Gli eretici d'Italia, vol. I - 27

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divenuto gran musicante, onde si pose a stabilire teoriche stravaganti,
e finì pazzo. Così il Baraballo abbate di Gaeta a forza di encomj fu
indotto a credersi un nuovo Petrarca, e Leone volle incoronarlo; e
fattolo mettere s'un elefante donato da Emanuele di Portogallo, con la
toga palmata e il laticlavio de' trionfanti, lo mandò per Roma, tutta in
festa e parati, e non guardossi a spese acciocchè il poetastro salisse
in Campidoglio ad onori che l'Ariosto non ottenne. Altre beffe usava a
Giovanni Gazzoldo, a Girolamo Britonio poeti, all'ultimo de' quali fece
applicare solennemente la bastonata per avere fatto de' versi cattivi.
Questi e simili spassi del papa sono descritti da Paolo Giovio vescovo
di Nocera, con un'ilarità, che anch'essa è caratteristica in un prelato;
com'è notevole la conchiusione a cui riesce, cioè ch'essi sono degni di
principe _nobile e ben creato_, sebbene gli austeri li disapprovino in
un papa.
A quel tipo informavasi la Corte. Il cardinale Bibiena si fece
fabbricare sul Vaticano una villetta, dipinta voluttuosamente da
Raffaello; sovrantendeva alle splendidezze della Corte, ai carnasciali,
alle mascherate; persuase il papa a fare rappresentare la _Mandragora_
del Machiavelli e la propria _Calandra_, alle cui scene da postribolo
assistevano Leone in palco distinto[300], Isabella d'Este e dame delle
più eleganti d'Italia. Chi pari a costui per trarre a far pazzie i
meglio assennati?[301]. Si congratulava che Giuliano De' Medici menasse
a Roma la principessa sua moglie, e «la città tutta (dice) or lodato sia
Dio, che qui non mancava se non una Corte di madonne, e questa signora
ce ne terrà una, e farà la Corte romana perfetta»[302].
Accanto a loro, monsignore Giovanni Della Casa componeva capitoli di
mostruosa lubricità, e domandava il cappel rosso non per le virtù
proprie, ma «in mercè della perpetua fede e della sincera ed unica
servitù che avea sempre dimostrata ai Farnesi». E questi, e il
Bembo[303], e il cardinale Ippolito d'Este, e tropp'altri ostentavano
figliuoli.
Così la società ecclesiastica scherzava coll'irruente scetticismo, nè
accorgevasi di scavare l'abisso sotto i proprj piedi; non volevasi che
nessuna apprensione turbasse le feste dell'arte, siccome i Coribanti
attorno a Giove danzavano perchè non se n'udissero i vagiti; e
l'autorità credeva attingere forza dalla bellezza, appoggiandosi a
Rafaello e Michelangelo, all'Ariosto e al Bembo.
Tipo di quel raffinato epicureismo e di quel paganizzamento della
coltura, che altrove imputammo al suo tempo, Leone X nel fulgore del
bello offuscava il sentimento del giusto. «Avendo l'Ariosto fatto libri
in lingua e verso vulgari, col titolo d'_Orlando Furioso_, in maniera
scherzevole, ma con lungo studio e riflessione e molte veglie attesa la
splendidezza del suo ingegno, e la devozione verso la sua famiglia»,
trova bene ch'e' se n'assicuri il guadagno, e possa altre volte
pubblicarlo migliorato[304]: sicchè minaccia di scomunica chi
ristampasse quel poema, del quale accetta la dedica, come
dell'_Itinerario_ di Rutilio Numaziano, uno degli ultimi pagani
accanniti contro il nascente cristianesimo; aggradisce le annotazioni
d'Erasmo al Testamento Nuovo, che poi furono messe all'Indice, e la
dedica del libro di Hutten sulla donazione di Costantino, dal quale
Lutero disse avere attinto tutto il suo coraggio; e concede ad Aldo
Manuzio il privilegio per la stampa delle costui insolenti _Epistolæ
obscurorum virorum_.
