Gli eretici d'Italia, vol. I - 41

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giustifica, cioè che Dio riceve per giusti tutti quelli che veramente
credono Gesù Cristo avere soddisfatto ai loro peccati: benchè, siccome
la luce non è separabile dalla fiamma che per se sola abbrucia, così le
buone opere non si possino separare dalla fede che per se sola
giustifica. Questa santissima dottrina, la quale esalta Gesù Cristo ed
abbassa la superbia umana, fu e sarà sempre oppugnata dalli Cristiani,
che hanno gli animi ebri. Ma beato colui il quale, imitando san Paolo
che si spoglia di tutte le sue proprie giustificazioni, nè vuole altra
giustizia che quella di Cristo, della quale vestito, potrà comparire
sicurissimamente nel cospetto di Dio, e riceverà da lui la benedizione e
l'eredità del cielo e della terra insieme col suo unigenito figliuolo
Gesù Cristo, nostro Signore, al quale sia gloria in sempiterno, amen».
L'opera fu da principio accettata come di retto sentire, e la sua tanta
diffusione attribuiscono a persone pie, al Flaminio, ai cardinali Morone
e Polo, a monsignor Carnesecchi. Poco si tardò ad avvertirne gli errori;
ma su quel punto della giustificazione non erano ben d'accordo neppure i
Cattolici, atteso che gran parte della disputa consisteva in parole, e,
come dice Bossuet, v'aveva una mala intelligenza, anzichè vi fosse
difficoltà in tal quistione..... Chi di noi (soggiunge) non ha sempre
creduto e insegnato che Gesù Cristo soddisfece soprabbondantemente per
gli uomini, e che il Padre eterno, contento di questa soddisfazione del
Figlio, ci tratterà favorevolmente come se noi medesimi avessimo
soddisfatto alla sua giustizia? Se vuol dirsi ciò solo quando si dice
che la giustizia di Gesù Cristo ci è imputata, è cosa fuori di dubbio, e
non valea la pena di turbare l'universo, nè chiamarsi riformatori per
una dottrina così nota e confessata»[515].
Or bene, questo libretto fu attribuito al Valdes, e più generalmente
alla scuola ch'egli formò a Napoli. Perocchè colà egli nella allegra e
pittoresca sua casa a Chiaja raccoglieva il fior della nobiltà
napoletana, persone distinte per talenti, e signore quali la Gonzaga ora
detta, donna Maria Brizeño, donna Costanza d'Avalos, donna Isabella
Manriquez; e da esso derivarono i principali promulgatori della riforma,
come l'Ochino, il Vermiglio, il Carnesecchi. Al qual ultimo, Jacobo
Bonfadio scriveva poi[516]: «Dove andremo noi, poichè il signor Valdes è
morto? È questa certo gran perdita e a noi e al mondo; perchè Valdes era
un de' rari uomini di Europa, e quei scritti ch'egli ha lasciato sopra
le epistole di san Paolo e i salmi di David ne faranno pienissima fede.
Era senza dubbio ne' fatti, nelle parole e in tutti i suoi consigli un
compiuto uomo: reggeva con una particella dell'animo il corpo suo debole
e magro: con la maggior parte e col puro intelletto quasi come fuor del
corpo stava sempre sollevato alla contemplazione della verità e delle
cose divine. Mi condoglio con monsignor Marcantonio Flaminio, perch'egli
più che ogni altro l'amava ed ammirava. A me pare sino, quando tanti
beni e tante lettere e virtù sono unite in un animo, che faccian guerra
al corpo, e cerchino quanto più tosto possano di salire, insieme con
l'animo, alla stanza ond'egli è sceso».
E generale fu il compianto per la morte di questo bel ingegno, del quale
un poeta cantava:
_Valdesio ispanus scriptore superbiat orbis_[517].
