Gli eretici d'Italia, vol. I - 40

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E le persecuzioni continuarono un pezzo; e il giugno 1540 un editto da
Fontainebleau ordinava ad ogni balìo o siniscalco, procuratori, avocati
del re di cercare i Luterani, per darli al giudizio delle Corti supreme,
altrimenti perderebbero l'uffizio.
Le nazioni non hanno dunque di che rinfacciare l'una l'altra; meglio è
che, disapprovando le violenze d'allora, imparino la tolleranza, tanto
predicata eppur tanto poco ottenuta in questo nostro tempo di sì caldi e
sì poco leali partiti. Noi siamo lieti di trovare che papa Paolo, saputo
di que' supplizj, altamente li disapprovò, benchè da buona intenzione:
rammemorando che Cristo usò più misericordia che rigorosa giustizia; nè
doversi con morte tormentosa far disperare un uomo, che pur potrebbe
mutare di credenze[510].

NOTE
[476] E. H. J. Reusens pubblicò nel 1862 a Bonn _La teologia di Adriano
VI_ con un apparato della vita e degli scritti di esso: e _Aneddoti_,
desunti parte dal codice autografo di Adriano, parte da apografi.
[477] Più tardi la cambiò col PLUS ULTRA, suggeritogli dal medico
milanese L. Marliano.
[478] Il Guicciardini, che in tutti questi affari della Chiesa e della
Riforma si mostra ancor più ignaro che maligno, dice che i cardinali
diedero il suffragio a quest'Adriano per chiasso, e tanto per consumar
quella mattinata; onde rimasero attoniti quando riuscì eletto. Di ciò lo
riprova il Pallavicino. Lo stesso Paolo Giovio dice tutt'altro.
Valeriano Pierio fece una satira violenta contro questa elezione,
dicendo appunto:
_Nil tale patribus facere se putantibus,_
_Nihil minus volentibus_
_Quam quem eligebant; nil minus poscentibus_
_Quam quem vocabant. O mare!_
_O terra! votis Hadrianus omnibus_
_Fit pontifex: sed omnibus,_
_Quis credat? invitis. Deúm vis hæc: Deúm_
_Deúm abditum hoc arbitrium est..._
[479] LANZ, _Correspondens des Kaisers Karl V_. Tom. I, p. 60. GACHARD,
_Corr. de Carles V et d'Andrien VI_, pag. 105, del 27 luglio e 5 agosto
1522.
[480] Girolamo Negro, canonico padovano, al Micheli, da Roma 15 agosto
1522.
[481] SANUTO, Diarj al 1523; presso il quale è un'epistola che dice:
_Vir est sui tenax, in concedendo parcissimus, in recipiendo nullus aut
rarissimus; in sacrificio quotidianus et matutinus est: quem amet aut si
quem amet, nulli exploratum. Ira non agitur, jocis non ducitur. Neque ob
pontificatum visus est exultasse: quinimo constat graviter illum, ad
ejus famam nuntii, ingemuisse_.
[482] Manuscritto nella Vallicelliana.
[483] _Epistole familiari_. Tom. I, pag. 18.
[484] Sta nella biblioteca di Monaco, e noi l'abbiamo inserito negli
schiarimenti al libro XV della _Storia Universale_.
[485] Adriano, ancor cardinale, di Lutero avea scritto: _Qui sane tam
rudes et palpabiles, hæreses mihi præseferre videtur, ut ne discipulus
quidem theologiæ, ac prima ejus limina ingressus, ita labi merito
potuisset... Miror valde quod homo tam manifeste tamque pertinaciter in
fide errans, et alios in perniciosissimos errores trahere impune
sinitur_. BURMANN, Analecta hist. de Hadriano VI.
[486] GACHARD, _ubi supra_, p. 245.