Quell'idolatria pel bello e per una letteratura tutta di sensi non di
spirito, era secondata da tutta la Corte. Quando recitava versi
l'_unico_ Accolti, chiudeansi le botteghe di Roma: quando nel giardino
di Tito si disotterrò un gruppo, che il Sadoleto riconobbe tosto pel
Laocoonte, descritto da Plinio, sonarono tutte le campane, e fu tratto
per Roma con cerimonie serbate ad auguste reliquie, fra ghirlande e
musiche e canti di poeti. Guerrieri e artisti, prelati e principi,
cortigiane e santi concorreano a porgere occasione di feste. Giovanni
Coriccio, ogni giorno di sant'Anna teneva in sua casa una gara di poeti,
in lode di questa santa, di sua figlia e di Cristo. L'Ariosto si
rallegrava perchè in quella Corte
al Bembo, al Sadoleto, al dotto
Giovio, al Cavallo, al Blosio, al Molza, al Vida
Potrà ogni giorno e al Tibaldeo far motto[305].
Ivi Paolo Giovio, bugiardo gazzettiere de' fatti contemporanei, e il
Valeriano indagatore de' fasti egizj: ivi il Castiglione e il Della
Casa, precettori di belle creanze. Celio Calcagnino scriveva latino e
greco, leggeva nell'originale Omero e i profeti, e sosteneva che il
cielo è fermo e la terra si muove. Teseo Ambrogio dei conti d'Albonese,
canonico di San Giovanni Laterano, parlava il greco come Musuro di Creta
e il latino come Erasmo, oltre che da solo apprese tutte le altre
lingue, e seppe servirsene cogli accorsi al concilio di Laterano;
insegnò il caldeo a Bologna, e da quella lingua tradusse la liturgia
orientale; meditava una grammatica poliglotta, e preparò molti lavori,
che andarono poi dispersi nel sacco di Roma.
Leone manda Fausto Sabeo, detto cacciatore di libri, a rintracciarne
nelle badie di Francia, di Germania, di Grecia, al qual uopo spedisce
pure in Germania e in Danimarca Giovanni Heytmers, e nelle provincie
venete il Beazzano: lodi e privilegi dà a Francesco de Rossi ravennate,
che andò a raccoglierne di greci ed arabi in Oriente e specialmente
nella Siria[306]: paga cinquecento zecchini un manuscritto di Tacito,
più completo di altro ch'erasi stampato a Milano, e promette larga
cortesia a chi gli porterà opere antiche inedite: fonda un collegio
greco coll'opera di Demetrio Lascari, Benedetto Lampridio e Favorino.
Sono ricordate ricche biblioteche dei cardinali Sadoleto, Bembo, Pio da
Carpi, dov'era il Virgilio riveduto nel secolo V dal console Rufo; del
Grimani, il cui breviario oggi è il giojello della Marciana di Venezia.
Il Chigi, appaltatore delle miniere d'alume e protettore di Rafaello,
aveva montato una stamperia, preseduta dal Lascari, donde uscirono le
tragedie di Sofocle, gli Scolj d'Omero, gli opuscoli di Porfirio, il
Tolomeo, il Pindaro, il Teocrito, ed altre edizioni oggi ancora
apprezzatissime.
