Gli eretici d'Italia, vol. I - 20

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scalzi predicando Gesù Cristo. Alfine da Alessandro VI ottenne una
bolla, ove dichiaravasi che mai, per le tesi riprovate, non era incorso
in veruna censura o sinistra nota, o da queste veniva assolto; e morì
piamente nel 1494 in mano de' Domenicani, l'abito de' quali voleva
vestire.
Ma la filosofia ponevasi sempre più in urto colla fede, e «non pareva
fosse gentiluomo e buon cortigiano colui che de' dogmi non aveva qualche
opinione erronea od eretica». I moderati credevano prestar omaggio alla
fede col non riflettervi, accettare i dogmi senza esame, con
quell'accidia voluttuosa che, in tempi a noi vicini, chiamava spirito
forte l'indifferenza, e lo sdrajarsi col bicchiere in mano e spegnere i
lumi. Già viveasi per l'intelletto più che per la coscienza;
irrobustendo la ragione, lasciavasi ammutir la coscienza, guastare il
cuore, e mescersi a tutto una superstizione puerile; e come conseguenza
un materialismo semplice e pratico, un'accidia voluttuosa, talchè può
dirsi che tutta l'Italia fosse trasformata in un gran Decamerone.
Quel beffardo sincretismo manifestavasi, come avvien nelle mode, anche
con frivolezze, e alla Corte de' Medici si teneano spesso dispute
filosofiche e teologiche in questo senso. Nicola de Mirabilibus,
domenicano, racconta come, _post convivium magnifice ac splendide
factum_ nel palazzo di Lorenzo de' Medici, si pose in disputa una tesi,
affissa nel tempio di Santa Riparata dai frati Minori, che il peccato di
Adamo non è il maggiore di tutti i peccati. Frà Nicola divisa gli
argomenti addotti dai varj interlocutori, e massime dal magnifico
Lorenzo.
Da per tutto, ma forse peggio in Italia, la buffoneria si esercita col
bersagliare le convinzioni, e mettere in canzonella le quistioni più
serie, quando vengono agitate. Per tale spirito Luigi Pulci, nel
bizzarro poema del _Morgante_, volgeva in baja tali disquisizioni:
Costor che fan sì gran disputazione
Dell'anima ond'ell'entri ed ond'ell'esca
O come il nocciol si stia nella pesca
Hanno studiato in su n'un gran mellone.
Fin sul teatro recavansi, e sta manoscritta alla Biblioteca già Palatina
di Firenze una rappresentazione del XV secolo, intitolala _I Sette
Dormienti_, ove Tiburzio e Cirillo sostengono che, secondo Aristotele,
la resurrezione dei morti è contro natura; Faustino cristiano disputa in
contrario e conchiude:
Se Aristotel nol crede lo credo io,
Se non lo fa natura lo fa Dio.
Faustino racconta all'imperatore Teodosio le ingiurie dettegli dai
filosofi, e l'imperatore chiama teologi e filosofi a disputare in sua
presenza, ma poichè non giungono a una conclusione, l'imperatore li
congeda, si veste di cilizio, e prega Dio a palesare la verità. Qui
interviene il noto miracolo de' sette dormienti.
V'ebbe qualche filosofo che accendeva il lumicino all'immagine di
Platone; qualche accademia celebrava feste all'antica, sagrificando un
capro; e molti cambiavansi il nome di battesimo, quasi vergognosi di
portare quel d'un santo; e d'Antonio, Giovanni, Pietro, Luca, faceano
Aonio, Gianni, Pierio, Lucio; e mutavano Vittore in Vittorio o Nicio,
Marino in Glauco, Marco in Callimaco, Martino in Marzio, e così via.
