Niccolò de' Lapi; ovvero, i Palleschi e i Piagnoni - 07

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a quell'influsso col quale le stelle, o vogliam dire i pianeti, dan
norma sin dal suo nascere, e conducono con immutabil legge gli atti e
le operazioni della vita sua.... ovvero, come insegnano i filosofi ed
i fisici, non potersi cavar buon frutto dal legare a un giogo le tigri
cogli agnelli, chè ogni animale ha a fare il verso suo, e non è se non
stoltezza grandissima il voler ch'egli vada contro la sua natura, e chi
l'intende altrimenti, come dicon gli uomini volgari, dà a guardar la
lattuga al papero.... e per questo, com'io dicevo,.... son venuto....
perchè conoscendomi ancora molto atto, per amore della robusta
complessione mia, ad esercitare quest'arte per la quale sola m'hanno
inclinato i cieli, e visto il bisogno che in queste strettezze può
avere questa città, d'uomini che conoscano la nostra professione,....
che di detta professione se ne troverà talvolta di più esperti che
non son io, ma non mai chi l'abbia esercitata con maggior fede.... e
forse s'io non temessi di darvi noja potrei anche mostrarvi che quanto
all'esperienza.... e vi potrei narrare....--
Malatesta dava retta a Fanfulla, e l'avea fatto passare prima di
molt'altri, in grazia dell'abito di S. Marco che avea indosso, chè
allora in Firenze bisognava aver molti rispetti a questo convento; ma
vistolo poi con quel viso che a dir il vero aveva un po' del pazzo, ed
accorgendosi da quella sua strana filastrocca ch'egli doveva averne
qualche ramo, non ebbe tanta pazienza che lo lasciasse venir alla
conclusione, e, per levarselo dinanzi, gli tagliò la parola dicendogli,
con voce nella quale era minor cortesia di quel che fosse nelle
espressioni:
--Per esser voi di S. Marco, ed anche per la persona vostra, farò molto
volentieri ove possa.... quando però sappia quello che volete.... qual
è questa vostr'arte? che ancora me l'avete a dire.... forse siete il
padre cerusico del convento, e volete adoprarvi pe' nostri feriti?....
Ve ne saprò il buon grado....--
Fanfulla mezzo in collera disse tra denti:
--Oggi è il giorno che nessuno m'ha ad intendere.--
Poi ad alta voce:
--Io vi servirò molto bene, se voi volete, a darne delle ferite, e non
a medicarle... e, per finirla in una parola, sappia la V. Magnif: ch'io
son Fra Giorgio da Lodi adesso, ma una volta ero Fanfulla da Lodi, e
son per ridiventarlo quando che sia, basta che la medesima si voglia
servir di me, e spero di farle vedere, che due anni di convento non
m'hanno tanto mutato ch'io non sia ancor buono da qualcosa.... ed ecco
qui (traendosi di petto un foglio) ecco l'attestato del sig. Prospero
Colonna.... e poi credo che la V. Magnificenza non mi senta mentovare
per la prima volta.--
Esclamò ridendo Malatesta:
--Oh impiccato, chè nol dicesti al primo tratto senza avvilupparmi
la Spagna con tante novellate di fisici e d'astrologi, che mi parevi
un predicatore. Oh quand'è così, e che l'animo tuo sia riprender la
lancia, io molto volentieri t'accetto, e t'adoprerò... e, a pensarla
bene, credo abbi ragione, chè dovrai, da quel che ho udito, riuscir
meglio per uomo d'arme che per predicatore.--
Letto poi il benservito di Prospero Colonna, disse restituendoglielo:
--E' non bisogna... chè senza questo già mi sapevo che sei un
valentuomo.--
Malatesta mosso dalla novità del caso, volle però conoscere per quali
accidenti un così rinomato soldato fosse andato a finir frate, e
Fanfulla molto volentieri gli soddisfece. Udito ch'egli ebbe il tutto,
si volse ad Amico d'Arsoli capo d'una delle bande di cavalli ch'erano
a servigi de' Fiorentini, e che si trovava costì con altri ufiziali,
dicendogli:
--In mio servigio, sarete contento torre costui nella compagnia.... Ma
a proposito, dico io.... Fanfulla, come si sta ad arnese ed a cavallo
soprattutto? che non vorrai cominciar ora a far il mestiere a piede,
suppongo.--
--In arme, rispose Fanfulla, sto bene.... quanto poi al cavallo, a dir
il vero è un po' sulle spalle, ma se piacerà a Dio potrà accadere,
vedendoci in viso con uno di questi tedeschi di fuori, ch'io me ne
procacci uno migliore, e glielo paghi col ferro della lancia.--
--Al nome di Dio, rispose Malatesta. A ogni modo avrai una paga subito,
se mai t'occorresse pe' tuoi bisogni: ora va, prendi le tue armi, e
torna, che presto darò da fare a ciascuno.--
Fanfulla uscì che non capiva nella pelle per l'allegrezza, ed in un
lampo fu in convento.
