Gli eretici d'Italia, vol. I - 06

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fragilità umana. Ed egli scelse Cadolao vescovo di Parma, che sostenuto
dalle armi imperiali e dalla fazione di Tusculo, s'insediò; ma
Ildebrando fece dai cardinali proclamare il rigoroso milanese Anselmo da
Baggio, che s'intitolò Alessandro II. Ne derivò guerra civile, finchè
Cadolao restò vinto, e Alessandro confermato dal concilio di Mantova.
Com'egli morì (1073), il popolo tumultuariamente gridò papa quel che da
molto tempo faceva i papi, cioè Ildebrando, che assunse il nome di
Gregorio VII. Munitosi anche dell'assenso dell'imperatore, affronta a
viso aperto la simonìa e l'incontinenza, cerca che alla forza prevalga
il pensiero, che all'oltrepotenza dell'impero sovrasti l'efficacia del
sacerdozio, come al corpo l'anima, come il talento alle braccia.
Non è del nostro quadro il divisare le cure che in tal senso diede a
tutto il mondo. Fermandoci all'Italia e alle eresie di qua, diremo come
in Lombardia sopratutto si fossero estesi fra gli ecclesiastici il
concubinato e la simonìa[54]. A Milano principalmente pretendevasi che
il vescovo sant'Ambrogio avesse concesso la moglie al clero[55]: il
quale, della propria ricchezza insuperbito, asseriva che sant'Ambrogio
non fosse inferiore a san Pietro, e rinegando i papi, appoggiavasi a re
e imperatori, dai quali comprava per rivendere. Il clero minore e il
popolo scandolezzavansi di que' disordini, viepiù pel confronto colle
austerità de' monaci; e quando i prelati dicevano messa, la plebe li
piantava soli sull'altare. Anselmo da Baggio stava a capo de' zelanti
anche dopo che fu vescovo di Lucca, e s'intese con Landolfo Cotta e
Arialdo d'Alzate, caporioni degli ortodossi, affine di opporsi
all'arcivescovo Guido da Velate e alle sue creature. Videsi così partita
la diocesi; da un lato i Nicolaiti, dall'altra i devoti, che chiamavano
Patarini. Roma sostenne questi: i sinodi provinciali li favorirono; le
armi gli oppressero invano; ma Anselmo e Pier Damiani riuscirono a
ridurre la Chiesa milanese in obbedienza del papa; sicchè in un sinodo a
Roma l'arcivescovo tenne il primo posto dopo il pontefice, e ricevette
da questo l'anello, col quale prima lo investivano i re d'Italia: ai
colpevoli s'imposero penitenze, cioè ai meno rei il digiuno in pane e
acqua per cinque anni due giorni la settimana e tre nelle quaresime di
Pasqua e di san Giovanni; ai più gravati, sette anni, oltre il digiuno
d'ogni venerdì lor vita durante; all'arcivescovo per cento anni, con
facoltà di _redimersi a prezzo_, e promessa di mandare tutti i cherici
colpevoli in pellegrinaggio alle soglie degli apostoli e a Terrasanta.
In tale pellegrinaggio aveva attinto nuovo fervore il cavaliere
Erlembaldo, che si pose alla testa de' Patarini, e sembrandogli che i
Nicolaiti avessero fatto sommessione unicamente per ipocrisia, tolse a
incalzarli (1066). Benedetto da Anselmo di Baggio, ch'era divenuto papa,
strappava dagli altari i preti ammogliati, faceva popolo per respingere
i nobili, che colle armi proteggevano i prelati loro parenti. Questi
fanno trucidare Arialdo; e invocano l'imperatore, che intrude un altro
arcivescovo; Erlembaldo repulsa gli attacchi fin col saccheggio e
coll'incendio, ed eretto in Milano un altro governo, confisca i beni de'
preti concubinarj, e domina, malgrado le armi e le beffe avversarie,
sinchè dai nobili è ucciso, e dal popolo onorato come martire (1075);
culto riconosciuto dalla Chiesa[56].
