Gli eretici d'Italia, vol. I - 07

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sedia apostolica per la corona. Inoltre presterò il braccio alla Chiesa
romana per difendere il regno di Sicilia, mostrando al signore papa
Innocenzo obbedienza e onore, come costumarono i pii imperatori
cattolici fino a quest'oggi. Quanto all'assicurare i diritti e le
consuetudini del popolo romano, e delle leghe Lombarda e Toscana,
m'atterrò ai consigli e alle intenzioni della santa Sede, e così in ciò
che concerne la pace col re di Francia. Se la Chiesa romana venisse in
guerra per cagion mia, le somministrerò denaro secondo i miei mezzi. Il
presente giuramento sarà rinnovato a voce e in iscritto quando otterrò
la corona imperiale».
Ai Tedeschi spiacque siffatta sommessione; altrettanto sarebbe dovuta
gradire agli Italiani, de' quali assicurava l'indipendenza come della
Chiesa; ma ben presto Ottone, venuto qua co' suoi Tedeschi, disgustò i
nostri e il papa, che lo scomunicò, e gli eresse incontro Federico II,
nipote del Barbarossa. Questo allievo e favorito dei papi, ben presto
divenne il più dichiarato loro avversario, e ravvivò la lotta delle
investiture, colle vicende che in altri lavori noi divisammo più che non
occorra in questo speciale.
Innocenzo III, uno de' pontefici più insigni per scienza e virtù,
convocò il XII concilio ecumenico lateranense (1215), dove assisteano
quattrocendodici vescovi, ottocento abati, ambasciadori di tutta
cristianità; vi fu letto un discorso sulle prerogative del papa, e
acciocchè anche i laici lo comprendessero, venne ripetuto in spagnuolo,
francese, tedesco; fu esposta la dottrina cattolica contro Albigesi e
Valdesi ed altri eretici, scomunicando il signore che non purga il suo
paese da questi: colla parola _transustanziazione_ si espresse il
cambiamento operato nell'eucaristia: fu imposto a tutti i fedeli di
confessarsi e comunicarsi almeno alla Pasqua.
Innocenzo attese a riformar la costituzione interna della Chiesa
mediante lo spirito mistico con cui i Francescani operavano sulle classi
basse, e i mezzi legali con cui i Domenicani difendeano la società
feudale e religiosa. Onde far che le istituzioni civili non si
togliessero dall'ombra del trono papale, e impedire che la società laica
invadesse la ecclesiastica, volle ridurre in atto i concetti di Gregorio
VII intorno alla supremazia del papa. Era allora dottrina comune ai
canonisti e ai politici che tutta la cristianità gravita attorno a due
centri: il papa e l'imperatore, delegati da Dio a governar le cose
spirituali e temporali. Nessun altro ideale conosceasi in fatto di
governo, e se ne valeano i due poteri per impedir sia le usurpazioni
dell'uno sull'altro, sia le pretensioni de' baroni o de' cittadini;
l'eresia al par della ribellione: due mali (dice Pier dalle Vigne) cui
la Provvidenza preparò non due rimedj ma un solo sotto duplice forma: il
balsamo della potenza sacerdotale e la forza della spada imperiale.
Tale era dottrinalmente la quistione: ma nel fatto ciascuno di questi
due fanali della via sociale aspirava a splender unico; e si
osteggiavano colle armi e colle scomuniche. Ma due podestà, diverse
eppure non opposte, con idee e linguaggio differenti, non possono
intendersi, sicchè nè la violenza riesce nè la discussione.
Federico II, ricco delle doti più belle e più ammirate, dotto, poeta,
guerriero, legislatore, a guisa dei re moderni abborriva le libertà
municipali, e la religione voleva ridurre a ramo dell'amministrazione.
Pel primo scopo lungamente contese colle repubbliche dell'Italia
superiore, e se non riuscì a spegnerle, impedì si estendessero anche al
resto d'Italia, e costituissero l'intera penisola in un sistema, che
potea divenir modello all'Europa e cambiarne i destini.
