Niccolò de' Lapi; ovvero, i Palleschi e i Piagnoni - 45
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sotto una volta di rami e di verzura erano alcuni rozzi sedili, disse
Laudomia:
--Io t'ho condotto in questo luogo remoto, perchè le parole ch'io
debbo dirti son gravissime. Volevo esser certa non venissero udite nè
interrotte da alcuno, promettimi non interromperle neppur tu.--
Lamberto maravigliato e quasi sbigottito lo promise, e Laudomia
soggiungeva:
--L'amor ch'io ti porto, Lamberto, fu benedetto da Niccolò padre
nostro: non debbo dunque arrossire di confessartelo: esso è grande, e
perciò appunto egli è pensoso del tuo bene più che del mio. Lamberto,
lo sai, non sono io sola ad amarti. Della mia bellezza, se pur n'ebbi,
le sventure n'hanno appassito il fiore. Io, poveretta, mai ho avuta
occasione d'incontrar perigli, dolori, travagli, di versare il mio
sangue per amor tuo.... Oh, così l'avessi avuta!.... Io non ebbi campo
di mostrarmi grande, generosa, com'essa.... (è inutile il dire, che
Lamberto fuor di sè voleva ogni tratto interrompere Laudomia, che col
guardo e col cenno gli ricordava la promessa) Tuttociò lo conosco....
ma, Lamberto, rammentalo, te lo dissi la prima volta che mi parlasti
d'amore:... io potrei rinunciarvi, ma non dividerne una menoma parte
con altra donna!.... Essa, lo so, sarebbe stata un tempo indegna troppo
d'un sol tuo pensiero.... ma il pentimento ha virtù di rinnovar l'anima
e tornarla alla prima sua nobiltà.... non apre Iddio al pentimento le
porte del Cielo? Io non posso vederla così misera per cagion mia....
se poi ora, o col tempo, lo divenissi anche tu.... sarebbe troppa
disperazione per la povera Laudomia.... lascia ch'io cerchi riposo in
Dio.... e nel pensiero di sapervi felici....--
Lamberto era pur riuscito sin allora a raffrenar l'impeto che lo
spingeva a gettarsi a' piedi della sua sposa, rattenuto più che altro
dalla dolcezza di contemplar senza velo quell'anima di paradiso, ma non
potè regger più a questo punto, e cadendo colla fronte sul lembo della
sua veste, che baciò mille volte, seppe trovar parole degne di colei
che le udiva, degne dell'amor suo: parole che sciolsero ogni dubbio,
vinsero ogni timore, ritornarono nel cuor di Laudomia una fiducia
tranquilla e serena che le si diffuse sul volto, mentre posando la mano
candida sulla fronte di Lamberto, gli diceva: «Ora dunque, per sempre
son tua»......................... ...........................
Ritornati a casa, che già era notte, non vi trovaron Selvaggia. Sul
tardi comparve un contadino con una lettera, l'aprirono, e vi lessero
queste parole:
«L'ultima mia speranza d'ottener pace è in quel Dio che m'avete fatto
conoscere. Io vado ad implorarlo sul suo sepolcro, in quella terra ove
volle morire per la nostra salute. Io vi porterò sempre nel cuore, voi
che soli al mondo, m'avete amata, mi donaste quel che era in voi di
donarmi; ma questo mio cuore chiedeva di più. Io vi benedico, pregate
per me da Dio pace, e fine al mio patire, ch'io pregherò per voi vita e
felicità.
_La vostra Selvaggia_.»
..........................
Due anni dopo, Laudomia e Lamberto erano una sera nella loro saletta:
egli leggeva una lettera di Bindo, essa avea a' piedi una culla nella
quale dormiva un bel bambino di cinque mesi al quale avean posto nome
Niccolò. Comparve un uomo, che disse loro essere il giorno sbarcata
alla marina una donna, che all'aspetto pareva afflitta da gravissima
infermità: aver voluto avviarsi tosto a Serravezza, ma venendole meno
la lena e la vita, e volendo pur condurvisi ad ogni modo, essere stata
costretta farsi portare su un letto fatto in fretta di rami d'albero
con suvvi un saccone. Giunta alla Madonna di Quercia, e sentendosi
presso al suo fine, s'era fatta deporre sulla porta della chiesa sotto
alcuni cipressi, e mandava pregando Laudomia e Lamberto venissero a lei
prestamente.