Colà era già sparza la voce che Fra Bombarda, come lo chiamavano, se
n'andava, e sapendone tutti anche la cagione, molti frati, e laici
eran pel chiostro curiosi di vederlo partire trasformato in uomo
d'arme. Esso appena giunto avea sellato e condotto in cortile il
suo cavallo: salito poscia in cella, s'era messe indosso ed accanto
le sue armi, e sulla corazza a guisa di sopravvesta, la pazienza di
saja nera dell'ordine di S. Domenico che la cintura della spada gli
teneva ristretta alla vita. Per conservar del frate quanto potesse,
tolse inoltre la corona, e l'appese ad un suo grandissimo pugnale che
portava dal destro lato, ed in quest'ordine s'avviò alla cella di Fra
Benedetto, chè non gli parve onesto partirsi senza toglier commiato.
Udite modestamente le sue ultime ammonizioni, e baciatagli la mano
scese in cortile ove trovò i frati che l'aspettavano per dargli la ben
andata. Dopo aver salutato gli uni, abbracciato gli altri e stretta la
mano a parecchi (questi non furono i più fortunati; tra ch'egli era
gagliardo, e tra ch'egli aveva il guanto di ferro, fu lo stesso diletto
che sentirsi prender le dita da una tanaglia) si dispose a salire in
sella.
Ma s'egli avea sperato che anche al cavallo fossero tornati gli
spiriti marziali, dovette presto accorgersi che avea fatto torto alla
sua costanza.
Anticamente, non c'era verso di tenerlo fermo alla staffa, ed appena
sentiva l'uomo in sella, partiva come uno strale. Ora in vece lasciò
che il suo signore salisse molto a suo bell'agio, senza far altro moto
che piegarsi tutto sul lato manco ove sentiva il peso. Vi volle un
pajo di discrete spronate per farlo muovere, e ve ne vollero delle più
gagliarde, affinchè s'avviasse al portone che mette in Piazza, invece
di avviarsi alla stalla, come procurava ostinatamente di fare malgrado
la briglia che gli torceva il capo alla parte opposta. Pure, come a Dio
piacque, dagli, ridagli, tira, alla fine infilò l'androne ed andò al
suo cammino, mentre Fanfulla, non restando di punzecchiare, s'andava
volgendo salutato, e salutando, finchè potè vedere ed esser veduto.
Pochi giorni dopo, circa alle 6 ore di notte, egli girava per Firenze
alla testa di sei alabardieri, cercando e ricercando tutte le strade e
tutti i chiassi del quartiere di s. Giovanni, e facendo ciò che ora si
direbbe la pattuglia o la ronda, e che allora veniva detta la scolta.
