Niccolò de' Lapi; ovvero, i Palleschi e i Piagnoni - 05

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secondo la stima.
I borghi erano in quel tempo quasi altrettante città, il contado pieno
per tutto di case, di ville, di palazzi, con orti e giardini, più ricco
e meglio ornato che paese del mondo. Non è possibile immaginare il
danno che risultò sì al pubblico che ai privati da questa distruzione
nella quale vi ebbero famiglie peggiorate più che di ventimila fiorini.
Ma i cittadini non guardando nè a danari nè a possessioni accolsero
animosamente la provvisione ed uscendo a frotta giovani, vecchi, ricchi
e poveri ed i padroni istessi andavano a questa o a quella villa, e
non solo rovinavan le case, ma guastavan gli orti ed i giardini, le
fontane, i vivaj ed abbattendo colle scuri gli alberi fruttiferi, o
di bellezza, sbarbando viti, ulivi, cedri, melaranci, tornavano a
Firenze con muli ed asini carichi di fascine che si adoperavano poi
nell'innalzare i bastioni.
Gli edificj di maggior solidità si rovinavano con un istrumento fatto a
guisa d'ariete: era una trave che retta orizzontalmente in bilico colle
funi veniva dimenata e spinta con grandissima forza da molti uomini, i
quali battendo con essa a furore, inanimando l'un l'altro colle voci e
colle grida mandavano a terra lunghi tratti di muro.
Il volgo dava a quest'ordigno un nome che non ci è lecito porre
sott'occhio al lettore; in altro modo era detto Battitojo.
Accadde nel corso di queste devastazioni un fatto che mostra, quanto
dagli uomini di quel secolo fossero tenute in pregio le arti.
Una turba di cittadini, soldati e contadini, avean gettato a terra
con una di quelle macchine buona parte della chiesa e del convento
di S. Salvi. Giunti colla rovina in luogo d'onde si scoperse loro il
refettorio nel quale era dipinto il Cenacolo, opera di Andrea del
Sarto, ad un tratto tutti quanti si fermarono quasi fossero loro
cadute le braccia: nè bastando l'animo ad alcuno di metter le mani su
quell'opera maravigliosa lasciarono in piedi quel pezzo di muro e la
pittura rimase intera.
Il palazzo di Jacopo Salviati, la villa di Careggi di casa Medici
vennero arsi da una brigata di giovani guidati da Dante e Lorenzo
Da Castiglione, de' più fieri nemici che avesse questa famiglia. A
Castello ed a Poggio a Cajano per poco non toccava la stessa sorte.
Queste arsioni però non essendo fatte in servigio della città ma
soltanto per isfogar l'odio contro i nemici, vennero biasimate dagli
uomini gravi, ed il gonfaloniere Carduccio diede commissione onde
ne fossero castigati gli autori. Ma il tempo non comportava troppa
severità contro tali insolenze, e la commissione non ebbe effetto.
Il principe d'Orange vicerè di Napoli aveva frattanto ricevuto l'ordine
dall'Imperatore di mettere insieme le genti e muoverle contro lo stato
fiorentino ad ogni richiesta del papa. Giunse il vicerè a Roma agli
ultimi di luglio con cento cavalli e mille archibusieri, e s'alloggiò
in Borgo nel palazzo Salviati.
Venuto a parlamento con S. S. vi fu molto che fare prima che si
mettessero d'accordo.
Al papa, di natura stretto e sospettoso, parea fatica lo spendere
e l'anticipar sussidj; il principe vicerè, persona altiera, non
potea patire che si procedesse con tanta miseria in un'impresa così
importante. Convennero finalmente nelle somme da sborsarsi dalla Camera
Apostolica, ed il principe andò all'Aquila ove era rimasto l'esercito
guidato da Gian d'Urbino, per farlo muovere verso Fuligno ove si dovea
far la massa.