Ambedue ad un tempo, dissero:
--È Selvaggia!--
Ed ansiosi di chiarirsene, montati a cavallo, scesero velocemente al
luogo indicato.
La notte era serena, risplendente la luna, che portava sulla facciata
bianca della chiesuola l'ombra opaca de' cipressi. Videro da lontano
il letto. La donna che vi giaceva, un prete al suo fianco, ed a' piedi
un contadino con un cero acceso: punsero i cavalli, ed un momento
dopo stavano entrambi stringendo tra le loro mani quelle della povera
Selvaggia, che appena raffigurarono, tanto era mutata e ridotta
un'ombra.
Guardò Laudomia e Lamberto, e quel suo nobile ed ardente cuore tutto
parve trasfondersi in questi ultimi sguardi. Tacque un momento come per
raccogliere le poche forze che le eran rimaste, poi disse, con parlar
interrotto dall'affanno dell'agonia:
«Non l'ho... trovata mai... la pace.... sapete... Mai!... Sentivo...
invece... crescermi nel cuore.... la morte.... temevo.... non
giunger.... sin.... qui.... vi son giunta.... benedetto sia
Iddio.... benedetti voi ambedue.... che soli amaste.... la povera
cortigiana.... Lamberto, posami la mano.... sulla fronte.... fu
l'ultimo mio desiderio.... in riva al Po.... quella notte.... dimmi
tua.... perdonami Laudomia.... ma io l'amo sin d'ora.... come s'ama in
Cielo....»
Mentre Lamberto poneva la mano sulla fronte alla donna, la sentì
agghiacciarsi, un sorriso le corse a fior di labbra, e la morte ve lo
fissò. Lamberto e la sua sposa piansero lungamente sul corpo freddo
ed esamine di quella cui si dovea molto perdonare, perchè molto avea
amato, poi la seppellirono con onore nel sagrato della chiesuola.......
..........................
Per lunga serie d'anni la vita de' due sposi passò agitata tra continue
e gravi vicende. Geloso custode della fede data a Niccolò, Lamberto
seguì con Bindo e Fanfulla, finchè vissero, la fortuna de' fuorusciti.
La seguì ugualmente dopo la loro morte, e finchè in Italia vi fu una
spada levata contro il dominio de' Medici, ebbe compagna quella di
Lamberto. Alla fine, ceduta ogni speranza, stanco per tante guerre, si
ridusse colla moglie a Genova, e vissero felici quanto si può esserlo
in questo mondo, e soprattutto quanto può esserlo chi abbia perduta la
patria, e la vegga misera ed avvilita.
Qui finisce la storia nostra nella quale, narrando le sventure d'una
sola famiglia, abbiamo inteso raffigurare quella di molte altre, anzi
di un intero popolo.
Coloro che in modo più o meno colpevole e diretto furono autori della
rovina della loro patria, ottennero essi, a prezzo almeno di tante
lacrime e di tanto sangue, quel fine che s'eran prefisso? Vediamolo.
Clemente VII volendo stabilire il dominio del ramo illegittimo di casa
Medici, a danno dell'altro che odiava, e dal quale usciva Giovanni
delle Bande Nere, aprì invece al figlio di questi la strada del
principato, che durò nella sua stirpe fin quasi alla metà del secolo
scorso.
Carlo V il quale, sperando poter trasmettere a Filippo suo figliuolo
la corona imperiale, avea profuso sangue e tesori per raffermare la
sua potenza in Italia, che veniva così a legare insieme le due parti
d'una cotanto vasta monarchia, deluso nella sua speranza, lasciò al
figlio il ducato di Milano ed il regno di Napoli, dominj pericolosi e
lontani, che, a far bene i conti, costarono più che non produssero alla
Spagna, e contribuirono alla fine ad esaurirla nella lunga guerra della
successione.
