Gli eretici d'Italia, vol. I - 14

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ricevere i sacramenti, ed egli ripeteva non essere giunta l'ora: e
poichè insistevano che non morisse come un Giudeo, egli raccoltosi,
disse:
Io credo in Dio padre onnipotente,
E tre persone in un essere solo,
E che fe l'universo dal nïente,
E credo in Gesù Cristo suo figliuolo
E nato di Maria e crocifisso.
Morto e sepolto con tormento e duolo.
I frati gli soggiunsero non bastava il credere; doversi anche ricevere i
sacramenti: ed egli replicava voler aspettare frà Giovanni d'Alvernia.
Or questi era ben lontano da Collazzone, e nulla sapeva: ond'essi viepiù
stimolavano frà Jacopone. Il quale allora disse un cantico, di cui
produciamo qualche cosa:
Anima benedetta
Dall'alto Creatore,
Risguarda il tuo Signore
Che confitto ti aspetta.
Risguarda i piè forati
Confitti d'un chiavello,
Sì forte tormentati
Di così gran flagello!
Pensa ch'egli era bello
Sovr'ogni creatura,
E la sua carne pura
Era più che perfetta.
Vedil tutto piagoso
Per te in sul duro legno
Pagando il tuo peccato!
Morì il Signor benigno
Per menarti al suo regno
Volse esser crocifisso
Anima, guardal fisso
Ed in lui ti diletta.
Allora pure compose un delizioso cantico alla Vergine:
Maria Vergine bella
Scala che ascendi e guidi all'alto cielo,
Da me leva quel velo
Che fa sì cieca l'alma tapinella.
Vergine sacra, del tuo Padre sposa,
Di Dio sei madre e figlia.
O casa piccolina, in cui si posa
Colui che il Ciel non piglia,
Or m'ajuta e consiglia
Contro i mondani ascosi e molti lacci.
Pregoti che ti spacci
Nanzi ch'io muoja, o verginetta bella.
Donami fede, speme e caritate,
Notizia di me stesso.
Fammi ch'io pianga ed abbia in Dio pietate
Del peccato commesso.
Stammi ognora da presso
Ch'io più non caschi nel profondo e basso.
Poi nell'estremo passo
Guidami sue a la superna cella.
Si perdoni se ci badiamo tra fiori poetici: non sarà l'ultima volta. Chè
dove si vuol rinnegare una porzione dell'ente umano per ridurlo alla
pura ragione, noi faremo rivalere i titoli del sentimento, e appelleremo
al bello, non contro il vero, ma in sussidio al vero.
L'Ordine dei Minori veniva osteggiato principalmente (fenomeno
ordinario) da altri Ordini e dal restante clero, e se vediamo le accuse
lanciate contro l'uno o l'altro, ci pajono tornati allora que' tempi di
universale delazione, che si videro al decader dell'impero romano, e che
ripete il giornalismo odierno. Veramente san Francesco avea distolto i
suoi frati dall'imparare: _non curent, nescientes literas, literas
discere_; ma essi ben presto attesero agli studj, stabilirono scuole,
gareggiarono in sapienza teologica co' Domenicani, ed ebbero cattedre
nell'Università di Parigi. Se n'adombrarono i vecchi maestri, come
suole, e per parte de' professori di quell'Università nacque un fiero
litigio, al quale presero parte san Luigi, e i papi Innocenzo IV e
Alessandro IV; e non passò senza tumulti di piazza e sangue. I
Francescani proclamarono la libertà dell'insegnamento e ne conservarono
il diritto, ma ne rimasero odiati dai vinti, che trovarono a sfogarsene
quando apparve l'_Evangelium æternum_.
