Gli eretici d'Italia, vol. I - 29

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missione» (_Epist_. ERASMI 30, lib. II). Il Varillas (_Hist. de Francois
I_) racconta che «l'accademia di Roma, che mai non era stata così pulita
dal secolo d'Augusto in poi», gli fece accoglienza straordinaria, ed
egli acquistò bentosto la famigliarità del papa, perchè era eccellente
sovrattutto nella cognizione delle antichità greche di cui sua santità
si piccava di conoscere. E soggiunge che gli faceva objezioni, dond'egli
aveva occasione di sfoggiar dottrina; il che garbava al papa, desideroso
di tirar in lungo i negozj e di nulla conchiudere. Ne' suoi scritti,
principalmente _De asse_, si avventa contro la sregolatezza del clero,
ma fu sempre avversissimo ai novatori, e nel libro _De transitu
hellenismi_ (1535) esorta Francesco I a conservarsi fedele cattolico, e
loda la famosa processione, nella quale al re fu dato lo spettacolo di
molti eretici bruciati.
[329] Fra le meraviglie che Cristo predisse a san Francesco, v'era la
promessa che, chi malvolesse all'Ordine serafico, non vivrebbe mezza
l'età sua: e ciò s'era avverato poc'anzi nel cardinale di Sion, quel
prelato guerresco che tanta sciagurata parte ebbe nelle guerre d'Italia.
Per principale opera di esso (narra il dialogante), quattro Domenicani
erano stati bruciati a Berna nel 1509, perchè con finte visioni aveano
indotto il sarto Jezer a professare come rivelatogli, che Maria Vergine
ebbe il peccato originale; e quando Jezer si avvide della frode, essi lo
avvelenarono nell'eucaristia. Riferisco questo fatto perchè, come in
troppi altri, s'imputerà il sant'Uffizio d'avere arso uomini per
un'impostura o per un mistero, tacendo che il fece per delitto comune,
aggravato da un'empietà che desterebbe orrore fino in quest'età nostra,
tollerantissima in fatto di colpe, quant'è intollerante in fatto di
sbagli o di dissensi.
[330] _Marquardi Gudii et doctorum virorum ad eum epistolæ_. Utrecht
1697.
[331] Nella Vergine Misogamo: _Quemadmodum nemini suadere velim ut, quæ
se in hoc vitæ genus conjecerit, luctetur emergere, ita non dubitem
hortari puellas omnes, præsertim indolis generosæ, ne se temere eo
præcipitent, unde post sese non possint explicare_.
[332] _Pugnent qui volent, ego censeo leges majorum reverenter
suscipiendas, et observandas religiose, velut a Deo profectas, nec esse
tutum, nec esse pium de potestate publica sinistram concipere aut serere
suspicionem. Et si quid est tyrannidis, quod tamen non cogat ad
impietatem, satius est ferre quam reditiose seluctari_. Ἰχθυοφαγία.
[333] _Paraclesis in Novum Testamentum_.
[334] Ep. 30, lib. I.
[335] Nelle note al c. 19, XII di san Matteo dice corna del celibato
monastico: al c. 6 di san Giovanni si avventa contro gli Ordini
mendicanti.
[336] _Quum Paulus III statuisset in futurum synodum aliquot eruditos in
cardinalium numero allegere, propositum est et de Erasmo. Sed
objiciebantur impedimenta; valetudo ad obeunda munia inutilis, ac census
tenuis. Ajunt enim esse senatusconsultum, quo submoventur ab ea
dignitate quibus annui reditus sunt infra tria ducatorum millia. Nunc
hoc agunt ut onerent præposituris me... reclamantem, ac manibus
pedibusque recusantem, ac perpetue etiam recusaturum_. Lib. XVII., epp.
28 e 25.