Uomo d'ordine, vide negli eretici dei disobbedienti e ribelli, e
condannò senza esame le sêtte dualiste, ridestando le più severe leggi
imperiali. Fece il solenne trasporto delle reliquie di _san_ Carlomagno:
onorò quelle della _buona santa_ Elisabetta d'Ungheria, sul cui capo
posò una corona d'oro, attestandone pubblicamente i miracoli. Pure dai
papi è tacciato di eresie; ma quali fossero non è precisato.
Veneratore della civiltà pagana, usava e abusava dei titoli divini che
l'adulazione del basso impero aveva attribuiti agli imperatori. A suo
figlio Corrado diceva «stirpe divina del sangue de' Cesari», e _diva
mater nostra_ alla regina Costanza; i suoi cortigiani applicavano a lui
frasi scritturali: Terra promessa, Betlem della marca d'Ancona la città
di Jesi ove nacque: egli il giusto disceso dalle nubi, e su cui i cieli
versano la rugiada; egli il Signore a cui avviarsi camminando sulle
acque; egli _antistite_, cooperatore e vicario di Dio, immagine visibile
dell'intelligenza celeste. Pier dalle Vigne suo segretario era
denominato suo primo apostolo, nuovo Pietro, destinato a confermar la
fede altrui, dacchè l'imperatore gli disse: «Pietro, poichè tu mi ami,
pasci le mie pecorelle»; eretto a fronte al falso vicario di Cristo, per
esser vicario vero governando secondo la giustizia, istruendo,
riformando per mezzo della fede; su questa pietra angolare fondasi la
nuova Chiesa imperiale (_in cujus petra fundatur imperialis ecclesia_);
su lui riposò Augusto quando celebrò la cena co' suoi apostoli; ciò
ch'egli chiude nessun altro apre; nessun chiude ciò ch'egli aperse:
Pietro di Galilea rinegò tre volte il suo maestro, Pietro di Capua non
v'è pericolo che neghi il suo, neppur una volta[67].
Così da un lato profanavansi le memorie sante, dall'altro tornavasi
verso quell'antichità, a cui non repugnava la pretensione di governar le
coscienze non meno che i corpi, e Federico fantasticava una supremazia
religiosa, simile a quella degli imperatori greci e dei musulmani, che
congiungevano i due poteri; e invidiava Vatace imperator d'Oriente, che
nulla aveva a temere dalla indipendenza de' preti, e lo persuadeva a non
acconsentire alla riunione della Chiesa greca colla romana che era
scismatica. E poichè sentiva di non bastare a lottar col papa, divisava
spartire la cristianità in tante Chiese nazionali, dove il re fosse
anche pontefice, e così il conflitto divenisse impossibile.
Tutto ciò sembra costituirlo quel che oggi diremmo un materialista
incredulo, o se vogliasi, un politico indifferente; difetto ben raro in
quei secoli. Raccontano che, traversando un campo spigato, dicesse ai
suoi seguaci: «Badate a non far guasto, giacchè quei grani potrebbero
divenire corpo di Cristo». E veduta la Palestina, esclamò: «Se Dio
avesse conosciuto Napoli, certo non sceglieva questa per terra
prediletta». E metteva in burla il parto della Vergine, il viatico ed
altri dogmi, quasi repugnassero alla ragione e alla natura.
Scandolezzava poi col tener a tavola ambasciadori musulmani insieme coi
vescovi; guardie arabe custodivano il suo corpo e le sue fortezze;
odalische allietavano i suoi riposi abbelliti da rarità orientali e
dalle voluttà che avea vedute presso gli emiri di Sicilia e gli sceichi
dell'Asia; i Musulmani stessi lo consideravano come un loro credente,
_perchè educato in Sicilia_, e un d'essi avendo, in presenza di lui,
proferito un versetto del Corano che nega la divinità di Cristo, egli
vietò di infliggergli alcun castigo.
