Gli eretici d'Italia, vol. I - 26

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ghibellina, per lo più tenendo bandiera guelfa gli Orsini, i Savelli e
il popolo; ghibellina i Colonna, i Conti, i prefetti di Vico. Ora
convennero tutti in Campidoglio, e giurarono concordia, stabilendo che
«in perpetua e memorosa dannazione et infamia, sia licito le immagini
de' contravenienti dipingere sottosopra al modo de' perfidi e crudeli
traditori, in faccia del Campidoglio et in altri luoghi pubblici dal
popolo frequentati, in perpetua commemorazione e testificazione di loro
scellerata vita»[287]. Battagliero come un prelato del Mille, e padre
de' suoi soldati, violento di natura, non dissimula le passioni, pure
non se ne lascia conturbare; ardito ai progetti, cauto nello scegliere i
mezzi, paziente nelle traversie, intrepido nei pericoli, ricevuto il
paese in pieno scompiglio, Giulio rimise al freno i baroni; compresse la
plebe; eroe se l'armadura e la fierezza non disconvenissero al
successore del pacifico pescatore di Galilea. Luigi XII scende a
vendicare Carlo VIII, e Giulio riesce a respingere i Francesi, e difende
anche una volta l'indipendenza italiana. Dicea voler «riunire la comune
patria sotto un solo padrone, e questi debbe essere perpetuamente il
pontefice romano. Ma mi affanna il pensiero che non potrò arrivarvi per
i gravi anni che mi ritrovo; e mi strazia l'idea di non poter compiere
tanto per la gloria d'Italia, quanto ne sente il mio cuore»[288].
Ma quando il vediamo obbligato ad accampare egli stesso sotto al tiro
del cannone, comprendiamo di versare in un'età troppo differente da
quando una parola di Gregorio VII bastava a trarre i re umiliati, dal
cuore della Sassonia, a baciare scalzi il suo piede nel castello di
Canossa. E di Giulio non è male che non dicano il Guicciardini, il
Budeo, Erasmo, Hutten[289] e la turma seguace. Ma chi al pari di lui
suntuoso nello spendere? Abbellisce la chiesa de' Santi Apostoli;
fabbrica un palazzo presso San Pietro in Vincoli; ingrandisce il Museo,
collocandovi capolavori e una stamperia; fa la via Giulia e la via de'
Banchi colla fontana iscritta «Italia liberata», e colà la zecca ove si
battono i giulj. Dell'antica ricchezza di fontane a Roma non restando
che l'Acqua Vergine, egli ne conduce un'altra al giardino del Vaticano,
e su quel colle mette le fondamenta della più vasta chiesa del mondo,
abbattendo l'antica basilica piena di sacre memorie[290] per eriger la
nuova con inarrivabile magnificenza. Michelangelo presume a centomila
scudi il valore della sua tomba, «Te ne darò dugentomila» dic'egli, e la
vuole la più insigne opera del mondo; rifabbrica e munisce Civitavecchia
ed Ostia, il castello ornandone con nobili pitture, come l'altro di
Grottaferrata. Insomma, Carlo Fea potè sostenere che da lui più che da
Leone X dovesse intitolarsi quel secolo.
Quanto all'ecclesiastico, non fece cardinali di case ricche, e pubblicò
una famosa costituzione contro le elezioni simoniache. Nel conclave
anch'egli avea preso impegno d'unire un concilio fra due anni, ma poichè
altre occupazioni il distraevano, i cardinali Borgia, Carvajal e
Briçonnet, stuzzicarono il re di Francia a raccoglierlo. Strano scambio
di parti si offerse allora: il capo della Chiesa combattere colle armi
mondane; il re di Francia torcer contro di lui le armi spirituali.