[337] Il Flaminio dice che «Lo scriver bene, massime nella lingua
latina, è tanto difficile, che dovremmo mirar quasi come cosa miracolosa
un buon scrittore, ma siamo tanto ignoranti che non sappiamo discernere
gli eccellenti da' plebei: e subito che l'uomo nelle sue composizioni
schifa i vocaboli barbari e frateschi, pensiamo ch'egli scriva bene
latino; e da qui nasce che, non solamente il vulgo, ma eziandio molti
che per le città hanno fama di buona dottrina e di buon giudizio,
ammirano lo stile di Erasmo, del Melantone, e di certi nostri italiani,
li quali non seppero mai, nè forse sapranno ciò che sia la bellezza,
l'eleganza, la purità e la copia della lingua latina». _Lettere
vulgari_.
[338] SADOLETI, Ep. 2. lib. XVII.
[339] Ep. 1 e 2, lib. IV.
[340] Fra le sue celie è notevole questa: _Deputatos appellant Galli,
opinor quod male putati sint, aut certe plus satis putati_. De
colloquiorum utilitate.
[341] _Dialogus cujuspiam eruditissimi festivus sane ac elegans, quomodo
Julius II pontifex maximus post mortem cœli fores pulsando, ab janitore
illo D. Petro intromitti nequierit_. Tutti però ne lo credettero autore,
sebbene altri lo attribuissero a Fausto Anderlino, e meglio a Hutten. È
certo una delle più argute satire. Giulio II s'infuria perchè san Pietro
non vuole introdurlo, ed enumera meriti, che tali non sono agli occhi
del santo, il quale gli chiede la ragione delle sue guerre contro
Bologna, contro Ferrara, contro i Veneziani, che aveano usurpato una
parte del patrimonio di san Pietro. Questa denominazione fa non poca
meraviglia all'apostolo, che ogni ben suo avea lasciato per seguire
Cristo. E si meraviglia ancora che la Chiesa adunata in concilio non
abbia deposto un tal papa. Giulio risponde, non poterlo essa nè per
omicidio, nè per fornicazione, nè per bestemmie, nè per simonie; e
soggiunge:
Il concilio! fremereste d'orrore se sapeste cosa proponeva.
_San Pietro_. Cioè?
_Giulio_. Fremo ancora di rabbia. Questi scellerati voleano
ricondur la Chiesa nostra, così florida e opulenta, ai giorni di
sua miseria e delle frugali virtù. Voleano che i nostri cardinali,
potenti e doviziosi come principi, ritornassero gli umili e poveri
diaconi d'un tempo: che si spogliassero i vescovi dei loro
palazzi, del fasto, delle carrozze, e si mettesse sul trono papale
non il più ricco, ma il più degno.
_San Pietro_. Questi scellerati parlavano come Quello di cui tu ti
chiami vicario. Ma quai sono i nemici che tu volevi cacciar
d'Italia?
_Giulio_. I barbari.
_San Pietro_. Che bestie sono coteste che chiami barbari?
_Giulio_. Sono uomini.
_San Pietro_. Uomini dunque; ma non cristiani.
_Giulio_. Anche cristiani; ma cos'importa?
_San Pietro_. E perchè li chiami barbari?
_Giulio_. È il nome che noi italiani diamo agli stranieri.
_San Pietro_. Eppure Cristo è morto per tutti gli uomini; la sua
croce gli ha resi tutti eguali.
_Giulio_. E' non è morto pei Francesi, che disprezzano i nostri
fulmini, e ridonsi delle nostre bolle. Passi per gli Spagnuoli,
che ci adorano in ginocchio, come noi mandiamo ad essi vasi d'oro,
stocchi benedetti, bolle, ed essi ci ripagano con oro e soldati.
_San Pietro_. Il tuo regno è di Satana, non di Cristo. Chi si fa
vicario del mio maestro, dee attendere solo a seguire gli esempj
di esso.
_Giulio_. Nulla è più nobile che veder ingrandita la Chiesa.
_San Pietro_. La Chiesa si compone di tutti i cristiani; e tu la
scomponi soffiando guerre e discordie.
