Gli eretici d'Italia, vol. I - 39

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una vita di Clemente VII, spacciò irosamente le colpe di questo e della
curia romana.
Cotali assalirono Roma (1527), ed essendosi ammalato il Freundsberg, e
ucciso nell'assalto il Borbone, inviperiti e sfrenati vi entrarono,
ciascuno non pensando che a sfogare i brutali istinti dell'avarizia,
della libidine, della rabbia. La capitale del mondo cristiano la sede
delle belle arti, l'asilo e la palestra di ogni letterato e artista, la
seconda patria d'ogni cristiano, restava preda a ladroni e miscredenti:
la vita d'ogni illustre di quel tempo ha una pagina dove si raccontano
nuovi orrori di questo sacco, che è uno di quei regj misfatti che
lasciano impronta indelebile nella storia; e dove la Germania si
vendicava della superiorità intellettuale e morale dell'Italia; così la
barbarie superba metteasi sotto i piedi quella civiltà che la
mortificava.
Di quel disastro, ove si calcolò che Roma perdesse per dieci milioni di
zecchini, noi non dobbiamo raccorre se non il particolare furore
spiegato contro le cose sacre. Violarono i sepolcri, e principalmente
quel di Giulio II, reo d'aver voluto sbrattare l'Italia da stranieri.
Chiese, monache, frati erano specialmente esposti alla brutalità di
costoro, che stallavano i loro cavalli in San Pietro, li stabbiavano
colle bolle papali, gli abbiadavano ne' battisteri, ungevansi gli
stivali co' sacri crismi; entro i calici s'ubbriacavano; nelle devote
capelle violavano le vergini devote, e parati cogli arredi delle
sacristie, celebravano orgie abbominevoli. Ai cardinali della Minerva e
di Siena al Ponceta, a Giovanni Maria del Monte che fu poi papa, al
Bartolini arcivescovo di Pisa, al Pucci vescovo di Pistoja, al Ghiberti
vescovo di Verona, a san Gaetano recarono invereconde e tormentose
contumelie, come a tutti quei moltissimi che dalla subitanea irruzione
non s'erano potuti campare. Altri mettono un cardinale su di un asino a
ritroso, nella sublime semplicità della porpora, e lo trascinano di
porta in porta a mendicare il riscatto. Chiamano un prete che accorra
col viatico, e il menano in una stalla, e vogliono costringerlo a
comunicarlo a un giumento, e perchè ricusa lo trucidano. Fecero beffarde
esequie al cardinale Aracœli; in un beffardo conclave deposero Clemente
VII, e gli surrogarono Martin Lutero, festeggiandolo in buffonesca
cavalcata. Gli archivj palatini sono bruciati: nella cappella Sistina
s'accendono fiammate che tutta l'affumicarono: è impiccata una donna per
aver dato delle lattughe a Clemente VII. Quanto insomma era venerato per
devozione, per senso artistico, per antichità, per tradizione, fu scopo
alla brutalità più ribalda e grossolana dei compatrioti di Lutero,
eccitati da questo a detestare e sprezzare gli Italiani.
Allora sarebbesi detto veramente perduto il cattolicismo colla sua
metropoli, e «infino da plebei uomini già si diceva che, non istando
bene il pastorale e la spada, il papa dovesse tornare in San Giovanni
Laterano a cantar la messa»[497]. Tutte le città del Patrimonio
insorgeano; tutti i vassalli accorreano a spogliare l'antico padrone. I
Piagnoni ne imputavano la corruzione cristiana e la persecuzione contro
chi l'avea rinfacciata, e ricordavano che, quarant'anni prima, frà
Savonarola aveva esclamato: «O Roma, te lo ripeto, fa penitenza. Dice il
Signore: quand'io verrò sopra l'Italia con la spada, a visitare i suoi
peccati, visiterò Roma: in San Pietro e sugli altari sederanno le
meretrici, e faranno stalla a cavalli e porci: vi si mangerà e berrà e
commetterassi ogni sporcizia. Taglierò, dice Dio, le corna dell'altare,
cioè le mitre e i cappelli; taglierò la potenza de' prelati: rovineranno
quelle belle case, que' bei palazzi; tante delizie, tanti ori saran
gittati per terra; saranno ammazzati gli uomini; andrà sossopra ogni
cosa». Altri romiti eran venuti predicando non solo la rovina d'Italia,
ma la fine del mondo, e che l'anticristo fosse o il Borbone o Clemente
VII. Brandano senese, prima del sacco, correva per Roma vaticinando
sventura, sventura; venissero a penitenza, placassero Dio. Nel
saccheggio avendo i lanzichenecchi percosso una Madonna, questa stillò
sangue; come a Treviglio un'altra pianse all'entrare de' Francesi, i
quali ne furono sì commossi, che risparmiarono l'incendio e il
saccheggio. Per egual occasione sudò la Madonna della Cintola a Prato, e
rivolse la faccia verso il Bambino, e gli pose la mano sul capo. Da per
tutto, come i miracoli, così moltiplicavansi digiuni e litanie: e a
Milano si menò una lunga processione, ove migliaja di devoti ad ogni
istante alternavano _Misericordia, Misericordia,_ tanto che il clero non
potè fra que' clamori intonare altre preghiere, e non era uomo o donna
che si tenesse dal piangere: e un predicatore, dipingendo a colori
nerissime le sventure d'allora, prometteva che da Milano avrebbe
principio la rinnovazione della Chiesa, la quale prima è mestieri che
venga afflitta e ridotta all'ultima ruina.