In questo tempo Roma commossa dagli apparecchi d'una tal guerra
s'andava empiendo di genti d'arme. Spagnuoli, Tedeschi ed Italiani,
soldati di ventura, s'arruolavano a torme tratti dalla cupidigia di
saccheggiar Firenze. Si tenevano tanto sicuri del fatto (e seguitiamo
a lodare il buon tempo antico!) che v'ebbe di quelli i quali essendo
citati in giudizio, e dubitando per questo ritardo di non giungere in
tempo, protestarono agli avversarj loro pei danni ed interessi del non
trovarsi al sacco di Firenze.
Il papa sentendosi offeso perchè la repubblica avea mandati
ambasciatori all'Imperatore e non a lui, si mostrava tanto infiammato
a volersi vendicare che non v'era chi ardisse tentar di placarlo.
Due soli cittadini fiorentini, Jacopo Salviati e Roberto Pucci, gli
parlarono a viso aperto, facendogli considerare a quanto rischio
mettesse la sua patria, ed a quanta infamia esponesse se stesso.
Ma Clemente s'era fatto a credere che i Fiorentini fossero per
piegarsi, prima d'esser ridotti agli estremi, nè si distolse punto dal
suo proposito.
Per cura del principe d'Orange l'esercito si trovò presto riunito nelle
pianure intorno a Fuligno, in numero di trentacinquemila fanti, e circa
milledugento cavalli. Tra questi si trovavano i tedeschi condotti in
Italia da Giorgio di Frondsberg, o per dir meglio quelli avanzati alla
guerra, alla peste di Roma, ed alla fame di Napoli, soldati veterani,
valentissimi.
I primi signori e condottieri d'Italia guidavano queste genti. Tra
principali capitani si contavano D. Ferrante Gonzaga fratello del
marchese di Mantova, Pier Luigi Farnese, Giovanni Battista Savello
Marzio, Piero, Sciarra Colonna, il conte Pier Maria Rossi di S.
Secondo di Parma, Alessandro Vitelli da Città di Castello, Braccio e
Sforza Baglioni: più tardi sopravvenne il marchese del Vasto monsignor
Ascalino Astigiano, e Giovanni da Sassatello, il quale avendo preso
soldo da' Fiorentini pensò bene senza render loro i danari di condurre
i suoi tremila soldati al campo d'Orange.
Fabrizio Maramaldo di nazione sardo senza esser nè condotto, nè
chiamato a servir l'Imperatore, predava intanto e taglieggiava sul
Sanese, e su quel di Volterra con tremila più malandrini che soldati.
Questo era il bell'ordine di guerreggiare che s'usava in quel tempo.
Perugia, Cortona, Arezzo caddero presto in mano degl'Imperiali che per
il Val d'Arno di sopra scendevano senza grandi ostacoli verso Firenze.
I progressi del nemico avevano alquanto commosso gli animi di molti
cittadini, e la parte de' moderati riuscì a persuadere che si
mandassero oratori al papa. Si condussero a lui con gran difficoltà
essendo rotte le strade, chiusi i passi, e corso il contado da
saccomanni.
La risposta di Clemente fu che «trattandosi dell'onor suo voleva che
i Fiorentini si rimettessero in lui liberamente, e poi mostrerebbe a
tutto il mondo, ch'egli era fiorentino anch'egli, ed amava la patria
sua.»
Tosto che l'esito di questa legazione fu noto in Firenze, gli animi
di tutti, deposto ogni pensiero d'accordo, si volsero a crescer le
munizioni ed a rinforzar le difese.
I lavori delle mura che erano già molto innanzi si proseguirono con
maggior alacrità, massimamente quelli intorno al bastione di S.
Miniato, ed il gonfaloniere in persona li sollecitava con incredibile
diligenza.
Quando il sole era tramontato si continuava l'opera tutta la notte al
lume de' torchi.
