Niccolò de' Lapi; ovvero, i Palleschi e i Piagnoni - 02

qualche sparo. Ma non se ne faceva caso come di cosa giornaliera: però
i colpi a poco a poco divenivan più numerosi e più frequenti, e molti
de' soldati che si trovavano in chiesa per assistere ai funerali del
loro compagno, cominciarono a bisbigliare parlandosi all'orecchio,
vergendo gli sguardi verso la porta con moto involontario e
sicuramente inutile, poichè non vi trovavan certo la spiegazione d'un
fatto che accadeva in tanta distanza. I loro discorsi erano di questo
genere:
--Comincia a soffiar per tempo la chimera[4] questa mattina--Eh!
saran fuochi d'allegrezza per qualche altro malanno che ci viene
addosso.--Possiate morir quanti siete!--(s'udì uno scoppio più
forte). Senti, senti! Dev'essere l'archibuso di Malatesta[5]--Senti
che nespola!--Che mattinata senza liuto!--Oggi in guerra, doman
sotterra--Malann'aggia chi rimane--Oh che vorrà dir questo! Vuol dir
panicco pesto.... ec. ec.--
Queste parole ed altre simili che uscivano di mezzo alla turba che
era in fondo alla chiesa, formavano un susurro che, unito agli spari,
cagionava una gran distrazione al povero laico.
Non ardiva voltarsi del tutto, ma non si vedeva più star immobile
all'ufizio suo come prima: tendeva l'orecchio, e talvolta gettava così
sopra la spalla ed alla sfuggita un'occhiata verso la porta.
A Niccolò non piacque udir in chiesa un tal bisbiglio, e voltando
appena il capo verso chi ne era cagione, disse con voce ferma e chiara
quantunque sommessa:
--E' pare che siamo in piazza!
Un maestro di scuola temuto che comandi il silenzio con voce burbera
ad una trentina di fanciulli, non è obbedito più pienamente, ne più
presto, di quel che lo fu Niccolò da quella turba, composta d'uomini
che però non si sarebbero lasciati dar sulla voce da altri così
facilmente. Il silenzio fu a un tratto generale e perfetto: cosicchè il
prete che diceva le segrete all'altare appena a mezza bocca, si potè
udire da un capo all'altro della chiesa. Ma questa quiete dovea durar
poco.
Unitamente ad uno scoppio più forte delle artiglierie del campo, i
vetri, i piombi ed il legname d'una delle maggiori finestre, infranti
in minutissimi pezzi caddero in chiesa, sfracellandosi e rimbalzando
pei cornicioni, per le mura e per tutti gli sporti che venivan
trovando, con tanto calcinaccio e polverio e ragnateli che parve
rovinasse la volta.
Per fortuna gran parte de' rottami cadde su un altare chiuso da un
balaustro, onde nessuno venne offeso.
V'era il costume in que' tempi tra i soldati che campeggiavano una
terra ogni volta che, venissero loro sborsate le paghe, o fosse la
festa del Sovrano che li pagava, nelle occasioni infine, ove parea
loro da mostrare allegrezza, di abbassar d'un palmo le culatte de'
pezzi d'artiglieria piantati per batter i bastioni, poi dar fuoco
sparando all'impazzata senza torre la mira, onde le palle dando loro
quest'arcata passavano al di sopra delle mura ed andavano a cadere
in mezzo alla città ove storpiavano ed uccidevano Dio sa quanti,
che ci avevano che fare quanto la persona che ci usa la cortesia di
tener questo libro tra le mani. E questa bella allegria (tutto sta
intendersi) si chiamava far gazzarra.
Il campo del principe d'Orange si trovava appunto in uno di questi tali
impeti di buon umore, e facendo gazzarra quella mattina, una palla
colse la chiesa di S. Marco, un'altra ferì in piazza S. Giovanni, uno
de' migliori soldati del capitano Sandrino Monaldi, ed in altre parti
della città furon fatti molti inaspettati danni.