_Giulio_. Che parli di popoli cristiani? noi chiamiam chiesa le
basiliche, i preti, e principalmente la Corte di Roma, e me pel
primo, che son capo della Chiesa.....
Segue un bizzarro confronto fra la Chiesa umile e povera de' tempi di
san Pietro, e la suntuosa e potente di Giulio; quello si gloria d'aver
guadagnato migliaja d'anime a Cristo; questo d'aver arricchito la
Chiesa. San Pietro lo manda a fabbricarsi con quelle ricchezze un
paradiso, chè in questo e' nol riceverà. Giulio minaccia por l'assedio
al paradiso, ed entrarvi di forza coi 60 mila uomini che perirono nelle
sue guerre; onde alfine san Pietro dice non meravigliarsi se, con tali
uomini a capo, sì pochi or giungano al paradiso.
[342] Avremo a parlarne di nuovo. Possono vedersi
AD. MUELLER, _Vita di Erasmo di Rotterdam_. Amburgo 1828.
LIEBERKUEN, _De Erasmi ingenio et doctrina_. Jena 1860.


DISCORSO XV.
LUTERO, LE INDULGENZE, LA BIBBIA.

Tutto era dunque non solo preparato, ma incamminato, sia l'attacco o il
riparo, sia la critica o lo scherno, sia la riforma amorevole o la
demolitrice, allorchè, come tant'altri tedeschi, a Roma capitò, mandato
per non so quale controversia insorta fra' suoi Agostiniani, frà Martin
Lutero. Nato ad Eisleben l'anno che il Savonarola cominciò a predicare a
Firenze, visto morire improvvisamente un amico, si spaventò di cascare
impreparato nelle mani di Dio; onde resosi monaco, e disgustato d'ogni
altra lettura a confronto della Bibbia, prega, digiuna, si mortifica; va
alla questua, adempie i bassi uffizj del convento. Quando fu ordinato
prete a Erfurt, diede la solita promessa di vivere e morire nel seno
della santa Chiesa cattolica e obbedirla come madre, e nel celebrare la
prima messa talmente si sentì compreso da quei misteri, che côlto da un
tremito universale, a stento terminò.
Presto venuto in fama di abile teologo e predicante, fu messo professore
di teologia alla recente università di Wittenberg, e delle arguzie di
Erasmo contro il papa indignavasi a segno, che diceva, recherebbe egli
stesso le fascine per bruciarlo. Ma l'orgoglio del proprio sapere e
l'idolatria di se stesso lo invade: e spedito di qua dell'Alpi, non ci
porta affetto ed entusiasmo, bensì dispetto, opposizione, censura. In
Lombardia trova dapertutto «ospedali ben fabbricati, ben provisti, con
buona dieta, servigiali attenti, medici esperti, letti e biancherie
pulite, l'interno degli edifizj ornato a pitture; appena un malato v'è
condotto, gli si tolgono gli abiti, tenendone nota per restituirli; è
vestito d'un palandrano bianco, messo in un buon letto; gli si menano
due medici; gli spedalinghi dangli a mangiare e bere in vetri limpidi,
che toccano appena colle dita. Poi signore e matrone onorevoli vengono
per servire i poveri, velate di modo che non si sa chi sieno». A Firenze
vede ricoveri, ove i gettatelli sono nutriti che meglio non si potrebbe,
allevati, istruiti, tutti in abito uniforme. Dapertutto poi eccellenti i
collegi, quanto erano male condotti altrove[343]. Ma l'anima sua,
sprovvista d'amore come d'umiltà, nulla comprende alla poesia del nostro
cielo, delle nostre arti, della nostra storia.