Agli operai ed a marrajuoli s'univano i soldati, i giovani, le donne, i
vecchi, i fanciulli, ingegnandosi ognuno d'ajutare fin dove giungevan
le forze trasportando terra, sassi, fascine, mettendosi a gara ai
servigi più vili e più faticosi con quella fiera allegrezza che si
desta all'avvicinarsi di grandissimi pericoli, in chi sa d'incontrarli
per la giustizia.
In breve le fortificazioni si trovarono condotte a termine d'essere
inespugnabili per un esercito di quei tempi.
A misura che il pericolo s'avvicinava la parte de' Piagnoni diveniva
più rigida contro i Palleschi. Molti di questi delle prime case di
Firenze s'erano fuggiti spaventati dai pericoli dell'assedio, o dalle
persecuzioni de' loro avversarj, i quali li accusavano ai magistrati,
gli oltraggiavano per le piazze e per le vie, e spesso avean tentato di
manometterli.
Dante da Castiglione, giovane feroce, ardentissimo, il Sorrignone,
Cardinale Rucellai, Pietro Poldo dei Pazzi, Domenico Boni ed altri
della setta nemica ai Medici, avean piena la città di queste
loro insolenze e dicendo pugnare per la libertà, erano i primi a
distruggerla.
Gli uomini savii che pur conoscevano quanto simili modi fosser contrarj
al viver libero, ciò non ostante li comportavano per non parer freddi,
e venivan così strascinati da questi più furibondi, a prender partiti
violenti ed estremi.
A questo punto, per impedire che altri fuggisse dalla città, e far sì
che i fuggiti ritornassero, tutti coloro che si trovavan fuori vennero
citati per pubblico editto a doversi presentare al magistrato entro un
tempo determinato. Quelli che non ubbidirono ebbero bando di ribelli, e
vennero loro confiscati i beni. Alcuni però tornarono.
A Baccio Valori, commissario pel papa al campo d'Orange, come a
traditore della patria, venne inoltre posta una taglia di mille
fiorini a chi lo desse vivo, a chi lo desse morto di cinquecento. Di
più, secondo un'antica legge contro i traditori della patria, venne
sfregiata e sdrucita una lista della sua casa da capo a piede.
Al papa intanto venivano giungendo le nuove del campo d'ora in ora:
udendo guastarsi tutto il contado con arsioni, ruberie e mille mali,
forse glien increbbe, e fisso nella sua opinione che i Fiorentini
fossero per diventar più manosi, ora che l'esercito si trovava nel
cuore del loro stato, risolse innanzi che fosse diserto del tutto,
mandare in Toscana l'arcivescovo di Capua. Gl'impose passasse per
Firenze, che ancora si trovava aperta, sotto colore di portarsi presso
il principe d'Orange, e vedesse così di suo se vi fosse modo che senza
spinger le cose più oltre i Fiorentini si volessero piegare.
Venne l'arcivescovo, alloggiò presso Agnolo della Casa, ma tosto si
levò un rumore tra il popolo, ch'egli venisse per corrompere i capi
della città.
Furon mandati dalla Signoria quattro cittadini per intendere il motivo
della sua venuta: rispose che andando al campo era passato di Firenze
per sua comodità. S'offeriva nell'istesso tempo d'intromettersi tra i
cittadini e Sua Santità.
Quest'offerta non venne accettata, come s'era immaginato Clemente, e
l'arcivescovo fu fatto accompagnare fuori della Porta S. Niccolò, sino
alle prime scolte del campo.
S'accrebbero i sospetti contro i Palleschi nel governo e
nell'universale per la venuta di costui, onde furono creati sei uomini
i quali insieme col gonfaloniere dovessero dichiarare quelli tra i
cittadini che tenessero per fautori de' Medici, o per sospetti alla
libertà dello stato.
Per questa legge molti vennero presi e sostenuti in palazzo, ove
rimasero serrati a buona guardia quasi fino alla fine dell'assedio.