Se i Fiorentini, che con tanta costanza e per tanto tempo difesero
la loro libertà contro l'usurpazioni de' Medici, riuscissero infine
a sottrarvisi, l'abbiam veduto. Meritarono la loro sorte? Avremo il
coraggio di dirlo? sì; in parte almeno, la meritarono. Volevano libertà
per sè, ed intanto opprimevano le città del loro dominio; procuravano
che i Cancellieri e i Panciatichi di Pistoja si scannassero tra loro,
che i fossi dell'agro pisano si colmassero, onde, co' miasmi de'
paduli, si decimasse la popolazione, che, troppa, potea ribellarsi;
intesero il proprio dritto, e non l'altrui: usarono due pesi e due
misure. Venne il pericolo; le città del dominio cooperaron di mala
voglia e forzate alla difesa di Firenze; la sua caduta parve ad esse
una liberazione, il principato de' Medici, un'eguaglianza colla loro
antica e rigida dominatrice.
I Palleschi e gli Ottimati, che col loro tradimento negli ultimi giorni
dell'assedio avean creduto procurare il trionfo dell'oligarchia, e
s'accorsero troppo tardi d'aver procurato invece quello del dominio
d'un solo, che tolse loro ogni autorità, e li tenne sempre bassi ed
inerti.
Baccio Valori ottenne il premio degno de' traditori; disprezzo da
quelli a pro de' quali avea fatto tradimento, infamia dall'universale,
ed in ultimo dal duca Cosimo la mannaja.
Malatesta anch'esso, predicato traditore da tutta Italia, si ritirò
a Perugia ove non ebbe quell'autorità e quelle grazie che avea
patteggiato con Clemente VII. Travagliato anzi dal cardinal Ippolito
legato della città (che il papa non volle o non seppe raffrenare) e che
favoriva apertamente la parte di Braccio, nemica a Malatesta, egli si
ritirò ad una sua villa, la quale, come dice il Varchi, per passare più
il dolore che il tempo faceva fabbricare, e quivi quattordici mesi dopo
la resa di Firenze, fradicio d'anima e di corpo uscì di vita.
Ecco in qual modo, gli autori di tanti mali, ottennero il fine che
s'eran prefisso.
Non avevam dunque ragione d'avvertire il lettore coll'epigrafe del
frontispizio, ch'egli avrebbe veduto con quanto poca sapienza si
governi il mondo?
FINE.
Laudomia:
--Io t'ho condotto in questo luogo remoto, perchè le parole ch'io
debbo dirti son gravissime. Volevo esser certa non venissero udite nè
interrotte da alcuno, promettimi non interromperle neppur tu.--
Lamberto maravigliato e quasi sbigottito lo promise, e Laudomia
soggiungeva:
--L'amor ch'io ti porto, Lamberto, fu benedetto da Niccolò padre
nostro: non debbo dunque arrossire di confessartelo: esso è grande, e
perciò appunto egli è pensoso del tuo bene più che del mio. Lamberto,
lo sai, non sono io sola ad amarti. Della mia bellezza, se pur n'ebbi,
le sventure n'hanno appassito il fiore. Io, poveretta, mai ho avuta
occasione d'incontrar perigli, dolori, travagli, di versare il mio
sangue per amor tuo.... Oh, così l'avessi avuta!.... Io non ebbi campo
di mostrarmi grande, generosa, com'essa.... (è inutile il dire, che
Lamberto fuor di sè voleva ogni tratto interrompere Laudomia, che col
guardo e col cenno gli ricordava la promessa) Tuttociò lo conosco....
ma, Lamberto, rammentalo, te lo dissi la prima volta che mi parlasti
d'amore:... io potrei rinunciarvi, ma non dividerne una menoma parte
con altra donna!.... Essa, lo so, sarebbe stata un tempo indegna troppo
d'un sol tuo pensiero.... ma il pentimento ha virtù di rinnovar l'anima
e tornarla alla prima sua nobiltà.... non apre Iddio al pentimento le
porte del Cielo? Io non posso vederla così misera per cagion mia....