Il messo dell'imperatore lodò l'assassinio, proscrisse i Patarini,
elesse nuovo arcivescovo; ma il popolo non sapea darsi pace che i beni
della Chiesa e le limosine andassero a pro de' ricchi e delle famiglie
de' preti, e prevalse, e volle osservato il decreto del papa che
imponeva il celibato. Così sciolti dai legami di famiglia, i sacerdoti
restarono una milizia dedicata interamente al servizio della Chiesa e al
vantaggio del popolo.
Torino apparteneva allora alla provincia ecclesiastica di Milano, e a
Cuniberto vescovo di quella città, san Pier Damiani diresse una lettera
in otto capitoli _Contra clericos intemperantes_, ove lo rimprovera
d'aver mostrato troppa connivenza verso i preti che tenevansi donne a
modo di mogli: del che tanto più si meraviglia, perchè sa che è austero
ne' proprj costumi, mentre chiude gli occhi sugli altrui; e perchè i
suoi preti sono del rimanente onesti e dati agli studj, e quando
andarono a lui pareano un coro di angeli luminosi[57].
Anche il patriarca d'Aquileja, che dicemmo da un pezzo essersi sottratto
a Roma, allora vi si sottomise (1079), e nel ricevere il pallio prestò
un giuramento, che poi fu esteso a tutti i metropoliti e vescovi
nominati direttamente da Roma. In esso si obbligavano, come i vassalli
verso i loro signori, a serbare fedeltà al pontefice; non tramare contro
di lui; difendere la primazia della Chiesa romana e le giustizie di san
Pietro; assistere ai sinodi convocati dal papa, riceverne orrevolmente i
legati; dappoi vi si aggiunse di visitare ogni tre anni le soglie degli
apostoli, e mandare a render conto dell'amministrazione della diocesi;
osservare le costituzioni apostoliche, non alienare verun possesso della
mensa.
Quest'autorità della Chiesa, recuperata colle abnegazioni del clero e
col suo sottomettersi a un capo, bisognava saldarla col togliere il
diritto che i signori laici arrogavansi d'investire i prelati, e di
esigerne soggezione e servigi. Se la Chiesa per sottrarsene avesse
rinunziato alle temporalità, rimanea destituita d'ogni considerazione e
d'ogni giurisdizione, quando questa era innestata al possesso delle
terre. Se le conservasse senza formalità d'investitura, i beni, che
erano forse un terzo di quelli della cristianità, si troverebbero
sottratti all'autorità principesca, e sottomessi alla pontificia, la
quale sarebbesi ingagliardita a segno, da predominare ai re. Gregorio
non indietreggiava da quest'ultima conseguenza[58], come il potrebbe
fare l'età nostra, annichilatasi in fatto davanti ai monarchi, mentre in
parole ostenta di contradirli e avversarli. Allora la libertà
intendevasi in un senso molto più pieno e positivo, e questa lotta del
sacerdozio coll'impero, delle usurpazioni dei governi colle naturali
libertà, generò l'idea moderna dello Stato. Se fonte del potere è Dio, e
Dio è rappresentato in terra dal papa, questo è superiore ai re. Se la
società corrotta non può rigenerarsi che dalla Chiesa, è necessario che
questa sovrasti ai troni. E come superiore, già Gregorio VII provedeva
agli interessi anche temporali dei popoli; agli uni vietava il
trafficare di schiavi, ad altri rinfacciava i vizj, scomunicava re
contumaci; obbligò altri a continuar alla Chiesa l'omaggio con cui i
predecessori ne aveano compensata la tutela; volea ridurre uomini quei
che i baroni teneano schiavi; tanto più efficace perchè nulla faceva per
vantaggio o ambizione sua personale, e sempre irremovibile come chi
s'appoggia a dettati che non ammettono dubbio e non consentono paure.
