Niccolò de' Lapi; ovvero, i Palleschi e i Piagnoni - 13

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--Col cuore e coll'anima, rispose Lamberto prendendo la mano che gli
offriva il suo avversario, e poi un dopo l'altro quella di tutti.
Empiuti i bicchieri li votarono in pace e concordia, e Lamberto rimase
presso di tutti in miglior concetto di prima.
Il capitan Puccino il quale, mentre Lamberto parlava con sì poco
rispetto della signora Selvaggia e sue consorti, gli era andato sempre
facendo qualche cenno, o dicendo a mezza bocca, «Bada! bada a te
Sforzino!» soggiungeva ora battendogli sulla spalla:
--Ringrazia Iddio che sei un bel giovane, se un altro avesse detto la
metà di quel che hai detto tu, avrebbe saputo presto quante dita sia
lunga quella lama pistolese che porta al collo la signora.--
Ed additava un bel pugnaletto ch'ella aveva sul petto appeso ad una
catena d'oro.
Il Puccino non s'era però apposto giudicando i pensieri della
Selvaggia. Le parole di Lamberto invece di farla adirare, avevan
impressa sul suo viso quell'espressione cupa e profonda che accennammo
poc'anzi. Durante tutta la quistione era rimasta coll'occhio basso
senza aprir bocca. A questo punto alzò il capo, e serrando le ciglia
verso il Puccino disse:
--Che cosa sai tu di quel ch'io pensi? E se costui mi paja un bel
giovane, o no? E s'io mi rechi a vergogna ciò ch'egli ha detto? Non
t'impacciar del fatto mio tu! Che sempre mi sei parso un asino, ed ora
più che mai.--
--Tempo cattivo! disse ridendo il Puccino, e preso pel braccio Lamberto
pur seguitando a ripetere, «tempo cattivo! Temporale in aria!» lo
trasse fuori in cortile.--
--Lascialo andare, e faccia pure il santo a sua posta, disse il
Cattivanza alla donna, e noi attendiamo a darci buon tempo, anima mia.
Uh! benedetti quegli occhi ladri! Ch'io ti voglio un bene ch'i' me ne
muojo!--
Ed in così dire volle cingere colle braccia la vita snella della
Selvaggia, la quale gli rispose con la mano in sul viso, e non picchiò
per ischerzo.
--Fatti in costà, che tu m'hai fradicia!--disse alzandosi per
andarsene.
--Oh! sta a vedere che tu pure ti fai Piagnona. Se ti vedessi mai far
segno di croce, e' sarebbe il primo alla fediddio.--
Questa risposta dello Strozzi non fu però udita dalla donna, che senza
più badargli era scomparsa. Anch'esso cogli altri si tolse allora di
là andando ognuno pel fatto suo, chè già principiava a imbrunire: non
lasciava però egli di brontolare esclamando: Sforzino faccia pure il
Piagnone quanto vuole... suo danno... ma se punto punto vedo che questo
male s'appicchi, l'avremo a discorrere.--
Dopo due giorni il campo si mosse verso Mantova, col proposito di far
testa ai tedeschi di Giorgio Frondsperg che, in numero di quindicimila
uomini, seguivan l'usanza vecchia di vivere a discrezione alle spalle
degl'Italiani. Si noti che in questi casi il vocabolo _discrezione_,
suona _indiscrezione_. Le bande del sig. Giovanni, in pochi
alloggiamenti e dopo qualche scaramuccia di lieve momento, si trovaron
sul Po presso a Governolo. Lamberto, per la via, facendo l'uffizio di
buon soldato quando si offerse l'occasione, e quando le cose procedevan
quietamente, mostrandosi solazzevole e buon compagno, s'era comprata
la benevolenza de' suoi camerati, coi quali piacevolmente più volte
era tornato sui medesimi discorsi fatti alla cena in proposito della
Selvaggia.