Il Caracciolo, frate domenicano, che lasciò una vita manoscritta di
Paolo IV, di cui molto faremo uso, riferisce: «Accadde nel 1535 che con
Carlo V venne un detto Giovanni Valdes, nobile spagnuolo ma altrettanto
perfido eretico. Era costui (mi disse il cardinale Monreale che se lo
ricordava) di bell'aspetto e di dolcissime maniere, e di un parlare
soave e attrattivo: faceva professione di lingue e di sante scritture:
s'annidò in Napoli e in Terra di Lavoro. Di costui furono tre i
principali discepoli: frà Pietro Vermiglio, canonico regolare ed abate
di san Pietro d'Ara: frà Bernardino Ochino da Siena, e Marcantonio
Flaminio, tutti e tre letterati principalmente nelle lingue e nelle
lettere umane. Ora costoro, mentre furono in Napoli, per fare brigata
maggiore di discepoli s'erano divisi in diversi pulpiti di scrittura
santa: il Vermiglio in San Pietro d'Ara leggeva l'epistole di san
Paolo..... il Valdes leggeva in sua casa l'istesse epistole.... I nostri
Padri scoprirono l'eresie in Napoli, essendo il nostro ordine acerbo
persecutor dell'eresie, e che fa professione di difendere la fede
cattolica. Il modo con che furono dai nostri scoperti, s'ha da sapere
che Raniero Gualanda e Antonio Capponi, per la pratica che ebbero con
Valdes e Ochino furono a pericolo anch'essi incautamente di essere
macchiati un poco di quella pece. Ma perchè si confessavano dai Padri
nostri in San Paolo, però i nostri che ne stavano sospetti si fecero
riferire da loro tutto ciò che intendevano da quegli occulti eretici. In
questo modo vennero a conoscere i nostri il mal seme che coloro
seminavano, e le secrete conventicole d'uomini e di donne che facevano.
Le quali da loro scoperte, e scritte al cardinale Teatino (Caraffa) in
Roma, se ne fuggirono tutti di Napoli...... In Napoli se ne appestarono
tanti, e particolarmente molti maestri di scuola che arrivarono al
numero di tremila, come si riconobbe poi quando si ritrattarono.
«Il seme diffuso dall'Ochino fu coltivato da G. A. Mollio di Montalcino,
e da frate Angelo francescano, confessore del vicerè, e da Lorenzo
Romano, siciliano. Questi dapprima diffuse le sue opinioni sponendo i
salmi e l'epistole di san Paolo, e diffondendo il _Benefizio di Cristo_,
ma poi confessò i suoi falli al cardinale Caraffa, che l'indusse a
palesar molte persone, anche di gran qualità, e far ritrattazione
pubblica nelle cattedrali di Napoli e di Caserta».
Qual fosse la dottrina del Valdes non è ben chiaro: i Sociniani
vorrebbero trarlo a sè, ma pare avesse sulla Trinità opinioni sue
particolari. Nella biblioteca degli Antitrinitarj leggesi: _De Jo.
Valdesio quid dicendum? Qui scriptis publicis suæ eruditionis specimina
nobis relinquens, scribit se de Deo ejusque Filio nihil aliud scire,
quam quod unus sit Deus altissimus Christi Pater: et unus dominus noster
Jesus Christus ejus filius, qui conceptus est in utero virginis; unus et
amborum spiritus_. Nelle lettere di Teodoro Beza troviamo che un
ministro della Chiesa francese di Embden fu imputato d'aver fatto
tradurre le _Considerazioni_ del Valdes, folte di bestemmie contro la
parola di Dio, senza le note che v'erano apposte nell'edizione di Lione.
E avendo egli risposto che non v'avea bestemmie, e che la pietà del
Valdes dovea potersi lodare non meno ad Embden che a Zurigo, a Basilea,
a Ginevra, gli fu replicato che quest'opera avea fatto assai male alla
chiesa di Napoli; che di là l'Ochino aveva attinto le fantasie che lo
perdettero; e che molte persone, le quali prima aveano lodato le
_Considerazioni_, cambiaron opinione dopochè le ebbero meditate, e il
librajo che le stampò a Lione se ne pentì e ne chiese perdono a
Calvino[518].