Da ciò quel che i moderni, inneggiatori d'un imperatore che insultò ad
un papa supplichevole, rinfacciano come la maggior tracotanza: il
rappresentante dei diritti del popolo e della morale, che umilia un
tiranno depravato. L'imperatore Enrico IV, oltre le turpitudini
personali, avea violato la costituzione giurata ai Sassoni. Questi ne
portarono reclamo al papa, e il papa ne ammonì ripetutamente Enrico. E
perchè questi promise e mancò, citollo a Roma onde giustificarsi,
altrimenti lo dichiarava decaduto, e scioglieva i popoli dall'obbedirlo
(1076). Oggigiorno in simili emergenti si fan rivoluzioni, barricate,
sangue; allora i re erano eletti colla sottintesa condizione che
regnavano perchè meritevoli, cioè conforme a una moralità, che non era
diversa per essi che per tutti. Questa era sottoposta al giudizio di un
arbitro supremo; quand'egli proferisse ch'era violata, i popoli
cessavano dall'obbedire, e il re indegno era colpito da una pena tutta
morale, la scomunica, che mettea fuor delle comuni orazioni lui e le
persone o le provincie che gli continuassero la devozione. Nel paese
scomunicato cessavano quelle cerimonie religiose che consacrano tutti
gli atti solenni della vita, e consolano e rinfrancano l'anima nelle
battaglie della vita. Chiuso il tempio, immagine della città di Dio; non
letizia d'organi, non richiamo di campane; non più l'assoluzione per
tranquillar le coscienze; non la santa cena per refiziare lo spirito;
non quelle feste ove il barone e il villano trovavansi uniti e pari
nella medesima preghiera: spente le lampade, velati i crocifissi e le
immagini edificanti; veruna solennità accompagnava l'entrare e l'uscir
dalla vita: insomma pareva non esistesse più mediatore fra il peccatore
e Dio. In secoli credenti questa pena era spaventosa, come sarebbe ai
nostri gaudenti il chiuder i teatri od i caffè; e il re colpito,
abbandonato da tutti, era costretto a sottomettersi.
Non è raro che la città di Roma imprechi a' suoi pontefici per favorire
altri re. Anche allora Cencio, prefetto della città, in nome di Enrico
IV contrariò Gregorio, lo aggredì tra le affettuose cerimonie della
notte di Natale, e afferratolo pei capelli, lo trasse al proprio
palazzo. Il popolo, levatosi a rumore, lo liberò, e a fatica il perdono
di Gregorio salvò l'offensore.
Enrico imperatore, incapricciato in tali ostilità, v'era incalorito dal
favore de' prelati lombardi, lieti di veder umiliato quel che li
frenava; ma quando il papa lo scomunicò, Sassoni e Turingi ritiraronsi
dall'ubbidirlo, e tutta Germania applause al papa, che rappresentava la
volontà e i diritti del popolo; onde l'imperatore fu costretto venir a
piedi di qua dell'Alpi, ed egli, re delle spade, umiliarsi al re della
giustizia, che, nel castello di Canossa presso Reggio, lo fece aspettare
tre giorni in abito di penitente (1077), poi gli perdonò e l'ammise alla
comunione. Presa l'ostia consacrata, Gregorio lo assolse, e appellando
al giudizio di Dio se mai fosse reo d'alcuno dei misfatti che erangli
imputati dagli imperiali, ne inghiottì una metà; l'altra porse ad Enrico
perchè facesse altrettanto se si sentiva incolpevole. Potere della
coscienza! Enrico non ardì un atto che avrebbe risolta ogni questione, e
paventò il giudizio di Dio.