[487] Il Pallavicino disapprova le istruzioni date da Adriano al
Chieregato, dicendo che han fatto desiderare in lui maggior prudenza e
circospezione, e che non solo il regno del Vaticano, dominio composto di
spirituale e temporale, ma il governo di piccole religioni, quantunque
semplici e riformate, meglio si amministra da una bontà mediocre
accompagnata da senno grande, che da una santità fornita di piccolo
senno... «Chi svela tutto il suo cuore getta il dono che gli ha fatto
natura in darglielo imperscrutabile, e fa comuni tutte le sue armi
all'avversario».
Noi abbiamo sentito accuse consimili farsi a Pio IX.
[488] Si dissero spediti il 1522 dopo sciolta la dieta di Norimberga, ma
non si credono autentici.
[489] È noto con quanta cura gli antichi facessero giunger buone acque
sui colli di Roma. Gli acquedotti furono o spezzati o negletti dai
Barbari, e ciò fu gran ragione dello spopolarsi della città. Va notato
che Adriano VI fu il primo che pensasse a restaurarli, riconducendo
l'aqua Marcia, che poi tornò a guastarsi. E le acque e le fontane sono
uno de' maggiori meriti de' pontefici verso la città eterna.
[490] PAOLO GIOVIO _in ejus vita_.
[491] Erasmo, Ep. 1176, dice: _Vix nostra phalanx sustinuisset hostium
conjurationem, ni Adrianus, tum cardinalis, postea romanus pontifex, hoc
edidisset oraculum, Bonas literas non damno, hæreses et schismata
damno_. Anche il Negri, nelle lettere ove dipinge sì bene quel
pontificato, confessa: «Dilettasi sopratutto di lettere, massimamente
ecclesiastiche, nè può patire un prete indotto».
[492] «Dubito che, come beva di questo fiume Leteo, non mandi in
oblivione tutti questi santi pensieri, e massimamente perchè natura non
tollera _repentinas mutationes_; essendo la Corte più corrotta che fosse
mai, non vi vedo alcuna disposizione atta a ricever così tosto queste
buone intenzioni». NEGRI, 14 aprile 1522.
[493]
_Sextus Tarquinius, Sextus Nero, Sextus et iste:_
_Semper et a Sextis diruta Roma fuit_.
[494] Adriano fece lega con Carlo V per salvare l'indipendenza italiana
dai Francesi, unitamente a varj principi italiani e ai feudatarj della
santa sede, e il 5 agosto 1523 solennemente in Santa Maria Maggiore la
proclamò. Qui i panegiristi del papa si sforzano a mostrare come i
cherici devano astenersi dalle armi; ma pure, quando le spirituali non
bastino, può ricorrere alle temporali per difendere se stesso e i
Cristiani. E conchiudono che, come principe temporale, il papa deve
avere e milizia e fortezze al par degli altri, e chi gli negasse d'esser
principe, sovvertirebbe i principj di natura e di legislazione, che
legittimano i regni; e chi tenta abbatterlo piglia il coltello per la
punta. Vedi ORTIZ, _Descrizione del viaggio_, ecc. DE LAGUA suo
annotatore. BURMANNO, ecc.
[495] «Teniendo sempre respecto a que la eleccion se haga con toda
libertad, si ya por la parte francese no se intentasse hazer alguna
fuerza, que en este caso haveyos de mostrar reziamente por nuestra
parte; ayudandos para ello de los visorreyes de Napoles y Sicilia y de
nuestro esercito, y de todos los subsidios y otros medios que
pudieredes» scriveva Carlo V al duca di Sessa da Valladolid, il 13
giugno 1523, ap. GACHARD.
[496] Io spiego in questo senso il Guicciardini, ove dice che egli «era
reputato avaro, di poca fede, e alieno di natura dal beneficare gli
uomini».
[497] VARCHI, _Stor. fior_., tom. II, p. 43.
[498] HOTTINGER, _Ecclesia sæculi XVI_, tom. II, p. 61. Di rimpatto i
nostri notarono che il connestabile di Borbone morì nell'assalto: il
succedutogli principe d'Oranges, poco dopo, all'assedio di Firenze;
Lannoy della peste, Moncada poco sopravvisse: anzi, due anni dopo il
fatto, nessun più era vivo dei depredatori di Roma, e le ricchezze erano
passate in mani estranee. Notarono pure che, per salvar il cadavere del
Borbone dagl'insulti, fu portato in quella fortezza di Gaeta, ove nel
1849 ricoveravasi un altro papa, che colà da un generale francese
riceveva le chiavi della ricuperata Roma.