se poi ora, o col tempo, lo divenissi anche tu.... sarebbe troppa
disperazione per la povera Laudomia.... lascia ch'io cerchi riposo in
Dio.... e nel pensiero di sapervi felici....--
Lamberto era pur riuscito sin allora a raffrenar l'impeto che lo
spingeva a gettarsi a' piedi della sua sposa, rattenuto più che altro
dalla dolcezza di contemplar senza velo quell'anima di paradiso, ma non
potè regger più a questo punto, e cadendo colla fronte sul lembo della
sua veste, che baciò mille volte, seppe trovar parole degne di colei
che le udiva, degne dell'amor suo: parole che sciolsero ogni dubbio,
vinsero ogni timore, ritornarono nel cuor di Laudomia una fiducia
tranquilla e serena che le si diffuse sul volto, mentre posando la mano
candida sulla fronte di Lamberto, gli diceva: «Ora dunque, per sempre
son tua»......................... ...........................
Ritornati a casa, che già era notte, non vi trovaron Selvaggia. Sul
tardi comparve un contadino con una lettera, l'aprirono, e vi lessero
queste parole:
«L'ultima mia speranza d'ottener pace è in quel Dio che m'avete fatto
conoscere. Io vado ad implorarlo sul suo sepolcro, in quella terra ove
volle morire per la nostra salute. Io vi porterò sempre nel cuore, voi
che soli al mondo, m'avete amata, mi donaste quel che era in voi di
donarmi; ma questo mio cuore chiedeva di più. Io vi benedico, pregate
per me da Dio pace, e fine al mio patire, ch'io pregherò per voi vita e
felicità.
_La vostra Selvaggia_.»
..........................
Due anni dopo, Laudomia e Lamberto erano una sera nella loro saletta:
egli leggeva una lettera di Bindo, essa avea a' piedi una culla nella
quale dormiva un bel bambino di cinque mesi al quale avean posto nome
Niccolò. Comparve un uomo, che disse loro essere il giorno sbarcata
alla marina una donna, che all'aspetto pareva afflitta da gravissima
infermità: aver voluto avviarsi tosto a Serravezza, ma venendole meno
la lena e la vita, e volendo pur condurvisi ad ogni modo, essere stata
costretta farsi portare su un letto fatto in fretta di rami d'albero
con suvvi un saccone. Giunta alla Madonna di Quercia, e sentendosi
presso al suo fine, s'era fatta deporre sulla porta della chiesa sotto
alcuni cipressi, e mandava pregando Laudomia e Lamberto venissero a lei
prestamente.
Ambedue ad un tempo, dissero:
--È Selvaggia!--
Ed ansiosi di chiarirsene, montati a cavallo, scesero velocemente al
luogo indicato.
La notte era serena, risplendente la luna, che portava sulla facciata
bianca della chiesuola l'ombra opaca de' cipressi. Videro da lontano
il letto. La donna che vi giaceva, un prete al suo fianco, ed a' piedi
un contadino con un cero acceso: punsero i cavalli, ed un momento
dopo stavano entrambi stringendo tra le loro mani quelle della povera
Selvaggia, che appena raffigurarono, tanto era mutata e ridotta
un'ombra.
Guardò Laudomia e Lamberto, e quel suo nobile ed ardente cuore tutto
parve trasfondersi in questi ultimi sguardi. Tacque un momento come per
raccogliere le poche forze che le eran rimaste, poi disse, con parlar
interrotto dall'affanno dell'agonia:
«Non l'ho... trovata mai... la pace.... sapete... Mai!... Sentivo...
invece... crescermi nel cuore.... la morte.... temevo.... non
giunger.... sin.... qui.... vi son giunta.... benedetto sia
Iddio.... benedetti voi ambedue.... che soli amaste.... la povera
cortigiana.... Lamberto, posami la mano.... sulla fronte.... fu
l'ultimo mio desiderio.... in riva al Po.... quella notte.... dimmi
tua.... perdonami Laudomia.... ma io l'amo sin d'ora.... come s'ama in
Cielo....»
Mentre Lamberto poneva la mano sulla fronte alla donna, la sentì
agghiacciarsi, un sorriso le corse a fior di labbra, e la morte ve lo
fissò. Lamberto e la sua sposa piansero lungamente sul corpo freddo
ed esamine di quella cui si dovea molto perdonare, perchè molto avea
amato, poi la seppellirono con onore nel sagrato della chiesuola.......