L'italiano ormai s'adoprava generalmente invece d'un latino, che
stomacava i bongustai, dacchè eransi studiati i classici. Personaggi
abili alle meditazioni filosofiche quanto alle fantasie poetiche,
maneggiavano l'analisi e il calcolo come il dibattimento e gli affari; e
a tutte le conquiste della filologia e delle scienze univano un gusto
squisito. Roma era insomma il centro della civiltà, e a buon dritto lo
Zanchi poteva cantare:
_Omnia romanæ cedunt miracula terræ,_
_Natura hic posuit quidquid ubique fuit._
Vero è bene che gli studj ecclesiastici erano assai meno careggiati che
i letterarj; e lo stesso cardinale Pallavicini imputa Leone X d'averli
negletti; pure nel ruolo dell'archiginnasio romano, pubblicato da
monsignore Gaetano Marini, bella parte tiene la teologia con professori
illustri e ben retribuiti; da Leone fu fatto stampare il Pagnini; a lui
è dedicata la Bibbia poliglotta del cardinale Ximenes; a lui la
grammatica ebraica di Guidacerio calabrese, a lui la traduzione
dall'arabo della filosofia mistica d'Aristotele per Francesco Rosi
ravennate; a lui tre opere di Paolo di Middleburg, di Basilio Lapi, di
Antonio Dulciati sulla riforma del calendario: nella reggia stessa di
Leon X troviamo un cardinale Cajetano, teologo de' più profondi; un
Egidio, ch'egli andò a cercare in una selva di Viterbo per decorarlo
della porpora, un Paolo Emilio Cesio, che diceva essere meglio mancare
del necessario che lasciare soffrire gli altri; un Bonifazio Ferreri di
Vercelli, che eresse a sue spese un collegio a Bologna; il Sadoleto che
spesso loderemo; il Giberti, sornomato padre de' poveri e de' letterati.
Che se Leone bacia l'Ariosto e festeggia il Bibbiena, indica però al
vescovo Vida il soggetto della _Cristiade_; col Sannazzaro, cantore del
_Parto della Vergine_, si congratula perchè possa riuscire un David che
colpirà Golia; riconosce l'attitudine del veronese Flaminio, e lo fa
studiare, sicchè poi verseggiò in latino i salmi ben meglio del francese
Marot.
Anche i sommi artisti venivano adoprati a fare santi e madonne, erigere
ed ornare chiese. Michelangelo, vigorosa individualità, gemente sulle
miserie del suo tempo, e voglioso di «non vedere, non udire finchè
duravano il danno e la vergogna», ribellasi alle tradizioni accademiche,
e vuol ogn'opera sua riesca singolare, originale; nudi che affrontano il
pudore, sibille virili, profeti ideali, la maggiore cupola del mondo, la
sublimità della scultura nel Mosè. Sebastiano del Piombo ritraeva
sentitamente la santità; a un punto inarrivabile d'espressione e di
bellezza era sorta la pittura con frate Angelico, e con Raffaello, che,
per ordine di Giulio II, nella stanza della segnatura dipinse un
grandioso poema, la vita intellettuale nelle sue quattro manifestazioni
di teologia, filosofia, poesia, giurisprudenza; nella prima sovratutto
esprimendo l'apoteosi del Corpo di Cristo, circondato da quanti furono
più insigni conoscitori e maestri della scienza divina; e fu Leone X
stesso che gli commise il giudizio di Leone III, la coronazione di Carlo
Magno, la rotta dei Saraceni a Ostia, il miracolo di Bolsena, l'incendio
di Borgo. Avesse voluto divenire cardinale, avesse voluto sposare una
nipote di cardinale, Rafaello il poteva: ma in verde età morì, e nel
testamento lasciava mille scudi onde celebrare dodici messe l'anno per
l'anima sua; lascito assicurato sopra una casa in via de' Catinari, che
esistette fino al 1805, quando, nelle vicende consumato il capitale,
essa fu ricostruita.
Oltre che questi artisti erano solenne protesta contro la riforma
iconoclasta de' Tedeschi, ci provano che non mancavano nè studj serj, nè
sentimento religioso. Di Leon X vedemmo le cure date al concilio e alla
riforma della Chiesa: s'applicò a spegnere gli avanzi degli Ussiti in
Boemia; propagava il cristianesimo fra gli ancor barbari Moscoviti;
cercava revocare dallo scisma i Maroniti e gli Abissini; fondava nuove
chiese in America; il lungo e indecoroso litigio sui Monti di Pietà, se
fossero usura od opere di misericordia, terminò dichiarando non vedervi
nulla d'illecito od usurario; introdusse la commovente liturgia della
settimana santa nel palazzo pontifizio. Con limpida integrità conferiva
i benefizj, raccomandando a' suoi favoriti non lo inducessero a
concedere grazie di cui dovesse pentire e vergognare, e piuttosto ai
supplicanti soddisfaceva colla propria borsa. Sobrio sempre fra tante
squisitezze, fra poeti e naturalisti che celebravano, e cuochi che
raffinavano le leccornie della sua mensa, astenevasi da carni il
mercordì, al venerdì mangiava solo legumi e verdura, al sabato lasciava
la cena, sempre beveva solo acqua. Ce lo attesta il Giovio, che nel
lodarlo ne infamò i costumi[307], mentre Lutero, suo gran denigratore,
non trovava da appuntarli.