Si sgomentò di questo paganizzamento Paolo II, e fece processare alcuni,
tra' quali Pomponio Leto e Bartolomeo Sacchi, detto il Platina da
Piadena ove nacque il 1421. L'accusa era che latinizzassero i nomi, e
coi Platonici mettessero in dubbio l'anima e Dio. Rispondeano che,
quanto al venerare Platone, imitavano sant'Agostino; che filosofi e
teologi tutti allora disputavano su questi punti, affine di giungere
alla verità; che del resto essi non disobbedivano alla Chiesa, anzi ne
seguivano le pratiche[224], e mai non aveano lasciato di confessarsi e
comunicarsi ogni anno.
È da bello spirito il lodare uno perchè perseguitato dai papi, e fargli
merito di quel che i papi non poteano che riprovare. Ma dalla lettera
ove il Platina, stando in carcere, racconta al cardinale Bessarione il
suo processo, appare come l'accademia istituita da Pomponio Leto
tendesse a trasformare il paganizzamento letterario in religioso;
avvegnachè vi si celebrava il giorno della fondazione di Roma con
sacrifizj; e Pomponio ogni giorno s'inginocchiava ad un altare dedicato
a Romolo[225], e non volea leggere libro posteriore alla decadenza
dell'impero, quindi neppure la Bibbia e i Padri. Fosse stato anche
soltanto letterario, non v'è retto pensatore che non iscorga quanto
pregiudicasse alla logica, alla morale, all'estetica il volere che
Cristo e la redenzione cedessero il luogo alla voluttà pagana e al
lepido bersagliamento contro le virtù domestiche e sociali.
Per estendere gli atti in colto stile, Pio II aveva attaccato alla sua
cancelleria un collegio di sessanta abbreviatori, tutti letterati.
Abusarono del loro posto per far traffico de' rescritti; onde Paolo II,
volendo tutto fosse gratuito, li soppresse, senza riguardo alle somme
con cui aveano compro que' posti. Si pensi quanti nemici si fece! ed
erano scrittori. Fra essi il Platina, il quale credette sgomentare il
papa minacciando scrivere contro di lui, e indurre i principi a radunare
un concilio per riparare a tale ingiustizia. Ciò parve colpa di
stato[226]; e aggiungendosi il sospetto d'una congiura contro il papa;
con altri il Platina fu arrestato e torturato, prima per accusa di
fellonia, poi di eresia, entrambi non provate. Tenuto in carcere quattro
mesi e senza fuoco, siccome egli si lamenta, il Platina si vendicò col
dettare una storia de' papi ostilissima, dalla quale i Protestanti
ripescarono molti fatterelli contro la Corte romana, perciò noverando
lui fra gli anticipati testimonj della verità. Qui noi non abbiamo che a
notare la pochissima critica di questo abborracciatore passionato. Per
esempio, di Paolo II egli fa un nemico di tutti i letterati,
giudicandoli tutti eretici, e sconsigliando i padri dallo sciupare
denari e tempo nell'istruzione dei figliuoli, bastando sapessero leggere
e scrivere. Se non avessimo altre testimonianze, basti il dire come,
sotto quel pontefice, s'introducesse la stampa a Roma, e i primi libri
uscissero dedicati ad esso, con larghe lodi della sua munifica
protezione; e il Platina stesso narra ch'e' cercava d'ogni parte statue
antiche per ornar il suo palazzo[227].
Che se quanto noi esponemmo basta a smentire gli storici plebei, che
cianciano fosse servile la fede, assoluta l'ignoranza, giustifica quelli
che, al vedere la scienza staccarsi dall'appoggio della fede,
spaventavansi che la salute delle anime si facesse dipendere dalle
vicende del sapere. E questo paganizzamento, ancor più che nella
scienza, rendeasi appariscente nelle arti belle e nella letteratura,
dove al convenzionale tipico surrogavasi la plastica raffinatezza; e
l'appassionamento per l'antichità diede a credere non si potesse
compiere il risorgimento se non ripristinandola, fino a rimettere in
culto le idee che il vangelo aveva dissipate, e rialzare le ruine della
Roma pagana sopra gli edifizj della Roma cristiana.