Ella avea bensì tenuto dietro all'esercito, ma senza mai cavalcare di
compagnia con alcuno, nè far motto a persona. Lamberto la vide due o
tre volte trascorrergli accanto su un cavallo turco veloce e leggero
come un cervo, con un cojetto indosso ed una zagaglia in mano, e tosto
sparire tra la polvere sollevata dalla moltitudine che seguiva la
strada maestra. Un giorno che alcuni scoppiettieri tedeschi fecero un
poco di testa e convenne rompersi, la vide un tratto uscire correndo
dal folto dell'archibusate, e passandogli accanto senza fermarsi gli
gridò: _S'io non valgo per donna, valgo per uomo_, e via come una
saetta.
Passati alcuni giorni il valoroso e sventurato Giovanni de' Medici,
colpito in una gamba da una palla di falconetto, fu portato a Mantova,
ed in breve spazio di tempo passò di questa vita. Le sue bande piansero
amaramente la morte di quello che era stato tra essi il primo per
ardire più che per grado, vestitesi a bruno ebbero d'allora in poi nome
di Bande Nere, e mantenendo viva tra loro la memoria de' precetti e
degli ordini del loro capitano, furono sempre il terror de' nemici, e
sempre, ovunque percossero, rimasero vittoriose.
Lamberto che aveva sperato, seguitando la fortuna del sig. Giovanni,
salir presto a quel grado d'onde con suo onore potesse poi rivolgere
il pensiero alla Lisa; che all'ammirazione accesa in lui da gran
tempo dalla fama delle sue imprese, univa ora per esso un affetto
nuovo e vivissimo generato dalla cortesia colla quale n'era stato
accolto, provava doppio dolore e non sapea a qual partito appigliarsi.
Quantunque Orazio Baglione avesse ottenuto il comando delle bande,
e fosse pur uomo da guerra di molto grido, temeva Lamberto non
s'avessero a risolvere, o almeno a perder molto della loro riputazione
e quantunque ciò in effetto poi non avvenisse, il suo sospetto non era
però del tutto fuor di proposito.
Venne tratto da questa perplessità da uno strano incontro ch'egli ebbe
colla Selvaggia.
Egli non era sì poco accorto da non essersi alla prima avveduto che
costei gli avea posti gli occhi addosso, ed avea fatto disegno sopra
di lui. Diceva tra sè ridendo: «io non son tordo pel tuo carniere!»
pensandosi fosse suo solo proposito tentare, com'è costume delle
cortigiane, di spillargli i danari. Siccome quanto a questo si sentiva
sicuro non n'aveva un pensiero al mondo.
Una sera uscito un trar di mano dagli alloggiamenti, sedutosi sulla
riva sabbiosa del Pò, volgeva gli occhi al sol cadente che stava per
nascondersi dietro folte e lunghe file di pioppi onde era coperta
la riva opposta. Mirava scendere placida e maestosa la corrente del
fiume, che facea tremolo specchio agli alberi, ed all'infocato chiarore
dell'occidente.
Ripensava in cuore le belle sere d'estate in riva all'Arno, quando
fuor della porticciuola passeggiava lungo la sponda e vedeva il sole
tramontar dietro le colline d'Artimino. Si ricordava che da quei luoghi
volgendo a tergo lo sguardo verso oriente avea tante volte considerato
quanto bella ed augusta si mostrasse Firenze all'ultimo raggio del
sole, co' suoi palazzi bruni e merlati, le sue innumerabili torri,
i suoi ponti, le sue chiese. Vedeva colla fantasia la gran cupola di
Santa Maria del Fiore, e la palla dorata che da lontano, quando il
sole la ferisce di costa, pare una stella che si sia posta sulla sua
cima; vedeva il campanile di musaico del Giotto, l'altissima torre
di Palazzo, ed al sommo il Leone rampante della repubblica volgersi
a seconda de' venti; e pensava: «ti sei piegato, è vero, a molte
tempeste, ma sei pur sempre costì!»
Povero Lamberto! Non sapea che un tal vanto dovea presto cadere per
sempre insieme con quell'insegna.
