Gli eretici d'Italia, vol. I - 19
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sua dottrina, come un figliuolo, di cui la tenerezza filiale si fosse
raffreddata, la riscalda se ode attentarsi all'onor di sua madre».
Soleano essi (dice altrove) porre in mezzo qualche problema
aristotelico, o sulle anime; ed io tacere, o celiare, o avviar
tutt'altro discorso, o sorridendo chiedere come mai Aristotele avesse
potuto saper cose, dove non val la ragione, dov'è impossibile
l'esperienza. Essi stupivano, e in silenzio indispettivansi, e
guardavanmi come un bestemmiatore.
Uno di costoro, «i quali pensano esser da nulla se non abbajano contro
di Cristo e della sovrumana sua dottrina», andò a trovare esso poeta a
Venezia, e lo cuculiava perchè avesse citato quel detto dell'apostolo
delle genti: _Io ho il mio maestro, e so a chi credo_; e, «Tienti il tuo
cristianesimo, io non ne credo acca; il tuo Paolo, il tuo Agostino e
cotest'altri ebber ciarle e nulla più; e deh! volessi tu legger Averroè,
che vedresti quanto ei sorvola a cotesti tuoi buffoni». Il Petrarca se
ne stomacò, e tutto dolce ch'egli era, prese pel mantello e mise fuor di
casa il temerario[202].
Anche altri quattro[203] faticarono per trarlo al loro pensare,
indispettendosi che prendesse sul serio la religione, e citasse Mosè e
san Paolo, e conchiusero ch'egli era un uomo dabbene, ma senza cultura.
E «se costoro (soggiunge) non temessero i supplizj degli uomini più che
quelli di Dio, impugnerebbero non solo la creazione del mondo secondo
Timeo, ma la genesi e il dogma di Cristo. Quando paura non li rattiene,
combattono direttamente la verità; nelle loro conventicole ridonsi di
Cristo, e adorano Aristotele senza capirlo. Disputando, in pubblico
protestano di far astrazione dalla fede, cioè di indagare la verità
ripudiando la verità, cercar la luce volgendo le spalle al sole. E come
non tratterebbero d'illetterati noi, poichè chiamano idiota Gesù?»
Non sentendosi abile a confutarli, il Petrarca esortava Luigi Marsigli
agostiniano a farlo, e «ribattere quel can rabbioso d'Averroè, che non
cessa d'abbajare contro Cristo e la religione cattolica»[204].
Pietro d'Abano (1250-1316) aveva introdotto Averroè nell'Università di
Padova, e con esso l'incredulo materialismo, e il considerar tutte le
religioni come eguali, supponendole nate sotto certi influssi di
stelle[205]; la qual fantasia dell'oroscopo delle religioni, più tardi
vedremo ripigliata da Pomponazio e da Pico della Mirandola. Pietro fu
accusato anche d'eresia, ma così vagamente, che alcuni lo imputano di
non credere ai demonj, altri di averne alcuni famigliari, che teneva in
un'ampolla. Dall'Inquisizione si salvò una volta; presone un'altra, morì
mentre gli si faceva il processo; il quale finì col dichiararlo eretico,
e ordinare ne fosse dissepolto il cadavere.
Giovanni di Gianduno, che con Marsiglio di Padova sostenne Lodovico il
Bavaro contro il papa, imparò o insegnò in quest'Università
l'averroismo. Dove pure Paolo da Venezia e frate Urbano da Bologna, che
nel 1334 ne stese un commento, ed altri, prima di Gaetano Tiene
(1387-1465), reputatone fondatore dal Facciolati e dal Tommasino; mentre
solo per l'alta sua nascita e per la scienza contribuì grandemente a
diffondere tal dottrina con un corso che in numerosissime copie fu
diffuso, ed ebbe credito nelle scuole italiche in tutto il secolo
seguente. Paolo di Venezia ( — 1429) agostiniano, soprannomato
_excellentissimus philosophorum monarcha_, ammettea francamente
l'unicità dell'intelletto secondo Averroè, benchè non ne deducesse
l'unicità delle anime. Anzi a Bologna ciò sostenne in pubblica disputa
avanti al capitolo generale del suo Ordine contro Nicolò Fava. Ma per
quanto si schermisse con tutta l'abilità dialettica, Ugo Benzi da Siena
gli gridò: «Fava ha ragione, e tu hai torto». Il Benzi era nemico del
Fava, onde Paolo esclamò: «In quel giorno divennero amici Erode e
Pilato», e così risolse in riso l'adunanza.
Onofrio da Sulmona, Paolo della Pergola, Giovanni da Lendinara, Nicola
da Foligno, Marsilio da Santa Sofia, Giacomo da Forlì, per nominar solo
i nostri, parteggiavano in quel tempo pel peripatismo d'Averroè nella
scuola di Padova. Nella quale, e all'abadia di San Giovanni in Verdara a
Bologna, Averroè godette venerazione; Michele Savonarola nel 1440 lo
chiama _ingenio divinus homo_, e affrettaronsi a commentarlo Claudio
Betti, Tiberio Cancellieri di Bologna, il Zimara, lo Zaccaria, Lorenzo
Molino di Rovigo, Apollinare Offredi, Bartolomeo Spina, Gerolamo
Sabbioneta, Tommaso da Vio; la famosa Cassandra Fedele veneziana ottenne
la laurea nel 1480, sostenendo tesi averroiste: Nicoletto Vernia, che
professava a Padova sin al 1499, era imputato d'aver diffuso quel veleno
per tutta Italia[206], e da lui imparò il Nifo: ma buoni amici
l'indussero a ritrattarsi. E chi cercasse negli archivj di quelle
Università, troverebbe ne' quinternetti le pruove de' molti studj
fattisi colà intorno all'averroismo, che regnava nelle scuole venete,
come il platonismo nelle toscane. Pertanto Francesco Patrizio illirico,
che presunse fondare una filosofia nuova, esortava il papa a sbandir
Aristotele come ripugnante al cristianesimo, a cui in quarantatre punti
aderiva Platone.
Ma se quello al materialismo, questo conduceva al misticismo; ed
entrambi all'incredulità. Gemistio Pletone di Costantinopoli
(1355-1452), venuto a Firenze per contrariare l'unione della Chiesa
greca colla latina, diffuse fantasie neoplatoniche, ed asseriva fra poco
la religione di Maometto e quella di Cristo perirebbero, per far luogo
ad una più vera, non diversa dalla pagana. Nel _Sunto dei dogmi di
Zoroastro e Pitagora_ contrappone la teologia gentilesca alla
ecclesiastica; e sebbene procedesse con cautela, il patriarca Gennadio
gl'interruppe l'apostolato. Restò inedito il suo _Trattato delle
leggi_[207], apologia del politeismo, i cui dogmi connette in un sistema
filosofico regolare, con organamento e leggi e culto, feste, inni e
preci per ciascun Dio. Insomma appare degno maestro di quel Pomponio
Leto, che davanti ai papi professava di voler annichilare l'opera di
Gesù Cristo.
Più erano coloro che bilanciavansi fra Aristotele e Platone, fra
paganesimo e cristianesimo: e in religione l'eccletismo striscia
all'eresia, se non è. Già nominammo Egidio da Roma, della nobilissima
famiglia Colonna, scolaro di san Tommaso, generale degli Eremitani, poi
arcivescovo di Bourges, eruditissimo nelle sacre scritture e nella
filosofia aristotelica, e fra i dottori cognominato il Fondatissimo. Or
egli dichiarava esserci cose che sono vere secondo il filosofo, non
secondo la fede cattolica: quasi due verità contrarie possano
sussistere. Tale proposizione venne condannata sotto Giovanni XXII, ed
egli si ritrattò; ma questa _eresia_ divenne comune nel secolo XV, e si
sosteneano pretti errori, come la mortalità dell'anima, l'unicità
dell'intelligenza, l'ispirazione individuale, salvandosi col dire che
erano illazioni dalle premesse di Platone e d'Aristotele, ma non
pregiudicavano ai dogmi di Cristo. Così le due opposte scuole
s'accordavano contro la rivelazione, non combattendola, ma affettando di
non tenerne conto, quasi la non fosse mai avvenuta; eliminando la fede e
ogni forza o sussidio soprannaturale, per seguire solo le vedute proprie
in problemi di spettanza religiosa, la cui soluzione importa alla morale
come al benessere della società.