Sugli altari si correva ad ammirare pitturate le amasie de' pittori, e
belle di divulgata cortesia nella Vergine della casta dilezione.
Alessandro VI fu dipinto dal Pinturicchio in Vaticano sotto forma d'un
re magio, prostrato avanti una Madonna ch'era la Giulia Farnese, come il
Pordenone fece Alfonso I di Ferrara inginocchiato a una santa Giustina,
la quale era Laura Dianti, druda di lui. Tutto gentilesco si mostrò il
Ligorio nella villa Pia, eretta per ricreazione de' papi. Il Tiziano per
santa Caterina fece il ritratto della regina Cornaro, pompeggiante di
dovizie e bellezze. Nell'adorazione de' Magi spesso si ritrassero i
Medici, per aver pretesto di porvi in testa quella corona a cui
aspiravano. Nel quartiere della badessa di San Paolo a Parma il
Correggio eseguì scene più che mondane: nella sacristia di Siena si
collocarono le tre Grazie ignude; e ignudi turbavano l'austerità delle
tombe principesche, e fin le cappelle pontifizie. A Isotta, amasia poi
moglie di Pandolfo Malatesta signore di Rimini, fu su medaglie e sul
sepolcro dato il titolo di _diva_; e Carlo Pinti nell'epitafio la
dichiarava «onor e gloria delle concubine». S'un sepolcro in San Daniele
a Venezia leggesi: _Fata vicit impia_; come la divisa di monsignor Paolo
Giovio dicea: _Fato prudentia minor_. Sotto Giulio II esortavasi alla
crociata perchè darebbe occasione d'acquistare manoscritti.
L'eloquenza sacra deduceva non solo le forme, ma e le autorità e gli
esempj dei classici. Nei funerali di Guidobaldo da Montefeltro, l'Odasio
ne recitò il panegirico nel duomo d'Urbino, più volte esclamando agli
Dei immortali, dicendo come il vescovo di Fossombrone coi sacramenti
amministratigli avesse placato gli Dei e i Mani; _Deos illos superos et
Manes placavit_. Il cardinale Bessarione, compiangendo la morte di
Gemistio Pletone, dice: «Intesi che il nostro padre e maestro, essendosi
spogliato di quanto avea di terrestre, volò verso i cieli in un luogo
purissimo, dove può ballare coi celesti la mistica danza di Bacco». Il
Poliziano, scrivendo a Lorenzo de' Medici al 6 aprile 1479, lagnasi che
sua moglie avesse messo il figlio Giovanni (che fu poi Leone X) a
leggere i salmi, invece de' libri nostri: _transtulit jam illum mater ad
psalterii lectionem, atque a nobis abduxit_[228].
Nel 1526 essendo presa Siena da' fuorusciti, un buon canonico, memore di
ciò ch'è narrato nel terzo libro di Macrobio, recitò la messa, e proferì
la formola imprecatoria che ivi è indicata contro i nemici; se non che,
invece di _Tellus mater, teque Jupiter obtestor_, disse _Tellus, teque
Christe Deus obtestor_.
Oscenamente scriveano il Panormita nell'Ermafrodito, Giovian Pontano,
Francesco Filelfo, Poggio Bracciolini, il Landino, il Poliziano, Lorenzo
de' Medici, Giovanni Della Casa monsignore, Angelo Firenzuola frate, ed
altre persone gravi, non solo porgendo manifestazioni, ma apologie del
vizio, e scherzando su quanto ha di più sacro la società e la famiglia.
Nell'esaltazione di Alessandro VI le iscrizioni alludevano sempre al
nome eroico:
_Cæsare magna fuit, nunc Roma est maxima: sextus_
_Regnat Alexander, ille vir, iste Deus;_
e un'altra:
_Scit venisse suum patria grata Jovem_.