Questo quadro bello, ma inanimato riceveva ad un tratto vita ed affetti
dalle immagini della Lisa, di Laudomia, di Niccolò, de' figli, de'
compagni d'infanzia; dalla memoria delle parole dette od udite, degli
sguardi, de' cenni, di quegli atti cui si finse non porre mente, ma che
sempre poi si sono serbati in cuore. Dall'amaro pensiero, e pur caro
al tempo stesso, dalla povera vecchia madre, che all'ultima dipartenza
aveva saputo spinger l'amor materno sino a velar con un sorriso di
speranza la rassegnata persuasione che provava di non rivedere più il
figlio che in cielo. Egli avea letto nell'ultimo suo sguardo questo
pensiero doloroso, e col cuore trafitto da uguale sospetto, aveva esso
pure simulata quella speranza che in effetto poco sentiva. Tali memorie
ora l'assalivano come un rimorso, e rimproverando se stesso diceva: «E
potesti lasciarla? E se non la rivedessi più?» e colla mano sugli occhi
piangeva.
La volta del firmamento si veniva intanto popolando di stelle, l'ultimo
crepuscolo mostrandosi appena all'occaso con una striscia di luce
rancia sulla quale apparivano le cime de' pioppi, mosse leggermente dal
vento notturno.
In quella sentì una pedata che s'avvicinava cheta cheta sull'arena.
Alzò il capo, e vide una figura bruna avvolta in un mantello che si
veniva accostando. Importuno! disse in cuore Lamberto, cui doleva venir
tolto a' suoi più cari pensieri, e stava per moversi onde evitarlo, ma
quella figura gli si era posta a sedere a due braccia distante, e dopo
un momento di silenzio con voce bassa ed umile gli diceva.
--Dimmi, o giovine, non hai tu lasciata nella tua terra una donna che
t'ama? che tu ami sopra ogni cosa al mondo? Non pensavi tu ad essa ora?
Rispondimi; che Dio ti consoli! Rispondimi schietto.--
La voce era di donna: Lamberto disse fra se stesso: «costei è la
Selvaggia!» e l'idea che una cortigiana si venisse a frammettere ne'
pensieri augusti e puri della patria, della madre, della sua Lisa, gli
fe' sentire il ribrezzo che si prova quando in mezzo a fiori odorosi ed
intatti si scorge appiattato un insetto brutto e schifoso.
S'aggiungeva poi il sospetto che quella comparsa improvvisa, a
quell'ora, in quel luogo solitario, fosse una trappola di costei.
--Oh! che c'entrate voi ne' fatti miei?--rispose Lamberto con voce
tronca ed altera.
--Oh! non c'entro; lo so, non son degna d'entrarvi..... chiedo
io tanto? Veggio ch'io t'ho offeso..... e sa Iddio se n'avevo il
pensiero..... ma non seppi con quali parole cominciarti a parlare...
ed è forza ch'io ti parli.... speravo, nominandoti quella che fai
beata dell'amor tuo,.... speravo ti scordassi un momento ch'io son la
Selvaggia, e mi dessi ascolto un minuto senza adirarti. Oh giovane!
alle biscie che strisciano pei canneti delle paludi, Iddio non nega
l'aria nè il sole.... ad una creatura che ti sta dinanzi colla fronte
nel fango e ti chiede due parole di conforto, le darai tu col piede nel
viso?--
E in così dire la fronte della Selvaggia cadeva in effetto sull'arena
già umida per la rugiada.
--Io non vi fo nè mal nè bene, signora (rispose Lamberto sempre più
fisso nell'opinione che quelle calde parole, quegli atti, quella
voce commossa, fossero pura commedia) e se volete nulla da me, siate
contenta dirmelo in due parole, ma dalla bocca vostra non esca verbo su
altra donna... m'avete capito.... ch'io non sono per sopportarlo.--
--Lo confesso: non sono degna neppure di nominarla. Sei contento?
Ti rimane in mente qualche parola di sprezzo che non m'abbi detta?