Questo i Cattolici: in senso contrario un frate Egidio Della Porta
comasco, scrivendo a Zuinglio, esclamava: «Dio ci vuol salvare: scrivete
al Borbone che liberi questi popoli, tolga il denaro alle teste rase, e
lo faccia distribuire al popolo famabondo; poi ciascuno predichi senza
paura la parola di Dio: la forza dell'anticristo è presso alla
fine»[498].
Così i partiti non discernono mai i mezzi, purchè conducano al loro
scopo. I Protestanti esultarono dell'orrido strazio fatto a Roma; altri,
quelle tribolazioni giudicando castigo di Dio contro le iniquità
pretine, si separarono dalla Chiesa, e «nelle case private in diverse
città, massime in Faenza, terra del papa, si predicava contro la Chiesa
romana, e cresceva ogni giorno il numero di quelli, che gli altri
dicevano Luterani, ed essi si chiamavano Evangelici».
Ma tutti gli uomini serj ne fremettero: Francia e Inghilterra intimarono
guerra a Carlo V, per ragione o pretesto adducendo la sua condotta verso
Roma; tale essendo la natura di questa città e di questo dominio, che
d'ogni attacco mossogli si risente tutta la cristianità. E veramente
quegli anni del secol d'oro furono peggiori all'Italia che qualunque
altri del secolo di ferro: «Mantova è tutta abbandonata di peste
(scriveva un contemporaneo da Piacenza): Ferrara, Padova, Cremona, tutto
il Bresciano: questa terra va peggiorando: Genova addio: non si vede che
cerei e frati ad accompagnar morti: e vi concludo ch'è il più grande
spavento che mai fosse veduto ad andare pel paese»[499]. Negli _State
papers_ che si pubblicano ora in Inghilterra, al tomo VII pagina 226 è
una lettera del 12 settembre 1529 degli ambasciadori di Enrico VIII, che
da Bologna scrivono: «Mai nella cristianità s'è visto desolazione pari a
quella di queste contrade. Le buone città distrutte e spopolate; in
molti luoghi non si trova carne di veruna sorte. Tra Vercelli e Pavia,
per cinquanta miglia del paese più ubertoso del mondo in vigne e grano,
tutto è deserto; nè uomo o donna vedemmo che lavorasse ai campi, nè
anima viva fuorchè tre povere donne che racimolavano l'uva rimasta:
giacchè non si seminò nè mietè, e le viti inselvatichirono, e i grappoli
infradiciano senza che alcuno li colga. Vigevano, buona terra con rôcca,
non è più che rottami e deserto. Pavia mette pietà: nelle strade i
bambini piagnucolando chiedono pane, e muojono di fame. Ci fu detto, e
il papa ce lo confermò, che la popolazione di quelli e d'altri molti
paesi d'Italia fu consunta dalla guerra, dalla fame, dalla peste, e
molti anni ci vorrà prima che l'Italia ritorni in buona condizione.
Quest'è opera de' Francesi non men che degli Imperiali».