A Platone prestava culto Marsilio Ficino, sino ad accendergli una
lampada; nol discompagnava da Mosè, vi trovava l'intuizione de' misteri
più profondi; il _Critone_ pareggiava ad un secondo vangelo, piovuto dal
cielo; e servendo a due padroni, usava espressioni scritturali a
spiegare il filosofo. Loda Giovanni de' Medici con queste parole: _Est
homo Florentiæ missus a Deo cui nomen est Johannes: hic venit ut de
summa patris sui Laurentii apud omnes authoritate testimonium
perhibeat_. E da Plotino fa dire sopra Platone: _Hic est filius meus
dilectus in quo mihi undique placeo: ipsum audite_[208]. Nel trattato
_De religione Christiana_ (1474) prova la divina missione di Cristo
dall'esser egli stato predetto da Platone, dalle Sibille, da Virgilio; e
dall'avere dato gli Dei _molto benigna testimonianza_ di esso: i preti
sieno dotti, i dotti preti; e la vera scienza è il platonismo. Tutte le
religioni son buone, e Dio le preferisce all'irreligione; la cristiana è
più pura, ma v'è profeti e sacerdoti in ogni nazione, quali Orfeo,
Virgilio, il Trismegisto, i Magi, ecc.: e il Ficino tradusse libri da
ciascuno, senza investigarne l'autenticità: le Enneadi di Plotino, i
libri d'Ermete, i misteri degli Egizj di Giamblico, le opere di Dionigi
Areopagita, i Versi Dorati di Pitagora, opuscoli di Proclo, Senocrate,
Sinesio, Teofrasto, Alcinoo, Zoroastro. Nel trattato _De vita cœlitus
comparanda_, sull'astrologia erige un sistema della vita del mondo, ove
tutte le forze solidariamente e le idee e i costumi si trovano messi in
corrispondenza coi movimenti e le sistemazioni degli astri. Nella
_Theologia platonica de immortalitate animæ_ (1488) adduce moltissime
pruove di questa, ma fa preponderare la dottrina dell'emanazione; e
assimila l'intelligenza e il bene alla luce, la materia e il male alle
tenebre. In questo sincretismo, ciò che gli manca sempre è lo spirito
cristiano, la carità.
Michele Mercato, suo prediletto discepolo, non sapea cacciare di testa i
dubbj sull'immortalità dell'anima. Ed ecco una mattina è svegliato dallo
scalpitare d'un cavallo e da una voce che il chiama a nome. Si affaccia,
e il cavaliere gli grida: «Mercato! è vero». Egli avea pattuito col
Ficino che, qual dei due morisse primo, darebbe all'altro notizie
d'oltre la tomba; e il Ficino era appunto spirato in quell'istante.
Nè già faceansi quistioni generali sopra Aristotele e Averroè ed
Alessandro Afrodisio; ma tutto s'era ristretto in pochi punti capitali:
l'immortalità è un bel trovato de' legislatori; il primo uomo provenne
da cause naturali: i miracoli sono illusioni o imposture: le preghiere,
l'invocazione de' santi non hanno efficacia alcuna, e la dottrina dei
tre impostori rinasceva quando Pomponazio contro la Providenza lanciava
questo dilemma: se le tre religioni son false, tutto il mondo è
ingannato: se delle tre, una sola è vera, ecco ancora ingannata la
maggioranza.
Questo Pietro Pomponazio mantovano (1473-1525), brutta figura, cattivo
filologo e debole logico, ma arguto, sonoro e vivace parlatore,
tormentato dall'incertezza del vero a segno da perderne il sonno, e
soffrir la febbre e vertigini[209], accorgendosi d'altra parte che il
ricercarlo provoca beffe dal vulgo, persecuzioni dagli inquisitori[210],
pone ogni studio a conciliare la ragione colla fede. Gli resta qualche
dubbio; e promovendo discussioni senza riguardo al dogma e alla
disciplina cattolica, vi risponde facilmente: ma altri dubbj gli
rampollano, e da ciascuna soluzione ritrae nuove incertezze, sempre
allontanandosi d'un passo, finchè riesce fuor del cristianesimo, anzi
d'ogni credenza positiva: dubita fin della Providenza e
dell'individualità dell'anima[211], fa inventate dagli uomini le idee
morali e le postume retribuzioni[212]; conchiude riferendosi interamente
alla Chiesa, pur professando ch'ella non dà nessuna soddisfacente
soluzione.
Volete vedere com'egli o vacilli fra le autorità, o se ne rida?
Trattando della destinazione delle anime, repudia il panteismo,
_monstrum ab Averrhoe excogitatum_; ma (dice) se fosse vero, come molti
Domenicani asseriscono, che san Tommaso avesse ricevuto, realmente e
davanti testimonj, tutta la sua dottrina filosofica da Gesù Cristo, non
oserei muover dubbio su veruna delle sue asserzioni, per quanto mi
sappiano di _false e assurde_, e ch'io ci veda illusioni e decezioni
piuttosto che soluzioni; perocchè, a detta di Platone, è empietà il non
credere agli Dei o ai figli degli Dei, quando anche sembrino rivelar
cose impossibili. Vero o no che sia il racconto, io citerò di lui su tal
soggetto cose che ispirano gravi dubbj, de' quali attendo soluzione
dagli infiniti uomini illustri della sua _setta_».
E qui, schierate le argomentazioni più speciose contro l'immortalità,
conchiude che questo problema, come quello dell'eternità del mondo, da
nessuna ragion naturale può essere risolto; onde s'ha da seguire
Platone, ove _de legibus_ dice: «Quando molti dubitano d'una cosa, è
solo di Dio l'assicurarla». Vuolsi dunque esaminare quello che viene
stabilito nella sacra scrittura; e poichè ivi è asserita l'immortalità,
non è lecito dubitarne; repugna essa ai principj naturali, ma il voler
adoprare questi sarebbe un oltraggiar la fede[213].
Può darsi più strano modo d'accettare la tradizione religiosa?
Il Bayle trova cento discolpe al Pomponazio, e ben si comprende, giacchè
in lui difendea se stesso. Chi però volesse scusarlo dovrebbe allegare
che incertissime dottrine correano sull'anima, quando i Platonici ne
ammetteano tre, la vegetativa, la sensitiva, la razionale; e de'
Peripatetici alcuni sosteneano l'unicità delle intelligenze, altri la
moltiplicità, pur facendole mortali. Il Pomponazio volle scostarsi da
tutte le dottrine d'allora; dimostrò che nessuna, e tanto meno quella
d'Aristotele, bastava a provare l'immortalità, ma che, neppur negando
questa, ne soffrirebbe la morale privata o la pubblica, anzi ne
vantaggerebbe.
Altrettanto egli usa intorno al libero arbitrio. «Se c'è una volontà
superiore alla mia, una legge imposta al mondo, come dovrei io
rispondere del mio pensiero, de' miei movimenti? Ora, una volontà, un
ordine superiore esiste: dunque tutto ciò che si opera non può farsi che
secondo una via già tracciata: operi bene o male, non ne ho merito nè
colpa». Su questo motivo acconcia mille variazioni, poi conchiude col
rifuggire alla fede, e sottomettersi alle decisioni della Chiesa.