Per Leone X si fece quest'epigramma:
_Olim habuit Cypris sua tempora, tempora Mavors_
_Olim habuit; sua nunc tempora Pallas habet._
Esso Leone X eccitava Francesco I contro i Turchi _per Deos atque
homines_. V'è chi chiama Olimpo il paradiso, Erebo l'inferno,
lectisternia le maggiori solennità, _arciflamini_ i vescovi, _infula
romulea_ la tiara, _senatus Latii_ il sacro concistoro, ambrosia e
nettare le sacrosante specie; _sacra Deorum_ la messa, _simulacra sancta
Deorum_ le immagini de' santi.
Le allusioni gentilesche del Bembo strisciano all'empietà; partendo per
la Sicilia, invoca gli Dei propizj al suo viaggio, _quod velim Dii
approbent_; fa Leone X assunto al pontificato _per decreto degli Dei
immortali_; parla dei doni alla _dea lauretana_, dello _zefiro celeste_,
del _collegio degli auguri_, per indicare lo Spirito santo e i
cardinali; chiama _persuasionem_ la fede, la scomunica _aqua et igni
interdictionem_; fa dal veneto senato esortare il papa _uti fidat diis
immortalibus, quorum vices in terra gerit_; e così _litare diis manibus_
è la messa dei morti; san Francesco in _numerum deorum receptus est_.
Ne' versi poi anteponeva il piacere di vedere la sua donna a quello
degli eletti in cielo:
E s'io potessi un dì per mia ventura
Queste due luci desiose in lei
Fermar quant'io vorrei,
Su nel cielo non è spirto beato
Con ch'io cangiassi il mio felice stato.
Negli _Asolani_ conforta i giovani ad amare; e al cardinale Sadoleto
scriveva: «Non leggete le epistole di san Paolo, chè quel barbaro stile
non vi corrompa il gusto; lasciate da canto coteste baje, indegne d'uom
grave. _Omitte has nugas, non enim decent gravem virum tales ineptiæ_».
Nell'epitafio pel famoso letterato Filippo Beroaldo egli ne loda la
pietà, per la quale suppone che canti in cielo:
_Quæ pietas, Beroalde, fuit tua, credere verum est_
_Carmina nunc cœli te canere ad cytharam:_
eppure i costui versi ostentano gli amori colla famosa Imperia, e con
un'Albina, una Lucia, una Bona, una Violetta, una Ghiera, una Cesarina,
una Merimna, una Giulia, le quali appaja a quella cortigiana; ed era
prelato.
Ma il Bembo, come gli altri del suo tempo, credeva il risorgimento
consistere nelle forme; doversi abbattere la scolastica per mezzo di
Cicerone, e mediante l'espressione materiale giungere allo spirito;
abborriva dagli umanisti, che dicean il latino moderno dovere essere di
vario colore; e piacevagli meglio parlare come Cicerone che essere papa.
Egli recitava a memoria molti passi dello scorrettissimo Battista
Mantovano: ma ciò ch'è maggiore meraviglia, altrettanto faceva il
Sadoleto, un de' più pii di quel secolo. Il quale ha una consolatoria a
Giovanni Camerario per la perdita di sua madre, che tutta volge sulla
intrepidezza e magnanimità pagana, senza toccare agli argomenti ben più
efficaci della religione. Jacobo Sannazaro, per cantare il parto della
Vergine, invoca le Muse, scusandosi se le adduce a celebrare un infante
nato in un presepio, e non mai nomina _Jesus_ perchè non è latino;
perchè non è latino _propheta_, fa dal Giordano personificato narrare
l'ascensione di Cristo qual la udì vaticinare da Proteo: Maria _spes
fida deorum_, è dall'angelo Gabriele trovata intenta a leggere le
Sibille (_illi veteres de more Sibyllæ in manibus_); e quand'ella
assente a divenire madre, le ombre de' patriarchi esultano _quod tristia
linquant Tartara, et erectis fugiant Acheronta tenebris, Immanemque
ululatum tergemini canis_. Dapertutto insomma arte pagana in soggetto
sacro, alla guisa che sul suo sepolcro in una chiesa sorgono Apollo e
Minerva, fauni e ninfe.
