nome di pittore d'impiccati.
Un frate di S. Francesco, Vittorio Franceschi, per soprannome fra
Rigolo, morì sulle forche per aver inchiodato artiglierie, e Lorenzo
Soderini, fece l'istessa fine, convinto d'essere spia di Baccio Valori.
Intanto la carestia, non ostante le cure e gli sforzi de' rettori,
andava sempre crescendo. Dopo aver ne' primi mesi consumato il grano e
l'altre biade buone da far pane si cominciò a macinar legumi, e beato
chi ne poteva avere.
E basti a dar un'idea de' prezzi cui eran salite le migliori grascie,
il dire, che la carne de' cavalli ammazzati nelle scaramucce si
vendeva due grossoni la libbra, quella d'asino un carlino, un gatto
quaranta soldi, ed un topo un giulio, e finito l'assedio pochi ve ne
rimasero.
Sul primo la difficoltà delle vettovaglie non era molta, chè dai
contadini n'eran portate in città di continuo, allettati da' grossi
guadagni che vi trovavano, ed essendo la città rimasta aperta per
molti mesi dalla banda di Fiesole. Ma quando un corpo di Tedeschi
ebbe occupato S. Donato in Polverose, tennero cura grandissima che
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