Mentre Clemente VII stava prigioniero, re Ferdinando scriveva al
fratello Carlo V, non lasciasse uscir di mano il prigione senza aver
messo ordine nella cristianità: questo esser unico rimedio alle
maledette eresie[500]. Molti cardinali s'adunarono a Piacenza per
provedere a sì luttuosi frangenti[501], e per sicurezza della Chiesa
divisavano trasferire la Santa Sede ad Avignone, fuori di questa Italia,
divenuta campo alle battaglie degli stranieri. Fomentavanli a ciò i re
di Francia e d'Inghilterra, che n'avrebbero cavato vantaggio; e molti di
retta intenzione v'aderivano. Ma il cardinale Francesco Cibo, legato di
Bologna, che avea saputo tener in fede le Romagne, accorse a Piacenza, e
dissuase con validissime ragioni da un passo, che avrebbe recato
l'ultimo tracollo all'Italia e un urgente pericolo alla Chiesa.
Eppure, dopo che Roma ebbe sofferto per aggiunta la fame e la peste; che
Clemente VII durò lunga prigionia; che i Colonna e gli Orsini aizzavano
quelle discordie in cui gli Italiani più inviperiscono quando sono
percossi da peggiori flagelli; che amici e nemici s'impinguarono delle
dovizie nostre; che si ripeteva esser terminato il potere pontifizio, si
vide quel papa rifinito splendere di nuove glorie mondane. Perocchè
Carlo V volle essere coronato da Clemente VII; e mentre la Germania
erasi lusingata di mirare in quell'occasione il pontefice umiliato
davanti a quell'imperatore, che i predecessori di esso aveano tante
volte obbligato venire all'obbedienza, allora Carlo V professò dolersi
delle atrocità commesse a Roma in suo nome; domandò l'assoluzione per
chi v'aveva ecceduto; si obbligò di far restituire alla santa sede
Modena e Reggio, tolte dal duca di Ferrara, Cervia e Ravenna occupate
dai Veneziani; prender accordi con questi per le terre che aveano
sottratte al regno di Napoli nella Puglia, e col papa per rintegrare gli
Sforza nel ducato di Milano; pose se stesso e le sue armi a disposizione
del papa, facendolo arbitro di ordinargli quando snudare e quando
riporre la spada, e si fe da esso ornare cavaliere di San Pietro.
La solennità della coronazione fu delle più splendide che la storia
ricordi. Quel cencio di porpora, traforato dalle scomuniche papali, e
che i suoi antecessori eransi gittato da sè sulle spalle, ma che non
rappresentava più il centro laicale della cristianità, consacrato
dall'unzione sacerdotale, pensò Carlo V, col rimetterselo in dosso,
attirare ancora un raggio del diritto divino sul successore di Carlo
Magno. S'ebbe vergogna di farlo nella testè desolata metropoli del
cristianesimo, ma nella cattedrale di san Petronio a Bologna, ridotta a
imitazione della Lateranese. Non vi erano invitati gli elettori, nè
altro tedesco che Filippo di Baviera; e invece de' cavalieri germanici,
genti di ogni nazione capitanate da Anton de Leyva; paggi e araldi
spagnuoli aprivano il corteo; Bonifazio Paleologo marchese di Monferrato
portava lo scettro; il duca d'Urbino la spada; la corona Carlo di
Savoja, che a forza d'impegnare e imprestare erasi fatto un abito di
300,000 scudi[502]. All'imperatore servivano i maggiori nobili d'Italia,
Medici, Pio, del Carretto, Gonzaga, Pico, Trivulzio, Dal Verme, Doria,
Sanseverino. Colle rituali solennità unto del sacro crisma, Carlo
ricevette la corona di Carlo Magno, in segno d'universal dominio sopra
la cristianità, e giurò difendere i possessi, le dignità, i diritti del
papa e della Chiesa[503].
Sarebbesi detto rinnovato l'accordo fra lo scettro e il pastorale,
mentre invece questo soccombeva a quello; andava spezzata la monarchia
universale per dar luogo a principati nazionali, emuli astiantisi;
l'Italia cascava ancella degli stranieri, e per l'ultima volta
l'imperatore universale giurava lealtà e fede davanti all'universale
ministro della verità e della giustizia. L'unità, come nella Chiesa,
così era finita nel mondo; i principi sarebbero uomini, sostenuti
soltanto dalla forza, combattuti dall'esame e dall'insubordinatezza,
sbalzati da non più cessabili rivoluzioni, non fidenti che negli
eserciti, sinchè venga il giorno che anche gli eserciti ragionino e
discutano l'obbedienza, e si compia il trionfo dell'individuo, che
surroga se stesso al bene comune.
