Gli eretici d'Italia, vol. I - 28

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non vede una figura tedesca, bensì fra' mulattieri, portacqua, mozzi di
stalla: attorno alla fabbrica di San Pietro non trova a lavorare che due
operaj, un de' quali zoppo[317]. Tant'è vero che ognun vede quel solo
che vuol vedere. Ma egli se ne indigna, ed esclama: «Spezziamo i nostri
ceppi, gettiamo via il costoro giogo», e la parola collerica, formulata
in bei versi, tuona nella Germania, che risponde: «Spezziamo i ferri,
sottraiamo il collo all'Italia, degenere, avvilita»[318] e gloriandosi
di tale guerra, egli adotta per motto _Lo osai_ (_Jch hab's gewagt_).
Di maggiore attenzione vuolsi onorare Erasmo di Rotterdam (1467-1536).
Talento universale; non devoto ad alcuna teorica filosofica, pure di
spirito filosofico, a questo accoppiava lo spirito comico, che adoprò a
osteggiare di tutta forza la scolastica, ancora dominante in Germania,
in contraddizione dell'altro insigne filologo Reuclin[319] volendo
fondare una teologia ampia e illuminata. Coll'edizione de' Padri e della
Bibbia e coi commenti a questa diede impulso all'interpretazione
razionale delle sante scritture secondo il senso letterale; e se, per
fare onta ai teologanti, dava importanza alla erudizione, questa diresse
a intento pratico con libera indagine.
Più solita lode gli si dà di buon umanista. Talmente invaghito de'
classici, che non avrebbe voluto altro parlare che il latino e il greco,
trovando barbari tutti gli altri linguaggi; in Italia si astenne
dall'imparare nemmanco le frasi più famigliari, tanto che ne corse
pericolo della vita; disapprovava che ai fanciulli s'insegnasse il
francese, idioma barbaro e strano, che scrive diverso da quel che
pronunzia; rinunciò una cura in Inghilterra per non parlare inglese;
neppure mai capì la favella di Basilea, dove fece sì lunga dimora.
A tacere le edizioni e i commenti di tanti autori, fra le opere
precettive scrisse il _Ciceroniano_, per ribattere que' saccenti
italiani, che non tolleravano nessuna parola se non usata da Cicerone; e
mette in caricatura un di costoro, che da sett'anni non avea letto altro
che Cicerone; nel suo studio teneva unicamente il busto di Cicerone;
sigillava coll'effigie di Cicerone; in quattro enormi volumi avea
registrate tutte le parole adoprate da Cicerone, tutte le diverse
accettazioni di ciascuna, tutti i piedi e le cadenze con cui cominciano
e finiscono i periodi di Cicerone; conchiude col lepido racconto
dell'iniziazione d'un cittadino romano in un circolo di ciceroniani a
Roma[320].
Enumerando i tanti dotti che conobbe in ogni parte di quest'Italia, dove
Lutero non imbatteva che ignoranti e briaconi, dice avere, davanti a
Giulio II, inteso un oratore fare una predica, in cui nominava Giove
ottimo massimo che tutto muove colle sopraciglia, e paragonava il papa a
Decio, a Curzio, ad altri che per la patria furono prodighi della vita;
il meno che parlò fu della morte di Cristo, e le parole e i sentimenti
applicò solo sull'autorità di Cicerone, e l'uditorio ammirò costui
d'avere parlato così romanamente e ciceronianamente[321].
Già illustre in Germania, in Francia, in Inghilterra, Erasmo era venuto
in Italia nel 1506: a Torino ottenne la laurea dottorale; rimase un anno
a Bologna, dove ha potuto conoscere Alessandro Farnese, Ottone Tuchses,
Stanislao Oslo, Cristoforo Madruzzi, Ugo Buoncompagni, scolari circa
quel tempo, e dappoi cardinali e l'ultimo anche papa; cacciatone dalla
peste, vide Padova, piena di tanti eletti ingegni, che voleva
intitolarla l'Italia dell'Italia; e nella cui Università si usava piena
licenza nell'interpretare Aristotele e i suoi commentatori. Eccitava
Ambrogio Leone professore a Napoli a pubblicare la sua grand'opera
contro Averroè[322].