Convocati a Orleans poi a Tours (1510) i prelati del suo regno, Luigi
XII posò loro delle domande, a cui risposero che il papa non avea
diritto di fare guerra a principi stranieri; che questi, per riparare
un'ingiusta aggressione, poteano anche invadere per qualche tempo le
terre della Chiesa, e ricusare obbedienza al papa nemico, per difendere
i loro diritti temporali; che negli affari ecclesiastici bastava
attenersi al vecchio gius canonico, e non fare caso delle censure
pontifizie (settembre 1511).
Accordatisi anche con Massimiliano, imperatore eletto di Germania, i
cardinali indissero un concilio a Pisa, come necessario a reprimere
questo papa sfrenato, contro le cui censure protestavano
anticipatamente. Si pensi in quali furie ne montò Giulio II! e manifestò
al mondo che solo le contingenze politiche aveanlo impedito dal
convocare il sinodo, ma l'aprirebbe a Roma il 1 aprile 1512. I prelati
di Francia s'accorgeano d'essere meri stromenti alla politica ed
animosità del re; pure, sempre ligi al potere, il secondavano, ma
trovaronsi quasi soli allorchè a Pisa fu aperto il concilio ai 5
novembre, protestando non separarsi finchè non fosse compiuta la riforma
della Chiesa nel capo e nelle membra, e ristabilita la pace in Europa.
Intanto, calcando le orme del concilio di Basilea, cercavasi
ripristinare nella Chiesa il governo aristocratico, e si confermava il
decreto di Costanza che riconosceva superiore il concilio al papa.
Così, pur professando riverenza al pontefice, minacciavano di rinnovare
il grande scisma. Ma scarso assenso trovavano. De' prelati di Germania
nessuno venne, malgrado le istanze di Massimiliano, il quale mandava
circolari querelando che dalla nazione germanica ogni anno si
smungessero ingenti grosse somme per alimentare il lusso della Corte di
Roma, e che il concilio avrebbe, come il potere, così la volontà di
porvi rimedio. I più consideravano il sinodo come un conciliabolo; il
popolo pisano accoglieva a fischi i prelati; i Fiorentini mal soffrivano
di tenersi in paese quel seme di zizzania, onde si dovette trasferirlo a
Milano. Qui pure l'opinione popolare lo avversava; se que' prelati
entrassero in una chiesa, sospendeansi i sacri riti; ed essendo in quel
tempo, alla battaglia di Ravenna, caduto prigioniero de' Francesi il
cardinale De' Medici, che poi fu papa Leone X, gli uffiziali
affollavansi a implorare gli assolvesse d'avere guerreggiato il papa, e
lasciasse dare sepoltura ecclesiastica ai loro camerata, cascati
combattendo.
Fra ciò le sorti della guerra mutavansi; l'esercito pontifizio,
sostenuto dagli Svizzeri, snidava i Francesi dalla Romagna e gli
assaliva in Lombardia, sicchè i prelati migrarono da Milano ad Asti, poi
a Lione, e sebbene continuassero a intitolarsi concilio ecumenico, altro
non fecero che domandare sussidj al clero francese.
Giulio II non solo avea rejetto ogni accordo col conciliabolo, ma depose
e scomunicò i cardinali disobbedienti, e pose all'interdetto tutta la
Francia, e particolarmente Lione. Poi al 10 maggio aperse il concilio in
Laterano, ove convennero dapprincipio quindici cardinali e settantanove
vescovi, cresciuti poi a cenventi, quasi tutti italiani. Le cinque
sessioni tenutesi da vivo Giulio II, limitaronsi a riprovare il
conciliabolo.
Leone X, appena succeduto papa, fece allestire appartamenti in Laterano
volendo egli stesso assistere alle discussioni del concilio, e quando,
al 6 aprile 1513, aperse quivi la sesta sessione, esortò sovratutto a
rimettere pace fra i principi cristiani, e promise non chiuderlo finchè
l'opera non fosse compiuta. Anche Luigi XII, che per astio contro Giulio
II aveva accolto gli errabondi padri del conciliabolo di Pisa, ora
«vinto dall'importunità di sua moglie e dalle rimostranze de' sudditi
ch'essa suscitava d'ogni lato», cessò di favorirli, e aderì al sinodo
lateranense, al quale i capi dello scisma vennero a chiedere perdono e
l'ottennero.