Poich'ebbe così tolto a dimostrare che la teologia dovea lasciar libera
la parola alla filosofia, procedette avanti, sino a pretendere che la
Chiesa non dovesse impacciar più gli ardimenti della filosofia, giacchè
il dominio di essa, per evidenti segni, volgeva al declino. Nel trattato
_delle Incantagioni_ professa tenersi alla natura qualvolta le
argomentazioni bastano a dar ragione di fenomeni, per quanto
straordinarj, ma nega assolutamente il miracolo; non darsi alcun fatto
nella storia sacra o nella profana che esca dal naturale; se eccettua i
fatti scritturali è mera precauzione oratoria; secondo lui, ogni cosa è
concatenata in natura; di guisa che i rivolgimenti degli imperi e delle
religioni dipendono da quelli degli astri; i taumaturghi sono fisici
squisiti, che prevedono i portenti naturali e le occulte rispondenze del
cielo colla terra, e profittano della sospensione delle leggi fisiche
ordinarie per fondare nuove credenze; cessata l'influenza, cessano i
prodigi: le religioni decadono, e non lascerebbero che l'incredulità, se
nuove costellazioni non conducessero prodigi e taumaturghi nuovi; le
stelle, le costellazioni, le intelligenze celesti determinano
l'applicazione anche straordinaria di leggi fisse: per essi nascono le
religioni e muojono, via via che l'umanità si perfeziona, tutte avendo
un'origine, una stasi, una decadenza, neppur eccettuandone la
cristiana[214].
In tutto ciò mostrava ingegno robusto, superiore ai tempi, precursore di
molte novità; ma era ateo o ipocrita? Le sue proteste di fede non
salvano l'arguzia e la sofisteria de' suoi ragionamenti.
Per tali guise la filosofia era messa in contrasto assoluto colla
religione, sotto pretesto d'accordarla. Anche Cartesio presunse aquetare
l'eterno conflitto tra la fede e il raziocinio, col dire che la ragione
ha un regno suo proprio, ove la tradizione non dee penetrare; e così la
fede ha terre riservate, chiuse al libero pensiero; la religione è una
cosa, la filosofia un'altra; esse devono trovar pace nel reciproco
isolamento; non è necessario scegliere; basta far a ciascuna il suo
spazio legittimo; e se ben si guardi, tutte le insigni opere dell'età di
Cartesio s'impiantano su questa base. Di certo la filosofia ha alcune
parti diverse dalla teologia, per esempio la logica e la psicologia
sperimentale; ma su punti essenziali, quali il principio e il fine delle
cose, Dio e la nostra destinazione, potrebbe mai un uomo aver due
opinioni contrarie? come operare fra due scienze, l'una che dice sì,
l'altra che dice no?[215]
L'opera del Pomponazio fu bruciata pubblicamente a Venezia; tolta a
confutare da Alessandro Achillini averroista scolastico[216], dal Nifo,
e da Ambrogio arcivescovo di Napoli, contro i quali la difese l'autore;
poi dal Contarini che fu cardinale, da tre frati, Bartolomeo da Pisa,
Girolamo Bacelliere, Silvestro Prieira.
Perocchè i frati vigilavano su questi aberramenti, e studiavano a
combatterli; i filosofi si lagnano sempre dell'opposizione dei
cucullati: il Pomponazio querelasi d'un eremita di sant'Agostino
napoletano, che, predicando a Mantova, l'avea proferito eretico ed
empio, mentre in vece il cardinal Bembo l'avea difeso alla Corte papale,
e non trovato nel suo _De immortalitate_ nulla di contrario alla verità,
e che egual opinione tenne il maestro del sacro palazzo. In fatto,
mediante le continue proteste di sommessione e la condotta intemerata,
egli potè seguitar a professare impunemente; dopo morte fu onorato d'una
statua, e deposto nella sepoltura d'un cardinale; ma allora divulgossi
un epitafio che diceva: «Qui giacio sepolto. — Perchè? — Nol so, nè mi
curo sapere se tu il sappi o no. Se stai bene ne godo. Io vivendo stetti
bene. Sto bene ora? se sì o no non posso dirlo».
Poichè da noi facilmente ogni sentimento diviene passione, non piccola
efficacia ebbe egli sul suo tempo; e qualora un professore cominciasse
le solite dissertazioni, i giovani interrompevano gridando: «Parlateci
delle anime», per conoscer di primo achito come vedesse nelle quistioni
fondamentali.
A que' pensamenti aderirono Simone Porta, Lazzaro Bonamico, Giulio
Cesare Scaligero, Giacomo Zabarella, Daniele Barbaro che diceva: «Se non
fossi cristiano seguirei in tutto Aristotele»[217]; Simone Porzio, la
cui opera sull'anima è detta dal Gessner «più degna d'un porco che d'un
uomo», eppure non gli partorì disturbi. Andrea Cesalpino, illustre
naturalista, fa generar le cose spontaneamente dalla putredine, allorchè
più intenso era il calore celeste. Galeotto Marzio di Narni, nelle
dissertazioni _De incognitis vulgo_, avendo posto molti errori, e
asserito che, chiunque vive secondo i lumi della ragione e della legge
naturale, otterrà l'eterna salute, e posto in bilancia i dogmi nostri
coi pagani nell'evidente intenzione di mostrarli del pari credibili, fu
côlto dall'inquisizione a Venezia, e s'un palco, colla mitera di carta
dipinta a diavoli, obbligato a ritrattarsi; da maggior castigo salvato
da Sisto IV, ch'era suo allievo[218], tornato in Boemia e in Ungheria,
dove già prima era vissuto come bibliotecario e educatore del figlio di
Mattia Corvino, ne uscì per seguitare Carlo VIII in Italia; cascando di
cavallo si ruppe la pingue persona. Matteo Palmieri di Pisa, noto autore
della _Vita civile_ (1483), cui Marsilio Ficino diresse una lettera come
_poetæ theologico_, scrisse un poema in terzine a imitazione di Dante,
intitolato _Città di vita_, nel quale sosteneva che le anime nostre sono
quegli angeli che, nella ribellione, non furono per Dio nè contro Dio,
ma rimasero neutri. L'Inquisizione disapprovò tal sentenza, onde il
poema non fu mai pubblicato, nè il merita. I soliti parabolani dissero
che l'autore fu bruciato col suo libro, mentre consta che ebbe funerali
a Firenze per pubblico decreto; il Rinuccini ne recitò l'orazione
funebre, e additava appunto posato sul suo cadavere, durante le esequie,
quel libro, dove cantava che l'anima, sciolta dalla terrena soma, per
varj luoghi s'aggira, finchè giunga alla superna patria.
Nicoletto Vernia da Padova propagò altrove l'unità dell'intelletto con
tal calore, che diceasi l'avesse persuaso a tutta Italia[219]. Pietro
Barozzi, vescovo di Padova, seppe indurlo a fare un libro (1499), ove
disdicendo quel che avea sostenuto per trent'anni, dimostra tante essere
le anime quanti i corpi, e conchiude col preferir il titolo di canonico
a quello di soprafilosofo.
Fu suo scolaro Agostino Nifo calabrese, che sosteneva (_De intellectu et
dæmonibus_, 1492), non esservi altra sostanza separata dalla materia se
non le intelligenze che muovono i cieli; un'anima sola ed
un'intelligenza sparsa nell'universo, vivifica e modifica gli esseri a
sua voglia. Lo confutarono i monaci, e mal gli sarebbe avvenuto se esso
vescovo di Padova non lo avesse scampato e indotto a modificar l'opera
sua, come modificò l'insegnamento. Pure Leone X il favorì, lo fece conte
palatino, e pagollo affinchè, contro il Pomponazio (1518), mostrasse che
Aristotele sostiene l'immortalità dell'anima.
E lungamente regnò il realismo nella scuola di Padova. Regiomontano vi
dava lezioni sopra Al-Fargani, e ben avanti nel secolo XVII vi si
insegnavano tali dottrine, che noi non giudicheremo un progresso dello
spirito umano, bensì un regresso verso la scolastica del medioevo e il
peripatismo arabo; ma che, staccando dalle tradizioni, avviavano al
pensare indipendente e alla scienza laica e razionale.