Alle bellezze del nostro cielo, all'ubertà del suolo, alla squisitezza
delle arti belle non sentesi preso; dell'entusiasmo, dei dotti non solo,
ma dell'intera città quando si scoperse il Laocoonte, neppure un motto
egli fa in lettere, dove avverte attento la quantità fallata d'una
sillaba, o l'interpretazione mal côlta d'un versetto. Pure onorava i
nostri ingegni, sino a fare sinonimo italiano e dotto: _mihi Italus est
quisquis probe doctus est, etiam si apud Ibernas_[323]. Di qua delle
Alpi riconosceva già infranto il giogo dei Tomisti, degli Scotisti,
degli Aristotelici; che se nelle moltitudini e nell'insegnamento
ufficiale abbondavano pregiudizj, errori, superstizioni, era concesso
combatterli sul serio o voltarli in beffa.
E a quest'ultimo partito s'appigliò Erasmo, con quel genio burlevole che
è tanto micidiale alla verità, quanto opportuno per demolire. E come i
beffardi, poco bada alla verità.
Egli accerta che a Roma pretesero dimostrargli, non corra divario tra
l'anima delle bestie e degli uomini; avere udito colle proprie orecchie
bestemmiare Cristo impunemente, e detti orrendi pronunziarsi fino da
ministri della reggia pontificia, e proprio nella messa e ad alta
voce[324]: accuse generiche, e che il buon senso repudia.
Ma mentre credea trovare qui la tranquilla sede delle arti e della
dottrina, s'imbattè nella guerra recata dalla turpe lega di Cambrai;
Bologna assediata da Giulio II che poi vi fa ingresso trionfale; pel
quale anche in Roma festeggiasi il marziale pontefice. A glorie sì poco
dicevoli dava poi Erasmo risoluta disapprovazione negli _Adagia_, con
eloquenza risentita esponendo i danni della guerra, e viepeggio tra
Cristiani, e la stoltezza degli uomini che affiggono merito all'uccidere
e farsi uccidere; e vi raffaccia Leone X, agnello a nuocere, leone
contro gli empj, e tutto occupato a rimettere in concordia i
principi[325]. A Roma lo accolsero i cardinali, principalmente quelli di
San Giorgio e di Viterbo, e Matteo Langio vescovo d'Albano, e il De
Medici che presto divenne Leone X; il cardinale Campeggi gli regalò un
anello con diamanti, pel quale Erasmo gli scriveva: «Il fuoco dell'oro
mi sarà sempre simbolo della tua presenza cardinalizia, e la gratissima
luce del diamante mi rappresenterà sempre la gloria del tuo nome». Il
cardinale Domenico Grimani, che aveva una biblioteca di ottomila
volumi[326], lo considerava come un luminare della Chiesa di Cristo, e
non che prodigargli cortesie, pareva prendersi soggezione del povero
frate; gli esaltava i begli orizzonti nostri, il dolce clima; e che il
suo posto doveva essere fra i grecisti, i poeti, i pittori che
attorniavano Giulio II.
Roma, che affaticavasi a rigenerare gli spiriti mediante la forma, nel
marmo scolpito ammirava la natura idealizzata; Erasmo, come Hutten, come
Lutero e gli altri tedeschi, cercava Dio nell'uomo, non nelle opere
d'arte; sapeagli d'idolatria l'ammirazione plastica, e che nocesse al
movimento spiritualista il volgersi al marmo anzichè alla scrittura.
Questi disdegni erano rimbalzati dagli Italiani, che consideravano per
barbari que' Tedeschi, i quali non faceano dipinture sì belle, non
verseggiavano così squisito, non usavano il latino ciceroniano. Pure
Giulio II offrì ad Erasmo una carica in corte; ed egli in fatti
desiderava pigliare stanza nella gran città, per godervi i vantaggi
della biblioteca papale, mentre «fra noi (dicea) si penuria di libri
sacri greci: la stamperia Aldina non ci diede quasi altro che autori
profani: a Roma i buoni studj han non solo tranquillità, ma anche
onorificenze»[327].