Si disse che egli avesse chiamato Mosè, Cristo e Maometto tre impostori,
e l'asseriva Gregorio IX scomunicandolo. Nell'abitudine del medioevo di
atteggiare ogni idea in un fatto, il motto trasformossi in un libro _Dei
tre impostori_. Quest'opuscolo venne attribuito a chiunque voleasi
denigrare: ad Averroé, a Federico II, a Pier dalle Vigne, ad Arnaldo di
Villanuova, a Bonifazio VIII, al Boccaccio, al Poggio, all'Aretino, al
Machiavello, al Pomponazio, al Cardano, all'Ochino, al Campanella, a
Giordano Bruno, al Vanino, per non dir che dei nostri, ma da nessuno fu
veduto. Veramente perirono anche i libri de' Gnostici, de' Manichei,
degli Albigesi: distruzione non difficile quando mancava la stampa;
anche dopo inventata questa perirono alcune opere, come quella del
_Sacrifizio di Cristo_ di cui appena testè si fece lo scoprimento: pure
il libro _Dei tre impostori_ noi crediamo non esistesse mai, ma
simboleggiasse l'incredulità materiale, derivata dagli Arabi.
L'origine stessa della costoro religione era un'eresia; prendeano a
edificare una terza Chiesa accanto alla giudaica e alla cristiana; molti
filosofi di quella gente consideravano le tre siccome pari, e siccome
sviluppo l'una dell'altra; di tutte con egual libertà discutevano, e con
maggiore il _gran commentatore_ Averroé, che tratta di ciarlieri i
teologi, e di fantasie le dispute su qualsiasi religione.
Tormentato dalla febbre del sapere, Federico lo cercava interrogando
anche i sapienti musulmani. Ad essi nel 1240 presentò varie quistioni,
sull'eternità del mondo, il valore e numero delle categorie, la natura
dell'anima, il metodo che conviene alla metafisica e alla teologia. Non
soddisfatto da alcuno, s'indirizzò al califo almoade Rascid per sapere
ove dimorasse Ibn Sabin di Murcia, e saputolo, mandògli quelle dimande.
Il dotto arabo rispose come un pedante che vuol mostrare più scienza che
non abbia, e finge esser costretto a dissimulare il troppo più che sa; a
tu per tu coll'imperatore, o con sapienti da lui mandati, direbbe altre
cose secrete, perocchè, soggiunge, se i dottori fossero certi che io
risposi a certi punti, mi guarderebbero con orrore, e non so se Dio
colla sua bontà e sapienza mi camperebbe dalle loro mani[68].
L'eresia di Federico era più pratica, e consisteva nel voler sostituire
se stesso al papa, usurpare le funzioni del sacerdozio, far moneta coi
vasi sacri, deporre e istituir prelati, e da questi pretendere segni di
sommessione e quasi d'adorazione; e mentre sprezzava la Chiesa perchè
non fa più miracoli, voleva ricondurla alla semplicità primitiva.