Girolamo Vida, dotto e santo vescovo di Cremona, che digiunava spesso a
sole radici, nella _Poetica_ non parla che di Muse e Febo e Parnaso,
come i classici di cui raccozzava gli emistichi, e ai quali,
principalmente a Virgilio, prestava un culto da Dio:
_Te colimus, tibi serta damus, tibi thura, tibi aras_
_Et tibi rite sacrum semper dicemus honorem._
_Nos aspice præsens,_
_Pectoribusque tuos castis infunde calores_
_Adveniens pater, atque animis te te insere nostris._
Come in un poema sul giuoco degli scacchi, alle nozze dell'Oceano colla
Terra fa gareggiare Apollo e Mercurio; così usa nella _Cristiade_, dove
applica a Dio Padre tutti i nomi di Giove, _regnator Olympi, superum
pater, nimbipotens_; del Figlio fa un eroe, sul tipo di Enea; _multis
comitantibus heros — immobilis heros orabat — curis confectus tristibus
heros — ipse etiam_ (il cattivo ladrone) _verbis morientem heroa
superbis stringebat_: Gorgone, Erinni, Arpie, Idre, Centauri, Chimere,
spingono gli Ebrei al deicidio: all'ultima cena viene consacrato fior di
Cerere: sulla croce al morente è porto tristo umor di Bacco (_sinceram
Cererem — corrupti pocula Bacchi_). L'uomo soffrente sul Calvario non è
il Dio riparatore, e allo spirare suo, non che l'alito d'amore si
difonda sulle ire procaci, gli angeli vorrebbero farne vendette: sempre
insomma dal Cristo, redentore dello spirito immortale, volgea gli occhi
all'Apollo, tipo di bellezza corporea.
Vero è che, sin quando il sentimento religioso predomina, esercita sulla
forma la sua forza riparatrice; pure il ravvivato splendore
dell'antichità abbagliava per modo, da adombrare il cristianesimo;
ammirando unicamente il bello della società classica, non vedeasi il
buono della moderna, e le teoriche di quella si applicavano agli affari
pubblici.
La fede nella sua integrità era stata fino allora la fonte unica d'ogni
diritto, d'ogni ordine. Tutto il mondo civile riconosceva una religione,
cioè una dottrina generale sulle relazioni fra il cielo e la terra, uno
scopo alla vita dell'umanità, cioè compiere il disegno divino; una
l'origine degli Stati, cioè la volontà di Dio; conformità di credenze,
che costituiva un legame tra le varie società.
Da questa fonte unicamente traevasi il diritto di governare e di punire;
gli Stati prendeano il nome del loro patrono, dicendosi patrimonio di
san Pietro, come repubblica di san Marco o di san Giovanni; e
sant'Ambrogio, san Geminiano, san Petronio, san Siro indicavano Milano,
Modena, Bologna, Pavia; il nome e l'effigie del santo metteasi sulle
monete e sugli stendardi: perfino le date storiche riferivansi al
calendario ecclesiastico, dicendo che il giorno della candelara erano
state rapite le spose veneziane, alla sant'Agnese sconfitti i Torriani
dai Visconti; al san Sisino si vinse il Barbarossa a Legnano; a san
Cosmo e Damiano fu preso Ezelino.
Gli stessi pensatori non cercavano altro che rendersi ragione di quel
che credevano. Cattolici prima che filosofi, volenti godere della
tradizione che aveano ricevuta coll'intelligenza, studiavano
comprendere, ma in fondo credevano, portando l'offerta della loro
scienza e ragione al tempio del Signore; e non pretendeano riformare il
mondo e la società col pensiero loro proprio, senza tenere conto de'
loro simili, nè de' fratelli e dei canoni trasmessi dai vecchi.
Così per quindici secoli non si era avuto che un idioma per favellare a
Dio, una sola autorità morale, una sola convinzione; tutta Europa alla
stess'ora, il giorno stesso, colle stesse parole supplicava, aspirava,
esultava.