Già per viaggio, in luogo di quelle fontane, sgorganti rozzamente da un
tronco di abete forato, dei Cristi e delle grossolane Madonnine sugli
svolti de' trivj, incontrando architetture e sculture, marmi ed ori
nelle chiese, non che stupito, ne rimane uggiato: gli pare piovoso il
clima, disagiati gli alberghi, aspro il vino, micidiale l'acqua, l'aria
febbrile, meschina la natura quanto gli uomini. Dall'altura di
Montefiascone l'immensa campagna romana gli si mostra arida e sterile,
anzichè ridere d'ulivi e di rose qual se l'immaginava: e rimpiange la
scintillante verzura della Sassonia e le secolari sue foreste, e quella
pendice del Poltesberg, la quale, a dire suo, splende di più fiori che
non tutte le colline d'Italia.
Peggio gli uomini. Per lui chiunque porta una tonaca o dice messa, è un
ignorante che non capisce il latino, e nè tampoco la lingua materna. A
una taverna imbatte frati che sbevazzano, gesticolano, ciaramellano
cavallerescamente di cose sacre: dapertutto santi, pitturati sulle case
onde preservarle dal fuoco: dapertutto il matrimonio poco rispettato,
onde dichiara questi Italiani figliuoli del peccato; prende scandalo
d'un convento provisto di trentaseimila zecchini di rendita. Giunto alla
santa Roma (così la qualifica), Lutero visita tutte le cappelle, crede
tutte le legende, prostrasi a tutte le reliquie, sale ginocchione la
scala santa; si duole che i suoi genitori non siano ancora usciti di
vita, perchè potrebbe adoprarsi a riscattarli dal purgatorio con messe,
preghiere, indulgenze; stupisce di quella pulizia severa, per cui di
notte il capitano scorre la città con buone scolte, punisce chi coglie,
e se ha armi lo appicca e getta nel Tevere; ammira il concistoro, e il
tribunale della Sacra Rota, ove gli affari sono istruiti e giudicati con
tanta giustizia[344].
Ma per lui Roma non è la città donde i santi apostoli respingono Attila
flagello di Dio, dove imperatori e re fermansi venerabondi o sgomentati,
e che personeggia il dominio dell'intelligenza sopra la forza brutale;
la città che tiene i Turchi in apprensione, a cui si convertono gli
sguardi di tutta la cristianità, da cui partono i missionarj di tutto il
mondo, e dove da tutto il mondo si dirigono i reclami contro ogni
oppressione, ogni ingiustizia. Al vedere tanti capolavori d'antichi,
emulati dai nuovi colla penna, collo scalpello, coi colori, e sotto al
manto papale raccolti tanti sublimi ingegni, uno dei quali basterebbe ad
immortalare un paese, un'età: non uno dei raggi che partono dall'aureola
di Rafaello e di Michelangelo commuove il gelo dell'anima sua
razionatrice. Frate e tedesco, si scandolezza al lusso delle cerimonie,
senza comprendere come l'idea ha bisogno di trasformarsi in immagine.
Frate inosservato in tanta ricchezza, in tanto fasto, in tanta scienza,
s'inviperisce e medita vendetta. Fra le splendidezze del culto,
espressione mistica del rispetto e dell'amore verso Dio, fra la
magnificenza de' pontificali, non calcola se non quanto denaro costano,
e con che modi questo procacciavasi: si fa il segno di croce al
conoscere que' reprobi costumi, all'udire gli aneddoti spacciati sul
conto di Leone X, alla sbadataggine di que' preti che dicevano sette
messe nel tempo ch'egli una sola, «talchè i chierichetti gli ripetevano:
passa avanti, passa avanti»[345]: alla venalità della curia disposta a
dire come Giuda, «Quanto mi date ed io ve lo tradirò?» Crede tutte le
baje di piazza e di bettola: e perfino che in un monastero (non indica
quale) si disotterrarono da un giardino seimila cranj di neonati; che
Roma possiede veleni così squisiti da uccidere col solo guardare uno
specchio cospersone[346].