Per ciò, e per aver giurato di andare alla crociata, poi mentito;
andatovi poi, aver patteggiato co' Musulmani, anzichè sterminarli,
Gregorio IX lo scomunicò. Federico s'appella a un concilio generale, e
Gregorio lo convoca a Roma (1241), poi Innocenzo IV un altro a Lione
(1245), ove la Chiesa riunita, e per essa il vicario di Cristo,
dichiarano Federico convinto di sacrilegio ed eresia, scaduto
dall'impero, dispensati i sudditi dall'obbedirgli. Pier dalle Vigne avea
composto un trattato _De consolatione_, uno _De potestate imperiali_, e
credesi il libello _Paro figuralis_, ove nel pavone raffigura Innocenzo
IV al concilio di Lione, circondato di colombe, tortore, oche, anitre,
passeri, rondini, figuranti i cardinali, i vescovi, gli abati d'ogni
colore, i cittadini, i mendicanti; il gallo rappresenta il re di
Francia, la pica i Guelfi, il corvo i Ghibellini; l'aquila l'imperatore;
gli uccelli grifagni Tedeschi, Siciliani, Spagnuoli. Il libercolo non
trae valore che dall'opportunità, ma mostra come le nazioni d'Europa non
fossero così estranie fra loro, come darebbe a supporre la asserita
barbarie; e che già la letteratura militante elaborava l'opinione
pubblica. In fatti Federico le proprie discolpe diramò ai principi,
mostrandosi eretico appunto nell'atto che voleva scolparsene, poichè gli
incitava contro il papa: «Come mai soffrite d'obbedire a figli di vostri
sudditi? La Chiesa è divenuta affatto mondana; i suoi ministri,
inebriati delle delizie terrestri, non badano guari al Signore;
uniamoci, e vigiliamo insieme, affinchè, privati d'ogni superfluo,
costoro servano all'Altissimo, contenti di poco... Assisteteci contro la
superbia di questi prelati, acciocchè possiamo rassodar la Chiesa
dandole le guide più degne, e riformare pel suo bene e per la gloria di
Dio, com'è nostro dovere. Ve' come essi impinguano di limosine! Gonfi
d'ambizione, aspettano che tutto il Giordano coli nelle loro bocche.
Quanto denaro risparmiereste sbrattandovi da codesti scribi e farisei!
ai quali se tendete la mano, essi pigliano tutto il braccio; e voi
somigliate all'uccello preso nella ragna che, più cerca fuggire, più
s'accalappia. Intenzion mia fu sempre ricondurre gli ecclesiastici, e
principalmente i più grandi, a tale stato che perseverino sin al fine
nelle vie che furono quelle della Chiesa primitiva, menando una vita
apostolica, e mostrandosi umili come Gesù Cristo[69]. Noi crediamo far
opera di carità togliendo a costoro i tesori di cui sono satolli per
loro eterna dannazione».
Ipocrito! se tanto ti sta a cuore la loro salute, perchè non ne lasci a
loro stessi la cura? perchè inviti a spogliarli, come poi farà Lutero?
Questi pure griderà di tornar la Chiesa alla purità primitiva, e con ciò
provocherà tre secoli di guerre e dissidj. E come lui, Federico seminava
il concetto di nazionalizzar le Chiese in tutta Europa; e già in
Germania, sia per favorire al loro tedesco, sia per l'antica avversione
alle cose italiane, varj vescovi e capitoli più non badavano alle
ordinanze pontifizie, e persone senza nome giravano liberamente dicendo:
«Che scomuniche? che papa? Egli è così tristo, che neppur s'ha da
parlarne; piuttosto predicate per Federico imperatore e suo figlio
Corrado; essi perfetti; essi re galantuomini».
Di sottomettere la Chiesa allo Stato fece Federico il tentativo nel
regno delle Sicilie, ove già la dominazione de' Greci e degli Arabi
aveva abituato a una tal condizione di cose. I Normanni eransi provati a
delimitare i mutui poteri mediante que' concordati, che il nostro secolo
bestemmia senza pur conoscerli, e a cui vuol sostituire la formola
assurda della assoluta indipendenza delle due potestà. I trattati
conchiusi coi due Guglielmi, con Tancredi, con Costanza imperatrice
emanciparono più o meno la società civile; ma Federico, infatuato della
propria persona e della propria autorità, cercò sottrarnela affatto;
negò al papa l'omaggio che doveagli come re di Sicilia; vi mutò leggi,
crebbe tributi, levò soldati senza consenso del pontefice. Per ricolpo
Innocenzo IV pubblicò più tardi la famosa bolla 8 dicembre 1248, che
tendeva ad assorbir lo Stato nella Chiesa, escludendo ogni intervenzione
laica dalla nomina de' prelati, dispensando questi dal giuramento al
sovrano e dalla giurisdizione laica, civile o criminale; autorizzando i
possessori di beni ecclesiastici a fortificar i castelli, rialzare le
ville, ripopolare le distrutte, senza bisogno di regia placitazione.