Malgrado di ciò; malgrado che si deliziasse di que' facili costumi, e a
Fausto Anderlini descrivesse le voluttà, «per le quali (diceva) non gli
rincrescerebbe rimanere dieci anni fuori del tetto paterno»[328], fra
breve mosse per l'Inghilterra, traversando il Comasco, le Alpi Retiche e
Coira. Lungo il viaggio sbozzò il suo _Elogio della Pazzia_, dove
schizza veleno contro gli ecclesiastici; e, quel che parrà strano a chi
non intende i tempi, lo finì in casa di Tommaso Moro gran cancelliere
d'Inghilterra, il quale perì martire del cattolicismo, e sotto la
protezione del famoso cardinale Wolsey, del vescovo di Rochester, di
altri prelati, irremovibili cattolici.
In quell'_Elogio_ pajono oggi triviali, a forza d'essere ripetuti, ma
allora sonavano arguti e nuovi i motti contro il traffico delle
indulgenze, le espiazioni per l'anime purganti, l'efficacia di certe
formole, il culto di certi santi, ove si trasformò Polifemo in
Cristoforo, Ippolito o Ercole in Giorgio: burlava quelli che, se han
visto un san Cristoforo, credono che quel giorno non morranno di mala
morte; che torneranno salvi dalla guerra se recitino certe preci
all'effigie di santa Barbara; che accendono candelette a sant'Erasmo per
far guadagni. Così berteggia le insulse quistioni de' teologi, le
sottili loro distinzioni, le dispute di parole, l'intolleranza d'ogni
dissenso, quasichè nè il battesimo, nè l'evangelo, nè Pietro e Paolo, o
Girolamo e Agostino, nè l'aristotelicissimo Tommaso renda cristiano,
bensì l'assenso di costoro, i quali altrimenti sentenziano una
proposizione di scandalosa, o poco riverenziale, o eretica. E per tali
sofisterie si disistimano; han professata l'apostolica carità, e si
odiano pel differente colore della tonaca, o il differente modo di
cingerla. E qui sul vario vestire e sull'interminabile nomenclatura
degli Ordini, sulle salmodie, sui digiuni, sul sudiciume, sulla
moltiplicità delle regole, e il predicare a sottigliezze o a sillogismi,
e con mescolanze strane, egli s'abbandona a celie tanto facili quanto
insulse. Meglio attacca quelli che, sulla fiducia delle indulgenze,
addormentano la coscienza, e quasi con l'oriuolo misurano la durata del
purgatorio, calcolandone a minuto i secoli, gli anni, i giorni. Non v'è
mercante, o soldato, o giudice che, rubati migliaja di scudi,
coll'offrirne uno non creda tergere «ogni labe dell'alma ed ogni ruga».
Rincalza questo bersagliare ne' _Colloquj_. Dall'Eco fa dichiarare i
monaci sciocchi (_monachos_-αχος), che cercano il sacerdozio per l'ozio;
beffa i Domenicani di intitolarsi cherubici e i Francescani serafici, e
contro questi si scaglia irreposatamente. Nelle _Esequie Francescane_
favoleggia la loro storia, con poca riverenza al fondatore dell'Ordine e
alle sue stimmate, e alla liberazione di tante anime dal purgatorio nel
suo giorno, e veemente inveisce contro l'avarizia e ricchezza di que'
suoi, i più mendichi fra' mendicanti. E quando uno degli interlocutori
domanda all'altro se non s'accôrse che taluni ridessero a quelle scene,
risponde, s'accôrse, ma supponeva fossero «di quegli eretici, di cui
oggi formicola il mondo»[329]. Nel _Pellegrinaggio_ volta in canzone le
visite ai santuarj non solo, ma il culto de' santi e di Maria. Nei
_Funerali_ atteggia le esequie di un soldato, arricchito con mezzi
illeciti, che in punto di morte chiama i cinque Ordini mendicanti e il
curato, i quali s'abbaruffano finchè rimangano soli due Ordini, dai
quali il morto viene sepolto solennissimamente, dopo avere obbligato la
moglie e i figliuoli a fare i voti, e dividere l'immenso retaggio tra
Francescani e Domenicani. Nell'_Ictiofagia_ un penitente non vuole
gustare carne nè ova, sebbene gliene prescriva il medico, e intanto non
si fa scrupolo di eludere un creditore con falso giuramento.