Tutti gli Spagnuoli che per cagione di mercanzia si trovavano in
Firenze furono rinchiusi in una casa, ordinando chi li guardasse, e
che provvedendo amorevolmente ai loro bisogni non li lasciasse però
favellare con alcuno, nè scrivere se non quello che s'appartenesse alle
loro faccende private.
A queste severità, cui servivan di scusa i casi della città, se ne
aggiunsero altre più crudeli e fuori d'ogni ragione.
Carlo Cocchi ebbe mozzo il capo per non altro che per essergli
sfuggito di bocca «Firenze essere de' Medici, e perciò essere dovere
l'accettarli per signori senza aspettar la guerra.»
Altri sul dubbio che ordissero trame col papa furon posti al tormento;
e pur troppo è assai verosimile che in questi casi restassero vittime
molti od innocenti, od almeno meritevoli di minori pene; chè pur troppo
un'ingiustizia suol generarne cento: ma questi modi ingiusti e violenti
usati dai due partiti ogni volta che si trovavan giunti al potere, modi
ch'essi pazzamente credevan mezzo sicuro onde mantenervisi, furono
invece la vera cagione per la quale nessuno di essi non potè fermarvisi
mai stabilmente, finchè la sorte di Firenze non venne irrevocabilmente
fissata dall'armi straniere.
Comparve finalmente l'esercito, ed ai quattordici d'ottobre alloggiò
nel piano di Ripoli intorno al monastero del Paradiso. Si narra, che i
soldati spagnuoli quando giunsero all'Apparita, scoprendosi loro ad un
tratto tutta la città di Firenze, gridarono con indicibile allegrezza
brandendo le picche: «Senora Florencia apareja los brocados, que'
venimos a comprarlos a medida de picas!»[14].
Ai diciassette fu cominciata una trincea a Giramonte, ai ventiquattro
il principe fermò il campo sui colli che sorgono al mezzogiorno
di Firenze dalla porta di S. Niccolò a quella di S. Friano, e la
mattina dopo Malatesta Baglioni, per ordine dei Dieci di libertà
e pace, si presentò a levata di sole sui bastioni di S. Miniato
accompagnato dai capitani e dagli uffiziali dell'esercito, e seguito
da tutti i suonatori della città, e dopo lunghe trombettate, battendo
continuamente i tamburi, fece scaricare tutte le artiglierie grosse e
minute, che erano un numero infinito, quasi salutasse i nemici, o li
sfidasse a battaglia.
Il fragore di questo scoppio scosse la città e le mura, rimbombando ne'
poggi e nelle valli di Fiesole. I bastioni rimasero nascosti dal fumo
per qualche minuto, ed i Fiorentini conobbero che quell'assedio tanto
temuto era finalmente incominciato.
Questa dimostrazione fatta per seguire il costume militare del tempo,
non produsse però effetto veruno.
Ne' giorni seguenti le prime operazioni degli assediati si volsero
contro il campanile di S. Miniato, su cui era un famoso bombardiere
detto Gio. d'Antonio, e per soprannome Lupo, il quale con due sagri
facea grandissimo danno al campo nemico. Il principe fe' piantare
quattro grossi cannoni sul bastione di Giramonte, i quali durarono a
battere il campanile tre giorni continui.
Questi pezzi scaricarono due volte in un'ora, ed agli artiglieri del
secolo XVI, pareva d'essere svelti. Le loro palle poi andavano ora a
destra ora a sinistra, or alte or basse, e se talvolta davano nel
campanile lo danneggiavan poco per la troppa distanza e per essere
solidissimo, e non facevano altro che scalcinarlo.
Nondimeno que' di dentro affinchè (come s'esprime il Varchi) chi era
venuto con tanta baldanza per prender tutto Firenze non prendesse
nemmeno una delle sue torri, lo fecero armare con grosse balle di
lana dalla parte che guarda i nemici. La cosa essendo venuta in
gara, e volendosi da ognuno vincer la prova, una notte i Fiorentini
bastionarono il campanile con un gran monte di terra, perchè gli
imperiali dovettero restar dall'impresa.