..........................
Per lunga serie d'anni la vita de' due sposi passò agitata tra continue
e gravi vicende. Geloso custode della fede data a Niccolò, Lamberto
seguì con Bindo e Fanfulla, finchè vissero, la fortuna de' fuorusciti.
La seguì ugualmente dopo la loro morte, e finchè in Italia vi fu una
spada levata contro il dominio de' Medici, ebbe compagna quella di
Lamberto. Alla fine, ceduta ogni speranza, stanco per tante guerre, si
ridusse colla moglie a Genova, e vissero felici quanto si può esserlo
in questo mondo, e soprattutto quanto può esserlo chi abbia perduta la
patria, e la vegga misera ed avvilita.
Qui finisce la storia nostra nella quale, narrando le sventure d'una
sola famiglia, abbiamo inteso raffigurare quella di molte altre, anzi
di un intero popolo.
Coloro che in modo più o meno colpevole e diretto furono autori della
rovina della loro patria, ottennero essi, a prezzo almeno di tante
lacrime e di tanto sangue, quel fine che s'eran prefisso? Vediamolo.
Clemente VII volendo stabilire il dominio del ramo illegittimo di casa
Medici, a danno dell'altro che odiava, e dal quale usciva Giovanni
delle Bande Nere, aprì invece al figlio di questi la strada del
principato, che durò nella sua stirpe fin quasi alla metà del secolo
scorso.
Carlo V il quale, sperando poter trasmettere a Filippo suo figliuolo
la corona imperiale, avea profuso sangue e tesori per raffermare la
sua potenza in Italia, che veniva così a legare insieme le due parti
d'una cotanto vasta monarchia, deluso nella sua speranza, lasciò al
figlio il ducato di Milano ed il regno di Napoli, dominj pericolosi e
lontani, che, a far bene i conti, costarono più che non produssero alla
Spagna, e contribuirono alla fine ad esaurirla nella lunga guerra della
successione.
Se i Fiorentini, che con tanta costanza e per tanto tempo difesero
la loro libertà contro l'usurpazioni de' Medici, riuscissero infine
a sottrarvisi, l'abbiam veduto. Meritarono la loro sorte? Avremo il
coraggio di dirlo? sì; in parte almeno, la meritarono. Volevano libertà
per sè, ed intanto opprimevano le città del loro dominio; procuravano
che i Cancellieri e i Panciatichi di Pistoja si scannassero tra loro,
che i fossi dell'agro pisano si colmassero, onde, co' miasmi de'
paduli, si decimasse la popolazione, che, troppa, potea ribellarsi;
intesero il proprio dritto, e non l'altrui: usarono due pesi e due
misure. Venne il pericolo; le città del dominio cooperaron di mala
voglia e forzate alla difesa di Firenze; la sua caduta parve ad esse
una liberazione, il principato de' Medici, un'eguaglianza colla loro
antica e rigida dominatrice.
I Palleschi e gli Ottimati, che col loro tradimento negli ultimi giorni
dell'assedio avean creduto procurare il trionfo dell'oligarchia, e
s'accorsero troppo tardi d'aver procurato invece quello del dominio
d'un solo, che tolse loro ogni autorità, e li tenne sempre bassi ed
inerti.
Baccio Valori ottenne il premio degno de' traditori; disprezzo da
quelli a pro de' quali avea fatto tradimento, infamia dall'universale,
ed in ultimo dal duca Cosimo la mannaja.
Malatesta anch'esso, predicato traditore da tutta Italia, si ritirò
a Perugia ove non ebbe quell'autorità e quelle grazie che avea
patteggiato con Clemente VII. Travagliato anzi dal cardinal Ippolito
legato della città (che il papa non volle o non seppe raffrenare) e che
favoriva apertamente la parte di Braccio, nemica a Malatesta, egli si
ritirò ad una sua villa, la quale, come dice il Varchi, per passare più
il dolore che il tempo faceva fabbricare, e quivi quattordici mesi dopo
la resa di Firenze, fradicio d'anima e di corpo uscì di vita.
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Non avevam dunque ragione d'avvertire il lettore coll'epigrafe del
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