Quest'opera che, levò tanto rumore, non l'abbiamo noi, e poco si può far
conto dell'estratto che ne dà il cronico di Ermanno Cornero, domenicano
e perciò nemico[137]. Vollero attribuirlo all'abate Gioachimo, perchè,
come divisammo di lui, vi si asseriva la perfettibilità successiva anche
delle dottrine rivelate, e l'_Evangelio Eterno_ essere superiore al
vecchio e al nuovo Testamento: questo finirebbe nel 1260, per
surrogarvisi l'altro tutto spirito: al pontefice non è affidata la
cognizione spirituale della Santa Scrittura, ma solo la letterale. Iddio
colmerà di benefizj anche gli Ebrei perseveranti nell'errore: è
scusabile lo scisma de' Greci, i quali camminano secondo lo spirito più
che i Latini, e come il Figlio opera la salute di questi, così di quelli
il Padre. Cristo e gli apostoli non raggiunsero la perfezione della vita
contemplativa. La vita attiva giovò sino al tempo di Gioachimo, ma di
poi fu resa inutile, fruttuosa restando solo la contemplativa. I
predicatori del nuovo stato, perseguitati dal clero, passeranno agli
infedeli, ed è a temere non eccitino questi a guerra contro la Chiesa
romana. Gli Ordini mendicanti sono predestinati alla religiosa
trasformazione del mondo, surrogandosi al clero secolare, e riformando
la vita de' Cristiani.
Questa aspirazione alla supremazia, per mezzo degli argomenti che soli
allora aveano valore, i teologici, adombrò i dottori dell'Università
parigina: e Guglielmo di Santamore, già nemicissimo dei Mendicanti,
scrisse _De periculis novissimorum temporum_, denigrando quegli Ordini,
fino a negare che in essi potesse giungersi a salvazione.
Eccessi provocati da eccessi: sempre così; e l'Evangelio Eterno fu
denunziato al pontefice come riboccante d'empietà e bestemmie.
Giovan da Parma, generale de' Minori, e che da molti ne fu creduto
autore, e che mostrò sempre gran venerazione per l'abate Gioachimo,
locchè tolse venisse beatificato, si portò a Parigi a difendere davanti
all'Università i suoi frati; e facendo atto di sommessione, conchiudeva:
«Voi siete signori e maestri nostri: noi vostri servi, figliuoli e
scolari: e se qualche scienza abbiamo, la vogliamo riconoscere da voi.
Io espongo me stesso, e i fratelli che dipendono da me, alla disciplina
e correzione vostra; siamo nelle vostre mani; fate di noi quello che vi
parrà meglio».
Alessandro IV condannò entrambi i libri; e Guglielmo di Santamore, _quod
in electis maculam imponere voluit_, fu sbandito in perpetuo da Parigi.
Nessuno accerta l'autore dell'_Evangelium Æternum_, neppur il breve di
censura; ma frà Salimbene di Parma l'attribuisce a frà Gherardino da
Borgo San Donnino, minorita, lettore di teologia a Parigi, e
appassionato dietro alle dottrine dell'abate Gioachimo calabrese; e dice
ch'egli il conobbe pieno di capacità e di virtù, finchè con quegli
errori non elise tutti i suoi meriti. Impedito di più insegnare nè
predicare, fu posto dai Minoriti in carcere, sostentato dal pane della
tribolazione e dall'acqua dell'angustia; ma per quanto ammonito da san
Bonaventura, non volle recedere dall'errore, e morto in carcere, fu
sepolto in un canto dell'orto[138].
Angelo, plebeo senza lettere, della vallata di Spoleto, avea radunati
molti Fraticelli. Frà Dolcino e Margherita da Trento sua donna
predicavano attorno a Novara, inveendo contro ogni autorità
ecclesiastica, togliendo ogni restrizione fra i sessi, e permettendo lo
spergiuro in materie d'inquisizione, e il furto ogniqualvolta fosse
negata la limosina; traevansi dietro migliaja di proseliti, sinchè per
ordine di Clemente V, furono cerchiati e presi, ed egli fatto a pezzi,
ella bruciata con sessanta discepoli[139].
Clemente V esortava Rainero vescovo di Cremona ad estirpare questo mal
seme, e li fulminò nel concilio di Vienna. Ne seguirono persino sommosse
a Narbona, in Sicilia, in Toscana; pure i Fraticelli durarono contumaci
appellando al futuro concilio, onde ebbero definitiva condanna.
