Gli eretici d'Italia, vol. I - 43

quale egli spesso si serve. Non già che io biasimi ogni sorta di timore,
ma biasimo il timore penale, il quale è segno d'infedeltà o di fede
debolissima; perocchè, se io credo daddovvero che Cristo abbia
soddisfatto per tutti i miei peccati, passati, presenti e futuri, non è
possibile che io tema di essere condannato nel giudizio di Dio; massime
se io credo che la giustizia e la santità di Cristo sia divenuta mia per
la fede, come debbo credere se voglio essere vero cristiano»[539].
Anche lo storico cardinale Sforza Pallavicino appunta il Flaminio di
«covare nella mente tali dottrine, per non dover combattere le quali
ricusò d'andare secretario al concilio di Trento»; e soggiunge che, in
fine degli anni suoi, la salutevole conversazione del cardinale Polo il
facesse ravvedere, e scrivere e morire cattolicamente. In fatto il
cardinale Polo invitò il Flaminio a venire da lui a Viterbo, e quando fu
eletto uno dei Legati al concilio di Trento, ve lo condusse. Il Flaminio
morì poi di cinquantadue anni, e Pier Vettori ne dava notizia ad esso
cardinale da Firenze il 13 aprile 1550, consolandosi che «santamente e
piamente fosse uscito di vita con tal costanza di mente e alacrità, qual
poteva aspettarsi da uomo che, come lui, era vissuto imbevuto della vera
religione». Il Polo curò fosse sepolto nella chiesa degli Inglesi.
Ma appunto nessuno più volentieri gli eterodossi ascriverebbero alla
loro coorte che il cardinale Reginaldo Polo (Pool). Nasceva in
Inghilterra dai duchi di Suffolck, ed uscito dal regno per non aver
voluto approvare il divorzio di Enrico VIII, scrisse poi contro di
questo a difesa dell'unità della Chiesa; laonde quel re dispotico fe
decapitare il fratello di esso, il nipote, la madre settuagenaria,
mentre gli altri parenti si salvarono colla fuga: bandì cinquantamila
scudi a chi uccidesse il cardinale, e infatto lo tentarono due inglesi e
tre italiani, fra i quali un bolognese confessò essersi trattenuto lunga
stagione a Trento con tale proposito.
Per lunga dimora e per tante relazioni e per la lingua che adoperò, il
Polo è degno d'essere contato fra' nostri, e può considerarsi
rappresentante dello introdottosi spirito di pietà, che ai Riformati
dovea parere una protesta contro la rilassatezza di cui imputavano i
Cattolici. Dal cardinale Cortese era stato invaghito degli studj
biblici; e mentre stette Legato pontificio a Liegi, vi s'intratteneva
nel modo ch'è descritto dal Priuli in lettera al Beccatelli del 28
giugno 1537[540]:
«La mattina ognuno si sta nella sua camera fino a un'ora e mezza innanzi
pranzo, nella qual ora convenimo in una chiesuola domestica, ed insieme
cantiamo le ore more theatinico senza canto. Monsignore di Verona è il
nostro maestro di cappella. Dette le ore, si ode messa, e poco dappoi si
disna: a parte della mensa si legge san Bernardo: poi si ragiona.
Postquam vero exempta fames epulis est, il vescovo legge ordinariamente
un capitolo di Eusebio _De Demonstratione evangelica_: si continua, e
ripiglia dappoi qualche onesto e grato ragionamento che dura fino a una
o doi ore dopo mezzo giorno; ed allora ognuno ritorna alla sua camera,
ove si sta fino a un'ora e mezza innanzi cena; a quell'ora cantiamo
vespero e compieta; e dappoi il reverendissimo legato si ha tandem
lasciato exorare di leggerci le epistole di san Paolo alternis diebus;
ed ha incominciato dalla prima a Timoteo, con somma soddisfazione del
vescovo e di tutti noi. Oh quanto desidero e voi ed il nostro
dabbenissimo vescovo di Fano a questa santissima lezione da questo
santissimo uomo con tanta riverenza ed umiltà, e con tanto giudizio
letta, che io non saprei certo desiderar meglio, nè credo che l'amor
m'inganni questa volta. Spero dalle miche ch'io ne raccoglierò potervene
dar buon saggio, quando al signor Dio piacerà che ci troviamo insieme.