Come in ogni concilio, così in questo, eravi una commissione per la
riforma, e si propose espresso di correggere molti abusi, e ricondurre
alla primitiva osservanza de' canoni[291]. Nell'apertura, frate Egidio
Canisio da Viterbo, famoso predicatore, esclamava: «Chi può vedere senza
lacrime la corruttela e i disordini del secolo malvagio nel quale
viviamo, il mostruoso sregolamento che regna ne' costumi, l'ambizione,
l'impudicizia, il libertinaggio, l'empietà trionfare nel luogo santo, da
cui questi vizj dovrebbero essere sbanditi per sempre?»
Nella nona sessione, Antonio Pucci magnificava l'eccellenza della
Chiesa, perchè maggiore apparisse il dovere di ridurla alla pristina
purezza; e tutti, ma egli maggiormente deplorare che a ciò si
opponessero le nimicizie de' principi cristiani: i quali rigurgitanti di
denaro, di popolazione, d'armi, di vigore, di genio, non sapeano
adoprarli che a sovvertire il mondo con ostilità reciproche, invasioni,
correrie, saccheggi, incendj, uccisioni d'innumerevoli adoratori di
Cristo. «O cuori affamati dei re, non mai satolli delle innocenti
viscere de' popoli! o terra sitibonda, abbeverata da un rivo fumante di
cristiano sangue! o cieca rabbia dei demonj, non calmata dagli
innumerevoli micidj umani! Da vent'anni, cinquecentomila cristiani
furono sgozzati di spada e ancor n'avete fame? e ancor sitite sangue?»
Male ben peggiore dichiarava l'essersi provocata la collera di Dio con
tante colpe; nè potere sopirsi la guerra esterna finchè non fosse tolta
l'interiore de' vizj: «Vedete il secolo, vedete i chiostri, vedete il
santuario; quali enormi abusi a correggere! Dalla casa di Dio bisogna
cominciare, ma non fermarsi là»[292].
I decreti di quel concilio furono tanto prudenti quanto rigorosi. Non
elevare al sacerdozio se non persone d'età piena, di costumi esemplari,
e studiose. Il concilio, risoluto a una riforma universale e a smorbare
il campo del Signore e promuoverne la coltura, non dissimula che ogni
giorno riceve lamentanze contro le estorsioni degli offiziali della
curia romana, e perciò vuole si moderino le tasse, gli emolumenti, le
regalie, i proventi, rimettendosi alle antiche consuetudini e alla
istituzione primeva degli uffizj[293].
Domandato venissero tolti agli Ordini mendicanti i privilegi accumulati
nella bolla _Mare Magnum_, non si osò, ma fu imposto che neppure essi
potessero predicare se non esaminati prima dal loro superiore con tutta
coscienza, e trovati idonei per costumatezza, età, dottrina, probità,
prudenza ed esemplarità[294]. Non si predichino superstizioni o
rivelazioni; non si dipingano fatti immaginarj, ma l'evangelica verità e
la sacra scrittura giusta la interpretazione dei dottori, approvata
dalla Chiesa o dall'uso diuturno, senza aggiungere cosa contraria o
dissonante[295]. I maestri non insegnino solo i classici, ma anche i
precetti divini, gli articoli di fede, gli inni, i salmi e le vite dei
santi.