Lo statuto di Firenze, libro III, rubrica XXXXI, è contro i Fraticelli.
Dei quali gran numero restava a Siena ai tempi di santa Caterina, che li
vide sconfitti dai Domenicani, e dove moltissimi fecero abjura la
pentecoste 26 maggio 1315[140]. Nell'archivio di Stato a Firenze, tra le
pergamene di Santa Croce vedemmo un'epistola del 5 febbrajo 1322,
diretta dal vicario generale di Lucca al pontefice, per assicurarlo che
colà il terz'ordine visse sempre secondo la fede cattolica, lontano
affatto dall'eretica pravità dei Beghini di Narbona.
Conosciamo maestro Francesco da Pistoja, arso a Venezia il 1337 come uno
de' Fraticelli più insolenti: frà Lorenzo Gherardi, Bartolomeo Greco,
Bartolomeo da Buggiano, Antonio d'Acquacanina ed altri mandati al
supplizio. Frà Michele della Marca, che predicava a Firenze la quaresima
del 1389 accusato e processato, fu ucciso, e n'abbiamo una vita scritta
da un suo compagno, tutta ira contro i persecutori e ammirazione al
_santo_[141]. «Mentre che stette in prigione, tutto il suo studio era o
in confortare il compagno, o in leggere in un breviario d'un prete,
ch'era in quella prigione, o in istarsi in orazione. E diceva: «Io ho
udito dire a li poveri, che molto è grande rischio d'apostasia,
quand'altri è in prigione, il troppo dormire, o vero dilettarsi in
pigliare del cibo corporale, o veramente l'oziositade». E così non si
curava di niuna sua fatica corporale, pensando pure ne l'onore di Dio
spendere il suo tempo».
Consegnatone il processo ai Signori, il frate raffermò le deposizioni
alla stanga: «che Cristo, in quanto uomo viatore e mortale, via di
perfezione mostrando, non era stato re temporale per ragione civile e
mondana: e che esso Cristo e gli apostoli suoi, stando nello stato di
perfezione, non poterono avere niuna cosa per ragione civile e mondana:
e delle cose avute non ebbero se non il semplice uso del fatto, senza
niuna ragione civile e mondana: e che papa Giovanni XXII era eretico
perchè diceva il contrario». Rimesso in carcere, gli si diede penna e
calamajo, e fra tre giorni potesse scrivere quel che voleva, e se si
ritrattasse sarebbegli perdonato, se no si consegnerebbe alla Signoria
secolare. Continuaronsi e variaronsi un pezzo le pratiche per farlo
ricredere; confessava essere peccatore sì, ma cattolico, eretico no:
eretico invece dichiarava il papa e l'arcivescovo, dal quale fu
sconsacrato, poi consegnato al capitano, dov'ebbe molte ingiurie perchè
non credeva al papa, ed egli dovea soffrire «le bestianze del popolo, il
quale, sotto atto di grandissima compassione, tormentava l'anima del
santo il dì e la notte». Fino agli ultimi istanti gli si continuarono
esortazioni, ed egli persisteva a dire che Cristo non possedette nulla:
che Giovanni XXII fu eretico perchè lo negava: eretici i suoi successori
che nol riprovarono, e nulli i loro atti, non quanto a giurisdizione, ma
quanto a sacramenti. Mentre era tratto al supplizio a tutti
rincrescendone, «diceangli: _Deh non voler morire_. Ed esso rispondeva:
_Io voglio morire per Cristo_. E dicendogli: _O tu non muori per
Cristo_, esso diceva: _Per la verità_. E alcuno gli dicea, _Tu non credi
in Dio_, ed esso rispondeva, _Io credo in Dio e nella vergine Maria e
nella santa Chiesa_.... E ai fondamenti di santa Reparata dicendogli
alcuno, _Sciocco che tu sei! credi nel papa_, que' disse alzando il
capo: _Questi vostri paperi v'hanno ben conci_.... E giungendo in
Mercato Nuovo, essendogli detto _Pèntiti, pèntiti_, e' rispondeva
_Pentitevi di peccati, pentitevi dell'usure, delle false mercatanzie_».
