Niccolò de' Lapi; ovvero, i Palleschi e i Piagnoni - 14

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procurare in qualche modo la vittoria o lo scampo, ad essi toccava
vogare e tacere, e lasciarsi uccidere o mutilare sempre tacendo e
vogando, chè ad ogni atto meno servile li aspettava il nerbo e talvolta
la daga dell'aguzzino.
Indietro, sulla poppa che s'alzava in pendìo, coi lati scolpiti al
di fuori, rabescati, dipinti e dorati soventi volte; coperta di belle
cortine a nappe e drappelloni, cui reggevano cerchi in traverso e tre
aste pel lungo, in questo luogo eminente stavano il capitano della
galera ed i principali uffiziali delle milizie imbarcate. Qui, sopra
l'ultima punta, che rimaneva sospesa sul mare assai indietro dal corpo
della nave, eran tre gran lampioni che s'accendevan la notte. Qui
sventolava la bandiera di Genova, la Croce rossa in campo bianco, e
questa medesima impresa si vedeva sulle banderuole e le fiamme che in
gran numero adornavano le antenne e gli alberi della galera.
Armi, remi, sarte, ciurme, marinai, soldati, ufficiali, tutto era
pronto, tutti erano ai loro posti, la maggior parte fissando gli
sguardi alla gaggia dell'albero maestro, d'onde un marinajo di guardia
doveva gridar _all'erta!_ tosto che vedesse il navilio nemico. L'onda
larga e cerulea rifletteva nel suo concavo la tinta purpurea de' remi
e de' lunghi fianchi delle galere, le dorature della poppa, il bianco
delle vele, il lampeggiare dell'armi, i varii colori de' pennoni, delle
bandiere, e quelle tinte riflesse parevan più vivide pel contrasto
delle candide spume che le attraversavano prodotte dal solcar delle
carene.
Cinque galere, distanti 50 braccia l'una dall'altra, formavano la
battaglia: tre s'erano allargate in mare per tornar poi sul fianco,
od alle spalle del nemico, quando fosse incominciata la musica. Molti
legni minori armati ottimamente si teneano sui lati per nuocer co'
tiri delle moschette e degli archibugi.
Sul castello di prora della capitana stava ritto Lamberto con un
morione in capo in cima ai quale era fissa una lunga penna color
d'amaranto. Il busto, le braccia e le cosce eran coperte di ferro
brunito e misto a strisce d'oro. Le calze larghe sopra il ginocchio,
strette sulla gamba, del medesimo color della penna: in braccio
una rotella foderata di velluto trapunto, e nella destra una spada
larga quasi un palmo presso l'elsa, forte ed acuta sulla punta, con
un'iscrizione lungh'essa che diceva: _Proemium virtutis_; arme
guadagnata da lui col suo valore, chè il tempo saltato a piè pari da
noi con tanta disinvoltura, egli non l'avea nè giuocato, nè trascorso
colle mani alla cintola.
Anche prima d'aver colla Selvaggia quell'incontro notturno che abbiamo
narrato si sentiva spinto, come dicemmo, a cercar la sua ventura
altrove. Dopo averla udita ed aver conosciuto qual tempra ardente
avesse costei, che difficilmente si sarebbe tolta dal proposito di
volerlo ad ogni costo far suo, stimò più sicuro e più onesto partito
lasciare il campo, e preso tosto commiato da Orazio Baglione uscì la
mattina dopo col suo servo svizzero dagli alloggiamenti.
S'egli avesse voluto condursi cogl'imperiali avrebbe potuto aggiustar
bene i fatti suoi. Ma egli stimava che alla fortuna di Francia andasse
unita quella di Firenze. Pensava che l'animo di Carlo V, fosse
dominare l'Italia, e quello di Francesco I e de' Francesi, donarle la
libertà. Povero Lamberto, si vede bene che era giovane!