Piantarono invece una colubrina e preser di mira il palazzo de'
Signori. Ma nello sparare, il pezzo si aperse e la palla cadde
nella casa del manigoldo, onde messer Silvestro Aldobrandini ne
prese occasione di far due sonetti, in ischerno del papa i quali
incominciavano.
«Povero campanile sventurato»
e
«Vanne Baccio Valor dal Padre Santo»
In quei primi giorni di novembre si venne alle mani in molte piccole
scaramuccie, che non partorirono effetto d'importanza. I giovani della
città uscivano a fronte ogni giorno, per provarsi co' nemici contro i
quali avean concepito nuovo sdegno, per una cagione che dipinge al vivo
i costumi di que' tempi.
L'esercizio della milizia si considerava allora come un mestiere del
quale non avea diritto d'impacciarsi chi non fosse scritto tra i
soldati, ed arruolato secondo le regole. Questi si consideravano tra
loro quasi membri d'un'istessa confraternitàa, tra i quali, benchè
nemici, era patto d'osservar leggi e riguardi reciproci.
La conseguenza di questa usanza fu, che i soldati imperiali la più
parte invecchiati nelle guerre, e matricolati, per dir così, nell'arte
che professavano, guardavano con disprezzo i Fiorentini che usurpavano
(così dicevan essi) il diritto di impugnar l'armi in difesa della loro
patria, nè vollero acconsentir mai di far con loro a buona guerra,
come cogli altri soldati, dicendo ch'essi non eran tali, ma erano
gentiluomini.
Tra le pazzie della superbia umana, questa non sarà delle meno curiose.
La gioventù se l'ebbe tanto per male che trascorse a macchiarsi
di molti atti crudeli: tra gli altri Vincenzo Aldobrandini, ed il
Morticino degli Antinori avendo fatto prigioni due spagnuoli, in cambio
di porre loro la taglia, li scannarono.
Le cose di Firenze si trovavano in questo stato il giorno in cui Fra
Giorgio uscito dal convento di S. Marco camminava verso la casa di
Malatesta Baglioni.


CAPITOLO VI.

Il popolo di Firenze si trovava ottimamente ordinato per la difesa.
Forti le mura, numerosa e ben instrutta la milizia, ben fornito il
tesoro, abbondanti le vettovaglie, accesi gli animi d'amor di patria
e d'ardire: ma egli s'allevava un serpe in seno, e questo serpe era
Malatesta Baglioni.
I suoi maggiori erano stati capi de' nobili e de' ghibellini di
Perugia, ove Gian Paolo suo padre s'era fatto signore verso la fine
del secolo XV, e benchè due volte ne fosse stato cacciato, l'una da
Cesare Borgia, l'altra da Giulio II, pure gli era di nuovo riuscito di
stabilirvisi. Finalmente Leon X, volendo riunire Perugia agli stati
della Chiesa, adescatolo con larghe promesse e con un salvocondotto,
l'indusse a portarsi a Roma, ove in iscambio dell'accoglienza che gli
si prometteva, fu preso, posto al tormento e decapitato.
L'odio che gli si portava dall'universale pe' suoi delitti, fece che la
voce pubblica assolvesse Leone della tradita fede.
I principj di Malatesta furono simili a quelli del padre.