Gismondo Malatesta, che, essendo feudatario della Chiesa le defraudava i
dovuti soccorsi, fu da Pio II scomunicato nel 1461, fra gli altri
delitti apponendogli di non credere alla risurrezione dei corpi e
all'immortalità dell'anima, e fu arso in effigie[220]. Paolo Mattia
Doria napoletano, avea preparato l'_Idea d'una perfetta repubblica_, ma
ne fu sospesa la stampa, e fu arsa come fetida d'immoralità e di
panteismo. Speron Speroni, a Pio IV che gli dicea: «Corre voce in Roma
che voi crediate assai poco», rispose: «Ho dunque vantaggiato col
venirci da Padova, ove dicono che non credo nulla»; e poco prima di
morire esclamò: «Fra mezz'ora sarò chiarito se l'anima sia peribile o
immortale»[221].
Di quel misto di cabala, gnosticismo, neoplatonismo, giudaismo, che
univasi colla letteratura classica, coi filosofemi d'Aristotele,
d'Epicuro, d'Averroè, per gettare gli spiriti nel dubbio e in quel che
ora intitoleremmo razionalismo, erasi nella corte di Lorenzo de' Medici
imbevuto Giovanni Pico della Mirandola, ricco signore e portentoso
intelletto. Ebbe a maestro Elia del Medico, ebreo averroista che per lui
compose varj trattati filosofici, fra cui uno sull'Intelletto e la
Profezia (1492) e un commento sul libro _Della scienza del mondo_
(1485): a Venezia stamparonsi più volte (1506, 1544, 1598) le sue
annotazioni sopra Averroè, le quistioni sulla creazione, sul primo
motore, l'ente, l'essenza e l'uno. Uscendo da tale scuola, Pico
professavasi educato, a non giurar nella parola di nessuno, ma
diffondersi su tutti i maestri di filosofia, vagliarne tutte le carte,
conoscerne tutte le famiglie; anzi, l'indipendenza spingea fino a
credere che l'oro puro, sebbene sotto forma tedesca, valesse meglio che
il falso coll'eleganza romana[222].
A ventiquattro anni (1486) mandava per Europa una sfida, pronto a
sostenere in Roma novecento tesi, dialettiche, morali, fisiche, ecc.;
quattrocento delle quali avea dedotte da filosofi egizj, caldaici,
arabi, alessandrini, latini, le altre erano opinioni sue. Alla sfida
nessuno comparve, benchè Pico si assumesse di rifondere le spese del
viaggio: ma il suo ardimento irritò l'amor proprio dei dotti; e in
quella farragine ripescarono tredici proposizioni, che deferirono al
papa come ereticali. Tra esse erano: Gesù Cristo non esser disceso
personalmente agl'inferni, ma sol quanto all'effetto: non poteva essere
dovuta una pena infinita al peccato d'un essere finito; non esser certo
se Dio potesse ipostaticamente unirsi anche a creatura non ragionevole;
la scienza che più ci rende certi della dottrina di Cristo è la magia e
la cabala; come non dipende dalla volontà l'aver un sentimento, così
neppure il credere; i miracoli di Gesù Cristo non sono prova evidente
della sua divinità per l'operazione, ma per la maniera con cui gli ha
operati; l'anima non conosce veruna cosa distintamente come se stessa.
Il pontefice, dopo maturo esame, le disapprovò (1487), e Pico le difese
in un'apologia, poi nell'_Heptaptus de septiformi sex dierum geneseos
enarratione,_ e nel _De Ente et Uno_. Da quel gergo scolastico non è
agevole, almeno a me, ricavare un chiaro concetto; riducesi però ad
appaciare Platone con Aristotele, la teologia pagana colla mosaica e
colla cristiana.
Vantavasi d'aver egli primo in Italia reso ragione dell'aritmo teologico
di Pitagora; l'unità numerica fondarsi sull'unità metafisica, la quale è
al di sopra dell'ente. Allegorici credeva i libri di Virgilio, di
Platone, di Omero; e lo stesso metodo applicava ai libri santi. A gran
prezzo avea comprati certi libri di Esdra, che davano spiegazione della
dottrina mosaica e dei misteri, e supponendoli genuini, con essi e colla
cabalistica interpretava liberamente Mosè.
E quale allegoria, nell'_Heptameron_ espose il genesi mosaico,
trattandolo come i Neoplatonici avrebbero potuto trattare la mitologia,
sfoggiandovi sapienza orientale e occidentale. «Mosè e i profeti, Cristo
e gli apostoli, Pitagora e Plutarco (dic'egli), e in generale i
sacerdoti e filosofi del mondo antico velarono la loro sapienza sotto
immagini, perchè la folla non era capace di gustare quel cibo della
verità, e intesero tutt'altro da quel che suonino le parole. È fuor di
dubbio che Mosè, nell'enumerazione delle sei giornate, non volle parlare
della creazione del mondo visibile; ed a prima vista sembra grossolano,
attesa la legge degli antichi savj di adombrare le cose sublimi.
Altrettanto fece Cristo parlando per parabola al vulgo, e perciò san
Giovanni, che fu più degli altri istrutto negli arcani, scrisse solo
tardissimo, e san Paolo ricusava il vital nutrimento ai Corintj, ancora
carnali, e Dionigi Areopagita esortava a non mettere in carta i dogmi
più reconditi; Cristo confidò arcanamente alcune verità a' discepoli
suoi, che le tramandarono a voce; e il conoscerle è fondamento
grandissimo della fede nostra». Non vi si giunge che per mezzo della
cabala, dalla quale, per esempio, s'impara perchè Cristo dicesse
d'esistere prima d'Abramo, e che dopo di sè manderebbe il Paracleto, e
che egli veniva coll'acqua del battesimo e lo Spirito Santo col fuoco.
Chi non vede ove potesse portare un tale eccletismo? Che se veniva
applaudito dalle accademie e dalla Corte de' Medici ove tale era la
moda, non potea piacere a Roma: e per quanto egli si schermisse dietro a
ripetute proteste di soggezione alla Chiesa, realmente alla Chiesa volea
sostituir se stesso nel definire e spiegare il dogma per mezzo della
cabala e dell'ebraico. Innocenzo VIII diceva: «Costui vuol finir male,
ed essere un giorno arso, poi vituperato in eterno, come qualchedun
altro. Le cose della fede sono troppo delicate, e non posso tollerarlo:
scriva opere di poesia, saranno più da' suoi denti»; malgrado le
raccomandazioni del magnifico Lorenzo[223], mai non volle ritirarne la
condanna, benchè schermisse da ogni molestia l'autore. Il quale, sempre
più ingolfato negli studj, per quanto contento di sua sorte a segno, che
diceva non vedrebbe di che mormorare contro la Providenza, se pure non
perdesse lo scrignetto de' suoi scritti, non sapea darsi pace di essere
incorso nella disapprovazione papale, si riprotestava di sentimento
cattolico, e intanto non voleva confessare d'avere sbagliato nel
sostenere certe proposizioni, anche dopo che furono condannate dalla
bolla pontifizia.
Non mancavano persone che lo istigassero a buttar giù la buffa, romper
con Roma, ed eccitare un grande scandalo: ma egli, assaggiata la vanità
della scienza, tornò al cuore di Cristo e alla carità, ripetendo la
sentenza di san Francesco, «Tanto sa l'uomo quanto opera». Allora contro
gli Ebrei difese la fedeltà di san Girolamo nella versione dei salmi;
voleva anche scrivere una grande opera per confutare i sette nemici
della Chiesa; ma non compì che la parte contro gli astrologi; macerava
il corpo; recitava l'uffizio come i preti, consumava «giorno e notte in
leggere le sacre carte, nelle quali è insita una certa forza celeste,
viva, efficace che con meraviglioso potere converte l'animo del
leggitore all'amore divino», e pensava pigliarsi una croce e andar a piè
raffreddata, la riscalda se ode attentarsi all'onor di sua madre».