Altrettanto dispetto gli fanno le università e gli studj d'Italia,
perchè interpongono la ragione fra la scienza e la fede; perchè vi
s'insegna che la luce divina rischiara il lume naturale, come fa il sole
con una bella pittura; perchè l'attività del pensiero s'applica a idee
pagane, non alla dottrina di Cristo. Anzi, in quel suntuoso peripato di
Leone X non vuol vedere che ignoranza, brutalità, grossolanità, quasi
intendesse arrogarsi il vanto d'aver egli insegnato il latino, ridesti
gli studj filologici, rivelato la Bibbia.
Rimpatriato con tali sentimenti, s'ingolfa nella Bibbia in greco e in
ebraico, e fino dalle prime sue lettere, massime da quelle a Spalatino
del 1518, manifesta il livore contro i Romanisti, il vilipendio per la
teologia scolastica e pei maestri in essa più rinomati; la passione
della novità, comunque sia cercata e trovata; il dubbio sofistico, la
smania di togliersi dall'oscurità, e di dare una scossa al mondo.
A raccogliere in una fissa direzione i suoi pensamenti venne il dispetto
per la vendita delle indulgenze.
La Chiesa, fino da' suoi primordj, come prescrisse penitenze e
mortificazioni, così usò della facoltà di rimetterle o attenuarle,
sull'esempio degli apostoli; e massime ai martiri si concedea di dare
lettere d'indulto ai peccatori, cui per esse il vescovo alleviava la
penitenza; laonde, accanto alla dottrina che insegna la salvazione
venire da Cristo gratuitamente, stette quella della cooperazione
dell'uomo, del soddisfacimento penale, e della remissione parziale o
plenaria di questo, secondo le circostanze del penitente. E fino da que'
primi tempi indulgenza indicava un'abbreviamento di quelle penitenze,
che la Chiesa esigeva prima di assolvere, e che concedeasi al peccatore
quando desse segni di profonda contrizione e di sentimenti mutati. Fra
gli scolastici pigliò senso più ampio, fondato sopra ragioni valevoli
sì, ma non come articolo di fede. Le singole pene non oltrepassavano mai
i trent'anni, ma il loro cumulo formava talora più secoli. Essendo per
conseguenza impossibile conseguire l'assoluzione in vita, si permise di
commutarle, e farle eseguire da altri, e massime i monaci s'incaricavano
di preci, pellegrinaggi, mortificazioni, discipline, in surrogazione del
vero penitente. Domenico Loricato che ebbe questo titolo perchè portava
una corazza di ferro e catene attorno al corpo, talora assumevasi di
scontare penitenze di cento e di mille anni. Tremila sferzate
equivalevano ad un anno di penitenza: durante la recita dei cencinquanta
salmi poteansi dare quindicimila colpi; laonde, col recitare venti volte
il salterio sotto continua flagellazione, redimevasi la penitenza di
cento anni; e talora Domenico la compiva in sei giorni. Così nella vita
di esso attesta san Pier Damiani, vivente intorno al mille; e altrove
scrive d'avere imposto all'arcivescovo di Milano la penitenza di cento
anni, e tassata la redenzione in un annuo tributo[347]. Il Muratori
stampò un Penitenziale, ove si espongono tali scambj di penitenza: «se
uno non può digiunare, scelga un sacerdote giusto, o un monaco che vero
monaco sia e viva secondo la regola, il quale adempia per lui, e se ne
redima a prezzo conveniente. Una messa cantata speciale può riscattare
dodici giorni; dieci messe riscattano tre mesi; trenta messe dodici
mesi»[348]. Della messa il valore è infinito; onde venne adoperata più
che le altre commutazioni.
Indulgenze concedeansi anche per opere civili o pietose, come il fondare
un ospedale, erigere una chiesa, fino costruire un ponte o una via,
conforme l'indole de' tempi ove ogn'atto di questo mondo consideravasi
in relazione coll'altro; ovvero per visitare un santuario, guerreggiare
contro gl'infedeli. Eravi chi avesse recato un danno a persona, cui non
potesse risarcire? e' procuravasi l'assoluzione mediante una somma, che
pareva soddisfare mediante l'uso che se ne faceva. L'Inquisizione
avrebbe dovuto punire molti delinquenti, se non si fosse ad essi aperto
uno scampo mediante le indulgenze, convertendo il delitto in peccato, il
supplizio in penitenze.