Fra le condizioni poste alla liberazione del papa fu il convocare un
Concilio generale.
Quel disordine degli spiriti, quel rinegare ogni autorità facea spavento
a Carlo V, che al cardinale Campeggi ripeteva, il Concilio essere
necessario non tanto per riformare gli ecclesiastici, quanto e molto più
per i laici, ch'erano declinati dalla vera via; e se nol si facesse,
pensava non debba, fra termine di dieci anni, esser uomo che possa sotto
obbedienza reggere dieci case, non che Stati, regni ed imperi[504].
Ma la fede cattolica trae sua forza dall'essere una, e conservarsi
inalterabile. Parlare dunque di riformare la fede era un rinegarla, era
non meno una contraddizione che un'empietà: un obbligare il mondo a
credere alla Chiesa mentre ella stessa repudiava la propria
infallibilità. Sonava dunque assurda la domanda che, in tal senso, ne
faceano i Riformati.
Repugnava poi Clemente VII a raccorre il Concilio, principalmente per la
controversia se questo sia o no soggetto al papa. Dagli ultimi convocati
erasi visto che, adunato che fosse, il Concilio si pretendea superiore
al papa; questo il negava; ne nascea scisma; eleggeasi un antipapa;
disordine che riuscirebbe d'immensa ruina nelle agitazioni
presenti[505]. Pure alfine Clemente aderì, e di propria mano scriveva a
Carlo V:
«_Carissime in Christo fili noster, salutem, et apostolicam
benedictionem_.
«Ho inteso per la man propria di Vostra Maestà, e per quello, che m'ha
referito l'oratore Majo, e m'ha ancor avisato il Legato, che il parer di
quella, e di quelli signori elettori, e principi che sentono bene nella
fede christiana, che sia necessario, per estirpare li errori che sono in
quella nazione, è assentire che si convochi il Concilio dimandato, ma
con condizione, che gli eretici desistano da' loro errori, e si
conformino a vivere cattolicamente nella fede e obbedienza della santa
madre ecclesia. Sopra la qual proposta avendo consultato con quelli
cardinali, che ho deputati nella causa della fede, siamo stati tutti
ardentissimi in questa sentenzia, che sia da condiscendere prontamente e
alla convocazione del Concilio e a tutte le provisioni che tendano ad
eradicare l'eresie, perchè così conviene al servizio di Dio e alla
salute universale della cristianità. Vero è che, molti di loro, ancorchè
desiderino sommamente questo fine, non risolvono totalmente che la
convocazione del Concilio sia mezzo sicuro, o conveniente a conseguirlo,
giudicando, che sia di grande imprudenza alla Chiesa di Dio il
consentire che si torni a disputare di quelle cose, le quali in altri
tempi sono state dichiarate da Concilj, e osservatesi lungamente da
tutti li Cristiani; perchè la sede apostolica è stata consueta concedere
i Concilj alli eretici quando l'opinioni loro, se bene erano erronee, o
contra il rito universale della Chiesa, non erano ancor state riprovate
o dannate. Ma il voler ora mettere in dubbio quello che hanno
determinato i Concilj, par loro cosa scandalosa, di mal esempio, e con
poca dignità di questa sede, nè sperano, che alla medicina di questi
errori abbi a conferire più l'autorità del futuro Concilio, che faccia
ora quella delli passati, celebrati da tanti santissimi e dottissimi
Padri, le sante determinazioni dei quali chi sprezza, non si può sperare
che non abbia a fare il medesimo di quello, che per l'avvenire si
determinasse, nè si possono persuadere che la dimanda, che essi fanno
del Concilio, tenda ad alcuno fine laudabile, anzi, che come sempre
sogliono fare gli eretici, abbia nascosto qualche pestifero pensiero,
che possa esser causa di maggior confusione e disordine. E tanto più
inclinano li cardinali predetti in questa opinione, quanto par loro che
il tempo di convocarlo non sia al presente molto opportuno, non tanto
per guerra che si potesse temere in tra Cristiani, circa la quale molto
prudentemente discorre la Maestà Vostra, quanto per il pericolo della
guerra del Turco, del quale, come sa ben Vostra Maestà, sono le minaccie
e apparati grandissimi di invadere l'anno futuro con ogni sforzo la
cristianità; al qual tempo essendo impossibile, che ancora sia
indrizzato il Concilio, pare da considerare bene quanto danno potria
generare, mentre si attendesse al Concilio, se urgesse nuova guerra
dagl'inimici della fede, perchè bisognerebbe, per attender al Concilio,
negligere le provisioni tanto necessarie per la difesa della
cristianità, che sarebbe cosa perniciosa, o per provedere alla guerra,
lasciare il Concilio imperfetto e questo si può più facilmente dire che
fare, perchè serrandolo senza la satisfazione delle nazioni, potria
facilmente partorire scisma, o qualche grave scandalo nella Chiesa di
Dio, la qual satisfazione universale delle nazioni, quanto la Maestà
Vostra e io ci possiamo poco promettere, lo dimostra, oltre alle altre
ragioni, l'esperienza delle difficoltà, che ora sente Vostra Maestà a