Il più rinomato de' capitani italiani che seguissero le parti di
Francia era in quel tempo, senza contrasto, Andrea Doria. Lamberto,
dopo non molti giorni, fu a Genova, ottenne di seguirne la bandiera, e
salì sulle sue galee che si movevano per cercare e combattere l'armata
che Ugo di Moncada, vicerè di Napoli, conduceva dalla Spagna sulle
coste del regno di Napoli. Nella battaglia ove questi fu vinto e volto
in fuga, Lamberto, sotto gli occhi d'Andrea, saltò il primo sulla
capitana nemica, ed ebbe, in premio di questo fatto, la bella spada che
brandiva ora aspettando di combattere per la seconda volta lo stesso
nemico.
Nel poco tempo passato col signor Giovanni avea scritto una volta a
sua madre ed a Niccolò; un'altra lettera avea mandata da Genova prima
d'imbarcarsi, ma in quel tempo non v'eran le poste ordinate come al dì
d'oggi, ed una sola volta egli avea potuto, dopo molto tempo, ricevere
una risposta di Niccolò. Quantunque vivere così al bujo di ciò che più
strettamente gli premeva fosse per lui doloroso oltremodo, si consolava
però pensando di quanta gioja gli sarebbe stato cagione il ritornar poi
improvviso, e degno d'offrir la sua mano alla Lisa.
Bastino questi pochi cenni per non lasciar nella vita di Lamberto una
troppo lunga lacuna. Ora torniamo all'armata di Filippino.
Il sole scendeva già verso l'occidente, ed il capitano genovese
pensando che per quel giorno non avesse più a mostrarsi il nemico,
stava per dare il cenno di volger le prore a Salerno, quando dalla
gaggia della galera sulla quale era Lamberto fu gridato con voce
lunga--Vela a Maestro!--Un sordo mormorìo, un fremito, un agitarsi
senza confusione tra le ciurme e i soldati, tenne dietro a questo
grido, e nel tempo stesso s'alzò la voce sonora d'ogni capitano che
dava gli ultimi comandi. Per una corda che era attaccata alla cima
dell'albero maestro della capitana (essa era posta in mezzo della linea
di battaglia) si vide correr veloce all'insù la bandiera dei Doria, che
vi si fermò spiegandosi e sventolando al soffio del vento, ed un urlo
generale e simultaneo di tutta l'armata, salutando questo segno della
battaglia, rimbombò sul mare e ne' monti di Salerno.
I remi, ch'eran prima sospesi ed immobili, si tuffarono tutti in una
volta nel mare, le galere, mosse da un solo volere, partirono insieme
veloci come saette scoccate, lasciando dietro l'onda biancheggiante
e agitata. Dopo la prima vela n'era intanto comparsa una seconda, ed
uscivan di dietro gli scogli del promontorio di Campanella, poi un'
altra ed un'altra, infine in ispazio di mezz'ora le due armate si
trovarono a fronte a poco più d'un tiro di cannone.
Filippino d'Oria, uomo di mezzana statura, asciutto, tutto nerbo,
stava a poppa sulla spalla destra della galera sotto lo stendardo,
luogo ch'egli doveva, come capitano dell'armata, occupare durante la
battaglia; coperto d'armi splendide e dorate, non mostrava che il viso
abbronzato dal sole, indurito al vento ed all'intemperie marine, e
quanto ai lineamenti, vero tipo dell'ardita razza de' marinai genovesi.
E marinajo, anzi uomo di mare perfetto, potea dirsi il nipote d'Andrea,
chè alla scuola d'un tanto uomo aveva appreso a dirigere l'evoluzioni
d'una armata non solo ma il corso altresì d'una galera come un semplice
piloto. E se accenniamo questo suo merito, egli è perchè in quel tempo
presso molte nazioni (tra' francesi, verbigrazia) erano soventi volte
eletti a capitani di guerre marittime, gentiluomini esercitati soltanto
nella milizia di terra, i quali, lasciando intieramente ai nocchieri la
cura delle cose navali, si riserbavan solamente la suprema direzione
dell'impresa, non avendo nelle battaglie altro pensiero, fuorchè
combattere arditamente alla testa de' loro soldati, com'avrebbero fatto
sugli spalti d'una rocca o d'una trincea.