Fatto è che molti diedero ascolto al Valdes, ma Nicola Balbani[519], che
fu ministro della chiesa italiana a Ginevra, riferisce che, dei
convertiti alla riforma in Napoli, la più parte s'accontentavano
d'accettare il dogma della giustificazione, riprovavano alcune
superstizioni, pure non lasciavano la messa e il resto: quando
perseguitati, abjurarono: alcuni furono uccisi come relapsi, fra cui il
Caserta che aveva convertito Galeazzo Caracciolo.
Di quest'ultimo, come degli altri nominati nel presente capitolo avremo
a dire ampiamente.

NOTE
[511] _Due dialoghi: l'uno di Mercurio e Caronte, nel quale, oltre molte
cose belle, gratiose et di buona dottrina, si racconta quel che accadde
nella guerra dopo l'anno MDXXI: l'altro di Lattanzio e di uno
arcidiacono nel quale puntualmente si trattano le cose avvenute in Roma
nell'anno MDXXVII. Di spagnuolo in italiano con molta accuratezza et
tradotti et rivisti. In Vinegia con gratia et privilegio per anni
dieci_. Senza anno, e si suppongono volgarizzati dal Bruccioli. Sono 148
fogli in-8º. Su questa traduzione fu fatta la francese del 1565.
[512] Le coste d'Italia erano molestate e depredate da corsari turchi, e
talvolta da armate. Singolarmente notevole è lo sbarco che, nel 1480,
fecero ad Otranto, ove ben ottocento cittadini furono rapiti: i quali,
piuttosto che rinnegare la fede avita, subirono la morte, e meritarono
d'essere venerati come beati martiri. Sul che or ora pubblicò
un'interessante relazione il canonico Giovanni Scherillo (Napoli 1865).
[513] _The benefit of Christ's death, reprinted in fac-simile from the
italian edition of 1543, together with a french translation printed in
1551, to which is added an english version made in 1548 by E. Courtenay
earl of Devonshire, with an introduction by Churchill Babington_. Londra
1853.
Conosciamo cinque edizioni in italiano fatte a Lipsia dopo il 1835, in
tedesco ad Amburgo e a Strasburgo nel 1856; a Vevey e Lausanne nel 1856,
ed a Parigi. A Torino nel 1860 se ne formò una stereotipa. Per trovare
l'originale bastava ricorrere ala biblioteca della Minerva in Roma,
fondata dal cardinale Torrecremata, poi riccamente dotata dal cardinale
Casanatta, che fu bibliotecario della Vaticana (1620-1700). I Domenicani
di quel convento aveano la licenza di leggere qualunque libro, per veder
quali proibire; locchè fa rinvenire in quella biblioteca una quantità di
libri, divenuti rarissimi, e fino unici. Clemente XI, nel 1701, avea
pubblicato regole per il modo di conservar essi libri separatamente, e
comunicarli solo a chi n'avesse formale licenza.
[514] Su questa necessità delle buone opere è famoso il discorso di
Lutero dopo uscito dal ritiro della Warzburg. In somma negavasi
efficienza a quelle sole opere che soleano profittare al clero
cattolico. Vedasi la nota 20 del nostro Discorso XV.
[515] _Histoire des variations_.
Quanto si vacillasse da principio sul punto della giustificazione appare
dalle accuse che il padre Spina diede al Caterino e dalle difese di
questo _contra schedulam Paulo III oblatam, in qua quinquaginta errorum
Catharinus insimulabatur_; e versano la più parte su ciò e sulla
predestinazione.