Indispettito, non compunto, tese insidie al papa, e reluttò, sicchè i
suoi lo deposero, e Gregorio, riconoscendo il surrogatogli Rodolfo di
Svevia, ideò di far un regno dell'Italia settentrionale e media, che
fosse vassallo della sede romana, come già l'erano i Normanni
dell'Italia meridionale, e a questo regno restasse subalterna la
Germania, invece di sovraneggiarlo com'essa allora faceva. Ma Enrico
venne con buone armi, elesse un antipapa, e Gregorio VII, profugo dalla
sua città, come tante volte i suoi antecessori e successori, morì a
Salerno esclamando: «Amai la giustizia e odiai l'iniquità; perciò
finisco in esiglio» (1089).
Matilde, contessa di Toscana, il personaggio più potente allora in
Italia, ed uno de' più insigni del medioevo, aveva sostenuto Gregorio, e
così sostenne i suoi successori nella quistione sopravvissuta, e morendo
lasciò alla santa sede l'eredità de' suoi possessi, che, oltre la
Toscana, il ducato di Lucca e immensi territorj, comprendeano Parma,
Modena, Reggio, Cremona, Spoleto, Mantova, Ferrara ed altre città. In
questi trovandosi mal distinti i beni allodiali dai feudali, nuove
quistioni ne originarono cogli imperatori, ai quali ricadeano i feudi
vacanti, e che col diritto del forte occupavano anche la proprietà, e
trovavano sempre fautori in Italia e nel clero[59].
Pasquale papa, volendo appianar ad ogni costo le differenze, si spinse
sino all'estrema concessione; cioè che gli ecclesiastici rinunziassero a
tutti i possessi temporali, coi castelli e i vassalli avuti dagli
imperatori, purchè gl'imperatori rinunziassero all'immorale diritto
delle investiture. Nel suo desiderio di pace non s'accorgeva ch'era
impossibile spogliar i signori ecclesiastici, tanto potenti, nè togliere
ai nobili laici l'aspettativa di tanti benefizj. In fatti sorse
un'opposizione universale, e s'incalorì la guerra, dove la città di Roma
per lo più osteggiava il papa sinchè non l'avesse cacciato; cacciatolo,
tornava a volerlo.
A quel litigio, dove Voltaire non vide che una questione di cerimoniale,
mentre invece implicava la libertà umana, quattro soluzioni poteano
darsi. O annichilar il potere morale e l'elemento spirituale
surrogandovi la forza sfrenata, come voleano gl'imperatori. O
annichilare l'ordine politico, sublimando il papa come voleva Gregorio
VII, ma vi repugnavano le costituzioni nazionali. O come propose
Pasquale II, separare affatto i due ordini, isolandoli in modo che lo
Stato non sorreggesse la Chiesa, nè questa illuminasse lo Stato; al che
si opponevano e i costumi e gl'interessi. Non restava se non che il capo
politico smettesse la nomina diretta dei vescovi e degli abbati,
vigilando però sulle elezioni; e investendoli delle temporalità, in modo
che fossero preti insieme e vassalli, come il tempo portava. Tal fu la
transazione Calistina (23 settembre 1122), ove l'imperatore rinunziava
ad investire i prelati coll'anello e col pastorale, lasciando libera
l'elezione alle chiese; mentre Calisto II assentiva all'imperatore che
le elezioni de' vescovi e abbati del regno tedesco si facessero
coll'assenso imperiale, purchè senza simonia o violenza; l'eletto, prima
d'essere consacrato, bacierebbe lo scettro col quale eragli conferita
dall'imperatore l'investitura per tutti i beni e le regalie. In Italia e
nelle altre parti dell'impero, l'eletto, fra sei mesi dopo consacrato,
riceverebbe l'investitura.
È la prima di quelle transazioni fra il potere spirituale e il
temporale, che si chiamano Concordati; e il concilio lateranese (1123),
ch'è il primo universale in Occidente, la confermò; poi il secondo
lateranese (1139) rinnovò la scomunica contro chi ricevesse
l'investitura laicale.