Ai fianchi di Filippino erano il tenente della capitana e monsignore
di Croy, mandato da Lautrec sull'armata con trecento archibusieri di
rinforzo: altri uffiziali stavan in luogo meno eminente presso il primo
remo di destra, che avea sette galeotti invece di cinque (e tanti ve
n' era dai due lati ai quattro primi remi dalla banda di poppa dai
quali veniva regolata la voga), e sulla spalla sinistra, anch'esso al
suo posto di battaglia, il proprio capitano della galera, tutti colle
ciglia strette e le pupille fisse nei legni nemici, studiandone i
disegni ed i moti, colla seria, tranquilla e risoluta impostatura,
che gli uomini più valenti non acquistano ne' pericoli se non dopo
lunghissime prove.
Il nostromo[27] era in capo alla corsia presso la poppa con un valido
nerbo sotto l'ascelle, una mezza spada larga e tagliente appesa al
fianco, senza fodero, e le braccia intrecciate sul petto; avea in
capo un cappello di ferro basso e rugginoso, un giaco indosso, larghi
calzoni in gamba, ed i piedi nudi.
Otto, tra comiti[28] ed aguzzini, venivan passeggiando su e giù per la
corsia, osservando con sguardi lenti e di traverso se ogni galeotto
facesse il dovere; ove taluno rallentasse la voga, si vedean con moto
rapidissimo descriver in aria la figura d'un 8 col nerbo, che cadeva
fischiando sulle spalle del colpevole, ed al tempo stesso de' suoi
vicini; di torre la misura con precisione poco si davan pensiero
costoro.
Tuttociò si faceva nel più alto silenzio, chè la rigida disciplina
delle galee genovesi non permetteva parole quando gli ufficiali erano
al loro posto di battaglia; nè s'udiva altro strepito fuorchè quello
dell'onda alternatamente percossa, il gemere delle sponde sotto il
pigiare de' remi, ed il suono delle catene che s'urtavano nel rizzarsi
e nel ricader grave de' galeotti sulla loro panca.
Benchè nessuno parlasse, il nostromo tuttavia si volgeva tratto tratto
guardando in viso ora il capitano, ora Filippino, quasi aspettando un
comando che a quel punto gli sarebbe parso opportuno.
Per intendere ciò che or ora diremo convien sapere, che tra gli ultimi
apparecchi d'una galera che si disponeva a combattere, v'era quello
d'innalzare due specie di serragli, o trincere, che la tagliavano
pel traverso: uno a prua dietro le artiglierie, l'altro all'albero
di maestra, e venivan detti bastioni. Ognuno di questi bastioni
era composto di due assiti alti sei braccia, retti da stili che si
piantavano sulla corsia e sulle sponde. Lo spazio tra i due assiti,
d'un braccio all'incirca, si empieva di gomene rotolate e ravvolte,
e la facciata verso prua si vestiva di torciglioni di paglia. Si
veniva così a fermare, o rallentare almeno le palle d'artiglieria che
infilando pel lungo la galera avrebbero menata troppa strage tra la
ciurma; ovvero, accadendo che nell'arrembaggio fosser saltati i nemici
sul legno, si poteva di dietro questi ripari prolungar la difesa, e
talvolta rannodandosi e facendo impeto ricuperar la parte perduta della
galera.
Il nostromo dunque, come abbiam detto, si volse più volte a' suoi
maggiori, finchè il capitano, conosciuto il suo pensiero, disse a
Filippino:
--Se Uscià crede, alzaremo el bastion de prua.--Il Doria accennò col
capo di sì, ed il nostromo, dando un Oh! prolungato che avvertiva i
marinai di star attenti al comando, disse: «Oh! dò trincheto! A alzar
el bastion de prua!»