Su, dimmela. Sfogati.... calpesta chi è venuto ad implorarti umile e
tremando, come farebbe il verme più vile, se gli fosse data e voce
e mente per volgersi al creatore dell'universo. Oh! godi della tua
prodezza, della tua virtù.... e quando parli con Dio, digli: _Ti
ringrazio ch'io non somiglio a costei!_....--
La persuasione intima in cui era Lamberto sul conto della donna non
potè impedire però che quell'umili parole, ed il modo, il suono di voce
col quale erano espresse non gli giungessero al cuore, e vi destassero
un dubbio, un moto quasi di compassione. Fatto perciò meno aspro nel
viso e nelle parole diceva:
--In verità di Dio, signora, voi mi fate maravigliare! Sprezzarvi!
calpestarvi! che c'entra questo discorso? O voi sapete quale opinione
io possa avere di voi, del viver vostro; ed allora, se non vi piace
udirle, perchè mi conducete a dovervela palesare? o di quest'opinione
voi non n'avete pure il sospetto, nè credete meritarla, perchè allora
ve ne curate?--
--Perch'io la conosco, perchè so ben io quali sventure m'abbian
condotta a meritarla, per questo la curo, per questo mi son gettata
nelle tue.... a tuoi piedi.... Per la prima volta dopo tanti anni ho
riveduto un viso d'uomo che non m'è sembrato quello d'un bruto, d'una
fiera selvaggia.... Oh, che dich'io, sciagurata! M'è parso il volto, la
voce d'un angiolo che si chinasse fino al mio fango e mi porgesse una
mano per sollevarmene! Oh, se t'avessi incontralo quando aveva quindici
anni! Ma invece!.... uno spirito dell'inferno!.... entrò, credo, in
un corpo umano per farmi sua preda! Oh giovine! Iddio solo ha diritto
di sprezzare e punire, perchè conosce tutto, e perciò appunto io credo
ch'egli abbia finalmente sentita pietà de' miei mali, ed ha voluto che
t'incontrassi! Ma tu non ne conosci la serie tremenda! Se ti fosse
nota piangeresti con me. Oh! non negar d'ascoltarla, non sarà lungo
il tedio.... poche parole basteranno.... chè dopo tant'anni sei tu il
primo uomo al quale m'attenti a parlar di pentimento, senza il dubbio
d'incontrar nuovi scherni e nuovi oltraggi.--
Lamberto pensò: «ecco una delle solite novelle di costoro»; non
avendo però motivo di rifiutare ciò che con tanta istanza gli veniva
domandato, disse:
--Se tutto quanto mi dite è la verità, parlate, o signora, ch'io
v'ascolterò.--
--Se è la verità!--E la povera infelice battendosi la fronte colle
palme, rimase muta un momento, poi scrollando il capo disse, che appena
si potè udire:
--Si presta fede alle cortigiane? Hai ragione, proseguiva poi volta
a Lamberto, quest'oltraggio m'è dovuto. Ma vedrai ora s'io ti dica
il vero. Se mi pesi il tuo sprezzo, l'hai potuto conoscere, non
dubiti di questo? Eppure v'è tal cosa che ignori, che avrei potuto
nasconderti, che mi farà, se è possibile, più vile, più abbietta
agli occhi tuoi.... Non ostante sappi anche questa..... Io non sono
cristiana!--Un ebreo d'Ungheria fu mio padre. Mio padre? E debbo
dargli un tal nome? Dovrei dire il mio più atroce nemico! Per lui son
dove sono, per lui ho perduto patria, parenti, amici.... Ha parenti,
amici, patria, la cortigiana? Qui si fermò un momento a pensare, poi
con voce più dolorosa diceva: E non uscii forse pura dal seno di mia
madre? forse non ebbi da Dio, come le altre creature, un cuore capace
d'amore, capace di virtù? Chi mi rapì questo tesoro, chi bruttò questi
doni divini? ch'eran miei, ch'eran la porzione di bene, di felicità
assegnata a me dall'Onnipossente? chi?--
E qui tacque un momento, guardando Lamberto con occhi che fulminavano;
afferratogli il braccio, proseguiva poi, tremandole la voce e le labbra:
--Prestami fede, o giovane, se ne hai il coraggio. Io ero sola
quella notte.... sola nella mia camera.... mia madre non era più al
mondo.... oh, se fosse stata viva!.... M'avrebbe difesa!... picchiarono
all'uscio.... udii la voce di mio padre, mi chiamava.... aprii. Un
uomo era seco, pareva un principe alle vesti, alla fronte superba. Io
lo guardavo incerta, spaventata... mio padre scomparve... l'uscio si
richiuse....