Condottiere a' servigi de' Veneziani da prima, poi signore di Perugia,
infine, come vedemmo, capitano de' Fiorentini. Uomo di mente fredda,
sagace, astutissimo; d'instancabile pertinacia ne' suoi propositi,
superbo, avaro, tenace nelle vendette, e sopra ogni altra cosa maestro
di frodi e dell'arte di nasconderle e colorirle, persino allorquando
avessero partorito l'effetto; prode ed ardito della persona, ed
assai esperto capitano. Tipo insomma di que' signorotti tirannelli
che per secoli sorsero, caddero e ricomparvero in pressochè tutte
le città italiane: ora principi ora condottieri a servigi di altri
principi, o di repubbliche più potenti di loro, spesso capi di parte,
di fuorusciti, o di masnadieri. Esperti d'ogni fortuna, ed in tutte
animosi, insaziabili, irrequieti. Uomini che allevati tra domestiche
infamie e risse cittadinesche, vissuti in vicenda continua di violenze
e d'astuzie, finivano le più volte oppressi o traditi da nemici potenti
e palesi, ovvero sotto il coltello de' sicarj, o de' loro più stretti
congiunti. Onde in quell'età più che in ogni altra apparve vera la
sentenza di Giovenale:
_Ad generum Cereris sine cæde et vulnere pauci
Descendunt reges et sicca morte tyranni._
Non parrebbe che in cotesti ribaldi dovesse esser idea veruna di
religione o di fede. Eppure, a loro modo, essi avean l'una e l'altra;
tanto è vero che Diogene nel definir l'uomo un bipede implume, avrebbe
dovuto aggiungere «ed inconseguente.» Essi edificavan chiese, nutrivan
frati, arricchivan santuarj; credevan in Dio, nel vangelo, nel papa,
ed, avanti sempre coll'istessa logica, nelle streghe, nell'alchimia e
nell'astrologia.
Malatesta anch'esso prestava cieca fede ad un astrologo ebreo detto
maestro Barlaam, nativo d'Ungheria, il quale all'arte divinatoria univa
molto sapere nella medicina, e molta pratica nel modo d'esercitarla.
Viveva costui a discrezione in casa il Baglioni, lo seguiva in tutte le
sue imprese, e s'andava facendo ricco de' suoi danari.
Non si può dir però che fossero tutti egualmente rubati, e ne
guadagnava meritamente una parte colle cure continue che richiedevano
le gravi infermità del suo padrone.
Quella malattia tremenda, colla quale l'America s'è così pienamente
vendicata dell'Europa, e che nel secolo XVI raro o non mai si guariva,
andava consumando lentamente Malatesta. Egli aveva sortita dalla
natura una complessione robusta colla quale potè sostener le fatiche e
i disagi della milizia, finchè le conseguenze della dissolutezza non
ebber distrutta in lui la salute e le forze. Dapprima egli era largo
di spalle e di petto, di volto vegeto e brunetto, con barba e capelli
neri, corti e ricciuti; insomma era il vigore in persona.
In quale stato l'avessero ora ridotto i suoi malanni, lo vedremo tra
poco.
Il palazzo Serristori, ov'egli alloggiava, era, com'è al presente
(benchè al tutto mutato) in fondo alla piazza presso il Ponte alle
Grazie. La parte di dietro guardava sul canale delle mulina e sull'Arno.
L'istessa mattina dalla quale ha preso le mosse la nostra storia,
un'ora innanzi l'alba tutto il palazzo era cheto, il portone chiuso
ed il solo sportello rabbattuto, al quale era di guardia un soldato,
coperto di ferro le braccia, il capo e 'l busto, coi larghissimi
calzoni del cinquecento, a striscie rosse e nere, e colle calze a liste
de' colori medesimi.
Teneva in ispalla una lunga partigiana, e passeggiava sollecito sotto
l'androne dell'entrata battendo i piedi per riscaldarsi.
Gli uomini di guardia, avvolti ne' mantelli, russavano in un angolo
sdrajati sulla paglia presso un mucchio di cenere e di carboni spenti,
avanzo del fuoco che s'era fatto durante la notte.