«E alla piazza del Grano, uno cominciò a dire: _Voce di popolo voce di
Dio_, ed e' disse: _La voce del popolo fece crocifiggere Cristo, fe
morire san Pietro_. E qui gli fu data molta briga, e dicevano, _Egli ha
il diavolo addosso_.... Ed essendovi alcuni de' fedeli che riprendeano
coloro che diceano che negasse, alcun birro e altra gente si cominciò
avvedere del fatto, dicendo: _Questi sono de' suoi discepoli_: onde un
poco se ne scostò alcuno.»
Abbreviammo assai questa turpe scena di un popolo che insulta al
suppliziato; pure la riferimmo qual anticipazione di quella del
Savonarola. Già chiuso nel cappannuccio, si cercava svolgerlo col
fingere di mettere fuoco, col mostrare un giovane de' priori, venuto per
rimenarlo salvo se si convertisse; ed egli durò: e bruciò; e chi dicea
_Egli è martire_, chi _Egli è santo_, chi il contrario: e n'è stato
maggiore rumore in Firenze che fosse mai.
Gli inquisitori dovettero pure fare disepellire le ossa d'Ermanno da
Ferrara, e abbattere un altare erettogli, e così d'una inglese, che
spacciavasi lo spirito santo incarnato per redimere il sesso femminile.
Domenico Savi di Ascoli, uomo di gran pietà, in patria eresse un
ospedale e un oratorio sul monte Pelesio, dove vivea modestissimo con
alquanti begardi e beghine, ma inebbriatosi di confidenza in sè, asserì
molti degli errori correnti; non esservi colpa nella lussuria; i bambini
anche senza battesimo salvarsi per la fede de' parenti; la flagellazione
in pubblico a corpo nudo valere meglio che la confessione. Condannato
dapprima, si ravvide, poi ricaduto fu dato al supplizio in Ascoli nel
1344.
Il Garampi, nelle _Memorie ecclesiastiche_, dice trovarsi a Bologna un
processo fatto dall'inquisizione di Napoli il 1362 contro Lodovico di
Durazzo, frà Pietro da Novara, frà Bernardo di Sicilia, frà Tommaso
vescovo d'Aquino, Francesco Marchesino arcidiacono di Salerno poi
vescovo di Trivento, donde appajono tre maniere di Fraticelli, cioè
frati della povera vita, frati del ministro, frati di frate Angelo.
Nel 1421 altri ne comparvero, detti Fraticelli dell'Opinione perchè
opinavano che Giovanni XXII fosse punito da Dio per le sue costituzioni
sulla povertà di Cristo e degli apostoli, e Martino V deputò due
cardinali a ricercarli e punirli, massime a Fabriano. Nel 1466 Paolo II
li vedeva ripullulare nel Piceno e in Poli presso Tivoli nella Sabina,
esecrando il papa romano, dichiarando non essere vero vicario di Cristo
se non chi ne imita la povertà. Il pontefice, (adopriamo le insulse
parole del Bernino) «convinseli maravigliosamente bene tutti, non a
forza di dispute ma a forza di battiture, e fattine legare quattordici
da' sbirri, li fece poi esporre sopra un alto palco nella sommità di
quella parte di Ara _Cœli_ che volge verso il Campidoglio, con una
mitera di cartone in capo per uno, all'improperio delle genti e alle
fischiate del popolo. Dopo le quali, confessato il loro inganno avanti
il pontificio vicario di Roma, che colà comparve con cinque vescovi a
riceverne l'abjura, furono essi assoluti, e per marco di professata
penitenza vestiti con una lunga veste di lana con croce bianca al petto
e alla schiena, dinotante il loro ravvedimento ed eresia[142]».