--Egli aveva fatto mercato del proprio sangue...
--Fa egli mestieri ch'io ti narri il seguito de' miei casi? Tu
virtuoso, tu nobile e generoso, potrai tu comprendere come si faccia
a rimanere in vita dopo tali orrori? come a poco a poco si formi
il callo al vituperio, alla colpa? come possa alla fine una donna
calpestar ogni rossore, non aver più anima che pel piacere, non
più cuore che per amarlo, cercarlo ed inebbriarsene? Io ti metto
spavento!.... lo vedo.... ma dimmi, sii tu mio giudice.... dove fu la
mia difesa... il mio ajuto?... com'era possibile resistere, vincere,
salvarmi? Eppure, tradita prima, poi vituperata; cacciata al fine come
una vil cosa, posta sotto i piedi di tutti, s'io talvolta alzo la voce
per chieder pietà, s'io stendo la mano, sperando che una mano amica si
muova ad ajutarmi, non trovo che insulti, non odo che scherni, ognuno
mi respinge nel mio fango! La mia miseria, il mio pianto, è trastullo a
chi per un momento si degna badarvi... Oh! Dio del Cielo, che avevo io
fatto, per venir al mondo a patir tanti strazii?...
--Oh! giovane, tu che non hai delitti che ti pesin sull'anima, che
sei bello, prode, virtuoso; che in mezzo ai pericoli, ai travagli, ti
riposi nel pensiero de' tuoi cari, se sapessi che cosa sia esser nata
con un cuore ardente, assetato d'amore, e non essere stata amata mai,
mai da nessuno! neppure dal padre!... Se conoscessi quest'orribile
strazio.... ti maraviglieresti ch'io abbia serbato ancora nell'aspetto,
e forse nel cuore, alcun che d'umano!... stupiresti che non mi sia
gettata furibonda come una fiera su quanti incontravo di quella razza
perversa e crudele che m'ha tradita, che m'ha cacciata in quest'abisso
di miserie, e poi mi nega ogni conforto!... Se mi si dicesse, che
un'anima c'è ancora al mondo che potrebbe accogliermi, asciugar le mie
lagrime.... se mi dicessero: v'è ancora una creatura sulla terra che
t'amerà se saprai meritarlo!... Oh! Dio di bontà, sarebbe troppa la
mia ventura!... non reggerei a tanta gioja!... correrei tutto il mondo
per rintracciarla.... se la vedessi al di là d'un mare di fuoco, mi
vi caccerei per raggiungerla!... le abbraccerei le ginocchia... che
cosa potrei offrirle per rimunerarla di un tanto bene, che cosa potrei
operare per rendermene degna?... Oh! giovane, se sapessi a quanto poco
starei contenta!... Il tuo cuore, lo vedo, è posto in luogo qual egli
merita, ma tu ami pure il tuo cavallo da battaglia, nè ti credi far
torto a... ad... ad alcuno... Tu ami il tuo veltro!... oh! dopo il tuo
cavallo, dopo il tuo veltro, non aver a sdegno che io implori da te un
tuo pensiero; lascia cader un tuo sguardo sulla povera Selvaggia... che
mi dica _poveretta, mi fai pietà_!...
--Oh Dio! neppur mi risponde!--Gridò la sventurata donna, e proruppe in
un pianto dirotto.


CAPITOLO XIV.

Se Lamberto tardava a rispondere era per una cagione ben diversa da
quella che supponeva la Selvaggia.