Era un tempaccio rotto, come spesso ne porta il novembre a Firenze;
freddo, vento, ed acqua a catinelle. Fanfulla non se ne curava; e, per
intrattenere la sua brigata, che era di soldati giovani di nuova leva,
(anche pensando d'esser egli cagione che facessero un po' di bene)
faceva dir loro la corona così strada facendo. Egli innanzi il primo, e
gli altri dietro alla sfilata muro muro per bagnarsi meno.
Non creda però il lettore che i soldati d'allora fossero altrettanti
cappuccini, poichè nemmeno i compagni di Fanfulla non pregavano se non
pel timore del manico d'un gran partigianone ch'egli aveva in ispalla
col quale avea già fatto l'atto di voler spolverare le spalle d'uno di
loro che s'era immaginato di far _l'ésprit fort_.
Persuasi dunque da quest'argomento che, se le regole della
versificazione l'avessero permesso, si poteva benissimo includere cogli
altri in quel bel verso de' trattati di logica
_Barbara, celarent, dario, ferio, baralipton_
camminavano già da un'ora con quel diletto che conosce chi ha dovuto
talvolta portar il nome in una brutta nottata d'inverno a sette o otto
corpi di guardia.
Alla fine voltando la cantonata d'Or S. Michele per andar in porta
Rossa, videro, al lume di un torchio che avean con loro, come un
viluppo di panni in terra vicino al muro; perchè accostatisi e
considerato attentamente s'accorsero che era una donna accovacciata:
per difendersi dall'acqua s'era tirati i panni in capo, e a veder
com'era tutta inzuppata e lorda di fango si capiva che doveva essere
costì da un pezzo. Se fosse stata a giacere si sarebbe potuto
sospettarla vittima di qualche violenza, ma era seduta.
--Che diavolo.... che domin sarà--disse Fanfulla fermatosi co' suoi
uomini a considerarla.
--Qualche pazza fuggita--disse uno.
--Pare una figura dell'inferno di Dante--disse un altro che voleva far
il letterato.
--Fosse la notte di S. Giovanni, soggiunse un terzo, si potrebbe
credere fosse... avesse a essere...--
--Sì proprio! una strega! rispose sorridendo con disprezzo _l'ésprit
fort_ della compagnia, non vedi che non ha il piede di capra!......
ignorante che tu se'!--
--Vediamo insomma--disse Fanfulla, e fattosele dappresso le diceva:
--Quella giovane!... Ohe, quella giovane, quella donna! dico a voi!
Ohe.--
Ma l'altra non si movea. Ripetè ancora due o tre volte la sua chiamata,
poi, sollevando i panni che la nascondevano, la prese pel braccio, la
scosse, ed essa alzando allora lentamente il capo mostrò un viso che si
capiva dover essere stato bello; ma in quel momento appariva affilato
e livido come quello d'un cadavere. Gli occhi spalancati, ma stravolti
e spenti, s'affissavano sugli astanti senza mostrar di vedere. In
grembo aveva un bambino di poco tempo tutto ravviluppato in una coperta
di lana; dormiva riposato, con certe gote tonde tonde tutte latte e
sangue, perchè la madre facendogli tetto colle braccia e col capo, era
riuscita a difenderlo dall'acqua e dal freddo.
Tutto a un tratto la meschina, come svegliandosi e riscotendosi da quel
torpore, si scosse, ed il primo moto fu stringersi al petto il bambino,
ricoprendolo colle mani e co' panni, mentre Fanfulla le diceva:
--Oh! che domin fate voi qui a quest'ora, a codesto modo? Animo, su,
alzatevi.... che è stato? che v'è succeduto?.... diteci dove state di
casa, vi ci meneremo....--
--Dove sto di casa? soggiunse la giovane dando in uno scoppio di
pianto, io non ho più casa.... eccola, casa mia è questo fango....
questo è il mio tetto... la culla di questo povero figlio mio
sventurato.--E così dicendo stampava sulla bocca al fanciullo certi
baci disperati che lo destarono; e svegliarsi e cacciarsi a piangere fu
tutt'uno.