Soleano essi (dice altrove) porre in mezzo qualche problema
aristotelico, o sulle anime; ed io tacere, o celiare, o avviar
tutt'altro discorso, o sorridendo chiedere come mai Aristotele avesse
potuto saper cose, dove non val la ragione, dov'è impossibile
l'esperienza. Essi stupivano, e in silenzio indispettivansi, e
guardavanmi come un bestemmiatore.
Uno di costoro, «i quali pensano esser da nulla se non abbajano contro
di Cristo e della sovrumana sua dottrina», andò a trovare esso poeta a
Venezia, e lo cuculiava perchè avesse citato quel detto dell'apostolo
delle genti: _Io ho il mio maestro, e so a chi credo_; e, «Tienti il tuo
cristianesimo, io non ne credo acca; il tuo Paolo, il tuo Agostino e
cotest'altri ebber ciarle e nulla più; e deh! volessi tu legger Averroè,
che vedresti quanto ei sorvola a cotesti tuoi buffoni». Il Petrarca se
ne stomacò, e tutto dolce ch'egli era, prese pel mantello e mise fuor di
casa il temerario[202].
Anche altri quattro[203] faticarono per trarlo al loro pensare,
indispettendosi che prendesse sul serio la religione, e citasse Mosè e
san Paolo, e conchiusero ch'egli era un uomo dabbene, ma senza cultura.
E «se costoro (soggiunge) non temessero i supplizj degli uomini più che
quelli di Dio, impugnerebbero non solo la creazione del mondo secondo
Timeo, ma la genesi e il dogma di Cristo. Quando paura non li rattiene,
combattono direttamente la verità; nelle loro conventicole ridonsi di
Cristo, e adorano Aristotele senza capirlo. Disputando, in pubblico
protestano di far astrazione dalla fede, cioè di indagare la verità
ripudiando la verità, cercar la luce volgendo le spalle al sole. E come
non tratterebbero d'illetterati noi, poichè chiamano idiota Gesù?»
Non sentendosi abile a confutarli, il Petrarca esortava Luigi Marsigli
agostiniano a farlo, e «ribattere quel can rabbioso d'Averroè, che non
cessa d'abbajare contro Cristo e la religione cattolica»[204].
Pietro d'Abano (1250-1316) aveva introdotto Averroè nell'Università di
Padova, e con esso l'incredulo materialismo, e il considerar tutte le
religioni come eguali, supponendole nate sotto certi influssi di
stelle[205]; la qual fantasia dell'oroscopo delle religioni, più tardi
vedremo ripigliata da Pomponazio e da Pico della Mirandola. Pietro fu
accusato anche d'eresia, ma così vagamente, che alcuni lo imputano di
non credere ai demonj, altri di averne alcuni famigliari, che teneva in
un'ampolla. Dall'Inquisizione si salvò una volta; presone un'altra, morì
mentre gli si faceva il processo; il quale finì col dichiararlo eretico,
e ordinare ne fosse dissepolto il cadavere.
Giovanni di Gianduno, che con Marsiglio di Padova sostenne Lodovico il
Bavaro contro il papa, imparò o insegnò in quest'Università
l'averroismo. Dove pure Paolo da Venezia e frate Urbano da Bologna, che
nel 1334 ne stese un commento, ed altri, prima di Gaetano Tiene
(1387-1465), reputatone fondatore dal Facciolati e dal Tommasino; mentre
solo per l'alta sua nascita e per la scienza contribuì grandemente a
diffondere tal dottrina con un corso che in numerosissime copie fu
diffuso, ed ebbe credito nelle scuole italiche in tutto il secolo
seguente. Paolo di Venezia ( — 1429) agostiniano, soprannomato
_excellentissimus philosophorum monarcha_, ammettea francamente
l'unicità dell'intelletto secondo Averroè, benchè non ne deducesse
l'unicità delle anime. Anzi a Bologna ciò sostenne in pubblica disputa
avanti al capitolo generale del suo Ordine contro Nicolò Fava. Ma per
quanto si schermisse con tutta l'abilità dialettica, Ugo Benzi da Siena
gli gridò: «Fava ha ragione, e tu hai torto». Il Benzi era nemico del
Fava, onde Paolo esclamò: «In quel giorno divennero amici Erode e
Pilato», e così risolse in riso l'adunanza.
Onofrio da Sulmona, Paolo della Pergola, Giovanni da Lendinara, Nicola
da Foligno, Marsilio da Santa Sofia, Giacomo da Forlì, per nominar solo
i nostri, parteggiavano in quel tempo pel peripatismo d'Averroè nella
scuola di Padova. Nella quale, e all'abadia di San Giovanni in Verdara a
Bologna, Averroè godette venerazione; Michele Savonarola nel 1440 lo
chiama _ingenio divinus homo_, e affrettaronsi a commentarlo Claudio
Betti, Tiberio Cancellieri di Bologna, il Zimara, lo Zaccaria, Lorenzo
Molino di Rovigo, Apollinare Offredi, Bartolomeo Spina, Gerolamo
Sabbioneta, Tommaso da Vio; la famosa Cassandra Fedele veneziana ottenne
la laurea nel 1480, sostenendo tesi averroiste: Nicoletto Vernia, che
professava a Padova sin al 1499, era imputato d'aver diffuso quel veleno
per tutta Italia[206], e da lui imparò il Nifo: ma buoni amici
l'indussero a ritrattarsi. E chi cercasse negli archivj di quelle
Università, troverebbe ne' quinternetti le pruove de' molti studj
fattisi colà intorno all'averroismo, che regnava nelle scuole venete,
come il platonismo nelle toscane. Pertanto Francesco Patrizio illirico,
che presunse fondare una filosofia nuova, esortava il papa a sbandir
Aristotele come ripugnante al cristianesimo, a cui in quarantatre punti
aderiva Platone.
Ma se quello al materialismo, questo conduceva al misticismo; ed
entrambi all'incredulità. Gemistio Pletone di Costantinopoli
(1355-1452), venuto a Firenze per contrariare l'unione della Chiesa
greca colla latina, diffuse fantasie neoplatoniche, ed asseriva fra poco
la religione di Maometto e quella di Cristo perirebbero, per far luogo
ad una più vera, non diversa dalla pagana. Nel _Sunto dei dogmi di
Zoroastro e Pitagora_ contrappone la teologia gentilesca alla
ecclesiastica; e sebbene procedesse con cautela, il patriarca Gennadio
gl'interruppe l'apostolato. Restò inedito il suo _Trattato delle
leggi_[207], apologia del politeismo, i cui dogmi connette in un sistema
filosofico regolare, con organamento e leggi e culto, feste, inni e
preci per ciascun Dio. Insomma appare degno maestro di quel Pomponio
Leto, che davanti ai papi professava di voler annichilare l'opera di
Gesù Cristo.
Più erano coloro che bilanciavansi fra Aristotele e Platone, fra
paganesimo e cristianesimo: e in religione l'eccletismo striscia
all'eresia, se non è. Già nominammo Egidio da Roma, della nobilissima
famiglia Colonna, scolaro di san Tommaso, generale degli Eremitani, poi
arcivescovo di Bourges, eruditissimo nelle sacre scritture e nella
filosofia aristotelica, e fra i dottori cognominato il Fondatissimo. Or
egli dichiarava esserci cose che sono vere secondo il filosofo, non
secondo la fede cattolica: quasi due verità contrarie possano
sussistere. Tale proposizione venne condannata sotto Giovanni XXII, ed
egli si ritrattò; ma questa _eresia_ divenne comune nel secolo XV, e si
sosteneano pretti errori, come la mortalità dell'anima, l'unicità
dell'intelligenza, l'ispirazione individuale, salvandosi col dire che
erano illazioni dalle premesse di Platone e d'Aristotele, ma non
pregiudicavano ai dogmi di Cristo. Così le due opposte scuole
s'accordavano contro la rivelazione, non combattendola, ma affettando di
non tenerne conto, quasi la non fosse mai avvenuta; eliminando la fede e
ogni forza o sussidio soprannaturale, per seguire solo le vedute proprie
in problemi di spettanza religiosa, la cui soluzione importa alla morale
come al benessere della società.