L'imperatore rispose con supplizj, paragonando ad eretici i fautori del
papa, e sè stesso al profeta Elia che purgò Israele dai sacerdoti di
Baal; e così sotto pena di morte si dovette riconoscere che solo capo
della Chiesa è il capo dello Stato.
Il popolo non aveva mezzo d'esprimere le sue proteste, e i cortigiani,
che soli scrissero, ci dicono come fosse lietamente obbedito
l'imperatore, rappresentante del Dio vivo; e dalle stesse loro
adulazioni traspare come, senza innovar il dogma, Federico II tendesse a
render il papa cappellano dell'imperatore. Se fosse riuscito, l'aquila
tedesca avrebbe surrogata la croce italiana, e tutta Europa avrebbe
presentato il tristo spettacolo che scorgesi a Costantinopoli e a Mosca;
la podestà spirituale serva alla temporale; il papa ridotto a registrare
i decreti di Cesare; il quale, come il czar o come il sultano, avrebbe
avuto impero assoluto sul clero e sui laici. Un papa che obbediva a un
imperatore avrebbe cessato d'ispirare fiducia o d'imporre riverenza ai
paesi estremi: Toledo e Reims, Cantorbery e Vienna avrebber preso per sè
porzione dell'autorità di esso; tutti i patriarchi, tutti i principi
ecclesiastici di Germania avrebbero voluto dirsi pari al pontefice; il
quale si sarebbe trovato ridotto a null'altro che figurare in qualche
cerimonia, e disputare sulla consustanzialità e sul _filioque_.
Roma lo vide: vide come quest'esempio sarebbe funesto in tutto
l'Occidente, e sostenne la lotta dei Lombardi, di Venezia, di Genova
contro Federico. Persuaso egli che bisognava colpir la testa, si diresse
sopra Roma, ma il popolo la difese, e salvò il poter temporale e con
esso l'indipendenza del papa, e respinse Federico anche quando due altre
volte vi si accostò.
Vinto sul terreno politico, invase il religioso, cercando sottrarre al
papa il governo delle anime; cercò tirar dalla sua i frati mendicanti,
carezzando il loro generale frate Elia, ma non riuscì: fomentò gli
eretici, sol perchè avversi a Roma, e così propagavasi anche in Italia
la negazione. Pure il popolo ascoltava al papa, suo rappresentante; e ai
frati e ai preti, immediati suoi consiglieri e amici, e a sant'Ambrogio
Sansedone, a santa Rosa da Viterbo, a sant'Antonio da Padova, al beato
Giordano Forzaté, ad altri che Federico perseguitava con armi, legulei e
carceri. Poi Dio mandò al superbo il flagello dei re, il sospetto; e
credendosi tradito da amici e parenti, mandò al supplizio molti e lo
stesso Pier dalle Vigne: e benchè fosse un de' più insigni talenti del
medioevo, e durasse trentadue anni d'impero, nulla compì di grande,
perchè, com'ebbe a dire il contemporaneo san Luigi di Francia, «fe
guerra a Dio coi doni suoi»: e al suo sepolcro il popolo guardava tra
meraviglia e spavento, riflettendo che sarebbe stato senza pari sulla
terra «se avesse amato l'anima sua».
Sulla sua discendenza parve pesare l'anatema, trovandosi a guerra coi
popoli e tra loro. Manfredi, bastardo di Federico, usurpato il regno di
Sicilia, periva nella battaglia di Benevento; Corradino, ultimo di quel
sangue, moriva sul patibolo di Napoli. Il nome di Federico II restò fra
gli antesignani della riforma: nel secolo seguente un cronista svizzero
ne invocava e prediceva la resurrezione per riformar la Chiesa; i primi
apostoli del protestantismo si giovarono degli argomenti di lui e di
Pier dalle Vigne. Un riscontro moderno possiamo trovargli in Enrico
VIII, che al luogo di Pier dalle Vigne ebbe Tommaso Cromwel, e che, al
par di Federigo, proclamava lo scisma da una parte, dall'altra bruciava
gli eretici: ma l'opinione al tempo di Federico era volta
tutt'altrimenti, e ne vennero infiniti mali al suo secolo e lo sterminio
della sua famiglia. Il patetico fine di questa dee compatirsi da tutti,
può deplorarsi dagli avvocati della monarchia assoluta e del diritto
divino dei re, ma i liberali dovran riconoscere che essa fu osteggiata
per la libertà del popolo, per l'indipendenza delle varie nazioni, la
quale sarebbe dovuta soccombere a un impero che avesse assorbito anche
la potestà spirituale. Che i papi trascendessero lo credette fin il pio
re san Luigi, ma furono stromenti della Provvidenza a un grande scopo,
il progresso civile, e la costituzione delle nazionalità[70].