D'altri eretici troviamo menzione in quei tempi. Nicola V ordina
all'arcivescovo di Milano, che vegli con maggiore attenzione
sull'eretico Amedeo recidivo, che di false bolle si prevaleva onde
accreditare alcune sue eresie[143]. Calisto VII udiva che nelle città e
diocesi di Bergamo e Brescia laici ed ecclesiastici spacciavano errori
intorno a Gesù Cristo, alla sua madre, alla Chiesa militante, molti
traendo a perdizione: e raccomanda d'insistere per isvellerli di là come
dal Veronese, Cremasco, Piacentino, Lodigiano, Cremonese[144].
Andrea Papadopulo Vretò pubblicò ad Atene nel 1864 un _Catalogo de'
libri stampati in greco moderno o in greco antico da Greci, dalla caduta
dell'impero bisantino sino alla fondazione del regno ellenico_. Ivi è
nominato Barlaam da Seminara, cioè uno de' Greci della Calabria, che
verso la metà del XIV secolo scrisse, fra altre cose, un libro contro il
primato e il temporale del papa e il purgatorio; pel quale perseguitato,
dovè fuggire a Costantinopoli. Il raccoglitore dice che questo libro fu
stampato la prima volta in Olanda, e divenne quasi irreperibile: ma egli
avutone un esemplare, l'applicò alla biblioteca d'Atene.
Questo libro non ci riuscì di vedere, onde nulla possiam dire nè della
sua autenticità nè del suo contenuto.

NOTE
[127] Una delle legende più divulgate è quella di Barlam e Giosafat,
della quale si ha pure una traduzione o imitazione del buon secolo della
lingua. Felice Liebrecht provò ch'essa è una contraffazione cristiana
della vita di Budda Sakia Muni, qual è offerta nel racconto del _Lalita
vastara_ in indiano. Nè già trattasi solo del concetto, delle linee
fondamentali, ma di passi interi. Anche là Sakia Muni è un figlio di re,
che tocco dalle miserie umane, si ritira nel deserto, malgrado la
famiglia sua, a vita religiosa, convertito da un solitario. Un qualche
monaco siro tradusse questa legenda, inserendovi le lodi del
cristianesimo, e valendosi dell'ascetismo monastico, ch'è comune alle
due religioni. Più tardi vi si aggiunsero satire contro la corrutela del
tempo e la depravazione del clero.
[128] La sua vita sta negli _Acta Sanctorum_ al 29 maggio.
[129] Pietro Lombardo, Maestro delle sentenze, avea detto (_Lib_. I,
_dist_. 5) coi trattatisti, che nè il Padre generò la divina essenza, nè
la divina essenza generò il Figlio, nè la divina essenza generò
l'essenza: «col qual nome di essenza intendiamo la divina natura, che è
comune alle tre persone, e tutta in ciascuna».
Parve a Gioachimo, che Pietro portasse la Trinità a quaternità,
asserendo le tre persone, e inoltre l'essenza comune, distinta da esse.
Molto se ne disputò, finchè Innocenzo III condannò il costui libro. Vedi
MATTIA PARIS al 1179, e ci serva di prova de' cavilli allora usitati.
Le profezie di esso furono difese da Gregorio di Lauro, abate
cistercense, nell'opera _B. Joannis Joachim abatis apologetica, sive
mirabilium veritas defensa_. Napoli 1560. L'esame delle dottrine di esso
vedasi in Natale Alessandro, _Historia ecclesiastica_, Tom. VI, pag.
287.
[130] Costituzione _Exiit quid seminat_, nel VI delle Decretali, _tit.
de verbor. significatione_.
[131] A torto dunque Alessandro Natale comincia l'articolo sui
Fraticelli con queste parole: _Fraticellorum sectæ initium dedere Petrus
de Macerata et Petrus de Forosempronio, Ordinis Minorum apostatæ, etc_.
Vol. VI, pag. 83.
[132] BORGHINI, _Trattato della Chiesa e vescovi fiorentini_.