Questo caso non alterò gran fatto nè i soldati nè Niccolò nè i suoi
figli. Le due giovani un poco si sbigottirono, ma visto non era altro,
presto si dettero pace.
Quello che si mostrò meno ardito di tutti, e gli servan di scusa lo
stato e l'età cadente, fu il padre che diceva messa.
Il senso del timore superò in lui in quel momento ogni altro rispetto,
e per dir il vero tanto rovinìo e tanto fracasso a chi non se
l'aspettava, dovea fare un certo senso: fe' gobbe le spalle, abbassando
il capo, e coprendosele colle mani disse--Dio mio, misericordia!--E se
il robusto laico non l'avesse afferrato sotto l'ascella forse cadeva.
Fin qui però v'era poco male, ed il laico avea meritato bene anzi chè
no dal suo superiore.
Il male fu, che nel reggerlo, vistolo tanto sgomentato per un accidente
che a lui pareva assai leggiero, gli venne una tal voglia di ridere,
che a malgrado de' suoi sforzi per vincerla alla fine pur gli convenne
lasciarsi andare, e scoppiò in una risata la più sonora e sgangherata
del mondo, ed avendo le mani impedite nel sostenere il buon vecchio,
che ancora tremava a verga a verga, non potè nè volgere il capo
altrove, nè porsi una mano sulla bocca, nè soccorrer se stesso con que'
rimedi che s'adoprano in cotali casi.


CAPITOLO II.

Molti fra gli astanti avean posto mente allo sbigottimento del frate
che diceva messa. Pel rispetto che gli si portava, era saputo male alla
maggior parte che il laico fosse stato tanto ardito da ridergli in viso
a quel modo, e se ne maravigliarono credendolo un laico da dozzina, un
qualche villano che avesse lasciata la vanga per entrar in religione.
S'ingannavano: ed affinchè il lettore anch'esso non istupisca del suo
fare, gli diremo chi egli fosse più brevemente che si potrà.
Gl'Italiani al giorno d'oggi sanno l'istoria della loro patria, onde se
il nostro lettore è italiano, avrà a mente senza dubbio una disfida che
venne combattuta presso Barletta dai nostri contro i francesi, ove gli
ultimi rimasero perdenti.
Ove poi questo nostro libro venisse tra mano a qualche straniero
lo pregheremmo a dar un'occhiata al Guicciardini, al Giovio, od al
Muratori, anno 1503, e vi troverà narrata questa disfida, e, tra i
guerrieri Italiani, mentovato un certo Tito da Lodi, soprannominato il
Fanfulla, il quale al dir del Giovio specialmente, era uomo prode, ma
di nuova e capricciosa natura.
Costui quando Consalvo ebbe conquistato interamente il regno di Napoli,
ricevè come gli altri uomini della compagnia del signor Prospero
Colonna alla quale apparteneva, la sua parte delle spoglie de' vinti, e
la convertì con grandissima fretta in due centinaja di bei ducati d'oro.
L'ultimo giorno del primo mese che passò in Napoli, dopo aver riscosso
questa somma dovette dividersi dall'ultimo de' suoi ducati, il quale
andò nella borsa di coloro che giocavano al lanzichinecco (oggi
zecchinetta) con miglior fortuna, o maggior astuzia di lui, a tener
compagnia agli altri centonovantanove.
Egli avrebbe avuto, è vero, un buon cavallo ed un ottimo arnese da
vendere, o da impegnare, e potuto così scialare un altro poco, ma ebbe
pur senno bastante per capire che sarebbe stato lo stesso come per un
cieco vender il violino che lo fa campare.
Si rassegnò, confortandosi col dire «Oramai mi son fatto tanto
conoscere, che dove m'accosto trovo pane.»
Il signor Prospero non l'avea voluto più nella compagnia per non so che
quistione avuta con certi compagni, nella quale avendo il torto, s'era
fatta una ragione a suo modo a furia di busse.