In tale accordo il vantaggio restava tutto al poter secolare, perocchè
l'imperatore non recedeva da alcuna delle sue pretensioni, vedevasi
confermato l'alto dominio, e dirigeva le scelte. Ma la Chiesa
sacrificava le eventualità temporali al desiderio di far indipendente lo
spirituale[60]. Dappoi l'imperatore Lotario II rinunziò al diritto di
assistere alle elezioni; e fu rimesso al papa il decidere delle
differenze che in tal fatto si suscitassero; come poco a poco fu tolto
ai principi il goder de' frutti de' benefizj vacanti, e dello spoglio
de' vescovi e abbati defunti.
Duranti questi fatti, l'autorità ecclesiastica dei papi erasi viepiù
ingrandita col restringere quella de' metropoliti, revocare a Roma la
collazione di molti benefizj; riservarsene le annate; sottrarre ai
vescovi la giurisdizione sui conventi e sui beni parrocchiali. Queste
prerogative furono convalidate dalle decretali del falso Isidoro. Così
chiamossi una raccolta di leggi, che non erano state realmente
pubblicate dai papi, ma dove l'autore, tutt'altro che ignorante e
inetto, pare raccogliesse titoli antichi, trasformando in decreti alcune
allusioni del pontificale romano, o relazioni storiche, o brani di
lettere dei papi, dei codici di Teodosio e d'Alarico, della regola di
san Benedetto, del _Liber pontificalis_ e d'altre autorità. Qualche
volta adottò titoli spurj; qualche volta alterò, pure quelle norme
doveano esser conformi alle istituzioni vigenti nella Chiesa, perocchè
furono accolte senza ostacolo, e sinodi e papi le citarono, e altri
compilatori fondaronsi su di esse, finchè al rinascere della critica i
Cattolici le posero in dubbio, ben prima dei Protestanti[61].
Un grave colpo al cristianesimo avea dato l'arabo Maometto, predicando
una religione, desunta dalle credenze ebraiche e cristiane, e colla
pretenzione di semplificarle; asserendo l'assoluta unità di Dio, cioè
escludendo la trinità delle persone[62]; non vedendo perciò in Cristo
che un profeta come Mosè, come Maometto; proibendo ogni rappresentazione
della divinità; indulgendo alla poligamia e alle inclinazioni della
carne, e propagando la sua religione colla spada. Così conquistata gran
parte dell'Asia e dell'Africa, la dinastia degli Aglabiti di Cairoan
venne a invadere la Sicilia (827), e vi piantò lo stendardo del profeta,
che ben presto passò anche sul continente d'Italia.
I Cristiani dovettero allora soffrire persecuzioni dall'intollerante
apostolato musulmano, e probabilmente alcuni avranno abbracciata la
religione de' vincitori. I pontefici ebbero dunque l'impresa e di
salvare i dominj loro da questi nuovi invasori, che minacciavano fin
Roma, e di impedire la diffusione delle loro dottrine e de' loro
costumi. E poichè essi aveano occupato la Terrasanta, teatro della
redenzione e meta di devoti pellegrinaggi da tutto il mondo, i papi
eccitarono l'Europa a muoversi per liberarla, come fecesi nelle
crociate. Queste imprese, ch'erano un indirizzo dato dalla Chiesa alla
forza e al sentimento esuberanti, verso uno scopo religioso e civile,
dovettero ingrandire il potere de' papi che le intimavano, le
benedivano, le dirigevano, e che investivano i principi e i vescovi de'
paesi recuperati.
Di rimpatto la potenza degli imperatori in Italia era stata attenuata
dal costituirsi de' Comuni. Questi aveano poco a poco recuperato i
diritti civili, sostenuti sempre dagli ecclesiastici, e massime dai
vescovi, i quali, ottenendo che le città di loro residenza restassero
immuni dalla giurisdizione dei conti, e sottoposte alla loro propria,
aveano agevolato la costituzione de' municipj. Sempre più rinforzandosi,
questi fondavano l'eguaglianza popolare, eleggevano magistrati proprj,
rendevano giustizia secondo leggi fatte dai loro parlamenti, o
ripristinavano le romane, e faceansi guerra dall'uno all'altro,
deplorabile conseguenza ma pur sintomo di libertà. Gli imperatori o
doveano combattere in Germania per le disputate elezioni, o
campeggiavano in Terrasanta, o cozzavano coi papi per le investiture;
laonde nè potevano sostenere colle loro armi i baroni, nè opprimer i
Comuni, che assodavansi collo spossessare i dinasti vicini.