Furono condannati i filosofi, che dicono l'anima esser mortale e una
sola in tutti gli uomini, mentre Clemente V nel concilio di Vienna
proferì che «l'anima è veramente ed essenzialmente la forma del corpo
umano; che essa è immortale e molteplice secondo il numero de' corpi ne'
quali è infusa». Pertanto il pontefice esortava i professori a non
agitare vane quistioni sulla natura dell'anima, e dimostrarne
l'immortalità anche secondo i principj scientifici; più della filosofia
platonica, si studii la teologia; solo chi questa conosca entrerà nel
sacerdozio, ove poi si deve vivere sobrj, casti, pii, astenendosi non
solo dal male, ma dalle apparenze. La casa de' cardinali sarà un porto e
un ospizio a tutti gli uomini dotti e probi, a' nobili e onesti poveri:
semplice, frugale la loro tavola; non lusso nè avarizia; pochi servi e
vigilati, castigandone i disordini, ricompensandone la morigeratezza. I
sacerdoti in servizio non s'adoprino a ministeri abjetti. A quei che
vengono a sollecitare impieghi non badino, bensì a quei che chiedono
giustizia; sempre disposti a sostenere la causa del povero e
dell'orfano. Hanno parenti bisognosi? È giusto soccorrerli, ma non a
spese della Chiesa. I vescovi facciano eseguire gli ordini del concilio,
e almeno ogni tre anni tengano sinodi diocesani per decidere de' casi di
coscienza e delle controversie. Risiedano nella loro diocesi, o se ne
affidarono l'amministrazione a persone probe, la visitino almeno ogni
anno per riconoscerne i bisogni e sindacare i costumi del clero. Morendo
non dimentichino che la Chiesa da essi amministrata ha diritto alla loro
riconoscenza: e vogliano modesti funerali, giacchè il bene che lasciano
appartiene ai poveri[296].
Fra altri punti vi si trattò di uno, tanto nuovo quanto importante, la
stampa; la forza più potente e lo stromento più formidabile, dopo la
parola, che Dio ponesse a disposizione dell'uomo. I papi ne aveano
favorito la diffusione, come dicemmo, e Alessandro VI (_Inter
multiplices_) riconosceva «sommamente utile che quanto concerne le sane
cognizioni e la sana morale sia messo in luce mediante caratteri e
lettere che fissano la verità in modo da porla sotto gli occhi degli
uomini più lontani nel tempo e nello spazio». Ma presto e letterati e
principi si accorsero che, quanta edificazione, tanto pericolo potea
venirne alla fede, al costume, all'onoratezza. Pertanto il concilio
decretò: «La stampa, per favore divino perfezionatasi ai nostri giorni,
è opportunissima a esercitare gl'intelletti, e formare eruditi, de'
quali godiamo che abbondi la Chiesa. Pure udiamo lamentare che molti
imprimano opere, contenenti errori e dogmi perniciosi, e ingiurie a
persone anche elevate in dignità; di modo che i libri, invece di
edificare, guastano e la fede e i costumi. Affine dunque che un'arte
felicemente trovata a gloria di Dio, a incremento della fede ed a
propagazione delle scienze utili, non divenga pietra d'inciampo ai
fedeli, e volendo che essa prosperi tanto più, quanto più vigilanza vi
si apporterà, stabiliamo che nessuna opera si pubblichi se prima non sia
riveduta dal maestro del sacro palazzo o dai vescovi, che vi metteranno
la propria firma gratuitamente e senza indugio». Erano ripari che una
barbarie mascherata doveva poi spezzare, per lasciar le verità più
venerabili come i diritti più sacri in balìa alle codarde speculazioni
d'una ciurma vilissima, sicchè un pontefice dovesse esclamare: «Siam
compresi d'orrore nel vedere da quali mostruose dottrine, anzi da quali
portentosi errori ci troviamo inondati per quel diluvio di libri,
d'opuscoli, di ogni genere scritti, la cui deplorabile eruzione sparse
l'abominazione sulla faccia della terra» [297].
Intanto Leone X a Bologna (1515) con Francesco I conchiudeva un
concordato, che derogava molti privilegi che la Corte francese
pretendeva nelle elezioni de' prelati secondo la prammatica sanzione;
concordato che, come nuovo trionfo della Chiesa romana, subito venne
approvato dal concilio Lateranese.