I teologi si domandarono, come mai la Chiesa potè dirsi autorizzata a
tale condiscendenza? E poichè allora la scolastica presumeva dare
ragione di tutto, allegarono che il fondo inesauribile di misericordia
preparato dal sangue di Cristo, e i meriti soprarogatorj dei santi,
formano un tesoro, applicabile a chi pentito partecipi ai sacramenti. Ma
di che non abusa l'uomo? Le indulgenze furono talvolta profuse con
giubilei plenarj, e col concederle a chi sovvenisse a bisogni temporali
della Chiesa, e persino a fazioni politiche de' suoi capi.
Furono rivolte anche sulle pene postume[349], volendo che papi e vescovi
potessero applicarvi una parte di questo inesauribile tesoro di
misericordia. Perocchè quel sentimento così umano che ci lega a coloro
che ne precedettero in quest'esiglio e ci attendono nella patria, era
stato consacrato dalla fede, riconoscendo la comunione de' fedeli,
cominciata tra le pruove della vita, continuata nel luogo della
temporaria espiazione, compita nella città celeste; sicchè a sollievo
delle anime aspettanti, noi militanti possiamo applicare e le preghiere
e le buone opere: tradizione antichissima, chiaramente indicata da
Tertulliano e da sant'Agostino[350], nel quale già si trova cenno delle
messe per defunti. Ma esso pure fu implebejato coll'idea del guadagno, e
i suffragi si restrinsero quasi unicamente a messe ed uffizj, che troppo
facilmente prendevano aspetto di bottega, e offrivano appiglio alla
maldicenza.
La Chiesa dichiarava espresso che le indulgenze esigono da una parte un
merito soprabbondante, dall'altra buone opere e pia coscienza; e che
mancano d'ogni valore se non vadano congiunte alla sincera ed efficace
contrizione, rimettendosi la penitenza solo in quanto era satisfattoria
cioè punizione, non in quanto era medicinale, cioè diretta a tener sotto
gli occhi del peccatore l'orror della colpa commessa[351]. Anche i
catechismi più comuni insegnano che l'indulgenza è una remissione di
pene temporali, che rimarrebbero a scontare pei peccati già rimessi
quanto alla pena eterna. Non concedesi dunque se non a quello cui già
sia stata rimessa la colpa; vale a dire all'uomo in istato di grazia,
cioè di moralità soprannaturale; all'uomo che possieda amore di Dio e
de' suoi precetti, dolore de' peccati, e proposito di non più
commetterne; amore del prossimo, perdono delle ingiurie ricevute,
riparazione delle fatte, adempimento de' proprj doveri, insomma
conformità (per quanto all'uomo è possibile) alla legge divina. Solo a
queste condizioni si ottiene l'assoluzione e per ciò l'indulgenza, cioè
la soddisfazione della pena temporale che il peccatore deve alla
giustizia divina anche dopo rimessa la colpa. La qual pena temporale
sconta l'uomo con opere penitenziali, a cui la Chiesa applica i meriti
infiniti dell'Uomo Dio.
Pure gl'ignoranti facilmente sdrucciolavano in opinione erronea, e se la
fomentavano coloro che ne traevano guadagno, ne facea beffe il bel
mondo. «Come credere al purgatorio predicato da bocche barbose, che non
sanno tampoco declinare _Musa Musæ_?» diceva Reuclin. E gli arguti:
«Che? Sono dunque in mano dei preti le porte del purgatorio e del
paradiso?» Sul teatro rappresentavansi spesso de' monaci, che vendeano
l'assoluzione al ladro, il quale anche negli estremi momenti esitava fra
la sua coscienza e il buon senso; altri che alle comari computavano
quanti giorni un'anima resterebbe nel purgatorio, e quanto ci vorrebbe a
riscattarla.