Le sue parole, alle quali gli pareva pure di dover prestar fede, gli
avean destata nel cuore una pietà profonda, ma un avanzo di sospetto,
che non riusciva a far tacere interamente, lo persuadeva a star sulla
sua e non mostrar tutta quella compassione che provava. Onde studiando
di aver ferma la voce e tranquillo l'aspetto, le diceva:
--Voi volete compassione, signora? Chi potrebbe negarla a casi dolorosi
e tremendi quali furono i vostri? Ma voi v'invilite troppo, chè una
creatura formata a somiglianza di Dio non dee porsi a paragone coi
bruti.--
--Io m'invilisco troppo? E come puoi dirlo, se neppur così mi vien
fatto impetrare quel poco che ti domando. Ti costava tanto dirmi
addirittura: _povera Selvaggia, io t'accetto per ischiava_?.... darmi
un momento di bene, un minuto di conforto con una parola che sgorgasse
proprio dal cuore? ed invece tu m'esci fuori col _Voi v'invilite_... La
virtù è bella, oh! ma è dura ed orgogliosa.--
--No, Selvaggia, io non ho virtù, e molto meno sono e duro ed
orgoglioso con te. Io sento all'anima le tue sventure, e se stesse in
me il liberartene poco ti rimarrebbe a soffrire. Ma dove non arrivano
le mie forze, giungerà la virtù d'Iddio, se a lui ti rivolgi. Io non
t'ho risposto come sarebbe stato il tuo desiderio perchè non è in poter
mio d'adempirlo. Non cercar più oltre, Selvaggia. Pensa che un animo
forte può sempre farsi maggiore al suo destino.... che la virtù non si
parte dai cuore dell'uomo giammai del tutto se non per suo espresso
volere, e mediante questo vi può far sempre ritorno. Tu puoi risorgere,
puoi sperare ancora in terra stima ed affetto, purchè lo voglia. Io
t'ho ascoltata, quel che potevo dirti te l'ho detto.... ora convien
dividerci.... Iddio ti conceda quel bene, quella pace ch'io ti prego da
lui. Addio.--
Lamberto s'allontanò di buon passo, e n'era tempo; questi ragionamenti
l'avean turbato, sconvolto; scorgeva che per lui il più sicuro partito
era fuggir questa donna. La sua bellezza, le sue sventure, i delitti, i
rimorsi suoi stessi la rendevano interessante, facevan di lei un essere
nuovo, singolare.... insomma, era meglio fuggirla, e Lamberto in pochi
minuti fu tornato ov'era il suo alloggiamento.
La donna gli tenne dietro coll'occhio finchè il poco chiarore delle
stelle le permise di scorgerlo. Quando non lo vide più sentì nel cuore
una solitudine desolata.... le parve rimanere unica superstite sulla
terra.... «I malvagi, pensava, mi deridono ov'io voglia appena far
parola di quest'inferno ch'io sento nel cuore.... Costui virtuoso mi
vede spirante di disperazione a' suoi piedi.... _volgiti a Dio_!... e
m'abbandona! Oh Dio! giacchè tu solo conosci il mio strazio, tu solo
odi il mio pianto, perchè dunque m'hai tu dimenticata! Oh povera me!
dovrò proprio morire senza aver provato la dolcezza d'esser amata!...»
E smaniosa, dovrei dir furibonda per questo pensiero, correva come
pazza lungo la riva del fiume.
Un tratto si fermò quasi percossa da una nuova idea.
--E son io sicura ch'egli m'abbia prestato fede?.... E rimasta
ancora un momento a riflettere, gridava tutta mutata in viso per
l'inaspettata speranza--No! no! non m'ha creduta.... ha pensato ch'io
l'ingannassi... Oh! se avesse potuto esser certo ch'io gli dicevo il
vero.... non m'avrebbe risposto, nè lasciata così.... Oh! lo conosco,
egli è generoso!... e buono!... dunque v'è ancora speranza?... Ti
ringrazio Dio di bontà, e cadeva sulle ginocchia cogli occhi e le
braccia tese verso il cielo, che hai così tosto accolta la mia
preghiera, che m'hai tornato in cuore il tesoro, l'immenso tesoro di
poter sperare. Sì, verrà il giorno che mi presterai fede! vedrai allora
che non t'avevo ingannato.... verrà il giorno che mi dirai: Selvaggia
poveretta, finalmente ti credo.... mi sei cara!..... Non sarà amore....