Spenta la famiglia di Svevia, al concilio ecumenico IV di Lione (1274)
comparve un messo di Rodolfo d'Habsburg, povero conte dell'Argovia che
era stato eletto imperatore, e che non avendo puntigli ereditarj,
sentiva l'opportunità di terminar questo litigio, ripullulante da 70
anni. Giurò dunque adempier le promesse d'Ottone IV e Federico II;
confermava al papa le antiche donazioni del paese da Radicofani a
Ceprano, oltre l'Emilia, la Marca d'Ancona, la Pentapoli, l'eredità
della contessa Matilde e l'alto dominio sulla Sicilia, la Corsica, la
Sardegna, rinunziando alle terre disputate fra l'impero e la Chiesa; non
accetterebbe tenute ecclesiastiche nè cariche nello Stato Romano se non
assenziente il papa.
La Chiesa assicuravasi dunque l'indipendenza, e sugli imperatori
riportava una vittoria ben più vistosa che l'altra volta, ma non più
profittevole. Attesochè cessava l'importanza che i papi traevano
dall'opporsi al dominio tedesco, e i Guelfi divennero un partito, non
propugnatore dell'indipendenza nazionale, ma di certe idee o certe
persone, e facilmente stromento de' prepotenti e degli scaltriti.
Aggiungi che, nella contesa, le reciproche ragioni si eran portate al
tribunale del pubblico, che ormai pretenderebbe giudicarne.

NOTE
[51] _Quam fœdissima ecclesiæ romanæ facies, cum Romæ dominarentur
potentissimæ æque ac sordidissimæ meretrices, quarum arbitrio mutarentur
sedes, darentur episcopi, et, quod auditu horrendum et infandum est,
intruderentur in sedem Petri earum amasii pseudo pontifices, qui non
sunt nisi ad signanda tantum tempora in catalogo romanorum pontificum
scripti_. (_Ad ann_. 912, n. XII) Così dice il Baronio, che era
cardinale, scriveva per impulso di san Filippo Neri, e per sostenere il
papato contro le storie che dettavano i Protestanti, e massime le
Centurie Magdeburgesi. Eppure vedasi come riprova i disordini della
Chiesa. Nel che anzi eccedette, come l'accusa perfino il Muratori, sì
poco papale; e come il provano altri documenti intorno a quell'età.
[52] Questa favola della papessa Giovanna, su cui vedremo trastullarsi i
satirici e protestanti, si collocherebbe all'855; non è accennata che da
Mariano Scoto, cronista dell'XI secolo, poi narrata a disteso da Martin
Polacco, che dettò una storia de' papi fino al 1277. Oltre ch'egli è
tardivo, il passo sembra interpolato, mancando in alcuni codici, com'è
intruso nella _Storia de' pontefici_ di Anastasio Bibliotecario, il
quale altrove a Leone IV fa succedere Benedetto III, non già questo
supposto Giovanni VII, e dice che l'elezione fu notificata a Lotario
imperatore, il quale si sa che morì nel settembre del 855; sicchè non vi
saria bastante intervallo per frammettervi un altro papa. Produssero
ultimamente una medaglia del 855, che porta il conio e di Lotario e di
Benedetto III; locchè conferma l'immediata successione di questo. Si
noti che Leone IX, scrivendo a Michele Cellulario patriarca di
Costantinopoli, gli dice come in Occidente era sparso che una donna
fosse stata fatta patriarca di Costantinopoli. Il fatto sarebbe men
improbabile per una sede, cui dicesi ottenessero anche eunuchi; ma il
papa non avrebbe accennato questa diceria, nè il Cellulario avrebbe
lasciato di rimbeccarnelo se fosse stata anche solo bisbigliata la
storia della papessa Giovanna. Ed è pure da valutarsi che, nei contrasti
che allora la sede romana avea colla greca, fra tante ingiurie che il
patriarca Fozio lancia contro i Papi, non fa la minima allusione a
questa papessa. Lasciam dunque in siffatte cloache l'abate Casti,
Bianchi Giovini e simili sozzure.