Quando si crede vivamente, confondesi la pietà coll'entusiasmo del
bello; ma più non si era a quelle credenze ingenue, e Leone, abbagliato
dallo splendore del bello, credette che l'immaginazione e il cuore
abbiano tanta parte nell'intelligenza umana quanto la ragione: pensò
forse quel che altri sostennero, che la poesia e l'arte in teodicea
valgano più che la filosofia; colle dignità ecclesiastiche retribuiva
non insigne zelo ed esemplare bontà, ma spesso l'ingegno, comunque
applicato. S'avventurò ad una politica di capriccio, senza concetti
elevati; come un nuovo ricco sprecò nella pace i tesori accumulati da
Giulio II in mezzo alle guerre, ne cercò di nuovi col vendere
indulgenze, o coll'imporre tasse gravose; impegnò le gioje di San
Pietro, vendette le statue dei dodici apostoli regalategli dall'Ordine
teutonico: nominò ad un tratto trentun cardinali, fra cui due figli
delle sue sorelle Orsini e Colonna, mentre da un pezzo si avea cura di
non crescere con dignità la potenza pericolosa di quelle famiglie;
inventò tante cariche da vendere, che a quarantamila zecchini elevò le
spese annue della Chiesa; e tutto avea consumato quando morì.
E morì in fresca età, e corse un epigramma che diceva lui non avere
presi in quell'estremo i sacramenti, perchè gli avea venduti[308]. Non
esageriamo coi detrattori, ma neppure accettiamo certe apologie[309], di
cui troppo si compiacquero alcuni nostri contemporanei per ricolpo al
calunnioso vilipendio dei padri nostri. Buon signore, papa e principe
non lodevole, potea stare su qualunque trono più competentemente che su
quello di Roma; potea succedere al magnifico Lorenzo, non a Pietro
Bariona; vedendo nella santa sede non una cattedra ma un trono, non un
faro per illuminar il mondo, ma un piedistallo alla personale grandezza;
meno pronto a richiamare i traviati al Calvario, che ad invitare le
divinità dell'Olimpo ad esilarare il Vaticano.
E questa reviviscenza del paganesimo cercò realizzarsi durante la
vacanza. Scoppiata peste furiosa, la più parte de' cardinali fuggirono
di Roma, dove il guasto era cresciuto dal disordine che suol gittarsi
durante l'interregno: e il popolo sbigottito rompeva alle violenze. Un
tale Demetrio spartano volle rinnovare cerimonie della superstizione
antica, e coronato un bove, e legatogli un sottile filo alle corna, lo
condusse per Roma, poi nell'anfiteatro lo sagrificò. Non era che una
delle ciarlatanerie, ripullulanti ne' grandi disastri, e costui
secondava l'andazzo col ridestare memorie gentilesche; ma altri vollero
vederci operazioni magiche e culto ai demonj; sicchè il popolo, temendo
non ne restasse aggravato il male pubblico, volle solenni espiazioni: e
a folla uomini e fanciulli mezzo nudi passavano in processione da Chiesa
a Chiesa flagellandosi e gridando misericordia, seguiti da lunghissime
file di matrone, con ceri alla mano, anch'esse piangenti e supplicanti.