Alquanto dopo la lezione si cena: si va per una o doi ore in barca per
il fiume, o in l'orto passeggiando, e ragionando sempre di cose
convenienti a questi signori; e spesso spesso, anzi cotidianamente
desideriamo, e chiamiamo il reverendissimo vostro, e la sua compagnia a
questo nostro onesto, e bel tempo ringraziando il Signor Dio di tanto
bene, che 'l si degna di concederne. O quante volte mi replica il signor
legato: _Certe deus nobis hæc otia fecit!_ O quanto gli siamo obbligati
etiam hoc nomine! ed aggiugne sempre: Oh perchè non è monsignor
Contarini con noi?»
E il Polo al Contarini da Carpentras scrive della cara compagnia del
Priuli e d'altri: «Noi per nostra consolazione mutua avemo cominciato a
conferire insieme li salmi di quel grande profeta e re, il quale Dio
aveva eletto secundum cor suum, e oggidì eramo arrivati a quel salmo che
comincia, Salvum me fac, Domine, quoniam defecit sanctus».
inoltre il cardinale Polo ringraziava esso Contarini a nome di tutta la
sua compagnia «per il gran dono di carità il quale risplende più in quel
santo negozio di Modena», alludendo certo al catechismo che il cardinal
Contarini avea steso per gli erranti di Modena, come avremo a divisare.
E infatto il Polo era tacciato di poco rigore verso gli eretici, ch'egli
considerava come infermi, i quali bisognasse risanare.
Dell'indole stessa erano le unioni che il Polo teneva mentre, come
Legato del patrimonio di san Pietro, sedeva a Viterbo; unioni che sono
presentate come convegno di miscredenti. Da varie lettere che ce le
dipingono leviamo qualche saggio, e prima da una del Polo al Contarini
il 9 dicembre 1541: «Il resto del giorno passo con questa santa ed utile
compagnia del signor Carnesecchi e monsignor Marcantonio Flaminio
nostro. Utile io la chiamo, perchè la sera monsignor Flaminio dà pasto a
me e alla miglior parte della famiglia de illo cibo qui non perit, in
tal maniera che io non so quando io abbia sentito maggior consolazione
nè maggiore edificazione: tanto che, a compimento di questo mio
comodissimo stato, non manca altro che la presenza di vostra signoria
reverendissima».
Frasi simili ripete in lettera del 23 dicembre, e in altra del 1 maggio
1542: «Quanto al loco di san Bernardo, notato da vostra signoria
reverendissima, dove parla così esplicitamente della giustizia di
Cristo, l'avemo trovato e letto insieme con questi nostri amici con
grandissima soddisfazione di tutti: e considerando da poi la dottrina di
questo santo uomo dove era fondata, e la vita insieme, non mi è parso
meraviglia se parla più chiaramente che gli altri, avendo tutta la sua
dottrina preparata e fondata sopra le scritture sante, le quali nel suo
interior senso non predicano altro che questa giustizia, ed appresso
avendo così bel commento per intendere quel che leggeva, com'era la
conformità della vita, la quale gli dava continua esperienza della
verità imparata, e per questo doveva esser risolutissimo. E se gli altri
avversarj di questa verità si mettessero per questa via a esaminare
com'ella sta, cioè per queste due regole delle scritture e
dell'esperienza, cesserieno senza dubbio tutte le controversie[541].
_Nunc enim ideo errant quia nesciunt scripturas et potentiam Dei, quæ
est abscondita in Christo_, il quale sia sempre laudato, che ha
cominciato rivelare questa santa verità, e tanto salutifera e necessaria
a sapere, usando per istromento vostra signoria reverendissima, per la
quale tutti siamo obbligati continuamente a pregare sua divina maestà
_ut confortet quod est operatus_ alla gloria sua e benefizio di tutta la
Chiesa, come femo tutti _et in primis_ la signora marchesa [_Vittoria
Colonna_], la quale senza fine si raccomanda a lei».