no.... sognerei io mai d'ottenerlo? Io vile, io misera, io abbietta
creatura.... l'amor di quell'angiolo? Qual è la donna in terra che
n'è degna?..... Ah sì! ve ne debb'essere una!..... Ebbene, io l'amerò
costei, io sarò sua serva poich'essa è cara al mio signore.... forse
così potranno patire la mia presenza..... forse potrò ottenere che non
mi discaccino.... forse quando sarò alla mia ultim'ora.... quando gli
diranno: la povera Selvaggia sta per passare.... chi sa? verrà forse al
mio letto, e se mi rimarrà tanta voce da potergli parlare, lo pregherò
di dirmi _sua_ prima ch'io spiri!.... sulla mia fronte gelata sentirò
allora posarsi la sua mano, mi dirà _mia Selvaggia_.... poi non sentirò
più nulla.... sarò morta!--
In questi pensieri la povera giovane era uscita affatto di sè.... Dio
sa quanto tempo rimase in questo stato. Quando le tornò la facoltà di
pensare, di riflettere, l'alba spuntava all'oriente, riconobbe la riva
del Po, le trabacche degli alloggiamenti, si guardò attorno smarrita,
domandò a se stessa: «Che fo io qui? dove mi trovo? chi sono?...». Una
voce poco lontana (eran soldati che venivano ad abbeverare cavalli al
fiume) rispose con uno scroscio di risa:
--Sei cortigiana delle Bande Nere, ecco chi sei!--
La poveretta mise uno strido e si cacciò a fuggire....
Un anno dopo, nel mese di aprile, l'armata di Filippino Doria
veleggiava sul mezzogiorno per le marine d'Amalfi, volte le prore a
Capri ed al capo Campanella. Erano 15 galere, colle quali il nipote
d'Andrea teneva guardato il golfo di Napoli affinchè nessun soccorso
potesse giungervi agl'imperiali che v'erano assediati da Lautrec. Il
loro vicerè Ugo di Moncada, volendo ad ogni costo far libero il mare,
avea stabilito affrontarsi con Filippino, e moveva colle sue galere,
sulle quali avea fatto salire il fiore della nobiltà e delle genti
spagnuole, in cerca del nemico; questi, saputo il suo disegno, stava
apparecchiato a riceverlo.
Gli ordini della guerra marittima, la forma delle navi, tutto è mutato
oggigiorno. La galera del medio evo è scomparsa dai mari. Nella darsena
del porto di Genova una ne galleggia ancora in un angolo senz'alberi,
abbandonata, tutta sdruscita e sconnessa: l'intemperie, gl'inverni,
la pioggia avranno tra pochi anni distrutto e fatto scomparire del
tutto questo unico simbolo della passata potenza de' Genovesi. Perchè
non salvan essi almen l'ultimo di que' legni veloci sui quali corsero
arditi e vittoriosi per tanti secoli le marine d'Italia e di levante?
O Genovesi, vorrete voi che si perdano questi segni della vostra
gloria, che è pur gloria d'Italia, che è nostra? Poichè avete con
tanta vostra virtù aggiunta questa all'altre sue palme, serbatene la
memoria, mantenetene l'ultime reliquie. L'onor d'Italia ve lo domanda,
gl'Italiani ve ne scongiurano, o Genovesi!
Il naviglio di Filippino si moveva lentamente verso l'alto mare spinto
da un leggiero levante, che feriva di fianco le larghe vele latine
tutte spiegate per riceverne il soffio debole ed interrotto. I remi
sospesi rimanevan alti sul mare, e le galere, ora poggiando sul fianco
quando il vento incalzava, ora di nuovo rizzandosi quando veniva meno,
solcavano il mare con un lento e maestoso ondeggiare, e tacite si
preparavano alla battaglia.