Al primo piano tutti parimenti dormivano. Il solo Malatesta era già
desto da un pezzo. Stava a sedere su un letto in forma di rettangolo,
di legno nero lavorato di tarsia; le facce divise in compartimenti,
e su ognuno di questi era rappresentata una storia di mitologia in
basso rilievo. Le cornici che chiudevano queste istorie, presentavano
un curioso e complicato intreccio di fogliami, di figure d'animali,
di mascherine e d'ogni qualità d'arabeschi. Il letto sorgeva su una
predella che correva intorno alta un palmo dal pavimento.
Accanto al letto sopra una tavoletta tonda retta da una figura
d'atlante tutta curva e scontorta, ardeva una lucerna d'argento:
attorno a quella erano gettati in disordine un bellissimo pugnale
co' suoi cordoni a fiocchi per appiccarlo, anelli e collane, un
reliquiario ed un giojello di forma così strana, che riusciva difficile
indovinarne l'uso. Era una gemma tonda e schiacciata come una moneta
del color del balascio legata in un filetto d'acciajo. Per una punta
parimenti d'acciajo innestata nella legatura rimaneva sospesa per
virtù d'attrazione ad un ago calamitato, che stava fisso nella parte
superiore d'un cerchio entro il quale rimaneva in bilico la gemma. Il
cerchio stava fisso su un piccolo piedestallo di legno nero: il tutto
poi segnato di lettere e di segni cabalistici.
La camera era parata di cuojo rosso rabescato in oro: quadri alle
pareti, seggioloni a bracciuoli all'intorno pure di cuojo, pieni di
borchie e di frangie. Due grossi mastini russavano accovacciati in un
angolo.
L'aspetto di Malatesta era quello d'un morto dissotterrato. Cavi
gli occhi e le guance: la pelle d'un livido piombino: la barba e i
capelli così folti un tempo, radi adesso e malfermi che per nulla si
schiantavano e cadevano. Aveva infilato sulla camicia un giubbone di
sciamito rosato, che rimaneva aperto d'avanti, e lasciava vedere un
petto scarno, ove si sarebber potute numerare le costole. Eran queste
coperte dalla sola pelle, che tra l'una e l'altra s'avvallava in
solchi profondi. Umori densi e viziati fermandosi alle giunture vi
s'erano rappresi ed induriti in modo che ne imprigionavan i moti, e
rendevano le braccia in ispecie pressochè attratte.
Stava sorbendo lentamente un gran bicchiere di decotto che avea tolto
dalla tavola vicina, e guardava con un ghigno sardonico un Frate che
gli sedeva dirimpetto a due passi dal letto.
Questi vestiva l'abito di S. Francesco. Il cappuccio gli nascondeva
il viso e gli occhi in modo che non appariva altro se non un po' di
naso, e due guance vermiglie e ben nutrite. La barba che era bianca
e grandissima copriva bocca e mento, e veniva terminando diradata al
cordiglio.
Stava a capo basso, tenendosi con una mano il mento, gonfio il petto
di sospiri, ed al vedere, tutto assorto in pensieri che lo turbavano
fieramente.
Mormorava sotto voce:
--Sarebbe troppo una vil cosa! non sarebbe mai possibile... non me la
sento...--e seguitava a tener gli occhi a terra, chè se gli avesse
alzati in viso a Malatesta, ed avesse veduto quel riso diabolico credo
si sarebbe cacciato a fuggire. Buon per lui se così avesse fatto.
Disse alla fine il Baglioni con un fare di scherno, e tutto pace al
tempo stesso:
--Non se ne parli più.... Non mancherà ai signori Medici chi
voglia far loro questo poco di servigio senza tanti lezj e tante
fanciullaggini.... Lo sai, eh? che vi son fanciulli di dieci, di
venti.... di cinquanta.... insino di settant'anni?--Messer Baccio
Valori che fa sì gran capitale di te pare che non lo sappia però....