Ciò non ostante quando si trovò al verde, l'andò a trovare al palazzo
Gravina, sulla piazza ove oggi è la fontana di Montoliveto, senza
curarsi di passar per un'anticamera piena di que' suoi avversari, e
quando gli si trovò davanti, disse che non veniva a richiederlo d'altro
se non che d'un attestato in iscritto com'egli avesse combattuto nella
disfida di Barletta, e poi gl'insegnasse per sua cortesia qual fosse il
paese più vicino ove si menasser le mani.
Il signor Prospero, che pur gli voleva bene, conoscendolo un diavolo
ardito, come se ne trovan pochi, gli fece una carta a modo di
benservito, tutta in sua lode, poi l'avviò in campagna di Roma ove si
messe colla parte colonnese durante i torbidi che tennero dietro alla
morte d'Alessandro VI, che turbarono il breve pontificato di Pio III,
ed il principio di quello di Giulio II.
Seguì questo fiero pontefice nelle sue imprese di Romagna, poscia,
per non allungarla troppo, venne al suo solito mutando padroni sino
al 1527, ed in quel frattempo non accadde in Italia fatto d'arme
d'importanza ove egli non si trovasse.
Lasciò un occhio alla battaglia di Ravenna, due dita della mano manca
a Marignano, rimase per morto sul campo alla giornata di Pavia, e
quantunque dopo tante batoste si trovasse ridotto a camminare un
po' sciancato, a dolersi ne' luoghi ov'era stato ferito, ogni volta
che volea cambiar il tempo, quantunque i suoi baffi già così neri,
apparissero ora come se vi fosse brinato, nulladimeno lo troviamo
la mattina del sei di maggio del 1527 (e Dio sa se vorremmo poterlo
tacere!) al piè delle mura di Roma tenendo colle due mani in
equilibrio una lunga scala a piuoli in mezzo alla feccia de' più
sfrenati malandrini che prendessero in quel tempo il nome di soldati,
i quali guidati da Borbone stavan per dar l'assalto alla capitale del
mondo cristiano.
La scala di Fanfulla, detto fatto, si trovò appoggiata ai merli e
piena dal fondo alla cima d'altrettanti di quei satanassi quanti aveva
piuoli. Sul più alto, già s'intende, era Fanfulla, che i suoi compagni
videro un momento dopo cacciarsi tra i merli e sparir tra il fumo delle
archibugiate, e volendo seguirlo vennero ributtati, nè poterono superar
le mura se non alcuni minuti dopo.
Per quanto possa un cervello umano esser fertile ad immaginar fatti i
più strani, i più turpi, i più atroci onde formarne un tutto che gli
rappresenti il sacco dato a Roma in quell'occasione dall'esercito di
Borbone, rimarrà sempre addietro dagli orrori, de' quali gli storici
hanno a noi tramandata la memoria.
Passò un giorno, poi un altro ed un altro, e nacque tra soldati un
bisbiglio.
--Fanfulla dov'è? Che è stato di Fanfulla?--tutti ne domandavano e
Fanfulla non compariva.
Quelli che conoscono di qual pasta sia il buon cuore della gente
d'arme, non dureranno fatica a credere che, a malgrado di questa
premura, non trovar Fanfulla, domandar di lui, crederlo morto e
sotterrato, e non pensarvi più, tutto accadde in un quarto d'ora.
Ma Fanfulla non era morto.
Stava zitto e contento nella cantina d'un canonico di S. Maria in
Trastevere, ove s'era chiuso conducendovi il padrone e la fante acciò
gl'insegnassero la botte migliore. Riposatosi molto a suo bell'agio, e
fattovi un fianco da prelati, riscappò fuori dopo tre giorni.