La pietà di quei colloqui appare viemeglio da quanto allora scriveva il
Flaminio, e singolarmente da questa lettera a Galeazzo Caracciolo, del
quale parleremo appresso:
«La felice nuova, che mi diedero della santa vocazione di vostra
signoria il signor Ferrante e il signor Giovan Francesco, diede
grandissima allegrezza non solamente a me, ma ancora al reverendissimo
Legato, e a questi altri signori, ed ora per confermare ed accrescere
questa nostra allegrezza, vostra signoria m'ha fatto degno d'una sua
lettera, la quale è quasi una ratificazione di quello che i predetti
signori m'aveano scritto. Signor mio colendissimo, considerando io
quelle parole di san Paolo, Voi vedete, fratelli, la vostra vocazione,
che fra voi non sono molti savj secondo la carne, non molti potenti, non
molti nobili, ma Dio ha eletto le cose stolte del mondo, per confonder
le savie, e le cose deboli per confonder le forti, e le cose ignobili
per confondere le nobili e quelle che non sono per distrugger quelle che
sono, dico che, considerando io queste notabili parole, mi pare di
vedere che 'l signor Dio abbia fatto un favor molto particolare a vostra
signoria, volendo che ella sia nel numero di quelli pochissimi nobili,
che egli orna di una nobiltà incomparabile, facendoli per la vera e viva
fede suoi figliuoli; e quanto è stato più particolare il favore, che
ella ha ricevuto da Dio, tanto la veggo più obbligata a vivere, come si
conviene ai figliuoli di Dio, guardando che le spine, cioè i piaceri e
gli inganni delle ricchezze e l'ambizione non soffochino il seme
dell'evangelo, che è stato seminato nel cuor suo: benchè mi rendo certo,
che il Signore, il quale ha cominciato a gloria sua l'opera buona in
voi, la condurrà a perfezione, a laude e gloria della grazia sua, la
quale creerà in voi un animo tanto generoso, che, siccome per lo
addietro ponevate tutto il vostro studio in conservare il decoro de'
cavalieri del mondo, così ora porrete tutta la vostra diligenza in
conservare il decoro de' figliuoli di Dio, a' quali convien imitare con
ogni studio la perfezione del loro celeste padre, esprimendo, e
rappresentando in terra quella vita santa e divina, la quale viveremo in
cielo.
«Signor mio osservandissimo, in tutti i vostri pensieri, in tutte le
vostre parole, e in tutte le vostre operazioni ricordatevi, che siamo
diventati per Gesù Cristo figliuoli di Dio, e questa memoria, generata e
conservata nell'anima nostra dallo spirito di Cristo, non ci lascierà di
leggieri nè fare, nè dire, nè pensare alcuna cosa indegna della
imitazione di Cristo, al quale se noi vogliamo piacere, è necessario che
ci disponiamo a dispiacere agli uomini, e a disprezzare la gloria del
mondo per esser gloriosi appresso a Dio; perciocchè, come dimostra Gesù
Cristo in san Giovanni, è impossibile, che alcuno possa credere
veramente in Dio, mentre che egli cerca la gloria degli uomini, i quali
come dice David, sono più vani della medesima vanità. Laonde è cosa
stoltissima e vilissima fare stima del loro giudicio, dovendo i
figliuoli di Dio aver sempre innanzi agli occhi il giudicio di Dio, il
quale vede non solamente tutte le nostre operazioni, ma tutti gli
occulti e profondi pensieri del nostro cuore.