potere in cose tanto giuste disporre d'una minima parte di quella
nazione sola. Le quali difficoltà nel tempo d'un pericolo tale,
facilmente aumenterebbono; perchè gli eretici e maligni pigliarebbero le
necessità per occasione di ottenere qualche cosa perniciosa alla santa
fede cattolica. Alla corroborazione della quale nessuno rimedio è di più
autorità, più santo, e cagione di maggiori beni, che la convocazione del
Concilio, quando si fa per cause, con mezzo e in tempo convenienti, per
contrario nessuno più pericoloso, e per partorir maggiori mali, quando
non concorrono le circostanze debite, o vi nasca qualche accidente che
lo disordini. Le quali ragioni insieme con le altre allegate da
cardinali predetti, avrebbono forse tenuto dubbio l'animo mio, se in me
non avesse potuto più l'autorità di Vostra Maestà, la qual conoscendo io
religiosissima, veramente cattolica, e devotissima della sede
apostolica, e non meno prudentissima e circospetta, e considerando che,
per trovarsi presente in quella provincia, per sanità della quale si
propone questo rimedio, può facilmente intendere quello che li sia
necessario, più che non possono coloro, che ne sono lontani, mi rendo
certissimo che non desidererà, nè proporrà cosa che non sia utile al
servizio e al bene universale della cristianità. E però, pregatala prima
che esamini maturamente, e consideri molto bene quello che sia al
proposito de' fini sopradetti, dico a Vostra Maestà che io son contento,
che quella, in caso giudichi esser così necessario, offerisca, e
prometta la convocazione del Concilio, con condizione però, secondo che
scrive anco Vostra Maestà, che appartandosi da' loro errori, tornino
incontinente al vivere cattolicamente, e all'obbedienza della Santa
Madre Chiesa, e secondo i riti e dottrina di quella, infino a tanto che
dal Concilio fosse determinato in altro modo, all'obedienza e
determinazione del quale in tutto e per tutto si sottomettano; senza le
quali condizioni è notissimo quanto saria scandaloso e di pessimo
esempio a concedere il Concilio. E in questo è necessario che Vostra
Maestà avvertisca diligentemente, che queste condizioni si promettano e
eseguiscano in modo che possiamo esser sicuri, che gli eretici, ottenuta
la convocazione del Concilio, non tornino a' pristini errori, perchè
sarebbe cosa scandalosissima; e sarebbe manifesto ad ognuno, che dal
proseguir in tal caso più oltre, non si potrebbe aspettare la
reformazione degli errori, che desidera, ma non altro che frutti
pestiferi e venenosi; a che siamo certissimi che Vostra Maestà
avvertirà, dalla quale subito che avremo avviso che loro abbiano
accettato, e osservino questa condizione, si convocherà il Concilio per
quel tempo che sarà giudicato espediente. Il quale Vostra Maestà si
prometta che sarà con più brevità si possa, la quale son certo che, per
quello che sopra questa materia parlammo in Bologna, e per quanto
conosce dell'intenzion mia al bene universale, non dubiti, che da me non
sarà interposta dilazione alcuna. In che non mi estenderò altrimenti,
perchè in tutte le cose e pubbliche, e che concernono il particular mio,
io ho fede grandissima in Vostra Maestà non meno che in me proprio, e la
quale non è mai per mancare. Così mi persuado che Vostra Maestà si
confidi che io proceda sempre seco con tutta la libertà e sincerità che
sia possibile. E perchè io ho veduto li articoli proposti da quelli
eretici, giudicherei necessario che Vostra Maestà li ammonisse a
restringerli solo a quelli punti nei quali pretendono avere più causa da
dubitare, perchè si fugga la lunghezza, che sarebbe infinita, e si
moderi quanto si può l'inconveniente di avere a ritrattare le cose
stabilite nelli altri Concilj. Statuirassi ancora al medesimo tempo il
loco, nel quale si abbi a convocare, sopra che intenderei volentieri il
parere di Vostra Maestà, perchè a me nè per commodità propria, nè per
alcun particolar rispetto importa più un luogo, che un altro, avendo
massime ad intervenirvi Vostra Maestà. Ma per quanto mi occorre di
presente, essendo sommamente necessario che il Concilio non si celebri
altrove che in Italia, crederei che Roma dovessi satisfare a ciascuno
per l'opportunità grandissima che ha di sostener tanta moltitudine,
quanta vi concorrerà, e poichè questo Concilio non si convoca per causa
di scisma che sia nella Chiesa di Dio, nè per dissensione che sia tra
principi cristiani, che potriano dar cagione d'allegar la suspizione de'
luoghi, ma solo si propone per purgar la cristianità dall'eresie, e per
l'espedizione contra infideli, par molto conveniente che si convochi in
quella città, che è capo di tutta cristianità, e dove per il passato
sono stati celebrati tanti Concilj a che m'inclina ancor assai il
conoscere che, se dopo tante calamità che ha patito, se le aggiunge una
sì lunga assenza della Corte, saria quasi causa dell'ultima sua ruina.