A Platone prestava culto Marsilio Ficino, sino ad accendergli una
lampada; nol discompagnava da Mosè, vi trovava l'intuizione de' misteri
più profondi; il _Critone_ pareggiava ad un secondo vangelo, piovuto dal
cielo; e servendo a due padroni, usava espressioni scritturali a
spiegare il filosofo. Loda Giovanni de' Medici con queste parole: _Est
homo Florentiæ missus a Deo cui nomen est Johannes: hic venit ut de
summa patris sui Laurentii apud omnes authoritate testimonium
perhibeat_. E da Plotino fa dire sopra Platone: _Hic est filius meus
dilectus in quo mihi undique placeo: ipsum audite_[208]. Nel trattato
_De religione Christiana_ (1474) prova la divina missione di Cristo
dall'esser egli stato predetto da Platone, dalle Sibille, da Virgilio; e
dall'avere dato gli Dei _molto benigna testimonianza_ di esso: i preti
sieno dotti, i dotti preti; e la vera scienza è il platonismo. Tutte le
religioni son buone, e Dio le preferisce all'irreligione; la cristiana è
più pura, ma v'è profeti e sacerdoti in ogni nazione, quali Orfeo,
Virgilio, il Trismegisto, i Magi, ecc.: e il Ficino tradusse libri da
ciascuno, senza investigarne l'autenticità: le Enneadi di Plotino, i
libri d'Ermete, i misteri degli Egizj di Giamblico, le opere di Dionigi
Areopagita, i Versi Dorati di Pitagora, opuscoli di Proclo, Senocrate,
Sinesio, Teofrasto, Alcinoo, Zoroastro. Nel trattato _De vita cœlitus
comparanda_, sull'astrologia erige un sistema della vita del mondo, ove
tutte le forze solidariamente e le idee e i costumi si trovano messi in
corrispondenza coi movimenti e le sistemazioni degli astri. Nella
_Theologia platonica de immortalitate animæ_ (1488) adduce moltissime
pruove di questa, ma fa preponderare la dottrina dell'emanazione; e
assimila l'intelligenza e il bene alla luce, la materia e il male alle
tenebre. In questo sincretismo, ciò che gli manca sempre è lo spirito
cristiano, la carità.
Michele Mercato, suo prediletto discepolo, non sapea cacciare di testa i
dubbj sull'immortalità dell'anima. Ed ecco una mattina è svegliato dallo
scalpitare d'un cavallo e da una voce che il chiama a nome. Si affaccia,
e il cavaliere gli grida: «Mercato! è vero». Egli avea pattuito col
Ficino che, qual dei due morisse primo, darebbe all'altro notizie
d'oltre la tomba; e il Ficino era appunto spirato in quell'istante.
Nè già faceansi quistioni generali sopra Aristotele e Averroè ed
Alessandro Afrodisio; ma tutto s'era ristretto in pochi punti capitali:
l'immortalità è un bel trovato de' legislatori; il primo uomo provenne
da cause naturali: i miracoli sono illusioni o imposture: le preghiere,
l'invocazione de' santi non hanno efficacia alcuna, e la dottrina dei
tre impostori rinasceva quando Pomponazio contro la Providenza lanciava
questo dilemma: se le tre religioni son false, tutto il mondo è
ingannato: se delle tre, una sola è vera, ecco ancora ingannata la
maggioranza.
Questo Pietro Pomponazio mantovano (1473-1525), brutta figura, cattivo
filologo e debole logico, ma arguto, sonoro e vivace parlatore,
tormentato dall'incertezza del vero a segno da perderne il sonno, e
soffrir la febbre e vertigini[209], accorgendosi d'altra parte che il
ricercarlo provoca beffe dal vulgo, persecuzioni dagli inquisitori[210],
pone ogni studio a conciliare la ragione colla fede. Gli resta qualche
dubbio; e promovendo discussioni senza riguardo al dogma e alla
disciplina cattolica, vi risponde facilmente: ma altri dubbj gli
rampollano, e da ciascuna soluzione ritrae nuove incertezze, sempre
allontanandosi d'un passo, finchè riesce fuor del cristianesimo, anzi
d'ogni credenza positiva: dubita fin della Providenza e
dell'individualità dell'anima[211], fa inventate dagli uomini le idee
morali e le postume retribuzioni[212]; conchiude riferendosi interamente
alla Chiesa, pur professando ch'ella non dà nessuna soddisfacente
soluzione.
Volete vedere com'egli o vacilli fra le autorità, o se ne rida?
Trattando della destinazione delle anime, repudia il panteismo,
_monstrum ab Averrhoe excogitatum_; ma (dice) se fosse vero, come molti
Domenicani asseriscono, che san Tommaso avesse ricevuto, realmente e
davanti testimonj, tutta la sua dottrina filosofica da Gesù Cristo, non
oserei muover dubbio su veruna delle sue asserzioni, per quanto mi
sappiano di _false e assurde_, e ch'io ci veda illusioni e decezioni
piuttosto che soluzioni; perocchè, a detta di Platone, è empietà il non
credere agli Dei o ai figli degli Dei, quando anche sembrino rivelar
cose impossibili. Vero o no che sia il racconto, io citerò di lui su tal
soggetto cose che ispirano gravi dubbj, de' quali attendo soluzione
dagli infiniti uomini illustri della sua _setta_».
E qui, schierate le argomentazioni più speciose contro l'immortalità,
conchiude che questo problema, come quello dell'eternità del mondo, da
nessuna ragion naturale può essere risolto; onde s'ha da seguire
Platone, ove _de legibus_ dice: «Quando molti dubitano d'una cosa, è
solo di Dio l'assicurarla». Vuolsi dunque esaminare quello che viene
stabilito nella sacra scrittura; e poichè ivi è asserita l'immortalità,
non è lecito dubitarne; repugna essa ai principj naturali, ma il voler
adoprare questi sarebbe un oltraggiar la fede[213].
Può darsi più strano modo d'accettare la tradizione religiosa?
Il Bayle trova cento discolpe al Pomponazio, e ben si comprende, giacchè
in lui difendea se stesso. Chi però volesse scusarlo dovrebbe allegare
che incertissime dottrine correano sull'anima, quando i Platonici ne
ammetteano tre, la vegetativa, la sensitiva, la razionale; e de'
Peripatetici alcuni sosteneano l'unicità delle intelligenze, altri la
moltiplicità, pur facendole mortali. Il Pomponazio volle scostarsi da
tutte le dottrine d'allora; dimostrò che nessuna, e tanto meno quella
d'Aristotele, bastava a provare l'immortalità, ma che, neppur negando
questa, ne soffrirebbe la morale privata o la pubblica, anzi ne
vantaggerebbe.
Altrettanto egli usa intorno al libero arbitrio. «Se c'è una volontà
superiore alla mia, una legge imposta al mondo, come dovrei io
rispondere del mio pensiero, de' miei movimenti? Ora, una volontà, un
ordine superiore esiste: dunque tutto ciò che si opera non può farsi che
secondo una via già tracciata: operi bene o male, non ne ho merito nè
colpa». Su questo motivo acconcia mille variazioni, poi conchiude col
rifuggire alla fede, e sottomettersi alle decisioni della Chiesa.