[133] Fra la _Scelta di curiosità letterarie_, che stampasi a Bologna,
nel 1865 si pubblicò una _lettera dei Fraticelli a tutti i Cristiani_,
nella quale rendono ragione del loro scisma. A rinforzo di testi della
Scrittura e del Decreto mostrano essersi «separati dal papa e da li
altri prelati», credendoli rei per eresia, per simonia, per pubblica
fornicazione. Papa Giovanni XXII esser morto pertinace eretico provano
dalle dottrine sue, e principalmente dall'aver condannata la
proposizione che «il nostro Signor Jhesu Christo et li apostoli suoi non
avessero proprio nè in speciale nè in comune». La sua simonia deducono
dall'essere nel Decreto severamente vietato di ricevere denari pel
battesimo, per la cresima, per la comunione, per la sepoltura, ecc.,
«dovendo li doni di Cristo essere dispensati e donati di grazia. Li
fornicatori pure sono scomunicati». E però essi prelati e papi sono
scomunicati, mentre per scomunicati dichiarano i Fraticelli, che
niun'altra colpa hanno se non di non stare alla loro obbedienza. E
«posto che li Catholici non possano avere la sacra comunione di Christo
visibilmente e corporalmente per li heretici che soprastanno, nondimeno,
mentre che colla mente sono congiunti ad Christo, anno la sacra
comunione di Christo invisibilmente».
[134] Bolla _Quorum exigit_ nelle Estravaganti, tit. _De verborum
significatione_.
[135] Vedasi WADINGO, _Ann. Minor._ T. V ad 1298. nº XXIV: e 1306, nº
VIII.
[136] Bonifazio VIII passa per gran nemico di frà Jacopone, eppure a lui
s'attribuisce un canto, che non può se non tenersi come traduzione dello
_Stabat Mater_:
Stava la Vergin sotto della croce
Vedea patir Jesù, la vera luce.
Madre del re di tutto l'universo.
Vedeva il capo che stava inchinato
E tutto il corpo ch'era tormentato,
Per riscattar questo mondo perverso, ecc.
Altri versi di frà Jacopone arieggiano al _Dies iræ_:
Chi è questo gran sire
Rege di grande altura?
Sotterra i' vorria gire,
Tal mi mette paura.
Ove potria fuggire
Dalla sua faccia dura?
Terra, fa copritura
Ch'io nol veggia adirato.
E altrove:
Non trovo loco dove mi nasconda
Monte nè piano, nè grotta o foresta
Chè la veduta di Dio mi circonda.
[137] Sta in ECCARD, _Corp. hist_. Tom. II, pag. 849.
[138] Chronica FR. SALIMBENE; Parma 1857, pag. 233 e seg. Esso frà
Salimbeni, che nella cronaca distesamente parla de' Fraticelli, all'anno
1280 racconta che, avendo i Domenicani fatto bruciar donna Alina per
eretica, il popolo di Parma si levò a rumore, e li cacciò, nè, malgrado
le scomuniche lanciate dal cardinale Latini, poterono tornarvi fino al
1287.
[139] FR. CHRIST. SCHLOSSER, _Abelardo e Dolcino; vita ed opinioni d'un
entusiasta e d'un filosofo_. Gota 1807. — G. BAGGIOLINI, _Dolcino e i
Patareni_. Novara 1838. — JULIUS KRONE, _Frà Dolcino und die Patarener,
historische Episode auf den piemontesischen Religionskriegen_. Leipzig
1844.