«Essendo dunque impossibile piacere a Dio e agli uomini del mondo, che
furore sarebbe il nostro, se eleggessimo di dispiacere a Dio per piacere
al mondo? E se stimiamo cosa vergognosissima che una sposa voglia
piuttosto piacere altrui che al suo sposo, che biasimo meriterà l'anima
nostra, se ella vorrà più piacere ad altri che a Cristo suo dilettissimo
sposo? Se Cristo, unigenito e naturale figliuolo di Dio, ha voluto non
solamente patire per noi le infamie del mondo, ma il tormento
acerbissimo della croce, perchè non vorremmo noi per la gloria di Cristo
tollerare allegramente le derisioni degli inimici di Dio? Sicchè, signor
mio, contra le calunnie e derisioni del mondo armiamoci di una santa
superbia, ridendoci delle loro derisioni, anzi come veri membri di
Cristo abbiamo compassione alla loro cecità, pregando il nostro Dio, che
doni loro di quel suo santo lume che ha donato a noi, acciocchè,
diventando figliuoli della luce, sieno liberati dalla misera servitù del
principe delle tenebre, il quale con questi suoi ministri perseguita
Cristo e le membra di Cristo: la qual persecuzione, malgrado del demonio
e de' suoi ministri, ridonda finalmente in gloria di Cristo e in salute
de' membri suoi, i quali godono di patire per Cristo, essendo
predestinati a regnare con Cristo. Chiunque ha veramente questa fede,
resiste facilmente alle persecuzioni del demonio, del mondo e della
carne. Però, signor mio colendissimo, preghiamo giorno e notte il nostro
padre eterno che ci accresca la fede, e faccia produrre nell'anima
nostra quei dolcissimi e felicissimi frutti, che ella suol produrre
nella buona terra di tutti i predestinati a vita eterna; acciocchè,
essendo la nostra fede feconda di buone opere, siamo certi che ella non
è finta ma vera, non morta ma viva, non umana ma divina, e per
conseguenza pegno preziosissimo della nostra eterna felicità. Mostriamo
che noi siamo legittimi figliuoli di Dio, desiderando sempre che il suo
santissimo nome sia glorificato, e imitando la sua ineffabile benignità,
la qual fa nascere il sole sopra i buoni e sopra i rei, adoriamo la sua
divina maestà in spirito e verità, consacrandole il tempio del nostro
cuore, e offerendo in esso le vittime spirituali per Gesù Cristo nostro
Signore: anzi come veri membri di questo pontefice celeste, facciamo un
sacrificio della nostra carne, mortificandola e crucifiggendola con le
sue concupiscenze, acciò che, morendo noi, viva lo spirito di Cristo in
noi. Moriamo, signor mio, volentieri a noi medesimi e al mondo, acciò
che viviamo felicemente a Dio, e a Gesù Cristo. Anzi, se siamo vere
membra di Cristo, conosciamoci già morti con Cristo, e risuscitati, e
ascesi in cielo con esso lui, acciò che la nostra conversazione sia
tutta celeste, e si vegga in noi uno eccellentissimo ritratto di Cristo;
il qual ritratto sarà tanto più bello e più maraviglioso in voi, quanto
voi siete un signore nobilissimo, ricco e potente.
«O che giocondo insaziabile spettacolo agli occhi de' veri Cristiani,
anzi agli occhi di Dio e di tutti gli angeli, vedere un pari vostro, il
quale, considerando la fragilità della natura umana e la vanità di tutte
le cose temporali, dica con Cristo, _Ego sum vermis et non homo_; e con
David gridi _Respice me, et miserere mei quia unicus et pauper sum ego_.
Oh veramente ricco e beato colui, che per favor di Dio perviene a questa
povertà spirituale, renunziando con l'affetto tutte le cose che egli
possiede, cioè la prudenza mondana, le scienze secolari, le ricchezze,
le signorie, i piaceri della carne, la gloria degli uomini, i favori
delle creature, e ogni confidenza di se stesso! Costui, diventando per
Cristo stolto nel mondo, e in mezzo le ricchezze dicendo di cuore _Panem
nostrum quotidianum da nobis hodie_, e preponendo l'improperio di Cristo
e le tribulazioni e i piaceri ai favori del mondo, e non volendo nè
altra santità, nè altra giustizia che quella, che si acquista per
Cristo, entra nel regno di Dio; e sostentato, favorito e governato dallo
spirito di Dio, e tutto ripieno di gaudio, canta col profeta. Il signor
è mio pastore, niuna cosa mi mancherà; egli in luoghi ameni e erbosi mi
fa riposare, e lungo le acque del refrigerio mi conduce. E crescendo
tuttavia la diffidenza di se medesimo e di tutte le creature, e la
confidenza in Dio, nè volendo nè in cielo nè in terra altra sapienza,
altri tesori, altra potenza, altro piacere, altra gloria, altro favore
che quello del suo Dio, grida col medesimo profeta: Signor, chi ho io in
cielo oltre a te? Niuno io voglio teco sopra la terra: per lo desiderio
di te, la carne mia e il cuor mio si consuma; o fortezza del mio cuore.
Dio è la mia eredità in sempiterno.