--Bel gusto di svegliare e far piangere quel povero innocente, che non
ci ha che far niente, disse Fanfulla, che alla fine aveva poi buon
cuore, come l'hanno in genere tutti gli uomini valorosi, ed un po'
latini di mano, per un curioso capriccio della umana natura.
--Ma non avete parenti, marito, padre... madre almeno?.... male che
vada, madre se non altro l'abbiamo tutti.--
E la donna piangeva sempre più forte senza dar altra risposta.
--Oh insomma, disse Fanfulla, qui ci vuol altro che piangere e
disperarsi; è notte, piove, e fa freddo, e questo fanciullo non sarebbe
mai vivo domattina, onde levatevi di qui; al coperto intenderemo il
fatto.... andiamo.--
E con amorevoli parole, usando così pure un poco di forza, sollevò
di terra la donna, e s'avviò con essa a lento passo non restando di
reggerla e confortarla, e portandole alla fine anche il bambino, che
faceva un bel vedere in collo a Fanfulla, finchè l'ebbe condotta al
palazzo de' Signori nelle camere terrene, occupate dalla guardia del
portone, ove almeno non piovea, e v'era anche acceso un buon fuoco.
Colà appoco appoco, rasciutta e ristorata alquanto, cominciò la donna
a parlare. Sul primo stava come in sospetto, vedendosi attorno molti
soldati che la consideravano senza cerimonie, nè tralasciando pur anche
ognuno di dir ciò che gli veniva bene sul fatto di essa: ma Fanfulla,
accortosi che quell'investigazione e que' discorsi l'offendevano, li
fece ritrarre in una stanza vicina, parte con buone parole, parte
mostrando di adirarsi, e di voler usare quel tal argomento, accennato
di sopra, che i maestri di logica hanno scordato di mentovare.
Non sapeva perchè, ma sentiva premura per quella sconosciuta, e non
è cosa che non avesse fatto per farle piacere: la donna anch'essa,
rassicurata un poco e rincorata dal buon cuore che traspariva dai
modi un po' ruvidi, è vero, ma pure amorevoli del vecchio soldato, si
lasciò persuadere ad aprirsi a lui, e raccontargli le sue vicende. Ma
considerando che questo racconto riuscirebbe per avventura interrotto
e mal connesso, quale si dovrebbe aspettare da una persona posta in
tanta agitazione d'animo, e confusione di pensieri, crediamo bene di
tralasciarlo: essendo però necessario che il lettore sappia chi era
costei, e conosca i suoi casi, ci giova per questo riprender le cose
indietro un po' alla lontana, e riferir molti particolari appartenenti
alla famiglia di Niccolò, ai quali non abbiam fin ora saputo trovar
luogo nel nostro racconto.


CAPITOLO VIII.

In faccia alla porticciuola di fianco di S. Maria Maggiore si vede
ora una casa dell'architettura insipida e senza carattere del secolo
XVIII, che dopo essere stata la locanda dell'Aquila nera, vien detta
in oggi la nuova York. In quest'area medesima, occupata prima dal
Seminario, ed in parte, più anticamente, dalla casa de' Cerretani, era,
all'epoca di cui scriviamo, la casa di Niccolò, fabbricata dal tre al
quattrocento, e simile ad alcune di quel tempo che ancora rimangono in
Firenze. Dio voglia conservarla un pezzo, o liberarla da un padron di
casa di que' tali che, per aumentar le pigioni, d'una camera ne fanno
quattro, apron finestre, danno il bianco alle facciate.... ma lasciamo
questo discorso, che è un brutto combattere e parlar di gusto, di
memorie, d'architettura, con chi risponde quattrini.