Quasi per contrapposto ai colti epicedj de' suoi cortigiani, uno di quei
predicatori popolari e grotteschi che dicemmo, frà Callisto da Piacenza,
ch'era de' meglio lodati, sermonando a Mantova il 1537 sul testo
_Seminastis multum et intulistis parum_, prorompeva: «Povero papa Leone,
che s'aveva congregato tante dignitadi, tanti tesori, tanti palazzi,
tanti amici, tanti servitori; e in quell'ultimo passaggio del pertugio
del sacco, ogni cosa ne cadde fuori, e solo vi rimase frate Mariano, il
quale per essere leggero (ch'egli era buffone) come una festuca, rimase
attaccato al sacco. Arrivato quel povero papa al punto di morte, di
quanto e' s'avesse in questo mondo nulla ne rimase, eccetto frate
Mariano, che solo l'anima gli raccomandava dicendo, _Ricordatevi di Dio,
santo padre_; e il povero papa, in agonia constituto, a meglio che potea
replicando dicea, _Dio buono, o Dio buono!_ e così l'anima rese al suo
Signore. Vedi se egli è vero che _qui congregat merces, ponit eas in
sacculum pertusum_».

NOTE
[298] Le annate sono usanza tanto antica, che nel codice Giustinianeo,
Nov. CXXIII, c. 16, si legge: _Neque clericum cujuscumque gradus dare
aliquid ei a quo ordinatur, aut alii cuilibet personæ permittimus; solas
autem præbere eum consuetudines iis qui ordinantium ministrantes sunt,
ex consuetudine accipientibus, unius anni emolumenta non
transcendentem_.
[299] Nel Museo Borgiano conservasi quella carta geografica, colla
_linea vaticana_ tirata di mano propria d'Alessandro VI.
[300] Fu tratta ultimamente dagli archivj di Modena una lettera del
segretario ducale Paulucci, che agli 8 marzo 1519 da Roma scriveva al
duca di Ferrara, descrivendogli una comedia datasi giorni prima alla
Corte papale. Leon X stava egli stesso alla porta, colla sua benedizione
indicando quei che poteano entrare. Dappoi si collocò sopra un'alta
sedia fra un anfiteatro di spettatori, e si recitarono i _Suppositi_
dell'Ariosto. I Francesi ne restarono scandolezzati: il nunzio Spinola
«si dolea che alla presenza di tanta maestà si recitassero parole che
non fossero oneste»: ma il papa guardava col suo occhialetto, e molto
rideva. Vi furono concerti, moresche, cena: caccia di tori, ove tre
uomini rimasero morti e quattro feriti. Un frate espose un'altra
comedia, ma essendo spiaciuta, il papa fece balzar quel frate sopra una
coltre, e dar un gran colpo sul tavolato della scena; poi gli fece
tagliar i sostegni de' calzoni e calarli fin a' calcagni, e così montar
a cavallo, dove fu battuto in modo, che dovette star molto a letto.
Questa «moresca fece assai ben ridere il papa». Vedi _Atti e memorie
della Deputazione di storia patria per le provincie Modenesi e
Parmensi_. Vol. I, p. 128.
[301] _Accesserat et Bibienæ cardinalis ingenium, cum ad arduas res
tractandas peracre, tum maxime ad movendos jocos accomodatum. Poeticæ
enim et etruscæ linguæ studiosus, comœdias multo sale, multisque
facetiis refertas componebat, ingenuos juvenes ad histrionicam
hortabatur, et scenas in Vaticano spatiosis in conclavibus instituebat.
Propterea, quum forte_ Calandram _a mollibus argutisque leporibus
perjucundam per nobiles comœdos agere statuisset, precibus impetravit ut
ipse pontifex e conspicuo loco despectaret. Erat enim Bibiena mirus
artifex hominibus ætate vel professione gravibus ad insaniam
impellendis, quo genere hominum pontifex adeo oblectabatur, ut laudando,
ac mira eis persuadendo donandoque, plures ex stolidis stultissimos et
maxime ridiculos efficere consuevisset_. GIOVIO.
[302] Lett. di Principi a Principi, vol. I, 16.