[499] Galeazzo Visconti, il 21 luglio 1528, _ap_. MOLINI, _Docum. di
Storia Italiana_.
[500] GEVAY, _Urkunden_ ecc., pag. 52.
[501] Esso Ferdinando scriveva a Carlo V: «La lunga guerra ha fatto
trascurare il guasto della religione e la necessità del rimedio. Per
essa avvenne la prigionia del pontefice e la devastazione di Roma, onde
pigliarono tanto scandalo i Cattolici, esempio di licenza i tristi,
baldanza e giubilo gli eretici, sicchè la infezione delle Sètte luterane
e le ambizioni de' principi fanno strazio della Germania».
GEVAY, _Urkunde_ ecc., p. 66-70. _Istruzione_, per Martino de Salinas,
dall'8 febbrajo 1529.
[502] _Il serche par tout à emprunter, voyre à pouvoir vendre pour fere
san voyage: et pour aller jusque a Bouloingne ou la environ, il espere
trouver moyen de soy equipper_. POUPET DE LA CHAUX, _An den Kaiser_.
Lione 23 settembre 1529.
[503] _Cronaca della venuta e dimora in Bologna di Clemente VII per
l'incoronazione di Carlo V_, per GAETANO GIORDANI, Bologna 1842. In
questa è a vedersi la quantità di letterati e altri illustri italiani,
convenuti a quella solennità.
[504] Lettere del Campeggi al Salviati nel 1520. _Monumenta Vaticana_
per H. LAEMMER, pag. 50-57.
[505] Vedi il carteggio del Campeggi nei _Monumenta Vaticana_, pag. 64.
[506] L'Aleandro al Sanga da Brusselle, il 19 novembre 1531, scriveva:
«Dio sia ringraziato che ci ha dato così cattolico principe (Carlo V).
Che se in questi pessimi tempi avessimo avuto imperatore un Federico
Barbarossa, un Lodovico Bavaro, o un Enrico IV o simili, già o poco o
nulla avressimo di gran parte della cristianità.
«Nel breve a S. M. eravi posto espressamente _de celebratione
universalis concilii_. A queste parole S. M. con grande attenzione
aperse gli occhi e gli orecchi, dicendo: — Sia ringraziato Dio che Sua
Santità persevera in quello che altre fiate mi ha promesso, e fa
bugiardi costoro che dicono Sua Santità sutterfugere il Concilio —.
Allora diss'io: — Sire, Sua Santità non rifiuta il Concilio, purchè si
celebri secondo il debito di ragione, cioè che in primis V. M. sempre
sia assistente, come al Concilio Niceno Costantino, a Costantinopolitano
Marciano, e agli altri i seguenti imperatori. Poi, che si abbia evidente
speranza di tre cose: l'una di ridur veracemente i Luterani al grembo di
santa Chiesa, ed a questo bisogna che sufficientemente consentano,
perchè per questa principal causa si avria a far il Concilio. L'altra,
che non si partorisca uno scisma con le altre nazioni cattoliche che
restano, che saria quando Francia, Anglia e Scozia non volessero
convenire. La terza, che si facesse una buona e santa reformazione di
tutta la Chiesa di Dio in capite et in membris, da vero e da buon senno:
altramente, pensando a gabbar Dio, ne gabberemmo noi stessi: S. M.
rispose ecc.
«Finito questo colloquio, domandandomi se io sapea scrivere in ebreo,
dissegli che sì, ma che la non pensasse però ch'io fossi nato ebreo,
come fingono gli eretici, dicendo ch'è cosa ingiusta che un giudeo
difenda la Chiesa cristiana. Mi domandò dove io l'aveva appreso. Dissi
che da un Giudeo, non già di mia terra, dove mai poterono star Giudei,
ma spagnuolo, qual si fece poi cristiano in casa di mio padre».