Fatto è che lo spaccio delle bolle d'indulgenze divenne pingue entrata
della romana curia; v'ebbe persone che n'apersero bottega
falsificandole: il che tutto e screditava le indulgenze, e ne adulterava
il senso. Il vulgo facilmente recavasi a credere che quel denaro fosse
il prezzo della cosa santa; e i questori che mandavansi a riscuoterlo,
partecipando d'un tanto per cento al vantaggio, ne magnificavano
profanamente la virtù. Ammirato il Giovane racconta che, nel 1431, a
Firenze venne un cavaliere gerosolimitano con un Minorita; e quegli
annunziava aver dal papa autorità ampia per assolvere dalla dannazione:
questi stava a banco nelle chiese a scrivere e sigillare le lettere
delle indulgenze e assoluzioni _di colpa e di pena_, dispensando in
arduissimi casi chi portava non solo denari, ma vesti e panni. I
senatori, dubitandone, vollero vedere la carta dell'autorità del
cavaliere, e la trovarono minore di quella che annunziava; onde gli
proibirono di passar più avanti, ne scrissero al papa, e comminarono
pene a simil gentaccia. Qual v'ha mai cosa santa, di cui l'avarizia non
abusi?
Han levato gran rumore d'un libro intitolato _Tasse della cancelleria
romana_, che nella sua crudezza sa di stranamente empio. Vi si dice:
«Per l'assoluzione di chi abusa d'una fanciulla, sei carlini; per
l'assoluzione d'un prete concubinario, sette carlini; d'un laico, otto.
Per l'assoluzione a chi ammazza il padre, la madre, il fratello, la
sorella, o altro parente ma laico, cinque carlini; d'un laico che uccise
un abate o altro ecclesiastico inferiore al vescovo sette o otto o nove
carlini; d'un marito che battè la moglie in modo che abortisse, otto
carlini; di padre o madre o parente che abbia soffocato un fanciullo,
quattro tornesi, un ducato, otto carlini. L'assoluzione per atto
d'impurità qualunque commesso da un chierico, con dispensa di potere
prendere gli Ordini e tenere benefizj, trentasei tornesi; per mangiare
latticinj ne' tempi proibiti, sei tornesi». Fu stampato nel 1471 a Roma;
vero è che non ha nessuna autorizzazione della Chiesa, ma moltissime
volte fu riprodotto colà, e a Parigi, Venezia, Colonia, senza che
scandolezzasse, finchè i principi protestanti l'inserirono nei _Centum
gravamina_, e Antonio du Ginet lo riprodusse a Lione nel 1564 col titolo
_Taxe des parties casuelles de la boutique du pape, etc_. Non è ben
determinato quanto sia autentico e genuino: ma comunque esso urti il
senso dell'onestà e della morale, basta il senso comune per comprendere
come quella tassa non riguardi il perdono, bensì paghi la spedizione
della cedola assolutoria, nè mai esclude la necessità del pentimento e
della soddisfazione.
I concilj di Vienna, di Costanza, di Laterano aveano severamente vietato
questo traffico; ma Leone X credette sorpassarvi per nobile oggetto,
qual era di far concorrere tutta la cristianità a due grandi imprese, a
tutta la cristianità interessanti; la crociata contro Selim granturco, e
l'erezione d'un incomparabile tempio.
Perocchè, arrivati all'apogeo della loro grandezza, i pontefici vollero
esprimerla anche materialmente con un tempio maggiore di tutti.