Ma il povero canonico, o fosse lo spavento provato in tutto quel
tempo di vedersi a discrezione d'un omaccio di quel taglio, che ad
ogni momento gli pareva avesse a spiccargli il capo con un rovescio
di quel suo maledetto spadone, o fosse il disagio sofferto, chè
Fanfulla ubbriaco per far ora tra un pasto e l'altro, voleva per forza
insegnargli a schermire, e quando non lavorava a suo modo le pugna
fioccavano, il fatto sta che s'ammalò ed in pochi giorni se n'andò
all'altro mondo.
Ora finalmente ci troviam presso a poter dir bene del nostro Lodigiano:
pure ci rimane a narrare l'ultima sua pazzia, la quale pur troppo non
fa parer bugiardo il proverbio volgare «che la più dura a rodere è
sempre la coda».
Uscito dunque mezzo balordo e trasognato dalla cantina del povero
canonico, trovò la città vinta e soggetta del tutto, e le chiese, i
palagi, le case, gli sventurati cittadini, le loro robe, tutto insomma
in balìa, non dirò dell'esercito, che questo nome suppone Capi che
comandino, e soldati che obbediscano, ma di quella masnada d'assassini
senza legge, senza fede, senza discrezione, e senza misericordia.
Clemente VII dall'alto di castel S. Angelo ove era chiuso poteva
scorgere gl'incendj serpeggiare per la città, udir gli urli, i pianti,
i lamenti di quelli che venivan tormentati onde scoprissero i tesori
nascosti, le grida forsennate, le risa feroci, lo sgavazzare sfrenato
dei vincitori.
Per le strade di Roma si trovava qua una casa che ardeva, là un'altra
consumata di fresco dalle fiamme divenuta uno scheletro informe ed
annerito. Sulle cime de' muri rimasti in piedi vedevi star in bilico
travi ancor fumanti, disordinate e sporgenti. Sotto monti di rottami,
di calcinacci, di tavole e di masserizie infrante ed abbrustolite
giacevan cadaveri schiacciati, de' quali molti perduta ogni umana
sembianza mostravan fuori delle rovine o braccio, o piede, o capo,
tutto poi intriso di sangue, sozzo e contaminato d'ogni bruttura.
Più lungi cadeva con fragore svelto da' gangheri un portone d'un
palazzo: la folla dei predatori si scagliava nell'interno urlando:
in un momento dalle cantine alle soffitte tutto s'empieva di que'
ladroni; dalle finestre sconficcate, piovevano in istrada gettati
alla rinfusa, cofani, sedie, tavole, quadri, vasi, bronzi, coltri
di seta, suppellettili d'ogni genere: fra quelli che aspettavano il
bottino nella via fu visto taluno rimanere storpiato, o malconcio da
qualche pezzo di mobile che all'impensata gli rovinava addosso, altri
contender furibondi la medesima preda, sguainar le spade, ferirsi,
poi sopraggiunger una nuova frotta che la strappava loro di mano e
fuggiva con essa. Drappi, vesti di gran valore si fermavano appiccate
ai cornicioni, alle inferriate; parte vi rimanevan neglette per
l'abbondanza della preda, parte si facevan cadere colle punte delle
partigiane e delle picche. Ad ora ad ora scoppiava un urlo generale più
forte; tutti i visi si volgevano, tutte le bocche s'aprivano.--Dov'è.
Che è.--Guarda là, là, lassù...--tutti guardavano in alto: ad una
finestra v'era o ritta, o ginocchioni, o spenzolata mezza fuori qualche
vecchia, qualche matrona, pallida, abbandonata come uno straccio, o
domandava pietà o cacciava strida: la turba la voleva tosto--Giù,
giù... a noi--venga. Le si dava l'andare, veniva a terra tra le risa e
gli evviva, e rimaneva fracassata sul lastrico, o fermata in aria sulla
punta delle ronche. Quando tutto era devastato s'appiccava il fuoco,
onde se v'eran padroni nascosti dovessero sbucar fuori.