«Considerate che colui, il quale dice queste dolcissime e umilissime
parole, congiunte con grandissima generosità, il quale non vuole nè in
cielo nè in terra, niuna cosa se non Dio, considerate dico, che costui
era un re potentissimo e ricchissimo. Ma egli non si lasciava offuscare
l'intelletto, nè corrompere l'affetto dalla sua potenza nè dalle sue
ricchezze, conoscendo per favor di Dio, che tutta la potenza, e tutte le
ricchezze sono di Dio, e come cosa di Dio le dobbiamo possedere e
dispensare a gloria di Dio: laonde si legge nel primo libro intitolato
Paralipomenon, ch'egli in presenza di tutto il popolo disse queste
divinissime parole: Benedetto signor Dio d'Israele, padre nostro ab
eterno: tua è, signor, la magnificenza e la potenza e la gloria e la
vittoria e la laude: perciocchè tutte le cose, le quali sono in cielo e
in terra sono tue, tuo è, signore, il regno, e tue sono le ricchezze,
tua è la gloria; tu sei signore di tutti; nella tua mano è la grandezza
e l'imperio di ciascuno: per la qual cosa ora, Dio nostro, ti
ringraziamo, e lodiamo il nome tuo inclito. Chi sono io, e chi è il
popolo mio, che ti possiamo promettere tutte queste cose? Tutte sono
tue, e quelle che dalla tua mano abbiamo ricevuto, ti abbiamo dato;
perciocchè siamo peregrini nella tua presenza, e forestieri, sì come
tutti i padri nostri: i giorni nostri sono come un'ombra sopra della
terra, e se ne fuggono senza alcuna dimora.
«O signore mio, pregate di continuo il signor Dio che, insieme con
questo gran re, vi umiliate da dovvero sotto la potente mano di sua
divina maestà, lasciando a Dio tutta la gloria, tutta la potenza, per
ricevere da Dio i beati doni della grazia sua, la quale egli comunica
solamente agli umili, lasciandone vacui i superbi. Queste parole dice il
Signore appresso Geremia: Non si glorii il savio nella sapienza sua, nè
si glorii il forte della sua fortezza, nè si glorii il ricco delle sue
ricchezze: ma chi si gloria, si glorii nel conoscermi; perciocchè io
sono il Signore, il quale esercito la misericordia e la giustizia in
terra; perciocchè queste cose a me piacciono, dice il Signore. Se dunque
vi volete gloriare, non vi gloriate, come fanno coloro che hanno gli
animi vili e plebei, nelle ricchezze e nella nobiltà carnale. Si glorii
in queste cose vilissime e vanissime colui che vive nel regno della
carne e del peccato; ma voi che siete entrato nel regno di Dio,
gloriatevi che il vostro Dio abbia usato con voi la sua misericordia,
illuminando le vostre tenebre, facendovi conoscere la sua bontà,
facendovi, di figliuolo di ira, figliuolo suo; di vilissimo servo del
peccato, nobilissimo cittadino del cielo; donandovi finalmente il suo
unigenito figliuolo Gesù Cristo, e ogni cosa con lui; di maniera che,
come dice san Paolo, il mondo, la vita, la carne, le cose presenti e le
future e ogni cosa, è vostra in Cristo, e per Cristo unica felicità
dell'anima vostra. Questa sorta di gloriazione si conviene ai Cristiani;
per la quale si esalta la misericordia di Dio, e si annichila la
superbia umana, la quale s'innalza contra la cognizione di Dio, volendo
gloriarsi di Dio e confidare in se medesima. Questa gloriazione ci fa
umili nelle grandezze, modesti nelle prosperità, pazienti nelle
avversità, forti ne' pericoli, benefici verso ognuno, stabili nella
speranza, ferventi nell'orazione, pieni dell'amor di Dio, vacui
dell'amor immoderato di noi medesimi e delle cose del mondo, e
finalmente veri imitatori di Cristo, nella quale imitazione dobbiamo
mettere tutto il nostro studio, riputando ogni altro studio, rispetto a
questo, superfluo e vano.