Fu uno de' teologi più reputati di quell'età frà Jacobo Nachiante
fiorentino, vescovo di Chioggia (-1569), carissimo a Paolo III, a Giulio
III; sentito assai nel Concilio di Trento, e scrittore di molte opere,
di cui fanno al caso nostro la _Enarratio maximi pontificatus, maximive
sacerdotii Jesu Christi; de primatu Petri: De auctoritate Papæ et
concilj. De actis concilj approbandis per papam. De sacrosanctis
indulgentiis. De expiatorio missæ sacrificio. De natura et sacramento
evangelici matrimonii_. Eppure vi fu chi lo tacciò di errori intorno
all'essenza della libertà; del che peraltro lo difende il Tomassino,
tom. III, tratt. IV _De gratia_, e il Reginaldo _De mente Conc.
trident_., P. II, cap. 77.
[516] _Lettere vulgari di diversi nobilissimi uomini_. Vinegia 1548.
[517] Vorrebbero distinguere due Valdes fratelli; Alfonso e Giovanni: il
primo fosse autor dei dialoghi e segretario dell'imperatore sotto al
Gattinara, col quale assistette alla coronazione di Carlo V a Bologna,
poi al convegno d'Augusta, ove si proclamò la Confessione luterana.
L'altro sarebbe l'eresiarca: ma non parmi evidente la distinzione.
Dalla Società biblica furono ristampate le opere del Valdes a Oxford nel
1845.
[518] BEZA, _Ep._ IV, pag. 200, tom. III, _Opp._
[519] Vita di Galeazzo Caracciolo. Nel processo del cardinale Morene,
fatto dopo il 1555, del quale molto avremo a occuparci in appresso, sta
questa deposizione d'un testimonio, il cui nome, secondo il solito, è
taciuto, come quelli delle altre persone, implicate subordinatamente:
«Volendo io confessar ingenuamente alle VV. SS. Reverendissime (i
cardinali inquisitori) tutti gli errori miei dal principio al fine, dico
che, essendo io a Napoli circa otto anni sono, pochi giorni prima che
andassi a Basignano col N N che era a Napoli; vedendo che io aveva
cominciato a lasciar la mala via del mondo, e con desiderio di ritornar
alla buona delle buone opere, incominciò a tentarmi sopra l'articolo
della giustificazione che siamo giusti pel sangue di Gesù, e non per le
opere nostre; mostrandomi molti lochi nel Testamento Nuovo, i quali par
chiaramente il dimostrino. E però gli dissi che ciò mi piaceva. Il che
detto esso al Valdesio, con cui spesso conversava, e con N ed N che
ancor essi erano a Napoli, il Valdes rispose all'N, secondo mi riferì,
che non si fidasse di me, sapendo che io era carnalissimo, e perciò il
detto Valdes non volle che mai io andassi coll'N a lui, nè che io
intervenissi o sapessi li lor ragionamenti. Pure il N mi andava dicendo
e confermando sopra l'articolo della giustificazione.
«Ritornato a Napoli in casa del N, andai a visitare l'N, e gli portai
certi scritti del N sopra due o tre capitoli dell'epistola di san Paolo
alli Romani, dove parlava ampiamente della giustificazione, conforme al
libretto del _Benefizio di Cristo_, e domandandomi se N gli avea letti,
gli dissi non saperlo, come era vero.
«Mi domandò ancora del signor cardinale Morone, quel che esso teneva
della giustificazione: gli risposi che io non sapeva, altro se non che
il N e il N grandemente il commendavano a Trento della bella mente e
bello animo suo, di esser innamorato di Dio e non delle cose del mondo;
che mostrava essere ben capace della giustificazione per Cristo, e che
sempre pareva loro che più fosse acceso nell'amor di Dio».


DISCORSO XX.
PRIMI RIFORMATI ITALIANI. PIETÀ SOSPETTA. MICHELANGELO. IL FLAMINIO. IL
CARDINAL POLO. VITTORIA COLONNA.

Di mezzo alle gravi sventure politiche, nelle quali perdeva
l'indipendenza e ad altre naturali che venivano ad esacerbarle[520],
l'Italia si sentì minacciata d'una ancor più grave, qual era di andar
divisa negli articoli di fede.