Trovati alle volte senza un tal mezzo nei nascondigli, su pei
cammini, nelle cantine, nelle fogne, pe' cessi, strappati di là a
forza, percossi, bistrattati, rivedevano la luce del sole, e stavano
come insensati e immelensiti all'aspetto di que' visi infocati dal
furore, dall'ubriachezza, dalla gioia di potere sgozzare, distruggere,
stuprare; alla vista di quei pugnali che splendevano loro ad ogni
tratto sugli occhi, delle corde, de' ferri roventi preparati per
istraziarli, delle fanciulle oltraggiate, poi derise, delle donne, o
vecchie o brutte che fossero, fatte tombolar per le scale o morire
sotto il bastone, dei giovanetti ridotti a tali vituperii che gli
sventurati parenti si dolevano di vederli vivi.
Nelle chiese le immagini de' santi rovesciate od infrante; le pitture,
le tavole degli altari lacerate od imbrattate; fatti in pezzi i vasi
e gli arredi sacri onde partirli più facilmente. Finito il devastare,
nè essendovi da far altro danno, divenivano stanza de' soldati, che vi
alloggiavano co' muli e co' cavalli, pe' quali gli altari servivan di
mangiatoia.
I banchi ed i confessionari fatti in pezzi ardevano in un angolo sotto
pajuoli e spiedi pieni di carni: in un altro gozzovigliavan giorno
e notte a tavole sempre imbandite, soldati, meretrici ebbre avvolte
ne' paramenti sacerdotali, e tra mezzo monache, matrone, fanciulle
onorate che lo spavento, le percosse, gli strapazzi, avean fatte uscir
di senno, senza saper più nè dove fosser, nè che facessero, stavano a
tutte le voglie di quella gente perduta, che intronava loro gli orecchi
di schiamazzi, di motteggi, d'orrende bestemmie e di canti osceni.
S. Giovanni de' fiorentini, tra l'altre chiese, era nel modo appunto
che abbiamo descritto, ridotto un rancio da soldati, una stalla, un
postribolo, quando sul far della notte v'entrò Fanfulla uscito allora
dalla sua cantina.
Egli aveva indosso la sola corazza. L'elmo, i bracciali, gli stinieri,
i cosciali, legati colle loro corregge in un fascio gli pendevano sulla
schiena annodati alla spada che portava in ispalla reggendola colla
mano manca. In capo la berretta del canonico: e sotto questa usciva
quel suo viso spiritato, tra giulivo e sonnolento pel gran bere che
aveva fatto.
Si fermò sulla porta fischiando e cominciò a guardare lo strano
parapiglia che era là entro.
Sui capi di molti barili rizzati in piedi stavan posate imposte di
finestre, assi, battenti di porte, e formavano una tavola lunga
quanto la navata della chiesa. La tovaglia mancava all'imbandigione,
ma questa povertà era compensata abbondantemente. Calici, pissidi,
piatti e vasi d'argento lavorati sottilmente a cesello sul gusto delle
opere di Benvenuto Cellini, ampolle, boccali che aveano ornate le
mense di cardinali e di prelati, splendevan' ora tralle mani ruvide ed
abbronzate de' soldati.
I candellieri degli altari servivano ad illuminare quest'orgia, e
perchè forse parean pochi, eran incastrati qua e là ne' fessi delle
tavole pezzi di torcie e candele, quali lunghe, quali corte, alcune
rotte e rovesciate in modo che la punta accesa cadendo sulla tavola
a poco a poco l'accendeva senza che alcuno se ne curasse. All'uno
de' capi era posto un orcio pieno d'olio a guisa di lucerna, ed una
tovaglia d'altare attorcigliata, ardeva per lucignolo, all'altro era un
mezzo barile sfondato, ed in esso un mazzo di forse cinquanta candele,
le cui fiamme attraendosi a vicenda s'univano e formavano una fiamma
sola e grandissima.