Nell'_Inquisizione_ giunge fino ad asserire che pel cristiano basta il
credere al simbolo apostolico, al quale molti non credono a Roma; e a
chi abbia questa fede, la scomunica non reca pregiudizio, quand'anche
mangiasse diverse carni al venerdì. Nel _Naufragio_, mentre sulla nave
tempestata tutti urlano di terrore, e si votano a quanti han santi le
litanie, un solo non prega che Dio, non attende salute che da Dio. E
negli _Adagia_ e nel _Ciceroniano_ e nella _Bibbia_ greca non v'è male
che non dica contro i monaci, come rappresentanti l'ignoranza, la
ghiottornia, il libertinaggio; ed empì la letteratura e il mondo di
aneddoti bizzarri contro queste degenerate società, i quali accolti
senza disamina, ne crebbero lo scredito, e li posero senz'armi e senza
fiducia di fronte ai prossimi attacchi.
Gœtz di Berlichingen, nel quale Göthe personeggiò il medioevo cadente,
con cuor d'acciaio e mano di ferro difende contro il diritto nuovo la
feudalità, combattuta dall'esercito imperiale e dall'insurrezione de'
villani, e si crede ancor potente a fiaccarlo. Ma come vede in man di
suo figlio un libro, questo prodotto della neonata stampa lo getta nella
disperazione, sentendo perito l'antico mondo da che un figliuolo di
barone preferisce alla spada il libro, forza nuova che tutto invaderà. E
questa forza, benedetta e cullata dai papi, or si voltava contro di loro
efficacissima. Perocchè, se scherzi di petulanza eguale a quella
d'Erasmo erano stati usati dai nostri novellieri e satirici, i costoro
libri sfogliavansi da pochi, mentre adesso vi veniva ausiliaria la
stampa, e dei _Colloquj_ si diffusero ventiquattromila esemplari,
milleottocento dell'_Elogio della Pazzia_ la prima volta; poi ben
trentuna edizione e i graziosi intagli dell'Holbein lo resero popolare.
Per conseguenza in Erasmo personificavasi il nemico de' frati, e a lui
si dirizzavano quanti aneddoti e fatti comparissero in proposito, come
testè faceasi al Gioberti di quelli contro Gesuiti. Il giureconsulto
milanese Andrea Alciato, che, essendo professore a Bourges, aveva avuto
scolaro Calvino, e che, al leggere la _Diatriba_ di Lutero contro la
Sorbona smascellavasi dalle risa, asserendo che nulla di più arguto
erasi inteso da Aristofane in poi, al Mallio, che mostrava intenzione di
farsi francescano, diresse una lettera ove snudava gli abusi della vita
monastica, con libertà non minore di Erasmo. Francesco Calvi di
Menaggio, che col nome di _Minicius_ vendeva libri a Pavia, e che anfanò
per diffondervi quelli di Lutero, spedì subito quella lettera ad Erasmo,
e pensava farla pubblicare dal Frobenio di Basilea, editore delle opere
eretiche. Del che fra corrucciato e scherzoso, l'Alciato gli scriveva:
«Ah tristo di Calvi! ah capital nemico mio se ciò farai! Che mi varranno
le veglie e i tanti studj? Se tu mi propini questo veleno, vorrei
piuttosto esser morto. Lutero, i Piccardi, gli Ussiti e gli altri nomi
d'eretici non saranno così infami come il mio, se tanto avvenga. Non
sai, o fingi non sapere la potenza di questi cucullati, l'arabbattarsi,
il declamar dal pulpito, l'esecrazione fra il popolo, le detestazioni e
gl'infiniti guaj che (gli Dei me ne scampino) ricadran sul mio capo?