Pur quando Roma non satisfacesse, che a mio parere dovria satisfare, e
si potria provedere che nessuno la recusasse per non sicura, ci è
Bologna, Piacenza, Mantova, tutte città capaci, come sa Vostra Maestà,
delle quali, o di qualch'altra che fusse a proposito, si farà
risoluzione.
«Circa gli abusi, aspetto risposta dal Legato, a cui feci scriver, alli
dì passati, che avvisasse sopra che si desidera riformazione, e venuta
che sia la risposta, si piglierà tal forma, che ognuno conoscerà che
l'intenzion mia è di corregger le cose che fossero inoneste, e di
satisfare in tutto ciò che si potrà, agli amorevoli e prudenti ricordi
di Vostra Maestà, con la quale, per non la tediar più, mi rimetto a
quanto sopra questa materia ho scritto anco al Legato, e parlato con M.
Majo suo oratore: pregando sempre Dio che le conceda quanto lei
desidera. Da Roma, all'ultimo di luglio 1530».
Ai 18 novembre tornava sul medesimo promettere, e soggiungeva: «Se
convenisse che io da me solo ne deliberassi, confido tanto nell'amore e
prudenza della M. V. che, senza aspettar altro, le direi assolutamente
di voler seguire in tutto il consiglio e voler suo. Ma per esser cosa
che tocca a tutta la Chiesa e la cristianità, prima che possa
risolutamente risponderle è conveniente che consulti con li cardinali, e
intenda bene l'inclinazione degli altri principi al Concilio»[506].
Intanto Clemente VII, che, come dice il Guicciardini, per troppa finezza
di vedere, scorgeva tutte le possibilità e in conseguenza vacillava,
cercavasi altri alleati. E prima sperò negli Svizzeri, e l'Aleandro al
Sanga da Brusselle il 14 novembre 1531 scriveva: «Si trova per le
istorie che le grandi eresie mai non si estinguono se non col sangue. Se
Dio vuol far così ancor di questa, niun modo pare potesse esser miglior
di questo, perchè, per esser gli Svizzeri vicini all'Italia, facilmente
con ogni piccola cosa si potrà soccorrerli, e puossi veder buon conto
dell'amministrazione del denaro, e andar porgendo ajuto alla giornata.
Il che non saria così se l'impresa si fesse in mezzo alla Germania, e
che più è, saremmo fuora di quel timore ch'era, se si faceva impresa
generale contro Luterani, che la Germania tutta si unisse contro
noi...... Quella parte di Svizzeri ch'avrà più archibusieri, ancor che
sia in minor numero di picche, sarà vittoriosa, perchè si sa ben quanto
gli altri Svizzeri temono e buttano giù le picche, visti gli
archibusi.....
«Molto mi meraviglio e dolgo ch'a questa tanto santa occasione, tutti li
re, principi e popoli non si muovano a contribuir qualche somma di
denari, e præsertim li signori Veneti, che sono confinanti per più bande
a' Luterani; che se Svizzeri cattolici perdono, la vigilia loro saria la
festa di questi»[507].