A quella voce sorse a prua un rimescolio senza disordine tra marinai, e
si vider sorgere a un tratto gli stili, l'assito e le gomene a fasci,
che si collocarono nel modo anzidetto. In cinque minuti tutto fu
all'ordine, e gli uomini che avean condotto questo lavoro, ripresero i
loro posti e la loro immobilità.
Un frate cappuccino, cappellano della galera, s'era intanto messa una
stola, e ritto nel mezzo del castel di poppa, con un rituale in mano
recitò alcune preghiere, poi alzò la mano e segnò d'una gran croce la
ciurma ed i soldati, che tutti, dal Doria all'ultimo mozzo fecero il
segno di croce: poi Filippino levando la voce, disse:
--Animo ragazzi, col nome di Dio.... e di S. Gio. Battista.... la
giornata sarà buona.... Otto galere contro sei! guardate! guardate come
vengono! Pel Santo Catino, che non prendono più di quattro palate per
voga![29].
E Filippino ed i suoi ufficiali ed il nostromo sorridevan vedendo
l'andar de' remi incerto ed irregolare delle galere nemiche.
--Orsù, proseguiva il Doria, spero che ognuno farà il dovere come il
solito per l'onor di Genova e in servigio del re Cristianissimo...
Nostromo! Fa girar un barile per la ciurma.--
Il comando venne tosto eseguito, e gli aguzzini portarono intorno un
caratello di vino, che passando ad ogni panca de' rematori, i quali
bevevano ognuno alla sua volta, produsse miglior effetto che non il
pensiero d'illustrar Genova o servire il re di Francia.
--Ora, monsignore, disse Filippino al capitano degli archibusieri
francesi, fate che i vostri uomini si tengan pronti, che, viva Dio,
voglio che andiam a ber un bicchier d'Alicante a bordo della reale di
Spagna.--
--_Ce ne sera pas moi qui y ferai faute._--
Disse lietamente il francese, e volto ai suoi, dopo alcune parole per
animarli, levò in alto la spada nuda gridando, com'era l'uso di sua
nazione «_vive le Roi_!» ed a questo grido si unì quello di «viva
Genova» mandato dalle genti del Doria; e più da lungi, l'altro di
«_viva Espana_» che levavan le galere nemiche.
Le due armate s'erano intanto avvicinate a mezzo tiro di cannone; e
Filippino accennando al timoniere, che teneva in lui fisso lo sguardo,
e parea indovinasse ed eseguisse istantaneamente ogni suo pensiero,
veniva regolando il corso della galera per giungere a porla in faccia
alla reale di Spagna, non tanto diritta da esser infilata dalle
artiglierie di quella, e non tanto di traverso da non poterla cogliere
colle sue nella diagonale più stretta che fosse possibile. Anche gli
spagnuoli cercavan questo vantaggio, ma meno esperti e men destri non
si movean che a stento, e mal sicuri.
--Bombardieri, ai vostri pezzi! ed attenti!--gridò Filippino. Poi volto
al capo della ciurma:
--Voga tutto![30] nostromo!--
Questi si lanciò in mezzo alla corsia col nerbo in aria gridando:
--Arranca! arranca!--
Ed il medesimo grido ripeteano i comiti e gli aguzzini, scaricando una
tempesta di nerbate a dritta ed a manca sui galeotti, che raddoppiando
la velocità e gli sforzi si vedeano curvar i dorsi, stender le braccia,
nelle quali i muscoli enfiati parean guizzar sotto la pelle, e la
galera spinta con nuova e validissima foga prese a volar sull'onda come
una slitta sovra uno stagno diacciato.