Intenterò processo d'ingiuria, prima a te come corifeo, poi ad Erasmo,
poi al Frobenio; invocherò uomini e Dei; moverò ogni pietra per
iscagionar me, e imputare voi soli»[330].
Erasmo feriva anche i vescovi, che, dimentichi del nome, affidano il
gregge di Cristo a frati; e i papi, che «tanto avrebbero a operare se
pensassero ad esser vicarj di Cristo, cioè emularne la povertà, gli
stenti, la dottrina, la croce, lo sprezzo della vita; invece non si dà
viver più soave e men cruccioso del loro: e credono aver soddisfatto a
Cristo quando, in mezzo a scenico apparato e cerimonie fastosissime, coi
titoli di beatitudine, di riverenza, di santità, trinciano benedizioni o
scagliano anatemi. Padri santissimi, a nessuno mostransi tanto rigorosi
come a chi intacca il patrimonio di san Pietro: con tal nome chiamano i
campi, le borgate, i dazj, le giurisdizioni, e per esse guerreggiano,
spargono il sangue; e mentre la Chiesa fu fondata, confermata, cresciuta
col sangue, or la sostengono col ferro».
Ci fu chi rispose ad Erasmo: la Sorbona lo imputò d'eretico per molte
proposizioni, ed egli se ne difese con un'_Apologia_ ai teologi di
Lovanio, dicendo che lo scopo de' _Colloquj_ era di porgere le formole
colle quali dir latinamente che che si fosse; ed essendo dialoghi,
bisognava serbasse il costume della persona introdotta. Venendo poi ai
particolari, cerca scagionarsi di proposizioni, in verità più che
ardite; per esempio, che la confessione sia un trovato de' caporioni
della Chiesa; che sia indifferente il mangiar qualsiasi cibo; e del
celiare sulle indulgenze, e più sui voti, e deridere l'intercessione di
Maria e de' santi. Aveva anche a contrapporvi altri passi, ove lodava
tutto ciò: riflette che il criticare gli abusi equivale ad approvar
l'uso: dice d'aver ammonito contro le false vocazioni, non contro
l'entrar monaca[331]; nella _Pietà puerile_ insegnato a ben udire la
messa, ben confessarsi; aver esortato a conservare le usanze de'
maggiori, quand'anche men lodevoli, e fin tollerare la tirannide,
piuttosto che avventarsi nelle rivoluzioni[332]. Non tace che certi
punti non erano ancora stati chiaramente definiti dalla bolla di Leon X,
e molti si discuteano liberamente prima dell'editto di Carlo V.
Nell'edizione del Nuovo Testamento diede esempio di sagace critica, di
grand'accuratezza nel confronto de' manuscritti; tanto più che la famosa
Bibbia Complutense era ancora in lavoro. Certo restò lontano dalla
critica odierna, dal culto letterale delle Scritture e dall'esegesi
audace che discute l'autenticità dei testi sacri, ma osava impugnare
l'impeccabilità della vulgata, sicchè sgomentò molti timorati, e trovò
gran contraddittori. Poi nelle note e nelle parafrasi cercò il senso e
lo spirito del libro santo, e desiderava fosse diffuso. «Il sole
illumina tutto il mondo. Perchè non altrettanto dee fare la dottrina di
Cristo? Io non la penso come quelli che non vorrebbero che la sacra
scrittura in vulgare si leggesse da' privati; quasi gl'insegnamenti di
Cristo fossero tanto astrusi da rimanerne solo capaci pochi teologi; o
quasi la sicurezza delle scritture dipendesse dall'ignorarle gli uomini.
Celino i re al popolo i misteri de' lor gabinetti; ma Cristo volle che i
suoi misteri ricevessero la maggior pubblicità. Vorrei vedere anche le
femminelle leggere l'evangelo e l'epistole di san Paolo, e che la
Scrittura venisse tradotta in tutte le lingue, e corresse nelle mani non
solo di Scozzesi e Irlandesi, ma fin di Turchi e Saracini»[333].