_Monumenta Vatica_na, LXV.
[507] _Monumenta Vaticana_, LXXXV.
[508] Carteggio del Campeggi, _ib_. LXXVII.
[509] Et quant à moy qui suis vostre roy, si je sçavois l'un de mes
membres maculé ou infecte de cette détestable erreur, non seulement vous
le baillerois à couper, mais davantage, si j'aperçevois aucun de mes
enfants entachez, je le voudrois moy-mesme sacrifier. Vedi THÉOD. BEZA,
al 1534, e SISMONDI, Hist. des Français al 1535.
[510] _Est à scavoir que le bruit fut en juings 1535 que le pape Paul,
adverty de l'éxécrable justice et horrible que le Roy faisoit en son
royaume sur le Luthèriens, on dit qu'il manda au roy de France... qu'il
pensoit bien qu'il le fist en bonne part... néantmoins Dieu le crèateur,
luy estant en ce monde, a plus usé de miséricorde que de rigoureuse
justice: et qu'il ne faut aucunes fois user de rigeur, et que c'est une
cruelle mort de faire brusler vif un homme, dont par ce il pourroit plus
qu'autrement renoncer la foy et la loy. Parquoy le pape prioit et
requeroit le roy par ses lettres, vouloir appaiser sa fureur et rigeur
de justice, en leur faisant grâce et pardon_. Journal d'un Bourgeois,
pag. 458.


DISCORSO XIX.
IL VALDES.

Allorchè le bande di Carlo V saccheggiarono Roma, e l'Europa era piena
delle oltraggiose miserie ivi sofferte o recate, un giovane spagnuolo
dettava un dialogo, ove suppone che a Valladolid un soldato, reduce da
quel misfatto, s'incontri in un arcidiacono e nel cortigiano Lattanzio,
e gliene divisi le particolarità. Lattanzio non rifina di stupire che un
papa faccia guerra, e guerra contro l'imperatore: tutt'altro essere
l'uffizio del vicario di Cristo. Il soldato risponde che di ciò non
prendesi meraviglia in Italia, anzi v'è tenuto da nulla un papa che non
maneggi le armi. Descrivendo poi quell'atroce catastrofe, nelle
particolarità rilieva ciò che reca disonore al clero; il cortigiano ve
lo attizza colle sue suggestioni, e conchiude ammirando i giudizj di
Dio, il quale castigò in tal modo le ribalderie del papa e de'
suoi[511]. Perocchè della guerra attribuiva la colpa al papa e a
Francesco I, scagionandone Carlo V, lo che adempie pure in un precedente
dialogo fra Caronte e Mercurio, ove dalle anime che arrivano al tragitto
d'Acheronte fa raccontare molti abusi, l'opposizione fra la dottrina
cristiana e la pratica, e passando a scrutinio un teologo, un frate, un
vescovo, una donna e così via, mostra il peggiorarsi della razza umana.
Al gusto odierno dee sapere di strano l'udire Caronte e Mercurio
discutere del vangelo: ma le son licenze comuni a questi dialoghi de'
morti.
Autore n'era Giovanni Valdes, persona di alta nascita e di molto merito
alla Corte di Spagna.