Parve dunque avere questo ottenuto il suo intento, difatto lo scisma,
regolata l'obbedienza della Francia, promosse molte riforme, talchè si
sciolse il 16 marzo 1517. Ma il cardinale De Vio generale de' Domenicani
sentiva il turbine in aria, onde insisteva perchè i prelati non si
separassero.
Chi non potrà negare questi fatti ripeterà quella poltrona frase de'
nostri giorni, «Troppo tardi».

NOTE
[286] Perfino Voltaire, il calunniatore per eccellenza, rimprovera il
Guicciardini d'avere _ingannato_ l'Europa intorno alla morte di
Alessandro VI, e d'aver _troppo creduto all'odio suo_. Così nella
_Dissertazione sulla morte di Enrico IV_, dove alle, non asserzioni, ma
insinuazioni del Bembo, del Giovio, del Tommasi, del Guicciardini oppone
le ragioni del buon senso; l'aver il papa 87 anni, l'esser ricchissimo,
il convenirgli di tenersi amici i cardinali, anzichè inimicarseli con un
avvelenamento clamoroso: infine il non farne parola quel ciarlatano di
Burcardo.
[287] Ratti, _Della famiglia Sforza_, 283.
[288] Giornale di Paride Grassi, nº 48.
[289] Eccitarono la bile di Ulrico di Hutten le imprese di Giulio II.
_Hoc mens illa hominum, partim sortita Deorum,_
_Et pars ipsa Dei patitur se errore teneri?_
_Ut scelere iste latro pollutus Julius omni,_
_Cui velit occludat cælum, rursusque recludat_
_Cui velit, et possit momento quemque beatum_
_Efficere aut contra, quantum quiscumque bene egit,_
_Et vixit bene, si lubeat, detrudere possit_
_Ad stygias pœnas, et Averni Tartara ditis,_
_Et quod non habet ipse, aliis divendere cælum..._
_Et nunc ille vagus sparsit promissa per orbem_
_Qui cedem et furias, scelerataque castra sequantur_
_Se duce, ut his cælum pateat. Qua fraude, tot urbes_
_Et tot perdidit ille duces, tot millia morti_
_Tradidit, et pulsa induxit bella acria pace,_
_Tranquillumque diu discordibus induit armis_
_El scelere implevit mundum, fas omne nefasque_
_Miscuit. . . . . . . . . . . . . . . . . . . ._
_Naufraga direpti finxit matrimonia Petri_
_Vindice se bello asserere, atque ulciscier armis._
[290] N'ebbero dispiacere tutti i pii. _Qua in re adversos pene habuit
cunctorum ordinum homines, et præsertim cardinales, non quod novam non
cuperent basilicam magnificentissimam extrui, sed quia antiquam toto
terrarum orbe venerabilem, tot sanctorum sepulcris augustissimam, tot
celeberrimis in ea gestis insignem, funditus deleri ingemiscant_.
Panvinio ap. FEA, Nota intorno a Raffaello, 41.
[291] _Cupientes, quatenus nobis ex alto promittitur, ea jam nimium
invalentia mala corrigere, ac pleraque in pristinam sacrorum canonum
observantiam reducere_. Sessio X, bulla reformationis.
[292] LABBE, _Concil_., tom. XIV, 232.
[293] Sessione VII.
[294] Sessione XI.
[295] _Mandantes omnibus ut evangelicam veritatem et sanctam scripturam,
juxta declarationem, interpretationem et ampliationem doctorum, quos
ecclesia vel usus diuturnus approbavit, legendosque hactenus recepit, et
in posterum recipiet, prædicent, explanent: nec quidquam ejus proprio
sensui contrarium aut dissonum adjiciant, sed illis semper insistant quæ
ab ipsius sanctæ scripturæ verbis et præfatorum doctorum
interpretationibus, rite et sane intellectis, non discordant_.
[296] Vedasi tutta la Sessione IX.