La basilica del Vaticano offre la storia della Chiesa e delle arti, da
quando Proba nel IV secolo vi ergeva una cappella al defunto marito
Anicio, fino a Tenerani e Pio IX. Nicola V, che fece per le arti non
meno di Leone X, avea pensato riedificarla splendidissimamente, e
l'annesso palazzo pontifizio ridurre in modo, che v'abitassero tutti i
cardinali, quasi concilio permanente attorno al papa; ivi tutti gli
uffizj della curia; ivi grandioso ricinto pel conclave, immenso teatro
per la coronazione, suntuosi appartamenti pei principi ospiti; il colle
Vaticano, seminato di palagi, comunicherebbe colla città mediante lunghi
porticati a botteghe; attorno giardini, fontane, cappelle, biblioteca.
Il gigantesco divisamento gli fu tronco dalla morte: poi Giulio II, a
cui nulla parea troppo grande, pensò dare condegna occupazione ai sommi
artisti allora fiorenti col ricostruire la basilica. Messosi all'opera,
fece distruggere cappelle e monumenti, preziosi per antichità e per
sante tradizioni, con grave dolore di chi venera le memorie[352]: e
stabilì (1509) che tutti i legati pii, lasciati a luoghi incapaci
d'accettarli, o che non si soddisfacessero dagli eredi, venissero
applicati alla fabbrica di San Pietro; istituendo a tal fine un
tribunale, che li riscotesse in tutto l'orbe cattolico[353].
Leone X, volendo compiere quel che il predecessore avea cominciato,
pensò farvi contribuire tutta la cristianità, e concedette ampie
indulgenze a chi offrisse denaro per quell'edifizio.
Il medioevo non avrebbe trovato a ridirvi; ma le nazioni già prendeano
il volo fuori del nido in cui aveano messe le penne; i principi,
bisognosi di denaro, chiedeano partecipare a questo speciale genere
d'entrata, e voleano trafficare le indulgenze come trafficavano i voti
per la corona imperiale.
L'incarico di predicare queste indulgenze era officio lucroso, come quel
di ogni esattore. E poichè Alberto, arcivescovo di Magonza, dovea render
al papa quarantacinquemila talleri e non n'avea modo, Leon X conferì ad
esso il diritto di distribuire le indulgenze in Germania[354]; ed esso
l'appaltò ai Fugger, banchieri famosi di Augusta. Giovanni Arcimboldo,
diacono d'Arcisate, poi arcivescovo di Milano, che prima n'avea avuto
l'incarico, riservossi la Danimarca e la Svezia, e in pochi anni
raccolse abbondanti limosine, che l'infedeltà d'alcuni agenti mandò a
male, pur la reputazione di esso uscendone intatta. Non così quella
d'Alberto, che scelse a divulgarle Tetzel, domenicano di Pirna, oratore
famoso per immaginazione, ma scarso di prudenza e di buon senso. Se
dessimo fede a Lutero, purtroppo franco nel calunniare, Tetzel traversò
la Sassonia con casse di cedole di perdono, bell'e firmate, e dove
arrivasse alzava una croce in piazza, spacciava la sua merce nelle
taverne, e «Comprate, comprate (diceva), che al suon d'ogni moneta che
casca nella mia cassetta, un'anima immortale esce dal purgatorio»; e il
popolo a calca versava talleri in cambio delle perdonanze. Così Lutero:
ma i sermoni di Tetzel furono stampati, e da un Protestante, e vi si
legge a tutte lettere la necessità della confessione e contrizione:
_quicumque confessus et contritus eleemosynam ad capsam posuerit juxta
consilium confessoris, plenariam omnium peccatorum suorum remissionem
habebit_.
«Farò io un buco in questo tamburo», gridò Lutero, indignato a quella
profanità; ad alcuni che le aveano comprate, negò l'assoluzione se non
riparassero il mal fatto e si emendassero. «Vi dico che l'indulgenza non
è nè di precetto, nè di consiglio divino. Che le anime possono liberarsi
dal purgatorio mercè dell'indulgenza io nol so e nol credo. Hai tu
denaro? Danne a chi ha fame, e varrà ben meglio che darlo per
compaginare pietre. Quel che dico scompaginerà la costoro bottega: ma
che importa il loro brontolio? Teste vuote, che non han mai letto la
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