La casa ove abitava la famiglia de' Lapi (divisa da' Carnesecchi dalla
via de' Conti) era quadra, soda, massiccia, a tre piani, con un bugnato
sino al primo di pietre scarpellate ed annerite dal tempo; le mura al
disopra tutte piene di rabeschi a graffito, ed in cima affatto una
loggia retta da colonnette sottili. Il tetto sporgeva innanzi di molte
braccia, e le travi dell'incavallatura che lo reggevano, prolungandosi
fuori del muro, mostravano a guisa di gran mensoloni ornati alla
grossa di qualche intaglio. Le finestre del pian terreno, forse un
po' troppo a portata di chi era in istrada, eran munite da grosse
ferriate, sott'esse una panca di sasso quant'era larga la facciata, ed
in questa, all'altezza di dieci braccia, eran commesse tra le bugne
spranghe di ferro lunghe tre palmi, ripiegate all'insù, con un bocchino
in cima ove si piantavan, in occasione di feste, torchj o stendardi, e
dalle quali pendeva un grandissimo anello: sull'angolo poi del palazzo
era, all'altezza medesima, uno di que' lampioni pure di ferro, quali
ancora si vedono sugli angoli del palazzo Strozzi, opera del Caparra.
Al portone posto nel mezzo, si picchiava con due campanelle di bronzo
grandissime che pendevan dalla bocca di due maschere di leoni: ed a
veder come le imposte eran per tutto afforzate di chiodi e di lastre,
nasceva l'idea, che per i ladri una visita in quella casa non sarebbe
stato tempo perduto.
Entrando si trovava un androne la cui volta era a scompartimenti a buon
fresco, e che metteva in un cortile quadrato, intorno al quale, sotto
un atrio arioso e ben disposto, si vedean molte storie pure a fresco,
dell'epoca e della scuola di Masaccio. A metà dell'androne sopraddetto,
due porte davano adito al terreno. Quella a mano manca conduceva a
quattro sale ove Niccolò avea il fondaco, lo scrittojo, e v'attendeva
co' suoi giovani alle faccende mercantili: l'altra a destra serviva
d'ingresso al suo quartiere, che avea prescelto dacchè la vecchiaja,
benchè verde, gli avea però reso grave il disagio di far le scale. Il
primo piano era occupato dai figli: l'ultimo dalle figliuole e dalle
donne, che venivano così ad esser in luogo più guardato, e divise
affatto dal resto della casa.
La camera del vecchio (e dagliela con le descrizioni! dirà il
lettore.... ma come si fa a dipingere un gruppo di figure se non si fa
loro un po' di campo?) la sua camera dunque era in tutto appropriata
a chi l'abitava, cioè di stile grave e severo. Tesa d'un panno
d'arazzo di Fiandra, che rappresentava varj fatti della Bibbia, con
un soffitto di legno oscuro, a larghi cassettoni; non conteneva che
questo poco mobile; un letto di noce lucido, la cui camerella quadra
di sciamito pavonazzo, era portata da quattro colonnette piantate su
un soppidiano che a guisa di zoccolo o basamento circondava il letto
e serviva a salirvi: due cassoni di legno tutti intagliati a mezzo
rilievo (la moglie di Niccolò gli aveva recati in casa quando v'era
venuta sposa, e secondo l'uso d'allora, contenevano il corredo,) infine
molti seggioloni a bracciuoli di cuojo pavonazzo, fermato con borchie
d'ottone.
Accanto al letto era una nicchia nel muro alta quattro braccia dal
pavimento, nella quale stava appiccata una tonaca da domenicano;
sott'essa un'urna d'argento a modo d'un cofanetto, ed una lampada
appesa con una catena al soffitto le ardeva davanti. La tonaca era
l'ultima che avea portata fra Girolamo Savonarola (il cui ritratto si
vedeva attaccato alla parete vicina, chiuso in una cornice d'ebano) ed
era quella che gli avean tratto di dosso all'atto del suo supplizio:
l'urna conteneva le ceneri del rogo sul quale era stato arso, e
queste cose che Niccolò teneva quali reliquie d'un martire, e come
memorie d'un maestro e d'un amico, erano da lui guardate con tenera ed
altissima venerazione.