Dall'una e dall'altra parte del desco, seduti sulle panche della
chiesa, chi mangiava senza guardare attorno, chi dormiva appoggiate le
braccia alla tavola, ed il capo sovr'esse. A quattro, a sei giocavano
a dadi o al lanzichinetto, o a germini; e ad ogni poco senza dir che
ci è dato, era un gridare, un dirsi ogni villania, un rizzarsi, un
prendersi pe' capelli, un guizzar di pugnali; poi chi era caduto sotto
la tavola o ferito o morto vi rimaneva con altri che già v'eran da
prima sepolti o nel vino o nel sonno: i compagni seguitavano a giocare.
Un pezzo d'omaccio grande e grosso s'era sdraiato boccone per dormire,
sulla tavola stessa, quant'era lungo, tutto imbrodolato dal vino uscito
da' vasi che avea rovesciati, cogli stivali pieni di fango sui piatti
d'argento, e russava senza darsi per inteso del diavoleto che si faceva
intorno a lui.
Le più sozze cortigiane s'aggiravano in quel disordine, come i vermi
sguazzano nell'acqua corrotta. Correvano qua e là cogli occhi ardenti,
le guancie infocate, quali tutte scinte, quali seminude; accolte ora
con turpi carezze, ora con villane parole, con percosse, o con urtoni,
senza che paresser curar più le une che gli altri.
Un soldato salito a cavalcioni su una botte vuota sonava un piffero,
e cacciava fischi che s'udivano a malgrado delle voci, delle grida,
de' canti e dello schiamazzar generale: un altro con una briglia da
muli piena di sonagli, batteva a gran sferzate sulla botte per far la
battuta; un terzo picchiava con un turibolo sovr'un paiuolo rovesciato,
e questa musica diabolica serviva a far ballare chi poteva ancora
reggersi in piedi.
Fanfulla si fermò un momento sulla soglia ammorbato dal tanfo del vino,
di sudiciume, di rifritto che esalava di là entro; poi venne avanti e
scaricò sulla tavola la ferraglia che avea in collo senza guardare nè a
stoviglie nè a bicchieri, e ne fracassò tanti quanti ne colse.
Lo strepito che fecero l'arme cadendo, e rompendo piatti e boccali fe'
volgere uno de' seduti a tavola che lo guardò, e ravvisatolo gridava:
--Oh Fanfulla!--
E poi un altro, e un altro, e un altro, poi tutti si dettero ad urlare
battendo le mani, o percuotendo co' pugni sulla tavola.
--Fanfulla! e tornato Fanfulla, è risuscitato il guercio (che così
avea nome dacchè gli mancava un occhio).--Evviva il guercio cane!--Ti
credevamo all'inferno da tre giorni!--Dove sei stato sin ora brutto
anticristo?--Vien qua, bevi,... che non ti possa uscire di corpo!--Ohe!
ohe! Qua vino, carne, capponi, saette per Fanfulla, che è tornato!--Sia
ammazzato chi ne dice bene! Evviva Fanfulla!--Evviva il guercio!...--
E quest'ultimo evviva fu uno scoppio tale di tutte le voci unite che
riuscì sino a coprire il fischio del piffero, fece soprastare quello
che battea colla briglia, e l'altro dal turibolo, fermar chi ballava,
e svegliarsi colui disteso sulla tavola, il quale alzò un visaccio
strano, contraffatto dal sonno, si guardò attorno con male umore,
disse «che siate morti a ghiado» e ricacciato il capo tra le braccia
ricominciò presto a russare.
Quegli che riceveva dalla brigata segni così lusinghieri di
benevolenza (il lettore non guardi troppo a minuto al modo
d'esprimersi, chè tutto sta intendersi, come abbiamo detto nel capitolo
antecedente), il nostro Fanfulla stava ritto, colle braccia intrecciate
sul petto, sogghignando per la compiacenza di vedersi tanto innanzi
nella stima e nell'affetto di quest'uomini dabbene.
Venne una cuoca tutta sudicia, stracciata, e coll'untume fin sulla
punta de' capelli, recando le vivande che erano state domandate; ma
Fanfulla con un pugno a sottomano, mandò per aria i piatti e ciò che
v'era.