Il tono di quei dialoghi, le accuse prodigate ai pontefici e alla Chiesa
indignarono molti, e il mantovano Baldassar Castiglione, famoso autore
del _Cortigiano_, che nel 1524 era ito nunzio del papa in Ispagna, e che
morì a Toledo il 1529, si credette in dovere di denunziar severamente il
Valdes al papa e all'imperatore. Lagnossene egli, quasi fosse venuto
meno alla cortesia mostratagli, e avesse condannato il libro senza
conoscerlo. Il Castiglione gli rispondeva una lunga lettera, professando
d'avere denunziato quel libro con piena conoscenza, e perchè vi côlse un
mar di errori e di calunnie contro le cerimonie, le reliquie, la
religione stessa. E qui ragionando punto per punto, non gli perdona il
dichiarare empietà che uno dica la messa in peccato. Se un prete è
malvagio, se celebra appena levatosi d'accanto a una donna, forse ciò
giustifica il rubare gli ostensorj e gl'incensieri? Le ricchezze sono
bene spese in onor di Dio, e lo credeano persino i Pagani: ond'è mal
gusto quel suo cuculiare le magnificenze del culto. Nè minor torto ha
quando scusa Lutero, e trova bisognasse, prima di condannarlo,
correggersi delle colpe ch'egli rinfacciava. Di rimpatto il Valdes non
v'è obbrobrio che risparmii a Clemente VII, e ciò per discolpare
l'imperatore; quell'imperatore che al papa professava affezione e
ossequio, al tempo stesso che lo lasciava depredare e oltraggiare in tal
guisa, che agli Spagnuoli stessi dolse di quella tragedia. Solo il
Valdes esortava Carlo V a tenere cattivo il papa, e giacchè l'aveva in
mano, non perdere sì propizia occasione di emancipare la cristianità.
«Voi dunque, nuovo riformatore degli ordini e delle cerimonie cristiane,
nuovo Licurgo, nuovo conditor di leggi, correttore de' santissimi
concilj approvati, nuovo censore de' costumi degli uomini, dite che
l'imperatore riformi la Chiesa con tener presi il papa e i cardinali? e
che facendolo, oltre al servizio di Dio acquisterà ancora nel mondo
gloria immortale? E volete indurlo a far così empia azione?....... Ah
impudente! ah sacrilego! ah furia infernale!..... E non temete che Dio
mandi il fuoco dal cielo che v'arda?» E qui, ritorcendo l'argomentazione
in invettiva, gli preconizza un san-benito.
Non erano materie dove si facesse a credenza; e il Valdes stimò prudente
abbandonare la Spagna, ricoverandosi a Napoli, ove il dominante era
ancora Carlo V, ma i privilegi nazionali teneano in freno il
Sant'Uffizio. Il Llorente, storico dell'Inquisizione parabolano e sempre
mal informato come mostreremo, dice abbandonasse la Spagna perchè
condannato d'eresia. Nol fu mai da vivo: sol dopo morto fu tenuto per
capo d'eretici, ma non si specifica di quali eresie peccasse, e ogni
Chiesa dissidente vorrebbe trarlo a sè, fin gli Antitrinitarj. Quest'è
certo ch'egli può stare alla testa de' riformati italiani. In Napoli fu
carezzato, stette segretario del vicerè Toledo, e scrisse varie opere,
fra cui i filologi lodano il dialogo sulle lingue, nel quale fa da due
Italiani e due Spagnuoli discorrerne sulla spiaggia di Napoli.
Quivi introdusse i libri di Lutero, di Bucer, degli Anabatisti che avea
conosciuti in Germania, e fece proseliti. Pubblicò un commento delle
Epistole di san Paolo (Venezia 1556) e riflessioni sopra san Matteo e
sopra alcuni salmi, dedicate a Giulia Gonzaga del ramo di Gazzuolo,
duchessa di Trajetto a Fondi, donna di sì famosa bellezza che Solimano
granturco desiderò vederla, e mandò il terribile Ariadeno Barbarossa per
rapirla, al che poco mancò riuscisse mentr'ella stava a Fondi con papa
Leone[512]. Dopo vedova del famoso Vespasiano, essa adottò per impresa
un amaranto e il motto _Non moritura_; e passata a Napoli nel 1537 per
certi litigi, in casa sua teneva un circolo, ove disputavasi di materie
religiose. Del Valdes citasi pure un «Avviso sopra gl'interpreti della
santa scrittura», ove sostiene che noi fummo giustificati per la
passione di Cristo, e che possiamo conoscere con certezza la nostra
santificazione.