Va, va, non mancherà chi voglia corre la palla al balzo, se tu non
vuoi. E quando sul portone di palagio staranno le palle vi sarà
qualcuno che sguazzerà in casa i Medici, ed attenderà a darsi buon
tempo, e verrà portato a cielo, e non gli mancheranno nè cavalli
(Malatesta parlava adagio pronunciando spiccata ognuna di queste
parole) nè cani.... nè cornacchie..... nè vesti.... nè oro.... nè
balli.... nè commedie... e se punto punto, alcuno gli darà noja, e'
si potrà cavare di strane voglie: e tu lo vedrai e dirai _Ov'è costui
potevo esser io_.... Ti so dire che ti parrà un bel diletto.--
Il Frate soffiava, il petto gli s'alzava pe' sospiri, ma pur taceva.
--Vero è, proseguiva Malatesta, che queste cose e' sarà pel tuo
migliore il non vederle e metterti Firenze dietro le spalle. Ai signori
Medici non dovrebbe andar troppo a sangue che un uomo il quale ne ha
saputo tanto de' fatti loro, e non gli ha voluti servire, abbia a
sentire ancora il sapor del pane.--
In questo punto l'oriuolo della torre di Palagio suonò le dieci ore[15].
--Tra un'ora è giorno. Vatti con Dio. Ma tieni a mente, se il diavolo
ti tentasse, d'impacciarti più di cose di Stato, che e' conviene esser
uomo e non fanciullo a mettersi a codesta bisogna; e ricordati poi
sempre che questa (si toccò la lingua colla punta dell'indice) talvolta
fa cadere il capo.... e se trapelasse nulla di ciò che è stato detto
tra noi... que' due mastini so che non avran parlato, onde saprò con
chi me l'avrò a pigliare....--
--Un tradimento a quel modo!--diceva il Frate parlando con se stesso.
--Un tradimento! ripetè due volte Malatesta col suo solito riso,
sta a vedere che converrà andar dagli Otto e dir loro _Sappiate che
vi vogliamo torre lo Stato per darlo a' Medici, onde fate buona
guardia_... E' mi pare che abbi il cervello sopra la berretta!...
--Ma quello sventurato vecchio.... la figlia, la famiglia!....--
--Oh? son eglino de' Bardi, degli Strozzi, dei Frescobaldi?.... E'
pare che sia qualche gran casa, che s'abbiano ad aver tanti rispetti!
Pajonti questi, pensieri di gentiluomo par tuo? quando si tratta di sì
grandi cose, che principi e signori vi metton la vita, e tu mi stai a
mercantare un lavoratore di seta, come se fosse de' reali di Francia?--
Il Frate s'alzò ad un tratto come se una molla l'avesse spinto su dal
seggiolone. S'accostò al letto, prese la mano a Malatesta, gliela
strinse, e disse con voce rabbiosa:
--Farò tutto... che sia maladetta l'ora in cui nacqui al mondo!--
Malatesta rise di quella furia: e ritratta a se la mano, con un certo
chè di sprezzo soggiunse:
--Oh! oh! Hai mutato pensiero? Gli scrupoli son passati?... Quanti
minuti durerà questa risoluzione?--
--Durerà anche troppo pel mio malanno. E se romperò il collo in questa
impresa, e' mi starà molto bene.--
--Ora ascoltami, disse Malatesta mutando voce e modi ad un tratto.
Quanto a questo chi non vuol porsi a rischio nessuno, ha a rimanere nel
carruccio del babbo. Ma chi vuol uscirne e diventar uomo da qualcosa
e non consumar la vita sua vilmente a innaspar lana, o a cimar panni,
e' convien commettersi alla fortuna. Credi tu che i Medici ti vorranno
far grande e ricco, perchè quand'era tempo d'operare tu invece stavi
a grattarti il corpo? A te sta la scelta. Ben sai che codesta casa ha
sempre rimeritato i servigi da quella casa ch'ella è, come ha fatto
le vendette a misura di carbone. E se i suoi vecchi non avessero
avuto altr'animo di quello che tu hai, l'impresa delle Palle starebbe
ora appiccata sulla porta d'un fondaco, e non su pei palagi e per le
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