--Che mangiare? M'avete preso per morto di fame?....--
La fante si ritrasse sbigottita, ed egli togliendosi la berretta del
canonico la piantò in capo a quello che si trovò più vicino dicendogli:
--Da bere!--
--Prima hai da dire dove sei stato questi tre giorni.
--Sono stato coi trentamila paia di diavoli che vi portino quanti
siete... Da bere!--
Per non attediar troppo il lettore con queste ciance, diremo che dopo
aver bevuto (e Dio sa se piovve sul bagnato) raccontò alla meglio che
potette colla lingua grossa, e la pronuncia mal sicura, i suoi casi
col canonico. Alla fine però d'ogni periodo della sua storia, ove lo
scrittore metterebbe un punto fermo, il narratore metteva un bicchier
di vino, ed i periodi, contro l'usanza dei cinquecentisti, furon brevi
e furon molti.
Poco stante comparì in chiesa strascinato da una ventina di que'
malandrini, un povero sventurato vecchio, che aveano, si può dir,
dissotterrato, traendolo dal fondo d'una cantina ove s'era appiattato.
Mostrava l'età di settant'anni all'incirca, tremante, curvo, in sola
camicia, che gli giungeva al ginocchio, e lasciava vedere le coscie
scarne, le ossa protuberanti alle giunture, le gambe consunte, enfiate
sui malleoli per la vecchiaja. Aveva ancora una calza vermiglia lacera
e cadente, solo avanzo della porpora. Quest'uomo così indegnamente
trattato era un cardinale; caritatevole, senza superbia, di costume
angelico, in fine un sant'uomo.
Quando si trovò scoperto, abbandonò ai soldati quel poco che avea
potuto salvare, riponendolo in un nascondiglio in fretta in fretta,
mentre già correva la voce per Roma che le mura eran vinte. Il tesoro
era piccolo, poichè dava tutto per elemosina: onde i soldati non
potendo credere vi potesse essere un cardinale povero, tennero per
fermo ch'egli non volesse palesare il tesoro maggiore, e che l'avarizia
fosse in lui più potente dell'amor della vita. Provarono dapprima a
spaventarlo, poi dalle parole presto passarono alle percosse, gli
strapparono di dosso i panni, lo pestarono coi pomi delle spade e de'
pugnali: visto che tutto era inutile lo spinsero in S. Giovanni de'
Fiorentini per vedere quale strazio fosse da farne.
Gli urli e il fracasso crebbero, se era possibile, all'apparire
di questa nuova masnada, che si fermò avanti alla botte sulla
quale era l'uomo dal piffero. Questi cominciò a farla da giudice,
e ad interrogare il povero vecchio, il quale viste le tante e così
abbominevoli profanazioni, scordava il proprio pericolo, e coprendosi
gli occhi colle mani dava in un pianto dirotto.
Ma le parole duraron poco, e si stava per venire ai fatti. Già un
soldato luterano, di quelli calati in Italia con Giorgio di Fransperg,
recava un ferro rovente per incominciare il tormento, quando afferrato
al polso del braccio destro, da una mano che parve una tanaglia, si
dovette fermare, ed il ferro gli cadde a piedi.
Era la mano di Fanfulla. L'ubriachezza avea per costui due periodi:
il primo gaio, vispo, manesco, pieno di risa e di pazzie fin che il
vino non era in troppa abbondanza; se poi seguitava a bere cadeva
nel secondo, ed allora diventava malinconico, tutto tenero, tutto
svenevole, abbracciava, baciava chi gli capitava innanzi, che pareva
proprio se ne struggesse.
In quel critico momento egli si trovava appunto in questo stato per
fortuna del vecchio prigione.