Filippino era tutt'occhi. Vede giunto il momento, si getta alla stanga
del timone, e piegandola egli stesso di forza fa orzar la galera, la
trova al filo ch'egli voleva, grida:
--Fuoco!--
Ed un tremendo scoppio de' cinque pezzi di prora sembra generar per
incanto una nuvola densa e bianchissima che occupa un momento tutto il
davanti della galera. Filippino che pel frapposto fumo non vedeva il
nemico, si piegò tutto fuor della sponda e fece un gesto d'impazienza,
non potendo neppur così scorger l'effetto de' suoi tiri. Ma presto un
fiato divento dissipò il fumo, e la reale di Spagna apparve piegala
sul fianco pel peso del suo trinchetto, che scavezzato al calcio, era
caduto parte tra la ciurma, parte nel mare. I marinai ebber però presto
coll'accette troncato quell'albero affatto, e spintolo fuor del bordo,
la galera si rizzò, e cominciò anch'essa a sparare, coprendosi di fumo
che s'innalzava a globi densi, vorticosi, ora grigi, ora bianchi, ora
per gli opposti raggi del sol cadente, dorati e trasparenti sui lembi.
--Viva Genova! e avanti, chè la reale e nostra! gridò Filippino lieto
del felice principio, e di vedere i suoi legni tutti ottimamente
diretti, saettar con spessissimi tiri il nemico, che anch'esso per
verità rispondeva a dovere. La moschetteria tempestava anch'essa da
ambe le parti, onde presto il limpido sereno del cielo rimase occupato
da una caligine densa e rossastra nella quale pareva nuotasse il disco
del sole sanguigno e senza raggi, come fosse di rame liquefatto.
E la capitana sempre avanti; diritta, veloce, fulminando dalla prora
fuoco intensissimo, chè il Doria avea in animo, senz'andar per le
lunghe, investir la reale, mandarla, se poteva, a picco coll'urto dello
sperone, o prenderla all'arrembaggio.
L'aria era piena d'un tuono altissimo e continuo che non toglieva però
d'udire il sibilo incessante delle palle che passavano a centinaja dai
lati o sul capo, e talvolta percuotevano, scrosciando per gli alberi,
l'antenne, le sponde, e ne staccavano scheggie e frantumi, senza però
che sin ora avessero arrecato gran danno.
Alla fine pure una grossa palla d'un corsiero[31] s'aprì la strada con
fracasso tra gli assiti del bastion di prua, e presa in traverso la
galera, portò via, fracassandole, quante membra di galeotti trovò sulla
sua via.
I vicini di quest'infelici, coperti dal sangue e dall'interiora
palpitanti de' compagni, che sconciamente mutilati giacevan morti,
o guizzavan mal vivi e gementi sotto le panche, parvero arrestar la
voga quando più importava renderla impetuosa, ed alcuni mandaron grida
lamentevoli e disperate.
--Nostromo! Perdio!--
Gridò Filippino furibondo alzando la spada, ed il nostromo invelenito
anch'esso s'avventò co' suoi aguzzini verso quei disgraziati, e, non
più col nerbo, ma colla mezza spada, ora di piatto, ora di taglio,
menava arrabbiato su que' dorsi nudi, gridando:
--Arranca, canaglia!.... Che v'insegno io la paura.... avanti! avanti!
Tappo in bocca, tutti![32] e poi urlate se potete!....--
E colle piattonate, e co' tagli ajutando le parole ebbe presto ottenuto
che ognuno avesse in bocca il suo sughero, e si riprendesse con nuovo
vigore la voga.
Filippino era sempre al timone, arrabbiando di non poter pel densissimo
fumo, ed anco perchè l'aria, tramontato il sole, si veniva a mano a
mano oscurando, discernere bene la reale di Spagna ed il preciso luogo
ove disegnava percuotere collo sprone.
Ma la fortuna, che volea favorirlo, gli mostrò a un tratto in uno
spazio di cielo, ove il fumo per un momento fu spazzato dal vento, la
punta dell'albero di maestra della galera nemica, attorno al quale si
ravvolgeva ondeggiante il grave pennone giallo e vermiglio di Spagna.