Ci siamo chiariti come qui prima che altrove si svolgesse il seme delle
protesta religiosa, tra per meditazione di pensanti, tra per arguzia di
letterati, tra per esagerazione di pietà. E appunto i nostri riformatori
potrebbero distinguersi in tre categorie. Gli uni che, per passione
degli studj e abbagliamento de' classici, attribuivano a questi
un'autorità eguale o simile a quella della Bibbia e de' santi padri;
volendo emancipata la ragione umana, non le tolleravano neppur i vincoli
della fede, o distinguevano un ordine di verità secondo la religione,
uno secondo la filosofia; o pretendevano questa con quella conciliare
mediante l'ecclettismo che, in fatto di fede, rasenta l'incredulità.
Altri, vedendo la depravazione insinuatasi nella Chiesa di Dio, e gli
ecclesiastici tuffarsi in cure secolaresche, dal riprovare l'abuso
passavano a censurare la Chiesa, fino a reluttare all'autorità di
questa, che unica ha il diritto di riformare.
Altri, ritirandosi dal mondo contaminato, si esaltavano nella penitenza,
e pregavano che Dio la infliggesse alla Chiesa tutta. Un'ortodossia
rigorosa, capace di tanto odio quanto amore, arriva a non comprendere
ciò che per poco si scosti dalla fede. Una esagerata preoccupazione
morale, la passionata credenza alla giustizia di Dio portano a una vita
cupamente austera, scevera d'ogni dilettamento, e tra mortificazioni
poco proprie della stirpe umana, e ancor meno della italiana. Di questi
già avemmo il tipo ne' discepoli del Savonarola, che, pur disapprovando
molto nella Chiesa, arrestavansi davanti alle decisioni e all'organica
venerazione di essa. Pietro Paolo Boscoli, uno de' siffatti, per
congiura di Stato condannato a morte in Firenze, ebbe a se Luca della
Robbia, grave letterato, e gli commise di dire ad un certo loro amico,
abbandonasse le umane lettere che gonfiano il cervello, e si convertisse
tutto agli studj e alla disciplina della cristiana filosofia. NARDI.
Dagli eccessi della pietà, o dagli ardimenti del pensiero che,
interpreta sì, ma accetta il dogma esposto dalla Chiesa, corre gran
distanza alla rivolta della ragione individuale e mutevole contro la
credenza universale ed inalterabile, nè i nostri spingeano il desiderio
di riformare sino al proposito di distruggere.
A dir vero, nella libertà con cui qui si disapprovava la romana curia,
svampavano quelle stizze, che represse ingagliardiscono; e la vicinanza
faceva che, coi traviamenti delle persone non si confondesse la santità
delle istituzioni. Mentre i Tedeschi invidiavano a noi il papato come
fonte di ricchezza e di potere, i nostri s'accorgevano che esso
conservava all'Italia quell'importanza, che sotto ogni altro conto
smarriva, e che qua attirava persone, affari, denaro. Tutti i principi,
tutte le case magnatizie tenevano uno o più de' lor membri nel Sacro
Collegio o nelle prelature, i quali e godevano pingui prebende,
considerate come appannaggi de' cadetti d'illustri famiglie, ed
esercitavano autorità come legati, nunzj, protettori de' regni, elettori
del papa. Gli artisti aveano dalla devozione i principali loro esercizj,
nelle chiese, ne' conventi. I letterati si chiamavano riconoscenti ai
papi e ai cardinali, che li prendevano per secretarj o clienti. Le
classi inferiori non erano state guaste dal rinato paganesimo, nè il
raziocinio, limitato fra gli scienziati, sovvertiva le coscienze
popolari. Poi, se Lutero avrebbe potuto sopra le profonde convinzioni di
Dante, qual presa poteva avere fra i contemporanei dell'Ariosto che ride
di tutto; ride dei dogmi come e più di Lutero?