«Signor mio colendissimo, volendo io ubbidire alla lettera di vostra
signoria ho fatto contro al mio istituto, perciocchè conoscendo per
favor di Dio ogni ora più la mia grande imperfezione e la mia
insufficienza, conosco ancora che a me conviene udire e non parlare,
essere discepolo e non maestro. Ma per questa volta ho voluto che abbia
maggior forza il desiderio di vostra signoria, che la mia deliberazione.
Il reverendissimo legato ama vostra signoria come suo dilettissimo
fratello in Cristo, e avrà gratissima l'occasione, che gli manderà il
signor Dio di poter mostrare con gli effetti l'amor suo. Sua signoria
reverendissima, e l'illustrissima signora marchesa di Pescara salutano
quella, e questi altri gentiluomini con meco le baciano la mano,
pregando con tutto il cuore il nostro signor Dio, che la faccia
diventare con la grazia sua di gran lunga più povera di spirito che ella
non è ricca di castella e di beni temporali, acciò che la povertà
spirituale la faccia ricchissima de' beni divini, e sempiterni. — Di
Viterbo, il giorno 13 di febbrajo del XLIII».
Da per tutto ove andasse, il Polo amava tali adunanze; e venuto nel
monastero di Maguzzano presso Brescia, si trasse intorno monaci dotti e
pii, quali Teofilo Folengo, Alessio Ugoni, un degli Ottoni, un Bornato,
un Massato, che tutti invogliò a studiare la Bibbia.
Egli stesso dettò molte scritture in proposito dello scisma
d'Inghilterra e singolarmente _Della unità della Chiesa_. Eppure fu
sospettato d'eresia, e sotto il rigido Paolo IV messo prigione: là
dicono scrivesse un'apologia, col calore che suol mettervi chi si trova
incolpato a torto: poi rilettala a mente fredda, la giudicò troppo
pungente, e buttolla al fuoco dicendo: «Non denudare le vergogne del
padre tuo».
Era naturale che il Polo esercitasse molta efficienza sulle persone che
lo attorniavano[542]; e Pier Paolo Vergerio, colle solite insinuazioni,
dice che il Flaminio sarebbe entrato nelle opinioni luterane, se non
fosse stato rattenuto dal cardinale Polo. Il quale, a dir suo,
«intendeva o fingeva intendere la giustificazione per la sola fede di
Cristo e l'insegnava a molti che teneva in casa (fra' quali esso
Flaminio e messer Giovanni Morellio, morto ministro nella Chiesa de'
forestieri a Francoforte): ma intanto persuadeva a contentarsi di tal
cognizione secreta, e non tener conto degli abusi ed errori della
Chiesa; e che si può farsi avanti con la pura dottrina tacendo,
dissimulando e fuggendo». Gli amici di questo (egli continua) asserivano
non aspettasse che il tempo «di dirla in faccia al papa o fare un
qualche bel rumore in gloria di Dio»; ma invece richiamò al papismo
l'Inghilterra, «e vi ha introdotto tutte le feccie, tutti gli abusi, e
tutte le superstizioni e ribalderie papali, fino una statua di Tommaso
Cantuariense»[543].
In fatto la Riforma aveva operato sì poco sulle moltitudini in
Inghilterra, che bastò il salir regina Maria per restaurarvi il
cattolicismo. Giulio III vi mandò il Polo, che, come più intelligente e
tollerante, capì bisognava dar l'assoluzione pei beni ecclesiastici
venduti: ma Paolo IV stette fermo a negarla (rescissio alienationum), e
revocò il Polo; e subito dopo la nuova regina Elisabetta ripristinò la
chiesa scismatica. Allora Paolo IV esclamava: «Nelle guerre perdiam la
Germania: pel ritiro del cardinal Polo perdemmo l'Inghilterra: vogliam
il Concilio; vogliamo la riforma e la pace».
Nè è fuor di luogo notare come la Chiesa anglicana conservasse un
complesso di dogmi, di sacramenti, di riti, di prescrizioni,
d'osservanze, che, più d'ogni altra forma di protestantismo, la
avvicinano a noi; con un sacerdozio che si presume apostolico; colla
pretensione di purità, unità, perpetuità. Anche il suo Common Prayer
book, o libro di preghiere, nella maggior sua parte si scambierebbe per
cattolico; la nostra messa è, si può dire, tradotta: altrettanto avviene
nelle Omelie, ne' Formularj, nelle scritture di molti teologi de' primi
tempi dello scisma. Ciò poteva anche esser un artifizio per insinuar poi
le massime eterodosse, ravviluppate in tanto di vero. E da principio non
pochi cattolici ne restarono illusi, talchè la Chiesa dovette
intervenire per metterli sull'avviso: ma su queste conformità si fondano
i tentativi odierni de' Puseisti di accordar l'anglicana colla Chiesa
cattolica[544].