Ciò gli bastò per calcolare ove dovess'essere il castello di prora;
volse la stanga con furia, e gridando:
--Attenti! Ad investire!--
Avviso troppo necessario affinchè ognuno si fermasse in sulle gambe e
s'apparecchiasse a saltar sul legno nemico, approfittando di quel primo
disordine.
Passò un minuto di terribile aspettazione, di più fitte e tremende
nerbate a' galeotti, di più rapido andare del legno, d'indescrivibile
ansietà ne' combattenti, ed alla fine accadde il gravissimo scontro,
con un fremito, un crocchiar sordo ed interno di tutti i costati della
galera, che a un tratto l'arrestò, quasi urtasse in uno scoglio,
ficcato il suo sprone per isbieco nel castello di prora della nemica.
Si gonfiò l'onda di sotto, e sorse lanciata in aria tra le due galere,
in alti e candidi spruzzi; molti, ancorchè stessero in avviso,
traballaron nell'urto e cadder travolti nel mare: le antenne, le sarte,
i remi s'intrecciarono, si percossero, si scompigliarono rompendosi,
e volando in pezzi: dalle gagge piene d'archibusieri crebbe il
grandinar delle palle, e da ambe le parti, quanti potevano combattere,
s'avventarono verso quel luogo, ove pel combaciarsi delle due galere
era possibile, se non facile, il trapasso dall'una all'altra, e qui
si accese la più furiosa e disperata battaglia ad armi bianche, a
spade, a daghe, a coltelli, a pesanti e larghissime accette, un lottar
sanguinoso ed ostinato, un afferrarsi, un sospingersi, un cadere, un
risorgere, un avventarsi, un ghermirsi continuo, che ad ora ad ora
diveniva più pauroso e micidiale per le crescenti tenebre della notte,
per l'angustia e stranezza dei luoghi ove s'avean a fermare i piedi, e
perla sopravvenuta agitazione dell'onde, che sollevate a poco a poco da
un gagliardo levante messosi in sul tramonto, venivan alte e minacciose
di traverso, ed arricciandosi cadevan impetuose sui fianchi e sulla
coperta delle fluttuanti scompigliate galere.
Ad illuminare questa scena infernale serviva in parte il lampeggiar
incessante delle cannonate e dei moschetti, e la luce de' fanali
posti a poppa delle galere, che all'annottar eran stati accesi, ma a
questo scarso ed incerto lume un altro se n'aggiunse tosto continuo
e splendente mandato da una galera spagnuola incendiata, che presto
divenne come una sola e grandissima fiamma trabalzata, or alta or
bassa, sul mare, dal gonfiarsi e dal comprimersi alternato dell'onde
sulle quali si rifletteva, scherzando in mille guizzi il gran fuoco.
Questo legno era lontano circa cinquanta braccia dai due attaccati,
e ne usciva luce vivissima, insieme colla vampa del caldo, e colle
disperate ed acutissime grida degl'infelici galeotti, che incatenati
alle loro panche, si sentivan rosolar le carni, senza potersi sferrare,
e perivan di mano in mano con lenta e crudelissima morte, senza che i
marinai o i soldati, scampati a nuoto o ne' palischermi, si curasser di
loro o pensassero ad ajutarli.
Ma nè questo tremendo spettacolo, nè il pericolo del probabile ed
imminente scoppio delle polveri sul naviglio incendiato non rattenevan
punto il furor del combattere sulla reale e sulla capitana, al disopra
delle quali trasvolavan tratto tratto nembi di faville e di fumo
fetente e denso, quale lo producon legni impeciati che ardano.
Filippino, appena ebbe condotta la galera a percuoter nella nemica,
lasciato al piloto il timone, s'era avventato con Mgr. De Croy, e co'
suoi ufficiali, nel luogo ov'era più stretta la zuffa, e tutti facean
bellissime prove della loro persona.