Nessuna alterazione, nessuna confusione appariva per questi apparecchi:
quei soldati, que' marinai non sapevano da gran tempo che combattere
fosse altro che vincere. Sulla prora, ove il tremendo cannone di corsia
apriva, tra quattro pezzi di minor calibro, la sua gola ampia ed
affumicata verso il nemico, i bombardieri, dopo averlo caricato colla
sua palla, che pesava talvolta sessanta libbre, sedevano ragionando tra
loro, e taluno, pel caldo del meriggio, velava gli occhi e così un poco
veniva sonnecchiando.
Gli archibusieri, che nella battaglia soleano schierarsi sul tavolato
che copriva le artiglierie, detto castello di prora, stavano armati
di corsaletti, cosciali, cappelli di ferro, appoggiandosi ai loro
scoppietti od alle forcine, tenendo in mano le corde accese pronti a
dar fuoco; dietro a loro altri fanti con picche, alabarde, partigiane
ed arme in asta coi ferri quali a falce, quali uncinati, quali larghi
e diritti. Alcuni tenevano levati in ispalla lunghi spadoni a due mani
colla lama serpeggiante, v'eran targhe e rotelle, che oltre il servir
di difesa poteano anche offendere coll'acuto e forte ferro che avean
fitto nel mezzo, si vedeva insomma tutta la moltiplice varietà d'armi e
d'armature che le robuste braccia de' padri nostri ed i loro fortissimi
petti, reggevano ed adopravano senza disagio gl'intieri giorni sotto la
sferza del sol Lione, e che la gioventù de' tempi nostri, avvolta nella
robe _de chambre_, sdrajata sul seggiolone alla Voltaire, contempla
nelle sue sale appesa ed ordinata in polverosi trofei.
La corsia della galera, spazio largo quattro braccia, che si tendeva
da poppa a prora tra le due laterali turbe de' remiganti, era
stivata anch'essa di soldati, i quali a guisa di retroguardo stavan
pronti a spingersi avanti ove i primi cadessero, ovvero, vincitori
nell'arrembaggio, fosser saltati sul legno nemico. Gli uomini delle
ciurme, a cinque per remo, nude le braccia, e l'intero busto talvolta,
legati alla panca sulla quale sedevano, con catene che non dovean
sferrarsi che dal loro cadavere, erano schiavi turchi la maggior
parte: delinquenti condannati al remo, prigionieri di guerra: (atroce
costume!) e sulle galere d'Andrea, eran più di tutti spagnuoli. Quanti
ne poteva aver nelle mani, tanti ne metteva al remo, chè egli odiava
sopra tutti la loro nazione[26].
Per questa miserabil ciurma l'imminente battaglia era un fatto
ordinario, un giuoco al quale la vita serviva di posta: perdendola,
uscivan di mille travagli; serbandola, godevan anch'essi in qualche
menoma parte i frutti della vittoria, chè i loro feroci padroni in
queste occasioni eran larghi con essi di miglior cibo e di vino.
Il coraggio tuttavia che mostravan quest'infelici all'appressarsi
della battaglia, era, più che altro, la cupa rassegnazione de'
disperati. O le palle dell'artiglierie nemiche traversassero la loro
folta, o percuotendo nel corpo della galera la mandassero a picco,
o, come spesso accadeva, questa venisse incendiata, essi non vedean
che la morte. Certa, atroce, senza difesa, senza potersi, incatenati
com'erano, in verun modo ajutare, senza provare veruna di quelle
impetuose passioni che fanno agli uomini parer men duro il morire,
potean essi sentire amor di patria, furor di parte, superbia del
vincere, onore guerriero? Neppur quel sanguinario e bestiale istinto
che spinge uomo contro uomo nel furor del combattere, neppur di
quest'ebbrezza potevan giovarsi. Mentre i soldati, i marinai, gli
uomini liberi della galera potevano muoversi, agitarsi, combattere,
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