Quante famiglie si onoravano d'aver dato prelati, e papi, e fino qualche
santo alla Chiesa! stando solo alla Toscana, di nobili case usciano i
sette fondatori dell'Ordine de' Serviti: Buonfigliuolo Monaldi,
Buonagiunta Manetti, Manetto dell'Antella, Amadio Amidei, Uguccione
Uguccioni, Sostegno Sostegni, Alessio Falconieri. I Ricci gloriavansi di
santa Caterina; gli Orsini di sant'Andrea; i Falconieri delle beate
Giuliana e Carissima; i Pazzi di santa Maddalena; i conti Guidi del
beato Carlo; i Soderini della beata Giovanna; i Vespignano del beato
Giovanni; del beato Ubaldo gli Adimari; i della Rena di Certaldo della
beata Giulia; i Gambacurta di Pisa del beato Pietro, e via discorrete.
Fuori di là, i Latiozi di Forlì aveano avuto il beato Pellegrino; i
Malatesta di Pesaro la beata Michelina; i Borromeo di Padova santa
Giustina; poi seguivano tutte le famiglie papali; poi, dove la storia
venisse meno, supplivasi con tradizioni e sino con favole, quasi non
s'avesse per casata insigne quella cui mancasse un santo. E per vero,
qual più bel titolo di nobiltà che il contare fra gli antenati eroi da
paradiso? e qual empietà il disperdere e profanare que' vanti e quegli
avanzi degli avi! Il culto delle memorie non si rinega dalle nazioni, se
non quando siano rese imbecilli dall'intrigo e dalla rivoluzione.
Ciò svogliava in generale gli Italiani dal buttarsi alla riforma. E
poichè la grandezza maggiore, la potenza, la ricchezza all'Italia è
sempre venuta dall'esser sede di que' pontefici, ai quali appunto si
intimava guerra, l'interesse che vi spingeva i forestieri ne disamorava
i nostri, che aveano anzi a indispettirsi contro questo Lutero, il quale
accanniva le genti germaniche contro l'Italia, maestra e vittima de'
compatrioti di lui.
Di queste ragioni umane si ammantò la grazia che Dio concedette al paese
nostro di non unire, a tant'altre organiche divisioni, anche quella
delle credenze e del culto.
Però l'Italia rimaneva ancora conquassata dalle intraprese dei
tirannelli contro i popoli, per le quali i principati quasi da per tutto
si erano sostituiti al governo dei più. La lotta non era finita allorchè
cominciò a predicarsi la Riforma; e pel consenso che hanno fra loro le
proteste contro l'autorità, poteva credersi che i reluttanti, e
sopratutto i profughi, si alleerebbero coi dissenzienti, e cercherebbero
introdurne le idee in patria. Viepiù poteano esservi spinti i Toscani, i
cui oppressori temporali erano pontefici e cardinali; e i Romani, troppo
spesso incapricciati di far dispetto al loro sovrano. Potevano così
complicarsi la religiosa colla quistione politica; e ricondurre que'
sciagurati momenti, ove un paese rimane governato da' suoi fuorusciti.
Nulla avvenne di ciò: e per quanto noi abbiam in altro luogo[521]
esaminato partitamente i maneggi de' rifuggiti, non incontrammo ombra di
quest'alleanza.
Ma se l'amore delle novità non invase nè le plebi, nè i principi, e se
quelli che si brigavano di regolare la propria fede erano pochissimi a
fronte di coloro che ne usavano e ne viveano senza punto analizzarla,
erra chi crede che la Riforma non abbia fra le Alpi avuto ed estensione,
e conseguenze civili e politiche.
Se non che, mentre in Germania fu partito de' principi, in Francia
partito de' nobili, in Italia fu principalmente da letterati. Dopo che
la protesta fu formulata in Germania, la estesa reputazione de' dotti
italiani fece che i novatori forestieri ne sollecitassero l'adesione, e
cercassero qui divulgare le loro scritture, mentre la vivacità degli
ingegni nostrali inuzzoliva delle nuove predicazioni. Alcuni di qua si
tenevano in corrispondenza coi dotti tedeschi; e i cardinali Bembo e
Sadoleto carteggiavano coll'erudito Melantone, il principale apostolo di
Lutero, amante la pace e mediatore, ma senza iniziativa. Gli studenti
tedeschi che qui, e principalmente a Padova e a Siena[522] venivano a
raffinarsi, e i nostri che s'addottrinavano nelle Università germaniche,
servivano a trasmettere le nuove dottrine.