Ebbene, tutto ciò nol toglieva dalla grazia dei papi. Il cardinale De'
Medici l'avea sempre difeso quando i prelati sentivano punti e sè e la
religione: e mostrava lettere dove lodava la scienza e la virtù di
ciascuno. E quando divenne papa, Erasmo scriveva, da lui sperare
restituiti i tre precipui beni dell'umanità: la pietà cristiana, le
ottime lettere, la concordia del mondo cristiano, fonte e generatrice
della pietà e dell'erudizione[334]. Che se Leon X non gli attenne tutto
quello che aveagli fatto intravedere da cardinale, raccomandollo a
Enrico VIII, scrivendo che l'amore innato delle lettere eragli cresciuto
cogli anni, perchè osservò che quei che le coltivano sono attaccati di
cuore ai dogmi della fede, e ch'esse formano l'ornamento e la gloria
della Chiesa cristiana (10 luglio 1515). Di più fece coll'accettarne la
dedica della tradizione del Nuovo Testamento[335], col che lo pose a
schermo dalle accuse d'eterodossia, appostegli da Stunica, da
Hoogstraten, da Lee, da Carenza, da Egmont, da altri. Adriano VI gli
offrì un decanato: Clemente VII gli fece altre esibizioni e il dono di
ducento fiorini: Paolo III pensò elevarlo cardinale[336]; e ben lo
meritava egli se si badasse non al suo pensare e scrivere, bensì
all'esser egli promotore benemerito del gusto classico e degli studj
umanistici, benchè al severo gusto de' nostri il suo latino paresse di
lega men pura[337].
Il pio e dotto vescovo Sadoleto fin dal 1524 gli scriveva ringraziandolo
di avere scritto lettere piene di pietà e d'osservanza verso un papa
veramente sommo ed ottimo, la cui liberalità verso di lui sarebbe ancor
più grande se non si trovasse alle strette di tempi difficilissimi e fra
ingenti spese, ma cercherà luogo d'onorarlo e ingrandirlo. Si congratula
de' libri suoi, pei quali vivrà presso i posteri. E poichè scriveva che
lui già sul declino (_jam deficientem_) Dio solo potea beare, ravvisava
in ciò la pietà sua, ma non potea credere in calo l'uomo, di cui i
secoli celebrerebbero la memoria; frutto che non è da sprezzare, sebben
inferiore ai premj celesti[338]. Più tardi, lodandolo, l'esortava a
cessar dalle contese, e ommettere le cose che, sebbene non aliene dalla
vera pietà, contraddicono però alle inveterate opinioni popolari.
Entrambi piuttosto (soggiungeva) per quanto valiamo, ajutiam virilmente
l'afflitta fede cristiana. E altrove torna pregarlo a desistere dalle
contumelie, ed ammonire con affetto paterno, nè opporsi a certi popolari
culti d'immagini e di santi, che vengono da pietà, benchè sia meglio
fissar il pensiero in Cristo solo. E gli ricorda d'aver un tempo animato
il papa a concedergli un insigne sacerdozio in Germania, e questi
l'avrebbe fatto se non l'avessero distolto calunnie: e d'aver dissuaso
lo Stunica dallo scriver contro di esso[339].
Fatto è che ogni scritto di Erasmo era un avvenimento; e gli procacciava
come grandi amici, così grandi avversarj; ed egli ingrazianivasi prelati
e principi colle cortigianerie, e col metter sempre una frase che
medicasse la audace o pungente. Era re dell'ironia[340], ma per usarla
contro un privato si richiede o il coraggio del virtuoso, o la codardia
del calunniatore. Al carattere di Erasmo si affà meglio la satira
generale, a cui nessuno può contraddire, e da cui nessuno in particolare
rimarrà ferito; e dove non si potrà snudare la menzogna, perchè è
generica l'accusa. Taccerà d'ignoranza i frati di Germania, stando in
Inghilterra; di scostumatezza i frati d'Italia, dopo che d'Italia uscì;
questi ingiurierà in generale, ma lodando ciascuno in particolare; dirà
male de' papi, ma benissimo di Leon X e d'Adriano VI. Quando levò rumore
il _Dialogo tra Giulio II e san Pietro alle porte del paradiso_, ove
quello è accusato di briacone, omicida, scellerato, simoniaco, venefico,
spergiuro, rapace, lascivo, Erasmo protestò non esserne l'autore[341]. A
ciò è condotto chi sagrifica la verità all'opinione.