Ora invece scomponevasi l'intima società col surrogare alla fede il
raziocinio, alla credenza assoluta le religioni comparate; inoculando il
dubbio corrompevansi i costumi, e i costumi riagivano sopra le credenze.
Ciò appare in tutti gli scrittori, e principalmente in Nicolò
Macchiavello e Francesco Guicciardini. Quest'ultimo guarda all'esito,
non mai alla giustizia d'una causa: le peggiori iniquità racconta colla
freddezza d'un anatomico; vede o arguisce sottofini e cattive intenzioni
dapertutto, nè mai riconosce virtù, religione, coscienza, bensì calcolo,
invidia, ambizione; fatto ironico, forse per dispetto degli uomini e
degli eventi, affetta un'imparzialità che in fondo è indifferenza tra
l'onestà e la ribalderia. I papi non solo esamina e giudica al modo
degli altri principi, ma sempre li trova in torto, gli accagiona di
tutti i mali d'allora; eppure li servì; e diceva: «Il grado che ho avuto
con più pontefici m'ha necessitato ad amare per il particolare mio la
grandezza loro; se non fosse questo rispetto, avrei amato Lutero quanto
me medesimo, non per liberarmi dalle leggi indotte dalla religione
cristiana nel modo ch'è interpretata e intesa comunemente, ma per veder
ridurre questa caterva di scellerati a' termini debiti, cioè a restare o
senza vizj o senza autorità»[229].
Altrove consigliava: «Non combattete mai con la religione, nè con le
cose che pare che dipendano da Dio, perchè questo objetto ha troppa
forza nella mente degli sciocchi»[230].
Non decidendosi fra Mosè e Numa, fra Giove e Cristo, ammette i miracoli
ma d'ogni religione «in modo che della verità di una fede più che di
un'altra è debole pruova il miracolo»[231]; in ogni nazione, e quasi in
ogni città sono devozioni che fanno i medesimi miracoli, segno manifesto
che le grazie di Dio soccorrono ognuno[232]. Egli tiensi certo anche per
esperienza propria che v'ha spiriti aerei, i quali domesticamente
parlano colle persone[233].
Dopo di ciò, non è più un fenomeno stravagante e un mito il
Macchiavello, il quale sull'idolatrato tipo de' Greci e Romani foggia la
nuova civiltà, cancellandone Cristo e il Vangelo. Secondo lui, natura
creò gli uomini colla facoltà di desiderare tutto e l'impotenza di tutto
ottenere, sicchè dirigendo essi il desiderio sopra gli stessi oggetti,
trovansi condannati a odiarsi gli uni gli altri. Per togliersi a questa
guerra di tutti contro tutti, è permessa ogni cosa, e di violare
qualunque diritto e dovere; e la società fu istituita per comprimere
l'anarchia mediante la forza organizzata.
In somma la sua è la dottrina dello Stato ateo, il quale non teme
d'andar all'inferno, ed è a se stesso fine e legge. Niente v'ha di
superiore ai sensi; l'idea della giustizia nacque dal vedere come
tornasse utile il bene e nocivo il male; al bene gli uomini s'inducono
solo per necessità; il principe dee farsi temere anzi che amare; scopo
dei governi è il conservarsi, nè questo si può che coll'incrudelire,
«perchè gli uomini sono generalmente ingrati, simulatori, riottosi,
talchè conviene ritenerli colla paura della pena». Suppone dunque l'uomo
cattivo, come fa la Chiesa, non però in grazia del peccato originale, nè
ammettendo un mediatore; non cerca il regno dello spirito, ma quello
della forza. Dio è sempre coi forti; e a chi ha dà ancora; a chi ha
poco, toglie anche quello che ha. È sventura che alla religione feroce
antica, coi gladiatori, col culto degli eroi, coll'apoteosi de'
conquistatori, e che mescolava le battaglie colle preghiere, il sangue
colle feste, sia succeduta questa, tutta umiltà ed abjezione[234],
negligente dei proprj interessi; e se può sperarsi alcun bene
all'umanità consiste nel rivolgimento delle sfere, che potranno far
rinascere qualche culto simile all'antico.