Pochi giorni dopo l'esequie di Baccio, egli era seduto dopo cena, ove
solea porsi sull'imbrunire, sotto la cappa d'un gran cammino, nel quale
ardeva un buon fuoco: avea intorno tutti i suoi di casa, ed alcuni
degli uomini che allora più potevano in Firenze, i quali spesso si
trovavan quivi insieme a veglia; non che Niccolò fosse allora d'alcun
magistrato, ma soltanto per l'affetto che gli portavano, pel molto
conto in che tenevano la sua pratica nelle cose di stato, e per la sua
autorità nella parte de' Piagnoni della quale potea dirsi l'anima ed il
capo.
V'era Bernardo da Castiglione, padre di Dante, odiatore ferocissimo
del nome Pallesco, ed uno dei più riputati della sua parte, quella de'
popolani, che volevano la più estesa democrazia, avversi perciò alla
setta degli Ottimati, della quale, come dicemmo, era stato capo il
gonfaloniere Niccolò Capponi.
V'eran due frati Domenicani, Fra Benedetto da Faenza, che abbiamo
trovato superiore di S. Marco, grandissimo uomo dabbene, e di assai
vaste cognizioni, sia nelle materie teologiche, sia nelle lettere
latine e greche; ma di natura troppo mite per quei tempi d'arditi e
tremendi consigli: e Fra Zaccaria da Fivizzano di S. Maria Novella,
predicatore facondo ed agitatore bollente del popolo, che era da lui
infiammato alla libertà coll'eloquenza incalzante e fatidica del
Savonarola.
V'era Francesco Ferruccio di mercante divenuto soldato, uomo che
si potea dir di ferro schietto anima e corpo; di que' tali che si
uccidono, ma non si vincono, nè si piegan giammai: di quelli che bastan
talvolta essi soli a ritardar la rovina degli stati; intrepido soldato,
capitano avveduto, fortunato nelle fazioni, rigido per la disciplina
ed inflessibile co' soldati, che ciò non ostante l'amavano, perchè lo
conoscevano al tempo stesso giusto e liberale. Caldo ammiratore de'
modi e della scuola di Giovanni de' Medici, capo delle bande Nere,
ch'egli studiava d'imitare, onde si diceva tra suoi ch'egli volesse
far troppo del sig. Giovanni; macchiò, dobbiam dirlo, tante virtù, con
qualche atto crudele; ma pensiamo ch'egli viveva nel secolo XVI, che
amava la sua patria, e che dovette vederne l'agonia lunga e dolorosa, e
prevederne l'inevitabil rovina!
Bernardo seduto accanto a Niccolò parlava seco sommésso, e pareva aver
appiccato ragionamento d'importanza. Fra Benedetto soprappensieri,
voltando al fuoco ora la palma ora il dosso della mano, veniva
appresso, ed alla sua destra, seguendo il semicerchio intorno al
cammino, era Fra Zaccaria, che fissando in alto due occhi neri tagliati
come quelli del Giove Olimpico di Fidia, si teneva la barba folta e
lunga colla mossa fiera ed ispirata del Mosè di Michelangelo. Francesco
Ferruccio, ritto nel mezzo, voltava la schiena al fuoco, e la sua ombra
vacillante a seconda della fiamma era portata sulla parete dirimpetto,
ove disegnava in dimensioni gigantesche l'alta e robusta sua figura.
Intorno, per la camera buttati sui seggioloni, e stanchi delle fatiche
del giorno, stavano Averardo e Vieri, figli di Niccolò, armati di loro
corsaletti. Bindo stava ritto accanto ad un desco ove Lisa e Laudomia
attendevano a preparare sfili e cucir fascie pei feriti: egli teneva
fra le mani un suo elmetto che aveva finito di forbire, e pur guardando
sott'occhio se il padre gli badasse, pregava sommesso Laudomia gli
trovasse un pajo di penne per farsene un cimiero. La giovane scrollando
il capo con un mesto sorriso gli accennava di tacere. Forse la vista
della buona spada di Baccio, al fianco del fanciullo, le rammentava il
fratello ucciso: forse l'occupavano pensieri ancor più angosciosi e
pungenti della mal consigliata ed infelice sorella.