[297] Enciclica _Mirari vis_ di Gregorio XVI. Queste precauzioni non
erano ignote all'antichità pagana. Valerio Massimo (Lib. VI, cap. 3)
dice che, avendo Archiloco pubblicato poemi che offendeano il pudore,
gli Spartani li fecer portar lontano dalla città, per impedire una
lettura più atta a corrompere i costumi che ad ornar gli intelletti.
Cicerone diceva di certi poeti: «Vedete quai mali cagionano?
Ammolliscono le anime; spengono ogni impulso alla virtù». Lo stesso
Ovidio dissuadeva dal leggere i libri osceni: _Eloquar invitus; teneros
ne tange poetas_. M. Ulpiano poi è detto che, quando in un legato
testamentario si trovino libri pericolosi, il giudice deve, sopra il
parere d'uom prudente e onesto, far disparire ciò che diverrebbe
sorgente di corruzione. Altri esempj sono a vedere in GRETSER, _De jure
et more prohibendi libros malos_. E vedasi pure F. A. ZACCARIA, _Storia
polemica della proibizione dei libri_. Roma 1797.


DISCORSO XIII.
LEONE X. MAGNIFICENZA PROFANA DEL PAPATO.

Al congresso che or dicemmo di Bologna tra Leon X e Francesco I, oltre i
consueti omaggi del baciare i piedi, tenere la staffa, condurre a
briglia il cavallo del papa, e fin sostenergli lo strascico, il re di
Francia stette inginocchiato per terra tutto il tempo della messa, nella
quale Leon X amministrò il sacrosanto pane ai francesi gentiluomini di
esso. E poichè di questi la folla era soverchia, un uffiziale esclamò:
«Santo Padre, giacchè non posso nè confessarmi al vostro orecchio, nè
comunicarmi dalle vostre mani, m'accuserò in pubblico d'avere combattuto
di tutta possa contro Giulio II». Il re soggiunse di trovarsi nel
medesimo caso, scusandosene perchè quel pontefice era il più avverso che
mai fosse stato alla loro nazione. Tutti i Francesi gridaronsi colpevoli
di altrettanto, e il papa gli assolse tutti.
Quel re cavalleresco, per cui combattevano i cavallereschi Gastone di
Foix e Bajardo senza paura e senza rimproveri, avea rese al papa Modena
volontariamente, Parma e Piacenza per forza; di modo che il dominio
temporale comprendeva le legazioni di Perugia (Umbria), Romagna,
Bologna, Spoleto colla marca d'Ancona, e il ducato di Benevento chiuso
nel napoletano; insomma le più belle contrade d'Italia dal Po a
Terracina; contrade pingui, benchè alcune infette dalla malaria;
schermite da attacchi stranieri, arricchite per la produzione dei
terreni, delle miniere, dell'allume; pel traffico, principalmente ad
Ancona; per l'aurea affluenza di forestieri. Il papa traeva da' suoi
Stati non più di diciottomila scudi d'oro, eppure potea levarvi
cinquemila pedoni e quattromila cavalli, oltre quelli dovutigli dai
vassalli, e dodici galee: e l'autorità, ormai organizzata col reprimere
i feudatarj e i tirannelli delle varie città, non sentivasi nè
impacciata, nè invisa, perchè lasciava la libera attività ai Comuni.
È ben vero che Alessandro VI, volendo sottomettere i tirannelli della
Romagna, avea di ciascun di costoro fatto un nemico, che nel principe
della Romagna bestemmiava il capo della Chiesa: poi Giulio II colle
superbe pretensioni aveva eccitato e serj e beffardi contrasti: ma
impacciavano poco più che le opposizioni de' moderni nostri parlamenti.
Inoltre il papa possedeva il Contado Venesino in Provenza e la città di
Avignone; i re di Napoli e Sicilia faceangli omaggio della loro corona,
ch'egli impediva fosse unita all'impero per non mettere a repentaglio
l'indipendenza italiana. Chi potrà poi calcolare il denaro che a Roma
proveniva da tutto il mondo per dispense, spogli, riserve, aspettative,
annate di benefizj[298], spedizioni di bolle e investiture, elezione di
quasi tutti i prelati?