Roma egli ammira per «la potenza delle esecuzioni sue», perchè conquistò
tanti popoli, e per guerra o per frodi rapì ad essi ricchezze, leggi,
libertà, indipendenza. Le crociate sono un mero scaltrimento di Urbano
II; di frà Savonarola era stato entusiasta in gioventù, ma come ne vide
la politica fallire, dovette credere non potesse riuscire se non la
frodosa o violenta, scurante di ciò che sta sopra il tetto. Del maestro
non ritenne più che l'amor della patria, e questa volea vedere forte e
unita: «sian pur iniqui i mezzi, ma son passeggeri, e ne seguiranno il
dominio supremo della legge, l'eguaglianza e la libertà di tutti, e si
farà della cittadinanza un medesimo corpo, ove tutti riconoscano un solo
sovrano»[235].
Adoratore della forza, e da quella sola sperando l'aquietamento delle
fazioni, il Machiavelli fantasticava una monarchia italiana. Non già
ch'egli pensasse mai a un signore, il quale soggiogasse le fiorentissime
repubbliche di Venezia, di Genova, di Lucca, nè tanto meno Roma; ma un
principe robusto che imponesse la sua politica a tutte. Eppure sarebbe
stata questa, nelle idee d'allora, una vera servitù, una conquista, un
uccidere l'autonomia a cui aspiravano i singoli popoletti; lo perchè
tale politica era detestata dai migliori italiani. E sempre vi si erano
opposti i pontefici, vedendo come il rinnovare un regno d'Italia al modo
dei Goti e dei Longobardi non solo avrebbe mozza la loro sovranità, ma
avvilita tutta Italia. Dell'essere stati operosissimi a impedir questa
tirannide comune sopra l'Italia, il Machiavello imputava i pontefici. Ma
non che altri, lo riprovava Francesco Guicciardini, riflettendo che
l'Italia fu corsa a lor posta dai Barbari quando era sotto al dominio
unico degli imperatori; che dalle sue divisioni trasse forse gravi mali,
ma n'ebbe in compenso una straordinaria floridezza; che gl'Italiani, per
abbondanza d'ingegno e di forze furono sempre difficilissimi a ridursi a
unità anche quando Chiesa non v'era; che col conservare l'Italia in quel
tenore di vita che s'addice alla sua natura e alla sua antichissima
consuetudine, anzichè male, avea fatto bene la Chiesa romana[236].
Per far l'Italia il Machiavelli ricorreva, al solito, agli stranieri;
non accorgendosi come i papi fossero la sola potenza che valesse a
salvarne l'indipendenza, desiderava che i Francesi gli umiliassero,
sollevando i baroni contro di essi in modo che o gl'insultassero come
sotto Filippo il Bello, o li chiudessero in Castel Sant'Angelo; nè esser
quelli «così spenti che non si potesse trovar modo a raccenderli»[237];
e a' suoi Fiorentini scriveva come si pensasse dai Francesi invadere
Roma, il che «sarebbe da desiderare, acciocchè ancora a codesti nostri
preti toccasse di questo mondo qualche boccone amaro»[238]. Ma della
riforma religiosa non ebbe verun concetto; trattò il cristianesimo non
altrimenti che il paganesimo, adattandolo a religione civile, siccome
leggeva in un frammento di Varrone; col che giustificava l'intolleranza.
E dappertutto non mostrasi egli novatore, ma sempre ripete idee
classiche, con qualche aggiunta e qualche applicazione. Nell'esporre «le
verità effettuate delle cose», non inculca espresso l'ingiustizia, ma
toglie per unica norma l'utilità; non come Satana dice al male, _Tu sei
il mio bene_, ma, _Tu mi sei utile_; se l'utile deva posporsi all'onesto
è disputa da frati.