Nel catalogo dei libri proibiti pubblicato da monsignor Della Casa è
notato _Il modo di tenere nell'insegnare e nel predicare al principio
della religione cristiana, libriccino il qual è solamente di tredici
carte in ottavo_; e il Vergerio, postillando esso catalogo, attribuisce
quell'opuscolo al Valdes, e non rifina di lodarlo, facendo le meraviglie
che si riprovi chi predica Cristo sinceramente e prudentemente, mentre
si tollerano e lodano le sguajatezze del Barletta, tutto buffonerie ed
empietà.
L'opera capitale del Valdes è quella stampata a Basilea nel 1550, col
titolo _Le cento et dieci divine considerationi del signor Giovanni
Valdessa; nelle quali si ragiona delle cose più utili, più necessarie et
più perfette della cristiana professione_. Nella prefazione, Celio
Secondo Curione «servo di Gesù Cristo, a tutti quelli i quali sono
santificati da Dio Padre, e salvati e chiamati da Gesù Cristo nostro
Signore» augura: «la misericordia, la pace et la carità di Dio vi sia
moltiplicata». E comincia: «Ecco fratelli, noi vi diamo non le Cento
novelle del Boccaccio, ma le _Cento e dieci considerazioni_ del
Valdesio, e di quanta importanza sieno vengo a dichiararvi».
E continua che «de' molti i quali scrisser delle cose cristiane, chi
meglio e più saldamente e più divinamente il fece è Giovanni Valdesio,
dopo gli apostoli ed evangelisti». Esaltandone i pregi, professa che di
questo grande e celeste tesoro siamo tutti debitori a monsignor Pietro
Vergerio, come stromento della divina provvidenza in farlo stampare,
acciò da tutti potesse essere veduto e posseduto. «Egli, venendo
d'Italia, e lasciando il finto vescovato per venire al vero apostolato,
al quale era chiamato da Cristo, portò seco di molte belle composizioni,
e fece come si suol fare quando, o per incendio della casa propria o per
sacco e sterminio di qualche città, dove ogni uno scampa le più care e
più preziose cose ch'egli si trova in casa: così il nostro Vergerio, non
avendo cosa più cara che la gloria del Signor Nostro Gesù Cristo, ne
recò seco di quelle cose le quali ad illustrarle ed allargarle servir
potevano». Soggiunge che fu dallo spagnuolo, da persona degna in lingua
italiana tradotto. Del Valdes racconta che «non seguitò molto la Corte
dopo che gli fu rivelato Cristo, ma se ne stette in Italia, e fece la
maggior parte della vita sua a Napoli, dove, con la soavità della
dottrina e con la santità della vita guadagnò molti discepoli a Cristo,
e massime fra gentiluomini e cavalieri, e alcune signore lodatissime.
Pareva che costui fosse da Dio dato per dottore e pastore di persone
nobili e illustri; ha dato lume ad alcuni de' più famosi predicatori
d'Italia..... Morse in Napoli circa l'anno 1540, lasciando altre belle e
pie composizioni, le quali per opera del Vergerio, com'io spero,
sarannovi comunicate».
Cominciò di quel tempo a correre per Italia un opuscolo, intitolato del
_Benefizio della morte di Cristo_, senza nome «acciocchè più la cosa vi
muova che l'autorità dell'autore». Sul qual autore faremo indagini
altrove; qui basti dire che a moltissimi fu attribuito; e ch'è uno de'
libri di più bizzarra fortuna, talchè potrebbe prendersi a simbolo delle
vicende della Riforma in Italia. Dato fuori nel 1542; stampato poco
dopo; diffuso, dicono, a quarantamila esemplari, si riuscì a sopprimerlo
a segno, da più non trovarsene esemplare; lo Schölhorn e il Gerdes,
tanto solleciti raccoglitori in questo genere, nol seppero rinvenire;
Mac Crie, Mac Aulay, Ranke lo dichiararono irreparabilmente perduto. Ma
nel 1774 un tal dottore Antonio Ferrario di Napoli ne avea deposto un
esemplare nel collegio di San Giovanni in Cambridge, con uno della
traduzione francese del 1552. Ivi testè fu ritrovato; indi un altro nel
1857 nel collegio medesimo, ch'era appartenuto a Laura Ubaldina, poi al
vescovo Moore, poi a re Giorgio I, il quale lo donò ad essa biblioteca.