In effetto, egli prende i sette peccati capitali, e gli affigge come
abituali e comuni a chiunque porta cocolla, e sbizzarrisce in
istorielle, motti, quolibetti, in quegli aneddoti che il ricco, il dotto
ed il patrizio vulgo accetta senza esame, ripete senza discrezione, e
che il tempo tramanda alla non meno futile posterità.
Così, intanto che a Roma erano in favore i retorici, quando di
tutt'altro era bisogno, i teologi in Germania erano messi in burla da
Erasmo[342]. Ne' cui scritti e negli atti appare quanta fosse
l'oscillazione degli spiriti prima del concilio di Trento, e quanta la
confidenza nella ragione individuale. Erasmo poi professava non esser
disposto a morire martire della verità; e che, indotto in tentazione,
crede avrebbe imitato san Pietro. E in realtà egli non va catalogato fra
gli eresiarchi, come volle taluno; bensì fra que' malcontenti, che non
si prefiggono di distruggere, ma scalzano, danno impaccio al sistema
prevalente, senza averne uno da francamente sostituire. Abborrendo dalla
lotta, pareagli che anche il trionfo della verità saria compro troppo
caro col sangue; confida sempre ne' progressi della civiltà, e come
tanti altri, opina che la rivoluzione possa compiersi sulla carta o nel
gabinetto, senza che se ne intrometta il popolo; — il popolo, che invece
n'è il solo attore effettivo.

NOTE
[310]
Tu l'as vu ce ciel enchanté
Qui montre avec tant de clarté
Le grand mystère,
Si pur qu'un soupir monte à Dieu
Plus librement qu'en aucun lieu
Qui soit sur terre.
ALFRED DE MUSSET.
[311] Il cardinale De Luca (_De locis montium_), Giovanni Marchetti
(_Del denaro straniero che viene a Roma e se ne va per cause
ecclesiastiche; calcolo ragionato_. Roma 1800) asseriscono che, pei
bisogni della sola Germania, da Paolo III a Paolo V, il tesoro
pontifizio spese 16 milioni di scudi; dovendo per ciò non solo erogare
quanto ne riceveva, ma creare i debiti, noti col nome di _Luoghi di
monte_.
[312] _Teotimus, de tollendis malis libris_, 1549.
[313] Rabelais francese, che non so bene se si facesse buffone per
abbattere, od abbattesse per far il buffone sapendo che in Francia si
ride sempre del partito vinto, sparnazzò celie col vaglio, adorava la
_divina bottiglia_, e domandava di legger in cattedra sopra la
ubbriachezza lucida. Passato a Roma, facea rider di sè il papa e i
cardinali, mentre raccoglieva onde rider di loro nel suo _Pantagruele_,
libro stranamente audace, dove non la perdona tampoco a Cristo. Eppure
morì curato, fra il clero a cui tanto avea nociuto.
[314]
_Julius est Romæ; quis abest? date, numina, Brutum:_
_Nam quoties Romæ est Julius, illa perit._
Vedi _Klag und Vermahnung gegen die übermässige, unchricstliche Gewalt
des Pabst in Rom_.
[315] _Das weltiche Regiment gehört dem Kaiser zu, das geistlich
Christo, seinen Apostolen, und allen evangelischen Predigern, welche
predigern Christi Lehren_. HUTTENI _Conquæstiones ad Carolum imperatorem
et principes Germaniæ_.