[303] Nella _Raccolta d'opuscoli scientifici e filologici_ del Calogerà,
tomo XXIX, Venezia 1743, si trova un'_apologia del cardinale D. Bembo_,
fatta dall'abate G. B. Parisotti, principalmente difendendolo dal
Lansio, che nella _Orazione contra Italiam_ (Amsterdam 1637) avea detto
che _epistolas omnes Pauli palam condemnavit, easque, deflexo in
contumeliam vocabulo,_ epistolaccias _est ausus appellare_.
[304] _Cum libros vernaculo sermone et carmine, quos_ Orlandi Furiosi
_titulo inscripsisti, ludicro more, longo tamen studio et cogitatione,
multisque vigiliis confeceris, easque conductis abs te impressoribus ac
librariis edere cupias, cum ut cura diligentiaque tua emendationes
exeant, tum ut si quis fructus ea de causa percipi possit, is ad te
potius, qui conficiendi laborem tulisti, quam ad alienos deferatur,
volumus et mandamus ne quis, te vivente, eos tuos libros imprimere aut
imprimi facere, aut impressos venundare, vendendosve tradere ullis in
locis audeat, sine tuo jussu et concessione_.
[305] Sat. VII.
[306] SADOLETI, ep. 22 del lib. XVII.
[307] _Vita Leonis X_. Ci mancano le relazioni degli ambasciadori veneti
a Roma fino al 1533, ma ne' diarj di Marin Sanuto si dà il sunto di
esse. Leon X v'è sempre indicato come buono e pio, ma gaudente. «È
amator delle lèttere, dotto in umanità e giure canonico, e sopratutto
musico eccellentissimo: e quando canta con qualcuno, gli fa donare cento
e più ducati» (pag. 86 _Relazioni_; Firenze) «È dotto e amator di dotti,
buon religioso, ma vuol vivere e star sui piaceri, massimamente su
quelli della caccia» p. 64. «Dormiva molto tardi... andava alla messa,
dava udienza, stava a tavola e giocava volontieri a primiera. Digiunava
tre volte la settimana, mangiava una volta al giorno, a ore 21; il
mercore e il sabato mangiava cose quadragesimali... Si serviva molto di
domandar denaro a prestito; vendeva poi gli ufficj, impegnava le gioje,
gli arazzi del papato, e fino gli apostoli (i busti) per aver denari».
Curiose sono le particolarità che vi si esibiscono intorno ai cardinali,
tutte profane, e alcune anche peggio.
[308]
_Sacra sub extrema si forte requiritis hora_
_Cur Leo non potuit sumere, vendiderat_.
L'attribuirono al Sannazzaro.
[309] AUDIN, _Vie de Leon X_.


DISCORSO XIV.
I TEDESCHI A ROMA. ERASMO.

Ad ammirare questa splendida Roma, questo magnifico pontefice, questo
secolo d'oro, questa terra prediletta dalla natura[310], venivano
persone d'ogni paese; vi venivano dotti e curiosi, suntuosi e devoti;
chi aspirava a benefizj o ad onorificenze; chi volesse venerare le
reliquie di libere civiltà antiche, o quelle de' martiri; chi inebriarsi
de' godimenti, od ottenere perdonanza di gravi peccati. Nessuno
considerava compiti i suoi studj, se non li coronava con un viaggio in
Italia, dove assisteva alla restaurazione delle arti per mezzo
dell'imitazione, agli incrementi della scienza per opera del Mattioli,
del Cesalpino, dell'Aldrovandi, esploratori della creazione materiale,
del Fracastoro, del Falopio, dell'Eustachio, creatori dell'anatomia, fra
i concittadini del Colombo, del Cabotto, di Americo Vespucci. E tutti,
ma principalmente i Tedeschi, stupivano di quella libertà nella
discussione, dello scherzo, del dubbio su punti, altrove venerati in
silenzio; del vedere in vulgare insegnata la scienza, e fino tradotti i
libri santi.