Una traduzione in croato, edita il 1563, era stata dal celebre filologo
Kopitar donata alla biblioteca di Lubiana, dove giace pure un esemplare
dell'italiano. Se l'essersi distrutte tutte le copie dell'italiano può
darci argomento della potenza dell'Inquisizione, è inesplicabile che non
si facessero più ristampe nemmanco delle traduzioni, talchè d'esse pure
v'avea tanta rarità, finchè il reverendo Ayre riprodusse nel 1847 la
versione inglese, sulla quale si fece una versione italiana, stampata a
Pisa nel 1849, ed una migliore colla data di Firenze; poi scopertosi
l'originale, fu diffuso dalla società biblica e si venne così a
conoscerlo ed a parlarsene[513].
È un opuscolo in buon italiano, dove è asserito che, avendo Cristo
versato il sangue per la salvezza nostra, noi non dobbiamo dubitare di
questa, anzi conservare la massima tranquillità. S'appoggia ad autorità
antiche per affermare che coloro, i quali rivolgono le anime a Gesù
Crocifisso, e si affidano per mezzo di esso a Colui che non può
ingannare, sono liberati d'ogni male, e godono il perdono di tutte le
colpe.
Il peccato originale (insegna) fu causa de' nostri mali, ma non li
conoscevamo sin quando non fu data la legge. Il primo ufficio di questa
fu appunto far conoscere il peccato; il secondo ingrandire il peccato,
vietando la concupiscenza; il terzo dimostrare lo sdegno di Dio a coloro
che non osservano la legge; il quarto incutere timore all'uomo; il
quinto costringerlo a rivolgersi a Gesù Cristo, dal quale unicamente
dipendono la remissione de' peccati, la giustificazione e tutta la
salute nostra. Se il solo peccato d'Adamo bastò, senza colpa nostra, a
rendere peccatori noi tutti, a più forte ragione la giustizia di Cristo
avrà forza di renderci tutti giusti e figli della Grazia, senza
cooperazione nostra: la quale non può essere buona se prima noi stessi
non siamo divenuti buoni. Iddio avendo già punito ogni peccato nel
Figliuolo suo dilettissimo, ha conceduto al genere umano generale
perdono, e ne gode chiunque creda al Vangelo. Da Cristo solo deve dunque
ciascuno riconoscere la propria salvezza, in lui solo confidare, non
nelle opere proprie. Questa santa confidenza entra nei cuori nostri per
opera dello Spirito Santo, il quale ci si comunica mediante la fede; e
la fede non viene mai senza l'amore di Dio. Laonde ci sentiamo mossi da
lieto e operoso ardore a fare azioni buone, sentiamo forza di eseguirle,
e di soffrire tutto per amore e gloria del nostro Padre misericordioso.
«Per le cose dette (prosegue) si può intendere chiaramente che il pio
cristiano non ha da dubitare della remissione de' suoi peccati, nè della
grazia di Dio: nondimeno per maggior soddisfazione del lettore voglio
scrivere alcune autorità de' dottori santi, i quali confermano questa
verità». E qui adduce numerosissime autorità; indi ripiglia: «Nessuno
però creda coi falsi cristiani, i quali degradano di costumi, che la
vera fede consista nel credere la storia di Gesù Cristo come si crede
quella di Cesare e Alessandro, o come i Turchi credono al Corano. Fede
siffatta non rinnuova il cuore, nè lo riscalda dell'amor di Dio, nè
produce le buone opere e i cambiamenti di vita, che provengono solo
dalla fede vera, la quale è un'operazione di Dio entro di noi. La fede
giustificante è simile a fiamma che non può non tramandare luce; così
essa non può bruciare il peccato senza il concorso delle opere. E come,
vedendo una fiamma che non mandi luce, riconosciamo essere falsa e
dipinta, così quando in alcuno non vediamo la luce delle buone opere
diciamo che non ha quella vera fede ispirata da Dio[514].