Poich'ebbe così tolto a dimostrare che la teologia dovea lasciar libera
la parola alla filosofia, procedette avanti, sino a pretendere che la
Chiesa non dovesse impacciar più gli ardimenti della filosofia, giacchè
il dominio di essa, per evidenti segni, volgeva al declino. Nel trattato
_delle Incantagioni_ professa tenersi alla natura qualvolta le
argomentazioni bastano a dar ragione di fenomeni, per quanto
straordinarj, ma nega assolutamente il miracolo; non darsi alcun fatto
nella storia sacra o nella profana che esca dal naturale; se eccettua i
fatti scritturali è mera precauzione oratoria; secondo lui, ogni cosa è
concatenata in natura; di guisa che i rivolgimenti degli imperi e delle
religioni dipendono da quelli degli astri; i taumaturghi sono fisici
squisiti, che prevedono i portenti naturali e le occulte rispondenze del
cielo colla terra, e profittano della sospensione delle leggi fisiche
ordinarie per fondare nuove credenze; cessata l'influenza, cessano i
prodigi: le religioni decadono, e non lascerebbero che l'incredulità, se
nuove costellazioni non conducessero prodigi e taumaturghi nuovi; le
stelle, le costellazioni, le intelligenze celesti determinano
l'applicazione anche straordinaria di leggi fisse: per essi nascono le
religioni e muojono, via via che l'umanità si perfeziona, tutte avendo
un'origine, una stasi, una decadenza, neppur eccettuandone la
cristiana[214].
In tutto ciò mostrava ingegno robusto, superiore ai tempi, precursore di
molte novità; ma era ateo o ipocrita? Le sue proteste di fede non
salvano l'arguzia e la sofisteria de' suoi ragionamenti.
Per tali guise la filosofia era messa in contrasto assoluto colla
religione, sotto pretesto d'accordarla. Anche Cartesio presunse aquetare
l'eterno conflitto tra la fede e il raziocinio, col dire che la ragione
ha un regno suo proprio, ove la tradizione non dee penetrare; e così la
fede ha terre riservate, chiuse al libero pensiero; la religione è una
cosa, la filosofia un'altra; esse devono trovar pace nel reciproco
isolamento; non è necessario scegliere; basta far a ciascuna il suo
spazio legittimo; e se ben si guardi, tutte le insigni opere dell'età di
Cartesio s'impiantano su questa base. Di certo la filosofia ha alcune
parti diverse dalla teologia, per esempio la logica e la psicologia
sperimentale; ma su punti essenziali, quali il principio e il fine delle
cose, Dio e la nostra destinazione, potrebbe mai un uomo aver due
opinioni contrarie? come operare fra due scienze, l'una che dice sì,
l'altra che dice no?[215]
L'opera del Pomponazio fu bruciata pubblicamente a Venezia; tolta a
confutare da Alessandro Achillini averroista scolastico[216], dal Nifo,
e da Ambrogio arcivescovo di Napoli, contro i quali la difese l'autore;
poi dal Contarini che fu cardinale, da tre frati, Bartolomeo da Pisa,
Girolamo Bacelliere, Silvestro Prieira.
Perocchè i frati vigilavano su questi aberramenti, e studiavano a
combatterli; i filosofi si lagnano sempre dell'opposizione dei
cucullati: il Pomponazio querelasi d'un eremita di sant'Agostino
napoletano, che, predicando a Mantova, l'avea proferito eretico ed
empio, mentre in vece il cardinal Bembo l'avea difeso alla Corte papale,
e non trovato nel suo _De immortalitate_ nulla di contrario alla verità,
e che egual opinione tenne il maestro del sacro palazzo. In fatto,
mediante le continue proteste di sommessione e la condotta intemerata,
egli potè seguitar a professare impunemente; dopo morte fu onorato d'una
statua, e deposto nella sepoltura d'un cardinale; ma allora divulgossi
un epitafio che diceva: «Qui giacio sepolto. — Perchè? — Nol so, nè mi
curo sapere se tu il sappi o no. Se stai bene ne godo. Io vivendo stetti
bene. Sto bene ora? se sì o no non posso dirlo».
Poichè da noi facilmente ogni sentimento diviene passione, non piccola
efficacia ebbe egli sul suo tempo; e qualora un professore cominciasse
le solite dissertazioni, i giovani interrompevano gridando: «Parlateci
delle anime», per conoscer di primo achito come vedesse nelle quistioni
fondamentali.
A que' pensamenti aderirono Simone Porta, Lazzaro Bonamico, Giulio
Cesare Scaligero, Giacomo Zabarella, Daniele Barbaro che diceva: «Se non
fossi cristiano seguirei in tutto Aristotele»[217]; Simone Porzio, la
cui opera sull'anima è detta dal Gessner «più degna d'un porco che d'un
uomo», eppure non gli partorì disturbi. Andrea Cesalpino, illustre
naturalista, fa generar le cose spontaneamente dalla putredine, allorchè
più intenso era il calore celeste. Galeotto Marzio di Narni, nelle
dissertazioni _De incognitis vulgo_, avendo posto molti errori, e
asserito che, chiunque vive secondo i lumi della ragione e della legge
naturale, otterrà l'eterna salute, e posto in bilancia i dogmi nostri
coi pagani nell'evidente intenzione di mostrarli del pari credibili, fu
côlto dall'inquisizione a Venezia, e s'un palco, colla mitera di carta
dipinta a diavoli, obbligato a ritrattarsi; da maggior castigo salvato
da Sisto IV, ch'era suo allievo[218], tornato in Boemia e in Ungheria,
dove già prima era vissuto come bibliotecario e educatore del figlio di
Mattia Corvino, ne uscì per seguitare Carlo VIII in Italia; cascando di
cavallo si ruppe la pingue persona. Matteo Palmieri di Pisa, noto autore
della _Vita civile_ (1483), cui Marsilio Ficino diresse una lettera come
_poetæ theologico_, scrisse un poema in terzine a imitazione di Dante,
intitolato _Città di vita_, nel quale sosteneva che le anime nostre sono
quegli angeli che, nella ribellione, non furono per Dio nè contro Dio,
ma rimasero neutri. L'Inquisizione disapprovò tal sentenza, onde il
poema non fu mai pubblicato, nè il merita. I soliti parabolani dissero
che l'autore fu bruciato col suo libro, mentre consta che ebbe funerali
a Firenze per pubblico decreto; il Rinuccini ne recitò l'orazione
funebre, e additava appunto posato sul suo cadavere, durante le esequie,
quel libro, dove cantava che l'anima, sciolta dalla terrena soma, per
varj luoghi s'aggira, finchè giunga alla superna patria.
Nicoletto Vernia da Padova propagò altrove l'unità dell'intelletto con
tal calore, che diceasi l'avesse persuaso a tutta Italia[219]. Pietro
Barozzi, vescovo di Padova, seppe indurlo a fare un libro (1499), ove
disdicendo quel che avea sostenuto per trent'anni, dimostra tante essere
le anime quanti i corpi, e conchiude col preferir il titolo di canonico
a quello di soprafilosofo.
Fu suo scolaro Agostino Nifo calabrese, che sosteneva (_De intellectu et
dæmonibus_, 1492), non esservi altra sostanza separata dalla materia se
non le intelligenze che muovono i cieli; un'anima sola ed
un'intelligenza sparsa nell'universo, vivifica e modifica gli esseri a
sua voglia. Lo confutarono i monaci, e mal gli sarebbe avvenuto se esso
vescovo di Padova non lo avesse scampato e indotto a modificar l'opera
sua, come modificò l'insegnamento. Pure Leone X il favorì, lo fece conte
palatino, e pagollo affinchè, contro il Pomponazio (1518), mostrasse che
Aristotele sostiene l'immortalità dell'anima.
E lungamente regnò il realismo nella scuola di Padova. Regiomontano vi
dava lezioni sopra Al-Fargani, e ben avanti nel secolo XVII vi si
insegnavano tali dottrine, che noi non giudicheremo un progresso dello
spirito umano, bensì un regresso verso la scolastica del medioevo e il
peripatismo arabo; ma che, staccando dalle tradizioni, avviavano al
pensare indipendente e alla scienza laica e razionale.