Lisa era minore d'un anno, ne avea diciotto, ambedue potean dirsi
belle; ma all'aspetto ognuno avrebbe tenuto Laudomia per la più
giovane. Sul suo viso onesto e malinconico, nel muover tardo e soave
delle sue pupille azzurre, e fin nella voce e nell'atteggiarsi,
splendeva quel non so che virgineo ed illibato, che ogni occhio
discerne, ogni cuor sente, ed è pur impossibile definire: che
senza esser proprio d'un'età più che d'un'altra, senza appartenere
esclusivamente a nessuno stato, orna sovente il volto d'una madre di
molti figli, e si desidera indarno su quello d'una fanciulla: quel non
so che (se ardissi dirlo) che pare la beltà dell'anima trasparente
sotto il velo corporeo; che essendo cosa affatto distinta dalla
bellezza, però sempre o la rende irresistibile e divina, o la compensa
con usura: quello finalmente, che vendica persino gli oltraggi della
fortuna, facendo onorata ed augusta la povertà umile ed oscura.
Quest'aureola d'un'anima non mai contaminata da un pensiero di colpa,
facea del volto di Laudomia un volto d'angiolo; nè la sua vita era
stata punto difforme da ciò che mostrava il suo aspetto. Rimasta
a quindici anni orfana della madre, avea con prematuro giudicio
conosciuto, che a lei stava farne le veci colla sorella, e n'aveva
assunto, e mantenuto già molti anni l'impegno. Pel resto della famiglia
era si può dire il perno sul quale s'aggirava la somma delle cure
domestiche. Se poi v'era in casa qualche parola dispiacevole, Laudomia
con un motto detto accortamente, e a tempo, l'acchetava o la volgeva
in riso; chi aveva un affanno lo confidava a lei, che con que' suoi
modi amorosi pareva tosto lo facesse suo, dolendosi coll'afflitto,
ma trovandogli però sempre qualche ripiego o qualche consolazione.
Se v'era nulla da risolvere d'importante Niccolò sentiva lei più
d'ogn'altro, ed essa con parlar timido e diffidente di se, ma con
giudicio sicuro, quasi sempre s'apponeva nell'indicare il partito
migliore. Insomma e tra suoi, e fuori tra gli amici ed i vicini non era
detta altrimenti che _l'Angelo de' Lapi_.
Circa un pajo d'anni prima d'ora avea notato spesse volte un giovane
vestito alla foggia de' gentiluomini, che passava quasi ogni giorno
sotto le finestre di casa ora solo ora con suoi amici, spesso ancora
su un suo bel giannetto col quale si maneggiava mirabilmente, e le
era venuto detto colla Lisa che le sedeva accanto lavorando, _Che bel
giovane_, ma senza pensar più in là e come avrebbe detto _che bel
fiore_; ed ogni qualvolta veniva a passare, lo guardava con piacere e
senza sospetto come avrebbe guardata una giovane di consimili bellezze.
Un giorno i Magnifici Alessandro ed Ippolito de' Medici cavalcando per
la città capitarono sotto casa i Lapi, e le due sorelle videro con
qualche maraviglia quel giovane andare a paro con loro. Tutti e tre a
un punto alzarono il capo affissandole; poi quando furon passati, or
l'uno or l'altro si volgeva e ridevan tra loro.
Laudomia che s'era affacciata si ritrasse indietro e per la prima volta
arrossì: le parve quelle risa l'offendessero, e provava quasi un senso
d'umiliazione e di rimorso senza saper perchè. In ogni modo, docile a
quella interna misteriosa voce che per le giovani è pur guida saggia e
sicura quanto l'esperienza, e vien detta il Pudore, d'allora in poi,
quando venivano a passar cavalli, non s'affacciò e non guardò più in
istrada.