Questa ostentata povertà stava forse in mente all'autore
dell'_Imitazione di Cristo_, allorchè scriveva (Lib. II, c. 11): «Dove
si troverà chi a Dio voglia servire gratuitamente? Di rado si trova
alcuno, tanto spirituale, che d'ogni cosa sia denudato. Un vero povero
di spirito e spoglio d'ogni cosa creata, chi lo troverà? se l'uomo abbia
dato ogni sostanza sua, non è ancor nulla. Se abbia fatto gran penitenza
è ancor poco. Se abbia imparato ogni scienza, n'è ancor ben lontano. Se
abbia gran virtù e fervorosa devozione, molto ancora gli manca; quello
cioè che sommamente gli è necessario. E che cos'è? Che, lasciato tutto,
lasci se stesso ed esca affatto da sè, e nulla ritenga d'affezione
privata. Fatto che abbia tutto, senta d'aver fatto nulla, e si riconosca
servo inutile. Allora veramente povero e nudo di spirito potrai essere,
e dir col profeta: _Umile e povero son io_».
[140] La sentenza trovasi in PUCCI, _Storia del vescovado di Siena_,
pag. 253.
[141] Edita nella _Scelta di curiosità letterarie_.
[142] _Hist. di tutte l'heresie_. Vol. IV, pag. 198. Quest'autore,
declamatorio quanto il Gioberti, par sempre armato dello staffile di
pedante per flagellar l'avversario, empio, frodolento, degno d'inferno,
bestemmiatore, scismatico, ecc.
[143] Ep. NICOLAI V, Lib. XXII, pag. 53.
[144] Ep. CALIXTI, Lib. XIV, pag. 255.


DISCORSO VII.
CROLLO ALL'ONNIPOTENZA PONTIFICIA. BONIFAZIO VIII E DANTE. CECCO
D'ASCOLI.

Quanto narrammo ci dà la ragione delle tante declamazioni che si fecero
contro Bonifazio VIII, e che la posterità raccolse alla cieca, e ripete
oggi ancora, malgrado un potente e sincero apologista[145]. Questo
pontefice assistette al crollo che al potere papale diede la prevalenza
dei re, non più solo per cessare la primazia che quello avea pretesa
sopra tutti i dominanti della terra, ma per restringerlo ne' singoli
paesi coll'astuzia, scassinando la base prima dell'autorità, il
rispetto.
La Chiesa ebbe un essere assoluto ed immutabile, come la fede su cui era
fondata; ma come unione visibile de' fedeli, era retta da un potere
visibile, il quale, concernendo la formale esistenza di essa, non poteva
essere che potenziale e progressivo. La predicazione e la fede furono
sempre quali sempre saranno: la podestà ne variò insieme colla società
dei fedeli, pur sempre attenendosi al cardine della fede, e mercè la
visibilità della Chiesa. Il potere di chi governa una società si
esercita a misura di ciò che tende a distruggerla: crescendo gli
attacchi devono crescere le leggi e le pratiche riparatrici. Nessuno
attentando al patrimonio della Chiesa primitiva, nessuna legge occorreva
per proteggerlo: il che non vuol dire che in san Pietro non esistesse la
facoltà di farla, nè che trascendessero i suoi successori col farne.
Dicasi altrettanto delle leggi e altri mezzi temporali, coi quali via
via la Santa Sede dovette tutelarsi, e che variò a misura de' bisogni,
fino a restringersi nella monarchia.
Forse che questa era dell'essenza sua? No, nè mai i romanisti lo
asserirono: ma lo svolgimento della società la portava; come l'ignoranza
comune e la comune barbarie portarono i pontefici a capo del civile
organamento, per la gran legge che attribuisce il governo ai migliori.
Qual vantaggio non fu quello di erigere, in mezzo alle potenze armate,
una che potesse obbligare senz'armi ad osservare la giustizia,
rispettare il matrimonio, mantenere i patti conchiusi coi popoli! Ciò
faceasi senz'armi, quasi senza possessi, perchè si credeva, e la
coscienza reggeva il mondo; mentre nell'età moderna, ridotta ogni cosa
alla materialità degli Stati forti, della coscrizione, dei tributi,
l'autorità pontifizia fu pur essa ridotta a ricoverare la sua
indipendenza dietro a un trono materiale, ad un esercito, al
riconoscimento degli altri Stati. Deporre i re perfidianti, sciogliere i
popoli dalla fedeltà verso il principe infedele, erano la vera e solida
costituzione d'allora; diritti che oggi si trasferirono alle società
segrete e alla ribellione[146]. Se queste non ne abusarono, imputino la
Corte pontificia d'averne abusato. Certo è bene che coll'eccesso spuntò
ella medesima le sue armi. Gli avversarj ben s'avvidero che il mezzo di
scassinare quell'autorità morale era lo scemarle il rispetto, e a ciò
contribuirono grandemente i Fraticelli, persone popolarissime, diffuse
tra la plebe, in grand'aspetto di moralità, di povertà, di
mortificazioni, e che poteano ripetere: «Ecco come ci maledice una Corte
ricca, disonesta, gaudente».