E qual Roma fosse quando stava al vertice della società cristiana colle
sue memorie e le sue grandezze; e quasi la seconda patria di tutti, il
punto di partenza della storia d'ogni paese, si argomenti dal veder
come, anche adesso che rimase indietro dalla civiltà convenzionale
d'altre contrade, mostri originalità di costumanze e di caratteri,
alterezza nel popolo, dignità fin nel depravamento, e insieme devozione,
amor di famiglia, ingenuità; un complesso inesplicabile, per cui un
esercito vincitore o la rivoluzione demolitrice s'arrestano davanti alle
eterne sue mura. Che doveva essere allora, quando vigeano le idee del
medioevo? Sapeasi che da Roma erano partiti i missionarj per conquistare
al cristianesimo e alla civiltà tutta Europa e il nuovo mondo; di là i
decreti che fransero la schiavitù; di là elemosine per ogni bisogno,
rese possibili dal colarvi rendite d'ogni paese.
L'anno santo del 1500 fu celebrato con una pompa, che mai la maggiore;
il papa di propria mano smurò la porta santa, dopo che per tre giorni
erano sonate a festa tutte le campane: di Francia, di Germania, di
Boemia innumerevoli vennero a domandare l'assoluzione dalle censure
incorse per avere adottato le eresie degli Ussiti ed altre; per bastare
ai devoti che accorreano alla basilica Vaticana dovette aprirsi la via
che ancor si chiama Borgonuovo; e il continuato concorso indusse ad
allungare il tempo delle indulgenze. Derivano da quella occasione le
maggiori solennità che tutt'ora accompagnano quel rito, e la
consuetudine di concederlo l'anno seguente a tutto l'orbe cattolico.
Scoprivansi intanto un nuovo varco all'estremo Oriente e l'America e le
isole Oceanine; e il primo oro che se ne trasse veniva, quasi primizia
della divinità, mandato a Roma che l'adoprava a indorare la soffitta
della basilica Liberiana: col secondo viaggio di Cristoforo Colombo
spedivasi una colonia di Benedettini, che annunziassero la fede ai
popoli nuovi; ben presto Alessandro Giraldini d'Amelia era inviato primo
vescovo a San Domingo, e alle popolazioni scoperte facevasi
un'intimazione ove, dichiarata la fratellanza delle genti come uscite da
un solo ceppo, esponevasi che Dio aveva costituito san Pietro qual capo
della stirpe umana, «sottoposto l'intero mondo alla giurisdizione di
lui, ordinatogli di piantare sua sede a Roma, e datogli podestà di
estendere l'autorità sua su tutte le altre parti del mondo, e governare
e giudicare tutti i Cristiani, Ebrei, Mori, Gentili e di qualunque fede;
ed è chiamato papa, che vuol dire gran padre, tutore, ammirabile, il che
durerà per tutti i secoli de' secoli».
E perchè tra le due nazioni scopritrici potea nascere conflitto sul dove
cominciassero i dominj dell'una e finissero quelli dell'altra ne' paesi
trovati, fu deferita la gran quistione al papa, ed egli di propria mano
sulla mappa tracciò una linea meridiana, assegnando alla Spagna i dominj
a ponente, e al Portogallo quelli a levante di essa[299]. Sublime
immagine, il pontefice che divide il mondo per impedire la guerra, o
che, dietro agli audaci scopritori, agli avidi trafficanti, ai
sanguinarj conquistatori invia una milizia inerme che missiona,
converte, battezza, incivilisce. E al tempo di Leon X venivano a Roma
poveri Domenicani per denunziare al padre de' fedeli i barbari
trattamenti che i conquistatori faceano soffrire agli Indiani,
reclamando per questi i diritti di fratelli di Cristo.