La Germania colla sua conversione aveva contribuito grandemente a
consolidare il primato papale: indi col rivoltarsi contro Enrico IV
aveva ajutato ad effettuare il robusto concetto di Gregorio VII. Ma poi,
dal continuo mescolarsi di essa nelle vicende italiane era stata acuita
la naturale antipatia delle istituzioni e delle nature germaniche contro
le latine; e i nostri odiavano i Tedeschi come prepotenti, essi
disprezzavano noi come fiacchi, e nella superiorità dell'ingegno non
voleano riconoscere altro che furberia e mala fede.
La Germania strillava che tanto suo denaro fluisse a Roma[311], e viepiù
dacchè questa, postasi a capo della resistenza contro i Turchi, di nuove
imposte e decime doveva gravare per imprese che poi non sempre si
assumevano, non riuscivano a prospero fine. Enea Silvio Piccolomini, che
fu poi papa, ebbe a vergare molte lettere in proposito scusando i papi
per questa necessità di tener fronte al nemico comune: ma la dieta
d'Augusta nel 1510 levò alte querele sopra le esigenze pontifizie,
minacciando una generale rivolta contro il clero, se non vi si
riparasse.
Lo spirito latino che riunisce, e il germanico che separa, aveano
lottato incessantemente: e mentre quello avviava all'unità giuridica,
politica, religiosa, attuata anche nell'istituzione dell'Impero, questo
tendeva a separare, sia nei feudi, o nei Comuni, o nelle minute
signorie; e già pensava farlo nella religione, reluttando alla primazia
papale e all'accentramento romano. Che se l'opposizione religiosa in
Italia era ironica, beffarda, scettica, negava ma sottometteasi; in
Germania all'incontro procedea positiva, credente, collerica, e non
proponevasi solo di restaurare, ma di demolire per rifabbricare. Ai
nostri spettava il merito d'aver disonnato la ragione col pensiero,
colla libertà dell'arte, collo studio dei classici; ma la Germania,
dotata della curiosità scientifica, non del sentimento della bellezza
formale, apponeva ai nostri di cercare il risorgimento letterario, non
il filosofico; sprezzava l'arte italica, quanto gl'Italiani
vilipendevano la scienza tedesca: infelice divorzio, per cui questa
inarridì a segno da parere destituita d'ogni applicazione vitale, mentre
la letteratura nostra riducevasi a un trastullo, a uno svago dello
spirito. Nè aveano torto i Tedeschi quando la appuntavano di scostumata,
e Puyherbault diceva[312]: «A che buoni cotesti scribacchianti d'Italia?
Ad alimentare il vizio e la mollezza di cortigiani azzimati e di donne
lascive; a stimolare le voluttà, infiammare i sensi cancellare dalle
anime quanto v'ha di virile. Di molto siamo debitori agli Italiani, ma
da loro togliemmo anche troppe cose deplorabili. I costumi di colà
sentono d'ambra e di profumo; le anime vi sono ammollite come i corpi; i
libri loro nulla contengono di gagliardo, nulla di degno e potente, e
piacesse a Dio avessero tenute per sè le opere loro e i loro profumi!
chi non conosce Giovan Bocaccio, Angelo Poliziano, il Poggio, tutti
pagani piuttosto che cristiani? A Roma Rabelais immaginò il suo
_Pantagruele_, vera peste de' mortali. Che fa costui? Qual vita mena?
Tutto il giorno a bere, fare all'amore, socratizzare; trae al fiuto
delle cucine, lorda d'infami scritti la miserabile sua carta, vomita un
veleno che lontano si diffonde in ogni paese, sparge maldicenze e
ingiurie su ogni ordine di persone, calunnia i buoni, dilania i savj; e
il santo padre riceve alla sua tavola cotesto sconcio, cotesto pubblico
nemico, schiuma del genere umano, tanto ricco di facondia quanto scarso
di senno»[313].
E a Roma erano venuti a scuola quei che in Germania restaurarono gli
studj classici; Rodolfo Agricola di Friesland, professore ad Eidelberga,
che volle finir sua vita in un convento di Francescani; Lodovico Vives,
vantato per acuto giudizio, come il Buddeo per ingegno. Ma molti vi
moveano guerra arguta all'ignoranza de' monaci, o fossero umanisti come
Erasmo, o cavalieri come Hutten.