I tradimenti altrui e le proprie empietà espone in tono d'assioma, senza
passione, come evenienze naturali, con freddo computo di mezzi e di
fine, con un'indifferenza che somiglia a complicità. Con questa scienza
senza Dio, che eleva l'ordine politico di sopra del morale, la ragione
di Stato sopra l'umanità, che suppone unica meta delle azioni il
soddisfare gl'istinti egoistici e interessati, assolve la menzogna, il
perfidiare la parola e i trattati, il conculcare il diritto delle genti,
la cospirazione, l'assassinio, purchè si raggiunga lo scopo, si soddisfi
l'ambizione, qualunque siasi: la vittoria arreca gloria, non il modo con
cui la si ottiene. Perciò il Machiavello ammira chiunque riesce, sia
pure a fini opposti, eccetto Giulio Cesare che spense le libertà
classiche, e Gesù Cristo che abjettì gli uomini predicando l'umiltà.
Ammira _la virtù_ dello scellerato Cesare Borgia, e fatto inorridire
colle costui scelleratezze, conchiude: «Io non saprei quali precetti
dare migliori ad un principe nuovo che l'esempio delle azioni del
duca... Raccoltele, non saprei riprenderlo, anzi mi pare di proporlo ad
imitazione a tutti coloro che per fortuna e con le armi d'altri sono
saliti all'impero». L'appassionata sua vista non gli lasciava scorgere
su quanto labile fondamento poggiasse la potenza di quel fortunato
ribaldo; e quando egli cade, lo pronunzia «truculento e fraudolento
uomo, e meritevole della pena che i cieli gli avevano serbata».
Armonizzar la natura col soprannaturale, la scienza colla fede, la
rivelazione colla ragione, la filosofia colla teologia, era stato lo
scopo degli Scolastici, e ormai erano beffati e posposti alle dottrine
gentilesche[239]. Cambiata la bilancia degli atti, qual meraviglia se
non veneravansi più i santi del paradiso, ma si applaudiva agli eroi
dell'inferno? Virtù è la forza intelligente; mezzo di governo una
dominazione unica e incondizionata. Invano Cristo avrà detto, «Perisca
il mondo, ma facciasi la giustizia»; il Machiavello torna al pagano
«Suprema legge è la salute dello Stato», e dice che «quando una città
pecca contro uno Stato, per esempio agli altri e securtà di sè un
principe non ha altro rimedio che spegnerla, altrimenti è tenuto o
ignorante o vile: dove si delibera della salute della patria, non vi
debbe cadere alcuna considerazione di giusto nè d'ingiusto, nè di
pietoso nè di crudele; nè di laudabile nè d'ignominioso». E segue che
«un uomo il quale voglia fare in tutto professione di buono, conviene
che rovini in fra i tanti che non sono buoni»: nelle esecuzioni non v'è
pericolo alcuno, perchè chi è morto non può pensare alla vendetta.
Altrettanto dicevano i Terroristi di Francia. Ed io non vedo in che cosa
Machiavello sia migliore di Hobbes, se non che egli pone in capo di
tutto la politica; e con voti contradditorj, contrasti inattesi,
sentimenti generosi in mezzo a mostruose teoriche, scompiglia la
critica, mentre Hobbes s'attiene alla morale, e tutto riduce ad unità
inflessibile, non commovendosi per veruna passione: del resto entrambi
confondono l'anima col corpo, l'onesto coll'utile, la ragione col
calcolo, Iddio col nulla. Machiavello esprime l'egoismo del principe,
come il Contratto Sociale di Rousseau espresse l'egoismo del suddito;
entrambi del pari repugnanti alla carità cristiana, e ponendo fondamento
alla sistemazione degli Stati non più l'ordine voluto da Dio, ma la
volontà dell'uomo; traendo ogni podestà non da Dio ma dall'uomo;
riducendo l'attività sociale non a compiere un disegno divino
providenziale, ma ad emancipare l'umanità.
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