Gismondo Malatesta, che, essendo feudatario della Chiesa le defraudava i
dovuti soccorsi, fu da Pio II scomunicato nel 1461, fra gli altri
delitti apponendogli di non credere alla risurrezione dei corpi e
all'immortalità dell'anima, e fu arso in effigie[220]. Paolo Mattia
Doria napoletano, avea preparato l'_Idea d'una perfetta repubblica_, ma
ne fu sospesa la stampa, e fu arsa come fetida d'immoralità e di
panteismo. Speron Speroni, a Pio IV che gli dicea: «Corre voce in Roma
che voi crediate assai poco», rispose: «Ho dunque vantaggiato col
venirci da Padova, ove dicono che non credo nulla»; e poco prima di
morire esclamò: «Fra mezz'ora sarò chiarito se l'anima sia peribile o
immortale»[221].
Di quel misto di cabala, gnosticismo, neoplatonismo, giudaismo, che
univasi colla letteratura classica, coi filosofemi d'Aristotele,
d'Epicuro, d'Averroè, per gettare gli spiriti nel dubbio e in quel che
ora intitoleremmo razionalismo, erasi nella corte di Lorenzo de' Medici
imbevuto Giovanni Pico della Mirandola, ricco signore e portentoso
intelletto. Ebbe a maestro Elia del Medico, ebreo averroista che per lui
compose varj trattati filosofici, fra cui uno sull'Intelletto e la
Profezia (1492) e un commento sul libro _Della scienza del mondo_
(1485): a Venezia stamparonsi più volte (1506, 1544, 1598) le sue
annotazioni sopra Averroè, le quistioni sulla creazione, sul primo
motore, l'ente, l'essenza e l'uno. Uscendo da tale scuola, Pico
professavasi educato, a non giurar nella parola di nessuno, ma
diffondersi su tutti i maestri di filosofia, vagliarne tutte le carte,
conoscerne tutte le famiglie; anzi, l'indipendenza spingea fino a
credere che l'oro puro, sebbene sotto forma tedesca, valesse meglio che
il falso coll'eleganza romana[222].
A ventiquattro anni (1486) mandava per Europa una sfida, pronto a
sostenere in Roma novecento tesi, dialettiche, morali, fisiche, ecc.;
quattrocento delle quali avea dedotte da filosofi egizj, caldaici,
arabi, alessandrini, latini, le altre erano opinioni sue. Alla sfida
nessuno comparve, benchè Pico si assumesse di rifondere le spese del
viaggio: ma il suo ardimento irritò l'amor proprio dei dotti; e in
quella farragine ripescarono tredici proposizioni, che deferirono al
papa come ereticali. Tra esse erano: Gesù Cristo non esser disceso
personalmente agl'inferni, ma sol quanto all'effetto: non poteva essere
dovuta una pena infinita al peccato d'un essere finito; non esser certo
se Dio potesse ipostaticamente unirsi anche a creatura non ragionevole;
la scienza che più ci rende certi della dottrina di Cristo è la magia e
la cabala; come non dipende dalla volontà l'aver un sentimento, così
neppure il credere; i miracoli di Gesù Cristo non sono prova evidente
della sua divinità per l'operazione, ma per la maniera con cui gli ha
operati; l'anima non conosce veruna cosa distintamente come se stessa.
Il pontefice, dopo maturo esame, le disapprovò (1487), e Pico le difese
in un'apologia, poi nell'_Heptaptus de septiformi sex dierum geneseos
enarratione,_ e nel _De Ente et Uno_. Da quel gergo scolastico non è
agevole, almeno a me, ricavare un chiaro concetto; riducesi però ad
appaciare Platone con Aristotele, la teologia pagana colla mosaica e
colla cristiana.
Vantavasi d'aver egli primo in Italia reso ragione dell'aritmo teologico
di Pitagora; l'unità numerica fondarsi sull'unità metafisica, la quale è
al di sopra dell'ente. Allegorici credeva i libri di Virgilio, di
Platone, di Omero; e lo stesso metodo applicava ai libri santi. A gran
prezzo avea comprati certi libri di Esdra, che davano spiegazione della
dottrina mosaica e dei misteri, e supponendoli genuini, con essi e colla
cabalistica interpretava liberamente Mosè.
E quale allegoria, nell'_Heptameron_ espose il genesi mosaico,
trattandolo come i Neoplatonici avrebbero potuto trattare la mitologia,
sfoggiandovi sapienza orientale e occidentale. «Mosè e i profeti, Cristo
e gli apostoli, Pitagora e Plutarco (dic'egli), e in generale i
sacerdoti e filosofi del mondo antico velarono la loro sapienza sotto
immagini, perchè la folla non era capace di gustare quel cibo della
verità, e intesero tutt'altro da quel che suonino le parole. È fuor di
dubbio che Mosè, nell'enumerazione delle sei giornate, non volle parlare
della creazione del mondo visibile; ed a prima vista sembra grossolano,
attesa la legge degli antichi savj di adombrare le cose sublimi.
Altrettanto fece Cristo parlando per parabola al vulgo, e perciò san
Giovanni, che fu più degli altri istrutto negli arcani, scrisse solo
tardissimo, e san Paolo ricusava il vital nutrimento ai Corintj, ancora
carnali, e Dionigi Areopagita esortava a non mettere in carta i dogmi
più reconditi; Cristo confidò arcanamente alcune verità a' discepoli
suoi, che le tramandarono a voce; e il conoscerle è fondamento
grandissimo della fede nostra». Non vi si giunge che per mezzo della
cabala, dalla quale, per esempio, s'impara perchè Cristo dicesse
d'esistere prima d'Abramo, e che dopo di sè manderebbe il Paracleto, e
che egli veniva coll'acqua del battesimo e lo Spirito Santo col fuoco.
Chi non vede ove potesse portare un tale eccletismo? Che se veniva
applaudito dalle accademie e dalla Corte de' Medici ove tale era la
moda, non potea piacere a Roma: e per quanto egli si schermisse dietro a
ripetute proteste di soggezione alla Chiesa, realmente alla Chiesa volea
sostituir se stesso nel definire e spiegare il dogma per mezzo della
cabala e dell'ebraico. Innocenzo VIII diceva: «Costui vuol finir male,
ed essere un giorno arso, poi vituperato in eterno, come qualchedun
altro. Le cose della fede sono troppo delicate, e non posso tollerarlo:
scriva opere di poesia, saranno più da' suoi denti»; malgrado le
raccomandazioni del magnifico Lorenzo[223], mai non volle ritirarne la
condanna, benchè schermisse da ogni molestia l'autore. Il quale, sempre
più ingolfato negli studj, per quanto contento di sua sorte a segno, che
diceva non vedrebbe di che mormorare contro la Providenza, se pure non
perdesse lo scrignetto de' suoi scritti, non sapea darsi pace di essere
incorso nella disapprovazione papale, si riprotestava di sentimento
cattolico, e intanto non voleva confessare d'avere sbagliato nel
sostenere certe proposizioni, anche dopo che furono condannate dalla
bolla pontifizia.
Non mancavano persone che lo istigassero a buttar giù la buffa, romper
con Roma, ed eccitare un grande scandalo: ma egli, assaggiata la vanità
della scienza, tornò al cuore di Cristo e alla carità, ripetendo la
sentenza di san Francesco, «Tanto sa l'uomo quanto opera». Allora contro
gli Ebrei difese la fedeltà di san Girolamo nella versione dei salmi;
voleva anche scrivere una grande opera per confutare i sette nemici
della Chiesa; ma non compì che la parte contro gli astrologi; macerava
il corpo; recitava l'uffizio come i preti, consumava «giorno e notte in
leggere le sacre carte, nelle quali è insita una certa forza celeste,
viva, efficace che con meraviglioso potere converte l'animo del
leggitore all'amore divino», e pensava pigliarsi una croce e andar a piè
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