[316]
_Manch Advocat und Auditor_
_Notarius, Procurator,_
_Die Bullen geben, sprechen Recht_
_Dero jeder hat sein G'sind und Knecht_
_Und nehmen täglich ein_
_Von Teutschen unser Schweiss und Blut;_
_Ist das leiden, und ists gut?_
[317] _Lapides noctu migrant, nihil hic fingo. Principes romani imperii,
imo orbis totius cuncti sollicitantur pro æde Petri, in qua duo tantum
opifices operantur, et alter claudus_.
[318] _Dirumpamus vincula eorum, et projiciamus a nobis jugum ipsorum_.
[319] Reuclin aveva studiato il greco a Firenze e a Milano sotto il
Calcondila.
[320] Com'è stile de' polemici, qui Erasmo prende per tipo qualche
esagerato. Il famoso ed elegante teologo Paolo Cortese da Modena, avendo
detto in una lettera al Poliziano che bisogna seguire per esemplare
Cicerone; il Poliziano, con gran forme di stima lo confuta; e quegli
risponde non aver voluto dire altro se non che devesi imitare il modello
più perfetto, non già contraffarlo. _Quæ stultitia esset, cum tam varia
sint hominum ingenia, tam multiplices naturæ, tam diversæ inter se
voluntates, eas velle unius ingenii angustiis astringi et tamquam
præfiniri?_ Ep. POLITIANI, L. VIII, 16, 17.
[321] Probabilmente era Tommaso Fedro Inghirami, custode della
biblioteca Vaticana, _dictus sui sæculi Cicero_; nel quale riconosceva
_mira in dicendo tum copia tum auctoritas_ (Ep. 4, lib. XXIII), e che
tanti manuscritti avea disepolti dalla libreria di Bobbio.
[322] _Utinam prodisset ingens illud opus adversum Averroem, impium_ καὶ
τρὶς κατάρατον. Epistola del 15 novembre 1519.
[323] Ep. Latimerio.
[324] _Ego Romæ his auribus audivi quosdam, abominandis blasphemis
debaccantes in Christum et in illius apostolos; idque multis mecum
audientibus, et quidem impune. Ibidem multos novi, qui commemorabant se
dicta horrenda audisse a quibusdam sacerdotibus aulæ pontificiæ
ministris, idque in ipsa missa, tam clare, ut ea vox ad multorum aures
pervenerit_. Ep. XX, lib. 35.
[325] «Rimanga a Giulio la gloria della guerra; abbiasi egli le sue
vittorie, abbiasi i magnifici trionfi, che io non dirò quanto s'addicano
a pontefice. Ben dirò che la gloria di lui, qual ella si fosse, andò
unita all'eccidio e al dolore di moltissimi; gloria più vera partorirà a
Leone la pace restituita al mondo, che non a Giulio tante guerre,
dappertutto suscitate gagliardamente o felicemente condotte». _Dulce
bellum inexpertis_. Esagerazione di biasimo e di lode, per deficenza nel
sentimento della verità.
[326] Suo padre, ammiraglio veneto, essendo mal riuscito nella guerra
contro i Turchi, fu accusato e messo in carcere a Venezia. Il figlio
cardinale ve l'accompagnò, sorreggendone la persona e le catene, e
supplicava i senatori a ricever lui in prigione in sua vece, almeno
permettergli di starvi con esso. Non l'ottenne: il padre per allora ebbe
l'esiglio, e poi anni dopo, rimesso in onore, fu doge. Il cardinale avea
tradotto varie omelie di san Giovanni Grisostomo.
[327] Epistol., pag. 357.
[328] Ep. 5, lib. X. Un altro famoso erudito visitò allora l'Italia,
Guglielmo Budeo di Parigi, mandato da Francesco I al papa. Egli stesso
racconta: «Due volte fui a Roma, e le insigni città d'Italia e i dotti
uomini di colà vidi di passaggio più che non gli udissi; e i professori
delle migliori lettere salutai quasi dal limitare, cioè per quanto fu
possibile ad uomo che scorreva l'Italia in fretta, e non per libera
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