Quel movimento repubblicano, sebbene originato e favorito dal clero,
riusciva però nulla meno che favorevole all'autorità temporale de'
pontefici. In Francia Abelardo (1079-1142), noto ancor più pe' suoi
malincontrati amori che per l'ardimento filosofico, accoppiando la
dialettica colla teologia, avea voluto far precedere la scienza alla
fede, anzichè considerar quella come uno sviluppo di questa, e la
sottoponeva al giudizio individuale, quasi coll'esame e col dubbio si
progredisse. Lo aveva udito un bresciano di nome Arnaldo, mutatosi dal
mestier delle armi alla cocolla, e ne portò le idee in Italia. Bel
parlatore, cominciò come tutti i novatori dal rimbrottare i costumi del
clero; donde passò a battere la potenza ecclesiastica; repugnare al buon
diritto e al vangelo che il clero possedesse beni, i vescovi regalie; ma
dovrebbero restituire ai principi i possessi che ne aveano ricevuto, e
ridursi all'apostolica, a viver di decime e di spontanee oblazioni. Non
intendendo la libertà nuova, vagheggiava quella che apparivagli ne'
libri classici, blandendo idee che sempre diedero per lo genio al popol
nostro. Piaceva a questo pel dolce suono di repubblica: piaceva ai
signori laici, che teneano feudi dagli ecclesiastici, e speravano
emanciparsene; e formò una fazione detta de' Politici, che dal dir
ingiurie al pontefice passava a negargli obbedienza.
Roma era allora circondata da baroni e da Comuni, che aspiravano del
pari all'indipendenza; dentro era straziata da due fazioni, guidate dai
Frangipani e da Pier di Leone, che pretendeano usurpar i beni delle
chiese, ed eleggere a voglia papi e antipapi. Con costoro ebbe capiglie
Innocenzo II (1130), che costretto andar fuggiasco in Germania, in
Francia, in Inghilterra, ebbe sostegno l'eloquenza di san Bernardo,
fondatore dell'ordine de' Cistercensi. Dall'imperator Lotario ricondotto
a Roma, il papa doveva tenersi munito in Laterano, mentre l'antipapa
Anacleto fortificavasi in Vaticano (1133). Ma ben presto i Normanni che,
colla solita facilità, aveano acquistato le due Sicilie, fecero di
queste omaggio al papa, chiedendogliene l'investitura; poi radunato in
Laterano l'XI concilio ecumenico, ai 2000 prelati raccolti il papa
diceva: «Sapete che Roma è metropoli del mondo; che le dignità
ecclesiastiche si ricevono per concessione del sommo pontefice siccome
feudo; nè altrimenti possono legittimamente possedersi».
Malgrado l'opposizione di san Bernardo, Arnaldo riuscì a ribellare la
città (1141), che gridò la repubblica, e pose un senato di 56 membri,
decretando in nome di questo e del popolo. E un amico di Arnaldo fu
scelto per nuovo papa col nome di Celestino II, ma questi cessò ben
presto dal favorirlo; ed anche il popolo recosselo in sinistro,
dimodochè dovette fuggire, e ricoverarsi a Zurigo. Quivi anticipate le
declamazioni di Zuinglio contro la Chiesa, passò in Francia e in
Germania, sempre inseguito dall'occhio e dalla voce di san Bernardo.
Coi sussidj, che mai non mancano a chi guerreggia la Chiesa, soldò 2000
Svizzeri, e con questa forza venale tornato a Roma, ripristinò la
magistratura repubblicana; e invasato da reminiscenze di libri, rinnovò
i consoli e i tribuni; ideava un ordine equestre, che fosse medio fra il
popolare e il senatorio; al papa non lasciava che i giudizj
ecclesiastici, mentre l'autorità imperiale supremava.