Ma la povera Lisa benchè ammonita dalla sorella a far lo stesso,
testina com'era, fece pur troppo altrimenti. La prima volta aveva come
Laudomia guardato il bel giovane; in appresso, senza volerle dar retta,
quando sentiva nascer lontano lo strepito del cavallo sul lastrico
abbassava il capo, arrossiva, e fattasi alla finestra pareva guardasse
tutt'altro, lasciando però cader l'occhio tratto tratto sul cavaliere
che passava.
La buona Laudomia non penò un pezzo ad avvedersi di ciò che v'era
sotto: ne toccò leggermente con poche parole la sorella, che se l'ebbe
quasi per male negando risolutamente: ma il suo viso era divenuto come
una vampa di fuoco. Laudomia conobbe come stava la cosa e tacque.
Ben sapeva che aveva un capo da non guidarsi con un fil di seta.
Difatti il cuor della Lisa era buono, l'animo generoso e leale, ma la
madre, che la teneva un portento e si struggeva di qualunque cosa le
venisse fatta o detta, non avea conosciuto, o troppo tardi, quanto
funesto sia quell'amore, che per risparmiare qualche lagrimetta ad una
fanciulla, trascura d'avvezzarla a non creder che ogni cosa ed ognuno
debba sempre piegarsi alle sue voglie. Usa a volere fin da piccina,
non potea patire che non le si andasse a versi: usa alle lodi, (e
potean dirsi adulazioni) della madre, ogni minima correzione che altri
s'attentasse a farle, stimava nascesse da malevolenza; e dove una
direzione saggia ed autorevole avrebbe potuto renderla donna d'alto
pensare, e d'animo costante, lasciata in balìa di se stessa s'era fatta
piuttosto altera ed ostinata.
Intanto da quelle prime parole in poi dette da Laudomia alla sorella
sul fatto del giovane, mai più erano entrate su questo proposito. E
siccome fra due persone che sogliono dirsi scambievolmente ogni loro
pensiero, nulla tanto genera freddezza, quanto l'avere una corda che
da ambedue si sa non doversi toccare, così era nata tra loro, non
dirò ruggine precisamente, ma insomma ognuna non vedeva più l'altra
coll'occhio di prima.
Laudomia sapeva troppo che parlare alla sorella del suo amore
(quantunque inesperta s'avvedeva bene che amore doveva chiamarlo) e
non mostrarsele favorevole, era andar a rischio senz'altro frutto,
d'allontanarsela affatto. Parlar contro coscienza e lusingarla, non
era capace d'averne neppure il pensiero; onde taceva e badava a pregar
Iddio la salvasse da tanto pericolo.
Ma ogni giorno più s'andava avvedendo che le sue preghiere non eran
esaudite, e che il cuor della Lisa diveniva sempre più infermo. La
vedeva a mano a mano venirsi cambiando ne' modi e nell'aspetto, e
trascurare ciò che sin allora le era piaciuto: certi bei fiori che
teneva sul terrazzo dell'ultimo piano e de' quali, coltivandoli di
sua mano, avea preso sempre grandissimo piacere, appassivano per non
venir annaffiati. Un piccolo uccellino che era il suo caro ebbe quasi
a morire, che per due giorni era rimasto senza panico. E ciò, che più
di tutto rammaricava la Laudomia, la vedeva trascurare gli atti della
religione, o andar molto rimessa nel modo d'adempierli. Ognuna di
queste osservazioni era una puntura al cuore dell'ottima Laudomia.
Venne intanto il giorno di Calendi-maggio, festa che si celebrava in
Firenze dalle Potenze e dalle giovani specialmente con balli ed altri
spassi; e vestite de' migliori panni, incoronate di fiori, concorrevano
a veder giostrare, correre la chintana, o far al calcio. Lisa e
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