Rinnovatrice del sacro romano impero, che, nella comune soggezione alla
legge divina, dovea combinare le due potestà; antemurale all'invasione
dell'Islam; cultrice della morale eterna, la santa sede avea potuto
salvare dalle regie libidini l'inviolabilità del matrimonio e la dignità
della famiglia; consolidare la sacerdotale disciplina, sdruscita dal
contatto e dalla mistura coi signorili interessi, derivante dalla
feudalità: ma dal costituire sovra base solida e riconosciuta le
relazioni fra Stato e Stato, e fra lo Stato e la Chiesa fu impedita
dalla gerarchia feudale, dalle comunali oligarchie, dalle consuetudini
nordiche dominanti. Restava dunque nell'attuazione esterna difettivo
quel cristianesimo applicato, onnipossente nella vita, profondamente
umano, fautore dell'arte, affettuosamente comunicabile, amico della
povertà, dell'obbedienza, della fedeltà, che nel mondo riconosce il
governo della providenza, ispira agli uomini fiducia degli uni negli
altri e in Dio, credendo che il cibo mortale possa convertirsi in pane e
vino d'eterna vita.
La Chiesa non soffogava l'attività del pensiero e l'esercizio della
ragione, ma tutelava i dogmi, e ben presto si conobbe che con quelli
tutelava la verità e il diritto. Però di tutte le istituzioni è nemica
inevitabile la diuturnità: dell'antica civiltà che il cristianesimo avea
sanata, dimenticaronsi gli sconci, e parve bello il ritornarvi; il dogma
tenne saldo, ma l'autorità non bastò a impedire le evoluzioni sociali, e
dall'età credente si passò all'età politica, per quanto Roma avesse
cercato ostarvi coll'accentrare i suoi poteri.
Ora sulla cattedra di san Pietro sedeva Leon X, rampollo di famiglia
mercadante, ricchissima, abituata allo spendere largo, alle
splendidezze, a proteggere le scienze, le lettere, egli stesso, scolaro
del Poliziano, del Calcondila, del Bolzani, nel fiore degli anni, colto,
amabile, agognante alle voluttà dello spirito, e a vedersi attorno
faccie contente, e udire da tutti acclamare la beatitudine del suo
tempo. Pel suo ingresso si spendono centomila scudi in addobbare le vie;
altrettanti in sussidj ai poveri. Avvezzato alle Corti e ai campi, male
si rassegna al contegno ecclesiastico: sconcerta il suo cerimoniere
uscendo senza rocchetto e talvolta fino in stivali; Cervetri e la villa
Magliana sul Tevere lo vedono a cavallo cacciare per giornate intere, a
pescare Bolsena; ogni anno chiama da Siena la compagnia comica dei Rozzi
per rappresentare commedie; fa musica, e accompagna a mezza voce le
arie: tiene per convivi abituali un figliuolo del Poggio, un cavaliere
Brandini, un frà Mariano che in un boccone inghiotte un colombo, e sorbe
fino quaranta ova: altri buontemponi che inventano celie e piatti
bizzarri, e che sopportano qualunque tiro dal papa e dai suoi: ad un
fiorentino de' Nobili, detto il Moro, «gran buffone e ghiotto e
mangiatore più che tutti gli altri uomini, per questo suo mangiare e
cicalare il papa avea dato d'entrata d'uffizj per ducento scudi l'anno»
(SER CAMBI). Sopra cena, tratteneva sei o sette cardinali dei più
intimi, coi quali giocare alle carte, e guadagnasse o perdesse, gettava
manciate di fiorini agli spettatori.
Ama le lettere, ma invece di rispettarle come matrone, le accarezza come
bagasce; dichiara arcipoeta Camillo Querno improvisatore, gran
mangiatore, gran bevitore, che gli si era presentato col poema
dell'_Alessiade_ di ventimila versi, e di sue lepidezze gli ricreava la
mensa. Vede alcuno preso da vanità? Esso gliela gonfia con onori e
dimostrazioni, finchè divenga il balocco universale, come avvenne col
Tarascon suo vecchio secretario, cui fece persuaso fosse improvisamente
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