Bastano le più vicine memorie per ricordarci come il popolo romano
s'inebbrii di siffatte idee; e come all'entusiasmo dell'applauso si
accoppii l'entusiasmo dell'ira. Mentre osannavano quell'intempestiva
restaurazione, i Romani gettavansi a furia sulle torri dei baroni, sui
palazzi degli avversi e de' cardinali, e anche sulle loro persone;
abolivano il prefetto della città; negavano obbedienza al nuovo papa
Eugenio III (1145), il quale dovette coll'armi domar quella gente che
san Bernardo qualificava proterva e fastosa, disavvezza dalla pace,
avvezza solo al tumulto; immite, intrattabile, non sottomessa se non
quando le manchi forza di resistere. E questa prevalse, e cacciò il papa
che andò esule in Francia, sicchè Bernardo scriveva: «Ecco l'erede di
Pietro, per opera vostra espulso dalla sede e dalla città di san Pietro;
ecco per le vostre mani spogliati de' beni e delle case loro i cardinali
e i vescovi ministri del Signore. O popolo stolto e disennato! I padri
vostri resero Roma donna del mondo; voi v'industriate di renderla favola
delle genti. Or ch'è divenuta Roma? miratela; un corpo informe senza
testa, una fronte incavata senz'occhi, un volto privo di luce. Apri,
infelice popolo, apri una volta gli occhi, e guarda la desolazione che
ti sovrasta. Come in brev'ora lo splendore di tua gloria s'è offuscato!
fatta sei come vedova, tu ch'eri la signora delle nazioni, la regina dei
regni. Eppur questi non sono che principj de' mali; più gravi calamità
ti minacciano, se più ti ostini nella fellonia» [63].
Intanto i repubblicani invitavano l'imperatore Corrado III, vantando
d'avere operato solo per restituire a Roma l'ecclissato splendore; e
secondo la storia, le prediche d'Arnaldo e il voto de' giureconsulti
classici, voleano riformare lo statuto, assicurando illimitata autorità
al principe. Ma ai nobili premea di conservar le loro prerogative, a
fronte dell'imperatore come del papa; e quando il popolo trucidò il
cardinale di santa Prudenziana (1154), il nuovo papa Adriano IV diede
l'insolito esempio di metter all'interdetto la capitale del
cristianesimo, finchè non ne fosse espulso Arnaldo. Commosso dal vedersi
negati i sacramenti all'avvicinar della Pasqua, il popolo cacciò
Arnaldo, che rifuggì presso un conte di Campania.
Intanto era venuto imperatore di Germania Federico Barbarossa, risoluto
di ripristinar l'autorità imperiale, scassinata in Italia dal
costituirsi de' Comuni, riformare il sistema ecclesiastico, il feudale,
il municipale. Son divulgatissime le costui imprese in Lombardia; nè noi
dobbiamo ricordare se non che, mentre Milano gli resisteva, egli mosse a
Roma per esser coronato.