Clemente trescava pure con altri, e il Sanga ad esso Aleandro nunzio
apostolico scriveva da Roma il 12 settembre 1531, che il duca di Ferrara
cercava ogni modo di nuocere al papa, e avea fatto saper all'imperatore
d'aver intercette lettere, per le quali il papa a Inghilterra e Francia
prometteva tutto, purchè non si facesse il Concilio. «Il che quanto sia
lontano dal vero, nessuno lo sa meglio di vostra signoria, qual sa in
questo l'animo buono di Sua Santità». Il papa se ne duole
coll'imperatore stesso in iscritto, domandando sieno prodotte le lettere
stesse, e non voler aquetarsi benchè l'imperatore si mostri certissimo
della buona intenzione di Sua Santità. «E parli qui francamente, che mai
fu falsità più falsa di questa»[508].
Alfine Clemente si fissò colla Francia, a' cui dominatori sempre si
volsero i papi nelle loro angustie, chiaminsi Carlo Magno o Napoleone
III. Sperando dunque che Francia lo sorreggerebbe nelle sue ambizioni
domestiche, e rimarrebbe fedele all'antico simbolo, mosse egli stesso a
trovar Francesco I. Al colloquio erasi assegnata Nizza, ma il duca di
Savoja ebbe gelosia di lasciarla occupare da navi pontifizie, ond'egli
andò a Marsiglia (1533, 13 ottobre) col pretesto di condurvi sua nipote
Caterina, figlia di Lorenzo De' Medici duca d'Urbino e di Maddalena de
La Tour d'Auvergne, promessa sposa ad Enrico, secondogenito di Francesco
I. Quanto quello di Bologna coll'imperatore, solennissimo fu il ritrovo
davanti a' maggiori dignitarj di Roma e di Francia. Seduto in eccelso
trono, il pontefice ricevette il re, che davanti a lui piegò il
ginocchio, giurogli obbedienza, e gli baciò i piedi, la mano e la stola;
il primogenito del re fu ammesso al medesimo favore; i due più giovani
figli baciarongli la mano e i piedi; i soli piedi gli altri della Corte.
L'arcivescovo di Parigi a nome del suo signore professò che il re
cristianissimo, come primogenito della Chiesa, lo riconosceva in tutta
umiltà e devozione qual pontefice e vero vicario di nostro signor Gesù
Cristo; lo venerava come successore di san Pietro, e gli prestava
obbedienza e fedeltà; offrendosi a tutta sua possa per la difesa sua e
della santa sede apostolica, al modo che aveano fatto i suoi
predecessori.
Ma se il re, tornando da quel congresso, diede severi ordini per «far
processi contro chi fosse convinto del delitto d'eresia che pullula e
cresce nella buona città di Parigi» (10 dicembre 1533), seguitò per
altro i consigli della politica sostenendo la Lega Smalcadica de'
Protestanti tedeschi contro Carlo V imperatore di Germania: vale a dire,
puniva chi non andasse alla messa, favoriva coloro che la messa aveano
distrutta.
Questo buon re Francesco, il protettore delle lettere, che i palazzi
suoi facea costruire dal Primaticcio, dipingere da Leonardo, fregiare da
Benvenuto: che volle essere armato cavaliere da Bajardo senza paura e
senza taccia, al 21 gennajo 1535 assisteva in Parigi al supplizio di sei
Luterani. Venivano in solenne processione i vescovi, i dottori della
Sorbona, i dignitarj, poi il re a capo scoperto, con una torcia in mano,
e dietrogli principi e principesse e cortigiani. L'arcivescovo portava
il Santissimo, pel quale erano stati costruiti sei altari di riposo; e a
canto a ciascuno una forca e un rogo. Il popolo trasaliva d'insulti e
d'impazienza, volendo colle proprie mani straziare gli infelici
condannati; i quali erano avvinti a una trave in bilico, che calava per
tuffarli nella fiamma, e risaliva sinchè questa non consumasse le corde.
Cominciava l'orribile altalena allorchè il re avvicinavasi, ed egli,
giunto a quel posatojo, cedeva la torcia al cardinale di Lorena,
prosternavasi a fare l'adorazione, intanto che si compiva il supplizio
de' condannati; poi ripigliava la torcia e la via. Al termine della
quale tenne un discorso contro la perversa setta, protestando che, se ne
sapesse infetto uno de' proprj membri, lo taglierebbe; se un suo
figliuolo, lo sagrificherebbe egli stesso[509].
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