Bonifazio VIII comparve al tempo che la società del medioevo, la quale
della fanciullezza serbava tuttavia le ingenuità, veniva tratta nella
malizia, non ancora dalla dottrina e dal ragionamento, ma dai principi,
che le insegnavano a ricalcitrare contro quella tutela. Vedemmo come i
Federichi avessero tentato surrogare la loro alla primazia pontifizia:
quel tentativo spiacque ai re, che non voleano cambiar padrone, e perciò
fallì. Or ecco i re farsi innanzi a voler rendersi indipendenti dal papa
non men che dall'imperatore. Gli ajutò il disordine del _grande
interregno_, succeduto alla deplorata fine degli Hohenstauffen.
Per resistere a questi, i papi aveano dovuto appoggiarsi al perpetuo
antagonismo della Francia colla Germania; ma la Francia ne divenne
incomoda patrona, e i suoi re, dacchè sentironsi ingagliarditi,
rinegarono l'antica devozione per cui erano stati intitolati
cristianissimi, e massime dacchè quella corona venne a Filippo il Bello,
arguto in tutti i cavilli, a cui sa ricorrere chi vuol riuscire senza
esser rattenuto da moralità.
Lo ajutava la posizione del pontefice, piccolo principe in mezzo a
baroni ed a Comuni, che o colle prepotenze o coi privilegi impacciavano
l'esercizio della sua sovranità; e che trovavasi in contrasto con Carlo
di Napoli, il quale chiamato a salvar Roma e l'Italia dalla tirannide
degli Hohenstauffen, presto da vassallo era divenuto tiranno della Santa
Sede; sicchè, fra le petulanze aristocratiche dei dinasti, e la
democratica della plebe, era impacciato nella sua podestà, e i conclavi
stessi riuscivano tumultuosi. La Chiesa, che, nel conferimento delle
dignità, ripudiò sempre ogni riguardo a distinzione di natali,
attenendosi unicamente ai meriti personali, gemeva di vedere il
cardinalato e le nunziature affidarsi a taluni, cui unico titolo era
l'essere degli Orsini o dei Colonna o dei Savelli; case prevalenti in
Roma per armi e per clientele. Esse, con emulazioni prorompenti spesso
in guerra civile e in criminosi attentati, s'insinuavano nel concistoro
e nel conclave: trescavano a voglia anche nel santuario, e prepotevano
nelle cose ecclesiastiche, con tirannide peggiore di quella degli
imperatori del secolo precedente, perchè più immediata, e toglievano al
pontificato e al sacerdozio quella dignità che traggono dal rimanere
superiori alle mondane rivolture.
Dopo un di questi tempestosi conclavi fu eletto pontefice uno, cui la
rigida austerità rendea somigliante ai Fraticelli, Pietro Morone che,
sulla Majella, alto monte presso Sulmona, erasi proposto d'imitare i
solitarj della Tebaide; e che inventò un nuovo Ordine, detto de'
Celestini quando, col nome di Celestino V, egli fu portato papa. Ignaro
delle rinvolture di questa sciagurata prole d'Adamo, Celestino lasciava
deperire il papato fra gl'intrugli de' suoi e le prepotenze degli
avversarj, onde egli stesso abdicò, e gli fu surrogato Bonifazio VIII
(1294). N'ebbero gran dispiacere quelli che della santa debolezza di
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