«Che se ci prende diffidenza, ricorriamo al sangue di Gesù Cristo,
sparso per noi sulla croce, e distribuito nell'ultima cena sotto l'ombra
d'un sacramento augustissimo. Chi s'accosta a questo senza fede nè
carità, non credendo che quel corpo del Signore è vita e purgazione di
tutti i peccati, fa Gesù Cristo mentitore, calpesta il figliuolo di Dio,
e stima non essere nulla meglio che una cosa comune e terrena, il sangue
del Testamento, pel quale fu giustificato. E però il Cristiano, quando
comincia a dubitare se abbia o no ricevuto il perdono, quando lo rimorde
la dubbiosa coscienza, ricorra a questo divino sacramento, che gli
assicura il perdono di tutti i misfatti.
«Sant'Agostino costuma chiamare questo divinissimo sacramento vincolo di
carità e mistero d'unità, e dice che, chi riceve il mistero dell'unità,
e non conserva il vincolo della pace, non riceve il mistero per sè ma
una testimonianza contro di sè. Adunque abbiamo a sapere intendere che
il Signore ordinò questo sacramento, non solo per renderci sicuri della
remissione dei peccati, ma ancora per infiammarci alla pace, all'unione
e carità fraterna. Perocchè in questo sacramento il Signore ci fa
partecipare del suo corpo in modo, ch'e' diviene una cosa medesima con
noi, e noi con lui. E com'egli ha un solo corpo del quale ci fa
partecipi, così noi, per tale partecipazione, diveniamo un sol corpo fra
noi. Questa unione è raffigurata dal pane nel sacramento, formato di
molti grani, misti e impastati insieme in guisa, che l'uno non può
dall'altro discernersi. Parimenti noi tutti dobbiamo essere congiunti in
tale accordo di spirito, che niuna divisione possa insinuarsi tra noi.
Adunque, ricevendo la santissima comunione, dobbiamo ritenere nell'animo
che tutti siamo incorporati in Cristo, e tutti membri d'un medesimo
corpo; membri, dico, di Cristo, in maniera che non possiamo più
offendere, nè infamare, nè vilipendere alcuno de' nostri fratelli, senza
offendere, infamare, vilipendere il nostro capo Gesù Cristo; nè tenere
discordia con qualunque de' nostri fratelli, senza essere in opposizione
con lui. Così non possiamo amare lui se non amiamo i nostri fratelli.
Dobbiamo prepararci al divin sacramento eccitando gli animi nostri ad un
amor fervente riguardo al nostro prossimo. Qual maggiore stimolo ad
amarci che il vedere Gesù Cristo, non solo col dare se stesso a noi,
allettarci a dare noi stessi per gli altri, ma comunicandosi esso a
tutti noi, fare sì che noi diventiamo con lui tutt'una cosa?»
Conchiude raccomandando la comunione frequente, e così la preghiera, la
fiducia nella predestinazione, per quanto il demonio ci tenti per
levarcela, e per farci credere che, se per fragilità cadiamo in peccato,
noi diveniamo vasi d'ira e dimenticati dallo Spirito Santo.
Sant'Agostino dice: Niun de' santi è senza peccato; nè perciò cessa
d'essere santo se con affetto ritiene la santità. È gran cecità
l'accusare i Cristiani di presuntuosi se si vantano di possedere lo
Spirito Santo; anzi senza questo vanto non sarebbero veri cristiani. Il
timore servile sgomenta i reprobi; ma l'amore filiale conforta gli
eletti colla fiducia che Dio, per sua misericordia, li manterrà nello
stato felice ove gli ha posti, e che i suoi peccati gli furono
gratuitamente rimessi.
«Noi siam giunti al fine di questi nostri ragionamenti, ne' quali, il
nostro principale intento è stato di celebrare e magnificare, secondo le
nostre piccole forze, il beneficio stupendo che ha ricevuto il Cristiano
da Gesù Cristo crocifisso: e dimostrare che la fede per sè stessa
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