Questo Ulrico di Hutten, tutto entusiasmo pel suo paese, fece suoi studj
a Pavia; poi messosi soldato, qui scese con Massimiliano imperatore, fra
le orde che passavano le Alpi ustolando agli ori de' nostri palazzi,
agli argenti delle nostre chiese. Poeta e guerriero, portava sopra del
morione l'alloro, di cui l'imperatore avealo donato con seicento
zecchini; e indispettivasi contro quest'Italia, che ricusava d'essere
tutta dell'imperatore tedesco. Mosso con questo per distruggere Venezia,
lo aizzava contro quel _popolo di rane_, cui bersagliò in due poesie
_Marcus_ e _De piscatura Venetorum_, oltre una _Epistola Italiæ ad
Maximilianum_. In un epigramma introduce l'Italia a dire ad Apollo: «Tre
mi fanno la corte; uno pien di mala fede, l'altro di vino, il terzo
d'orgoglio. Poichè m'è forza sottomettermi, dimmi qual giogo sia meno
grave. — Il veneziano è perfido sempre, rispose Apollo: sempre
orgoglioso il francese; il tedesco non è sempre ubriaco: a te la
scelta».
Combattendo, cantando, amorazzando scorre l'Italia, cogliendo un morbo
che gli costò spasimi e denaro. Fra Roma e Viterbo assalito da sei
Francesi, li pose tutti in fuga benchè ferito, sul che scrisse un
epigramma _In quinque Gallos a se profligatos_; sentendo a Roma beffare
la Germania da sette giovani, li sfida tutti; fa un trattato storico
sulla continua reluttanza dei papi verso gli Imperatori: nella _Trinità
romana_ per rendere odiosa la Corte pontifizia, sostiene che da Roma si
riportano tre cose; mala coscienza, stomaco guastato, borsa smunta; che
tre cose ivi non si credono, l'immortalità dell'anima, la risurrezione
dei morti, l'inferno; che di tre cose vi si traffica, grazia di Cristo,
dignità ecclesiastiche e donne.
Attaccò lite con Erasmo da Rotterdam, che rispose _Spongia Erasmi
adversus aspergines Hutteni_: fece una _Oratio ad Christum pro Julio II
ligure pontifice_; scrisse pure gli _Apophtegmata Vadisci et Pasquilli
de depravato ecclesiæ statu_; ripubblicò il trattato del Valla contro la
donazione di Costantino, e più tardi la bolla di Leone X contro Lutero
con glosse interlineari e marginali mettendola in ridicolo, e fu detto
il Demostene tedesco per le sue filippiche contro il papa. Più si
divulgarono le sue _Epistolæ obscurorum virorum_, ove imprestava il
linguaggio dell'ignoranza e i sofismi della malizia ai monaci con
tant'arte, che molti non s'accorsero fosse ironia.
Giulio II, pontefice armato, non gli parve solo un'anomalia, ma un
tiranno, un sarmato di folta barba, di capelli arruffati, di occhio
fiero, di labbra incollerite; invoca un Bruto che ne liberi Roma[314];
ogni città che il papa prende, è un usurpazione ai diritti di Cesare; a
Cesare spetta la dotta Bologna; a Cesare la città de' sette colli; a
Cesare Parma e Piacenza, dove i suoi antecessori resero giustizia; a
Cesare il governo temporale, lo spirituale a Cristo, a' suoi apostoli ed
ai predicanti evangelici, che annunziano la dottrina di Cristo[315]. A
Roma, centro del sapere e delle arti belle, asilo de' profughi di
Grecia, palestra de' sapienti di tutto il mondo, ove dipingeasi la
Sistina, ove adunavansi la biblioteca e il museo vaticano, non iscorge
che una folata d'avvocati, di giuristi, di procuratori, di bollisti, che
succhiano il sangue della Germania[316]: fra tanti cardinali e prelati
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