Fin dal 1520 Burcardo Scenk, gentiluomo alemanno, scriveva a Spalatino,
cappellano dell'elettore di Sassonia, che Lutero godeva stima a Venezia
e ne correano i libri, malgrado il divieto del patriarca; che il senato
penò a permettere vi si pubblicasse dai pulpiti la scomunica contro
l'eresiarca, e solo dopo uscito di chiesa il popolo[523]. Lutero stesso
per lettere felicitavasi che tanti di quella città avessero accolto la
parola di Dio[524], e teneva corrispondenza col dotto Giacomo Ziegler,
che fervorosamente s'adoprava a diffondervi le innovazioni. Di là erano
diretti esortamenti a Melantone perchè non tentennasse nella fede, nè
tradisse l'aspettazione degli Italiani[525].
A Venezia si ristamparono la spiegazione del _Pater_ di Lutero, anonima;
i _Luoghi comuni_ di Melantone, col titolo di _Principj della teologia
di Ippolito da Terranegra_. Perocchè i falsi nomi erano un artifizio
d'eludere le ricerche; e il Commento sui salmi di Bucer apparve sotto il
nome d'Arezio Felino, le opere di Zuinglio sotto quello di Coritio
Pogelio, o di Abideno Corallo; così Postel s'intitolava Helia Pandoches:
Giulio da Milano trasformavasi in Girolamo Savonese: anzi il Commento di
Lutero sull'epistola ai Romani e il Trattato della giustificazione si
diedero per opere del cardinale Fregoso. Questi mascheramenti eludevano
la vigilanza; altre opere giungevano entro botti di vin di Borgogna o di
Tokai, o in balle di panni e cotonerie. Francesco Calvi, di Menaggio sul
lago di Como, donde il suo cognome di Minicius, e ch'era stato anche
tipografo apostolico, teneva bottega di libri a Pavia, e ito a cercare
dal Froben di Basilea le opere di Lutero, le propalò in Lombardia.
Che fin dalle prime fossero accolte in Italia le dottrine nuove ce n'è
altro testimonio Martino Bucer, il quale tradusse dal tedesco in latino
le postille di Lutero, e stampate nel 1526 a Basilea, le dedicò ai
fratelli italiani. Ma Bucer repudiava la consustanziazione, accettata da
Lutero, sicchè alterò varj passi: di che altamente irritato, Lutero
l'assalse con ogni peggiore ingiuria, talchè quel mite ristampò a parte
i passi genuini, e v'aggiunse esse lettere di Lutero.
Il qual Lutero scriveva a Baldassare Altieri, veneziano e secretario
dell'ambasciadore d'Inghilterra, si guardasse dalle dottrine di Bucer,
di Bullinger, di Pellicano, di altri intorno alla eucaristia, come da
pestilenziale eresia; e interrogato dai nostri sopra la presenza reale,
anatemizzava Zuinglio ed Ecolampadio, «dottori contagiosi e falsi
profeti». Bucer, inclinato alla pace, dirizzò una lunga lettera «agli
Italiani fratelli che invocano Cristo con pura fede a Bologna e a
Modena, venerandi e carissimi», congratulandosi che ogni giorno
avanzassero nella cognizione di Cristo, e a sempre nuovi la
partecipassero; gli duole siano nati dissensi fra loro intorno
all'eucaristia: stiano contenti di sapere che si pascono della carne e
del sangue di Cristo, cioè in Cristo vivono più pienamente, e in sè vivo
il sentono viepiù. E qui spiega la quistione nata su tal punto,
concludendo di ricevere quei simboli con pietà, non offenderli con
curiose e profane disquisizioni, dalle quali confida guariti anche i
Tedeschi[526].