Lamberto, il quale già stava sul castello di prora col suo servo
Maurizio al fianco, e con molti degli archibusieri francesi d'intorno,
avea notato tra questi uno che gli s'era collocato a lato, e che invece
d'aver come gli altri suoi compagni un cappello di ferro in capo,
portava un morione che gli nascondeva il volto del tutto. Non ebbe però
tempo d'osservare a lungo costui, che le galere scontrandosi, cominciò
la descritta battaglia nella quale entrò Lamberto de' primi. E siccome
eran seco non pochi soldati che avean militato sotto il sig. Giovanni
nelle sue Bande, Lamberto s'avventò tra' nemici gridando:
--Viva il sig. Giovanni! a noi le Bande Nere!--
Quasi eccitando i suoi compagni a mostrarsi degni della loro fama: e
quando gli veniva fatto un bel colpo, alcuno di costoro gridavano:.
--Evviva Sforzino!--così gli uni cogli altri si facevan animo a
portarsi virtuosamente.
Dopo lungo contrasto, dopo infinite uccisioni, riuscì pur ad essi di
superar il nemico, ributtarlo, e gettarsi in folla nel suo naviglio,
e qui crebbe, se pur potea crescere, l'accanimento ed il furore nel
disputar palmo a palmo il cassero della galera, che lubrico pel sangue,
barcollante per l'agitazione del mare, parea ogni tratto sfuggisse di
sotto i piedi de' combattenti, ora sospinti e serrati gli uni sugli
altri, ora divisi, sbalzati, capovolti spesso fuor delle sponde, ove
molti, dal peso dell'arme, dai ripercossi flutti, eran tosto cacciati
al fondo, molti morivan feriti sul capo da quelli che ne' palischermi
attendevano a finire i nemici, e trarre gli amici dall'acqua, ed
alcuni pochi riuscivan pure, afferrandosi ad una prora, ad un remo
d'una qualche barchetta a campare; ed i concavi, i dorsi dell'onde
si vedean pieni di barche sbalzate dai cavalloni, di nuotanti, di
cadaveri, di mezzo sommersi, di frantumi di tavole e di remi spezzati;
chè la fiamma della galera incendiata rischiarava tutto d'intorno d'una
luce vivissima e vermiglia.
D. Ugo di Moncada, vicerè di Napoli, dopo aver fatto ciò che può farsi
per difender il suo naviglio, e conosciuto ch'egli era vinto e disfatto
senza rimedio, sdegnò arrendersi, e deliberò morire, ma far costar
cara la sua morte al nemico. Circondato da' suoi gentiluomini, e dai
capitani delle sue milizie, tra' quali era Cesare Fieramosca (fratello
di Ettore) Don Pietro Urias, Antonio Colonna, il M. del Guasto, e
molti altri, fece testa dietro l'albero di maestra presso la stanga
del timone, e chiuso in uno scintillante arnese damascato, coperto di
una rotella, col Toson d'oro sul petto, aspettò l'ultimo assalto delle
genti di Filippino, che affollate e ruinose, per la corsia gli si
serrarono addosso.
Lamberto s'avventò per essere il primo a ferire, ma senza ch'egli
sapesse come, gli passò innanzi quel soldato dal morione, ch'egli
sempre s'era trovato vicino (e spesso gli avea porto ajuto durante la
battaglia) e che a questo punto, percosso tutt'in un tempo da molti
colpi, cadde, e sospinto si rovesciò fuor delle sponde nel mare. Parve
a Lamberto ch'egli cadendo gridasse il suo nome, ma ravvolto com'era
tra' nemici, intronato il capo da tanto frastuono e tanti gridi,
neppur fu certo s'egli avesse realmente udito chiamarsi, o se fosse
stata immaginazione. Ed intanto (per non allungarla troppo) era stato
dopo breve, ma asprissimo contrasto, disfatto e sciolto interamente
quel nodo di spagnuoli. Morto il vicerè, il Fieramosca, e quasi tutti
coloro che aveano a quel disperato modo tentato prolungar la difesa, la
reale di Spagna era venuta in potestà de' Genovesi, che abbattuto lo
stendardo di Castiglia v'alzarono invece la croce di Genova tra mille
lietissime grida di vittoria.