[53] Cardinali vescovi eran quelli di Ostia, Porto, santa Rufina, Alba,
Sabina, Tusculo, Preneste, vicarj del papa qual parroco di san Giovan
Laterano. Cardinali cherici erano i parroci dipendenti da quattro altre
chiese patriarcali di Roma. I cardinali diaconi presedevano agli
istituti di carità.
[54] Già sotto i Longobardi, Paolo Diacono si lamentava che nessuno
frequentasse la chiesa di san Giovanni di Monza, perchè i suoi preti
erano concubinarj e simoniaci. Nel 790 girò attorno a Brescia un monaco,
annunziando vicina la fine del mondo, in grazia della depravazione de'
religiosi: spacciatosi profeta, distribuì i suoi proseliti in cori di
angeli, guidati da arcangeli, e maltrattò i frati sinchè egli stesso
venne mandato a morte. RODULPHI NOTARII _Hist. rerum brixian._, p. 17.
[55] Il passo fu accertato essere stato intruso. Ad ogni modo si sa non
essere questo divieto a' preti di aver moglie che una disciplina, e la
Chiesa l'adottò per alte convenienze, pur tollerando in alcun luogo,
come fra i Greci. Che a Napoli il matrimonio de' preti e sin quello de'
frati fosse riconosciuto vorrebbero indurlo da documenti autentici, ove
trovansi soscrizioni, _Ego Petrus, filius domini Stephani monachi: Ego
Sergius, filius domini Johannis monachi: Ego Joannes, filius domini
Petri monachi..._. (alle pagine 10, 21, 40, 46 della _Sylloge de'
Monumenti_ del grande archivio di Napoli). Ma ciò può riferirsi a
persone monacatesi dopo vedovate. Il concilio di Melfi nel 1059 limitò
il matrimonio de' preti: dopo il concilio romano del 1072 fu proibito.
Nelle consacrazioni dei vescovi prescriveansi norme intorno all'ordinare
conjugati: e l'arcivescovo Alfano nel 1066, consacrando il primo vescovo
di Sarno, gli indiceva _ne bigamum, aut qui virginem sortitus non est
uxorem, ad sacrum ordinem permittat accedere: et si quos hujusmodi forte
reperit, non audeat promovere_. UGHELLI, _Italia sacra_, tom. VII, p.
571. Barbato arcivescovo di Sorrento, nel 1110 ordinando Gregorio
vescovo di Castellamare, dicea: _eique dedimus in mandatis ne nunquam
ordinationem præsumat facere illicitam, nec bigamum, aut qui virginem
non est sortitus uxorem, neque illiteratum.... ad sacrum ordinem
permittat ascendere_. Id., tom. VI, p. 609, ediz. Venezia 1721. Tutto
ciò poteva riferirsi a vedovi, e tale disciplina è seguita oggi pure,
non ordinandosi chi fosse stato bigamo vero, cioè marito successivo di
due donne, o bigamo similitudinario, cioè marito d'una vedova.