Quivi trovò in piedi la repubblica istituita da Arnaldo, la quale,
ristretto il papa nella città Leonina, gl'intimava rinunziasse ad ogni
podestà temporale, e s'accontentasse del regno che non è di questo
mondo. I repubblicani speravano prevarrebbe in Federico l'antica
nimicizia contro i papi; ma egli, uom dell'ordine, astiava le
rivoluzioni, e questo slancio della gran città verso la forma che fu
sempre prediletta in Italia, ma che ridurrebbe al nulla la prerogativa
imperiale. Pertanto (1153) avuto nelle mani Arnaldo, lo consegnò al
prefetto imperiale della città. A questo l'esser presente l'imperatore
conferiva pieni poteri, elidendo ogni contrasto de' preti; sicchè egli
fece, come eretico e ribelle, strangolare Arnaldo, ardere in piazza del
Popolo, e gettarne le ceneri nel Tevere. La turba accorse come ad ogni
spettacolo; gli scrittori applaudirono; Goffredo di Viterbo canta:
_Dogmata cujus erant quasi pervertentia mundum_
_Strangulat hunc laqueus, ignis et unda vehunt_[64]:
Gunter nel _Ligurino_ dice s'era fatto reo contro ambedue le maestà:
_sic læsus stultus utraque_
_Majestate reum geminæ se fecerat aulæ_;
nè alcun contemporaneo lo compiange, o nega gli aberramenti suoi. Solo
nel secolo passato si cominciò a presentarlo come una vittima della
tirannide papale, come un precursore de' riformatori del cinquecento, o
dei Giansenisti del seicento[65].
Nelle avventure di lui, come in tutto il conflitto che descriviamo, non
fu abbastanza distinta la lotta dei laici coi cherici, da quella
dell'autorità imperiale coll'autorità pontifizia: differenza troppo
notevole. In fondo gl'imperatori, sebbene con maggior misura,
sostenevano quel che oggi la rivoluzione: la Chiesa, congregazione
spirituale, non aver bisogno di temporalità; queste metter ostacolo ai
principi, e però dover cessare, necessaria essendo l'unità del comando,
nè esser vero principe chi ha un superiore. Rispondeasi: la Chiesa
sovrasta a tutti i diritti, perchè è la fonte di questi; nè si dà
diritto quando essa nol voglia riconoscere; esistendo divinamente, e
assolutamente essa non tien conto che di se medesima. La legge,
l'ubbidienza derivano da Dio: dacchè il principe le rompe, perde,
quant'è da lui, il diritto di comandare, e la coscienza il dover di
obbedire. La giustizia è il bene armato, la legge morale armata, sicchè
bisogna rimanga in mani morali e legittime. Più si restringe la Chiesa,
più fa duopo estender la forza che la surroga.
I fautori della Chiesa nominavansi Guelfi; Ghibellini i sostenitori
dell'impero, ma entrambi i partiti riconoscevano un principio superiore
a tutte le rivoluzioni, la distinzione del potere temporale
dall'ecclesiastico, dello spirito dalla legge, della fede dal diritto,
della coscienza dell'individuo dal vigore della società, dell'unità
umana dall'unità civile. Il prevalere d'una di queste tesi porta
necessariamente l'antitesi dell'altra: se la Chiesa si fa democratica
col popolo, l'impero si fa democratico colla plebe: se i Guelfi
stabiliscono l'eguaglianza, i Ghibellini vogliono tutelarla colla legge;
se prevale l'idea della libertà individuale, bisogna frenarla colla
potenza sociale.
Questi partiti si spiegarono massimamente sotto i due Federichi di
Svevia. Il primo credette potere nella gagliarda mano schiacciare le
libertà comunali e la Chiesa: ma a Venezia dovette piegar il collo sotto
al piede del papa, che esclamò, _Super aspidem et basiliscum
ambulabis_[66], e per sua mediazione pacificato colle città lombarde,
riconobbe l'indipendenza di queste, e andò a morire in Terrasanta.
La sua discendenza rinnovò il cozzo coi papi, anche per l'eredità della
contessa Matilde, sicchè essi favorirono l'elezione di Ottone di
Baviera. E questi, davanti a tre legati pontifizj prestò questo
giuramento (1201):
«Io Ottone, per la grazia di Dio, prometto e giuro proteggere con ogni
mia forza e di buona fede il signor papa Innocenzo, i suoi successori e
la Chiesa romana in tutti i dominj loro, feudi, diritti, quali sono
definiti dagli atti di molti imperatori, da Lodovico Pio sino a noi; non
turbarli in quel che già hanno acquistato; ajutarli in quel che lor
resta ad acquistare, se il papa me lo ordini quando sarò chiamato alla
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