E ad ottenerla avean cooperato non poco le galere che mandate in alto
dal Doria prima che cominciasse il conflitto, eran tornate alle spalle
degli spagnuoli, tempestandoli colle artiglierie. Una palla tra l'altre
avea in sull'ultimo percossa e sfondata la reale un palmo sott'acqua,
onde non appena furono i Genovesi padroni di essa; non appena Lamberto
avea avuto tempo di ricever la spada d'un gentiluomo spagnuolo, il
conte d'Aguilar, che egli s'era dato prigione, quando s'accorsero che
la galera si veniva affondando.
Filippino comandò alle sue genti d'uscirne, e si può credere che fu
ubbidito senza ritardo. Parte si gettarono ne' palischermi, parte
riuscirono ad arrampicarsi alla prora della capitana, ed in pochi
momenti il naviglio fu vuoto d'uomini liberi, ma i galeotti vi
rimasero, nè v'era forza umana che valesse a salvarli. Eran già nel
mare sino alla cintola e dall'interno della galera, dalle parti basse
e cave della carena, l'aria cacciata dall'acqua sopravvegnente, usciva
con un suono cupo, quasi un lamento (direbbe un poeta) del naviglio
che si sentiva sommergere. Ma ben altri lamenti (e pur troppo qui
non era poesia) ben'altre grida mandava la sventurata ciurma, parte
cercando con tremendi ed inutili sforzi strappar le catene, parte
divincolandosi, gettando qua e là la persona, molti piangendo e
gridando misericordia, i più urlando bestemmie e maledizioni: e l'acqua
sempre cresceva.
Poco stante venne un'ondata, e dove prima si vedean le sponde,
la poppa, lo sprone della reale, le teste, le braccia tese della
disordinata ciurma, più non si videro che candide e gorgoglianti
spume. Avanzavan gli alberi; chè anch'essi in un baleno entrarono e
si nascoser nel mare; e nel punto medesimo un orrendo ed istantaneo
scoppio, unito ad un baleno di luce bianchissima, sconvolse ed intronò
il mare, i monti, l'armata, e lasciò il tutto in profondissime tenebre.
Poi, dopo un momento, un piover per tutto di travi, di legni, di ferri
stiantati, di membra d'uomini, di mille frantumi, che cadder nell'acqua
o sulle galere, ammazzando e storpiando Dio sa quant'altra gente, e
producendo mille mali, e poi un silenzio attonito e pauroso, nel quale
più non s'udiva che il sibilo della bufera tra le sarte e le antenne, e
lo scrosciar dell'onde che battevan le navi, o mugghiavan lontane nelle
scogliere del lido...
Lamberto, dopo questo fatto, venne mandato all'esercito di Lautrec.
Vinto e disperso questo, andò in Puglia con Renzo da Ceri, poi, quando
fu posto a Firenze l'assedio, deliberò correre tosto ad ajutar la
difesa, e non senza difficoltà riuscì pure ad entrare una sera in
città: giunto, col cuore che gli batteva, come può credersi presso la
casa i Lapi incontrò Laudomia nel modo che già abbiamo riferito.


CAPITOLO XV

Le loro ricerche non furono lunghe, Laudomia s'accorse tosto ch'era
pazzia volerne sperar alcun frutto, ed ebbe presto ricondotto Lamberto
al portone di casa. Questi avea taciuto un pezzo, ondeggiando in mille
pensieri e mille sospetti, pure alla fine non si potè più tenere, e
quando vide che era sul timore, disse fermando Laudomia pel braccio:
--Ma non dovrò io sapere che cosa sia tutto questo mistero?--
--Oh! Lamberto, ve ne prego, ritroviamo il babbo prima--rispose
Laudomia; pure strascinandolo seco, ed a passo veloce, giunsero ed
entrarono in casa.
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