Si ha una lettera, che alcuni nostri da Bologna, nel 1533, scrissero al
signor di Planitz, ambasciadore del duca di Sassonia all'imperatore,
attestando di approvare la Chiesa protestante, e d'insistere pel
Concilio[527]. L'anno stesso stampavasi in italiano il _libro_ di Lutero
dell'emendazione e correzione dello stato cristiano.
La bolla di Clemente VII, del 15 gennajo 1530, deplora che in diverse
parti d'Italia avesse attecchito la pestifera eresia di Lutero, non solo
tra persone secolari, ma anche ecclesiastiche e tra regolari, mendicanti
o no, a segno che alcuni con discorsi, e fino con pubbliche prediche
infettavano altri. Pertanto autorizza gli inquisitori domenicani a
procedere contro costoro, ed anche Carmelitani o d'altri Ordini
mendicanti: possano istituire vicarj e comissarj abili, purchè di
trent'anni; ed essi e questi possano assolvere i ravveduti. Maggiori
privilegi concede ai Crociati, che dagli inquisitori s'erano istituiti
ne' varj luoghi per averne ajuto e consiglio.
Paolo III, con bolla del 14 gennajo 1542, confermava questi provedimenti
informato che a Bologna, a Milano e in altri luoghi v'avea secolari e
religiosi, che allegavano indulti e privilegi per tenersi immuni dalla
giurisdizione degli inquisitori, e così proporre e disputare
pubblicamente proposizioni scandalose, erronee e talvolta ereticali, con
iscandalo e pericolo.
Già abbiamo veduto come il cardinale Sadoleto si lagnasse della
defezione degli spiriti: e il cardinale Caraffa dichiarasse a Paolo III
che l'eresia luterana aveva infettato l'Italia, e sedotto non solo
persone di Stato, ma molti del clero. Più ancora significano le
baldanzose speranze di alcuni apostati.
Egidio Della Porta, d'illustre famiglia comasca e frate agostiniano in
patria, l'11 dicembre 1525 a Zuinglio «egregio soldato di Cristo, e
venerando come padre», mandava: «Da un pezzo io desiderava scriverti, ma
n'ebbi vergogna. Or mi rimprovero questa pusillanimità, pensando che
Cristo istesso senza distinzione riceve anche i più umili. Come Paolo,
dopo percosso, udì il Signore comandargli di visitare Anania e ricevere
i consigli suoi, così, se io non sarò Paolo, sii tu a me Anania, e
dirizzami colla parola nella via della salute. Vanno quattordici anni
che, per zelo, com'io credo, pio, sebbene non secondo scienza, mi
sottrassi ai parenti, e mi feci agostiniano, credendo coi Pelagiani
poter procacciarmi la salute colle opere; e tanto feci che da sette anni
attendo a evangelizzare la parola di Dio, ma con quanta ignoranza delle
buone lettere! Perocchè nulla sapevo di Cristo, nulla della fede: tutto
alle opere attribuendo, insegnavo a confidare in queste. E chi sa quali
veleni ho io sparsi nel campo del Signore! Ma il buon Dio non volle che
il suo servo perisse in perpetuo, e mi prostrò sicchè io esclamai:
Signore, che vuoi ch'io faccia? E il cuor mio s'intese dire: Va ad
Ulrico Zuinglio, e te l'insegnerà..... Ormai non tu, ma Dio per te mi
camperà dai lacci: e spero addur meco alcuni fratelli. A noi non son
note la lingua greca e l'ebraica, poco la latina: vogliamo impararle, ma
più imparar Cristo. Tarderemo la venuta nostra fino a Pasqua, e durante
la quaresima predicheremo il verbo di Dio.... Scrivendomi, dirigi ad
Andrea Mondino, di qui....»
Poi al 15 dicembre 1526, di nuovo:
«Gran piacere mi recò la tua lettera. Prudentissimamente la venuta
nostra nè disconsigli, nè comandi. Non sai che io son povero
all'estremo. Potrai pregare nosco Iddio che al più presto si faccia la
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