Respinse il soldato con tanta forza che quasi lo mandò a gambe
all'aria, e poi cominciò a gridare:
--E' non si la così co' galantuomini.... e' non si strapazza a quel
modo la carne de' cristiani!.... razzaccia di can rinnegati!... sì...
cani... cani... mille volte cani!.... Credete voi che abbia paura
perchè siete in tanti?.... Vi avevo in.... dieci anni prima che foste
nati! (avverta il lettore che ci manca l'ortografia per esprimere
le strane trasformazioni che subivano le parole pronunciate dalla
lingua annodata di Fanfulla, perciò la sua fantasia supplisca a questo
difetto). Guarda come me l'hanno conciato!.... E non si vergognano
mica i ladroni!.... Povero vecchio.... Ma non aver paura..... (ed
intanto gli si abbandonava addosso con tutta la persona baciandolo
ed abbracciandolo) Non aver paura.... C'è qui Fanfulletta tuo!....
vedrai come te li suona.... son gentaccia senza fede.... luterani....
scomunicati, fanno il peggio che sanno..... che vuoi sperare?....--
--E tu che speri, pezzo d'asino, gridò uno di que' forsennati, cavar
danari da un cardinale senza la corda e 'l fuoco?--
--Pel carattere di vescovo che ho in dosso, disse il vecchio cardinale
stendendo le mani scarne e tremanti verso i suoi persecutori, vi giuro
che non ho altro:....nè oro: nè argento--nulla, nulla... avete preso
tutto.--
--Dallo ad intendere a 'sto par di stivali, disse uno di quelli che
l'avean condotto: e buttando in mezzo un fardello che si sciolse
n'uscirono alcuni arredi sacri, un boccale col suo bacino d'argento,
due breviarj ed altre cosarelle di poco valore.
--Ecco qui il tesoro, seguiva,... e non ha altro il cardinale!...
Guardate un po' se il fanciullino ha tutti i denti in bocca!.... Porta
qua quel ferro che al corpo... al sangue... gli ho da friggere il
core!--
Fanfulla anche questa volta entrò in mezzo, ed impedì l'esecuzione
della minaccia.
--Senti zi' cardinale,.... mi cominci a puzzar d'ammazzato.... che
vuoi? son villani..... gente bassa.... senza creanza... le parole
fan poco frutto, voglion esser ducati, fiorini, e se no ti fanno la
festa.... mortuus est in camiciola.... per loro ammazzar un cristiano,
è lo stesso che cacciarsi una mosca dal viso. Senza il pagamini, senza
il mammona iniquitatis, come dite voi altri preti, ti mettono allo
spiedo ad uso starna.... Animo... spirito... fuoco al pezzo.... una
parola è presto detta.... qua a Fanfulletta vostro in un orecchio....
Dov'è sotterrato il morto?--
--Ma io già v'ho detto che non ho tesoro, lo sa Iddio che ci vede, son
un povero prete:... vi par forse che a questi termini vorrei star a
badare a qualche sacchetto di fiorini?--
Fanfulla si scontorse, scosse il capo masticando e tirandosi colle dita
prima un baffo e poi l'altro.
--Io la credo a mio modo, e tu la dirai al tuo.--E chinandosi
all'orecchio del cardinale al quale teneva una mano sull'omero e glielo
ghermiva sempre più sodo a misura che andava avanti col discorso, disse:
--Avete capito che si tratta della pelle? Come vi s'ha da dire?... in
tedesco?... Seguita, seguita a far l'indiano e te n'accorgerai?...
E non s'intende già di dar tutto (seguì abbassando la voce onde gli
altri non udissero) un migliaretto di scudi.... di zecchini... sarà
meglio.... gran cosa! Son ubbriachi fradici dal primo fin all'ultimo,
vedete, questo branco di porci..... ci vuol giudizio..... io son
solo.... e tra tanti uno solo che stia in cervello non basta..... non
ti far strapazzare prete mio benedetto!....--
Il dialogo andò innanzi un altro poco su questo fare e finì come dovea
finire. Il vecchio asserì sempre che non avea altro, ed era la verità;