[56] Il cronista Arnolfo da principio mostrasi caldissimo
dell'indipendenza della Chiesa milanese dalla romana, disapprovando
altamente la plebe che tumultuava contro gli eretici. Ma dopochè nel
1077 intervenne all'ambasceria con cui i Milanesi implorarono perdono da
Gregorio VII, cangiò stile, protestando «non dissentire punto da quelli
che riprovavano le consacrazioni simoniache e l'incontinenza de' preti»
(Lib. IV, 12); oggimai vedere ben altrimenti di prima, e confrontando il
presente col passato, arrossire non già pei barbarismi del suo stile, ma
d'avere sventatamente riferito i fatti e i detti altrui: _cumque
præteritis præsentia scriptis scribenda conferret, rubore perfusum
fideliter erubescere, nec barbarismos in verbis egisse, sed aliorum
quælibet dicta vel facta temere indicasse confundi_ (IV, 43). Col che
veramente indica piuttosto aver imprudentemente recato fatti e detti,
che non mentito alla verità.
Landolfo Seniore invece, parteggiando affatto per l'indipendenza della
Chiesa milanese, non solo svisa i fatti contemporanei, ma anche i
precedenti, volendo sempre esporli come tipo e specchio de' presenti;
esalta tutti i vescovi precedenti, e massime Eriberto da Cantù; trova le
virtù e i meriti tutti ne' concubinarj, asserendo con leggerezza e
mentendo con impudenza, come avviene de' settarj.
[57] _Permittis ut ecclesiæ tuæ clerici, cujuscumque sint ordinis, velut
jure matrimonii confœderentur uxoribus. Quid est, pater, quod tibi soli
vigilas, et his pro quibus priorem exigendus es rationem, tam inerti
securitate dormitas?... Præsertim, cum et ipsi clerici tui, quidem satis
honesti et literarum studii sint decenter instructi. Qui dum ad me
confluerent, tamquam chorus angelicus et velut conspicuus ecclesiæ
videbantur eniteres_.
Ottocento anni dopo, Royer Collard in Francia diceva: «Nel 1793 le
persone della mia età videro la filosofia del tempo, sostenuta dal
terrore, ammogliar alcuni preti. Che preti erano? che donne sposavano? I
pochi che restano ancora di tali vergognosi matrimonj stanno sotto la
riprovazione universale. La pruova non si rinnoverà; ma se fosse, non
esito affermare che il prete ammogliato salendo all'altare desterebbe
orrore al nostro popolo cattolico, e l'indignazione pubblica lo
dichiarerebbe incapace e indegno del sacerdozio».
[58] Gregorio VII, nella famosa lettera al vescovo di Metz, non esita a
mettere il papa di sopra dei re. «Questa dignità di monarca, inventata
da' pagani, non dev'essere soggetta all'eterna autorità di san Pietro,
che la misericordia di Dio ha depositata in mano dell'uomo per salute
de' redenti? Re, principi, duchi, imperatori hanno ereditato questi nomi
pomposi da uomini dannati eternamente, i quali con rapine, perfidie,
violenze, assassinj, esercitarono sopra i loro simili l'esecrando
diritto del forte, e fatti despoti dominavano con tirannico orgoglio.
Chi può dubitare che i ministri della Chiesa, i sacerdoti di Cristo, i
successori di Pietro devano esser venerati per padri e maestri dei re,
dei popoli, del genere umano?... Un semplice esorcista è rivestito
d'un'autorità superiore a qualunque principe, perchè discaccia gli
spiriti maligni. Il pio sacerdote governa i suoi simili a salute
dell'anime loro, ad onore e gloria di Dio: mentre i potenti del mondo
non regnano che per soddisfar all'orgoglio ed a materiali passioni. Un
monarca cristiano, quando giace sul letto di morte, implora l'assistenza
del prete che gli rimetta i peccati, e salvi da Satana, e lo guidi dalle
tenebre agl'eterni splendori: vedeste mai un prete o un laico in agonia
rivolgersi al suo re? Qual principe della terra si arroga di riscattare
un'anima dall'inferno in virtù del santo battesimo? E ciò che forma la
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