Tornando a que' pietosi, alla rinascenza quale s'ebbe in Italia, fondata
solo sull'arte e sul sentimento del bello, voleano surrogare quella
fondata sulla morale seria e sull'applicazione positiva; ricorreano alle
fonti della tradizione, e taluni, più infervorati del senso morale,
arrivavano a supporre che la parola interiore, vale a dire la coscienza
e la ragione, sieno superiori alla lettera biblica, e contentavansi di
sviluppar il sentimento religioso, men curandosi delle credenze
positive. A questo misticismo sono sempre più proclivi le donne, essendo
esso il grado più elevato dell'affetto, l'eccesso dell'abnegazione,
l'amor divino spinto talora fino alla passione; come si vide nel XIV
secolo in santa Caterina, nel XVI in santa Teresa, poi nella beata di
Chantal, nella Guyon, nella Bourguignon; e fino ai dì nostri nella
Krudner e nelle scolare del Saint-Martin, le marchese di Lusignan, di
Coislin, di Chabannais, di Clermont-Tonnerre, la marescialla di
Noailles, la duchessa di Bourbon.
Vi arieggiava Vittoria Colonna, che i Protestanti fanno dal Polo
convertita. Nata dall'illustre famiglia di Roma il 1490 in Marino, feudo
domestico, di cinque anni fu promessa sposa al marchese Francesco
Ferrante d'Avalos di Pescara, campione della Spagna in Italia: di
diciannove lo sposò, e vivea spesso in Pietralba alle falde del monte
Ermo, più spesso in Ischia. Quel suo marito si segnalò per valore e si
deturpò per spioneggio nel noto affare del cancelliere Morone, onde il
milanese Ripamonti scrive non essere stato in quei tempi alcuno nè più
infame in perfidia, nè più illustre nell'armi. Infatti contribuì
grandemente alle vittorie de' Francesi in Italia: restò ferito e
prigione alla battaglia di Ravenna del 11 aprile 1512, e giovane morì il
25 novembre 1525. Vittoria immortalò con poetici compianti le imprese di
lui e il proprio affetto, chiamandolo il suo bel sole: ritiratasi a Roma
fra le monache di San Silvestro in capite, soffrì delle sventure che
cagionarono i suoi Colonnesi; ricoverò a Marino, pregando e offrendo
riscatti pei tanti miseri nella terribile invasione; quando Paolo III
ruppe guerra ai Colonna[545], ella passò nel monastero di San Paolo
d'Orvieto, poi nel 1542 in quello di Santa Caterina a Viterbo.
Sette anni dopo ch'era vedova, venne a Napoli lo spagnuolo Valdes; ed a'
suoi discorsi infervoratasi del vangelo, ella non trovava pace e
consolazione che nella parola di Dio.
Due modi abbiam da veder l'alte e care
Grazie del ciel: l'uno è guardando spesso
Le sacre carte, ov'è quel lume espresso
Che all'occhio vivo sì lucente appare;
L'altro è alzando dal cor le luci chiare
Al libro della croce, ov'egli stesso
Si mostra a noi sì vivo e sì dappresso,
Che l'alma allor non può per l'occhio errare.
Altrove prorompe:
Deh, potess'io veder per viva fede,
Lassa! con quanto amor Dio n'ha creati.
Con che pena riscossi, e come ingrati
Semo a così benigna alta mercede:
E come Ei ne sostien; come concede
Con larga mano i suoi ricchi e pregiati
Tesori; e come figli in Lui rinati
Ne cura, e più quel che più l'ama e crede.
E com'Ei nel suo grande eterno impero
Di nuova carità l'arma ed accende,
Quando un forte guerrier fregia e corona.
Ma poi che, per mia colpa, non si stende
A tanta altezza il mio basso pensiero,
Provar potessi almen com'Ei perdona.
Dalla fiducia nel sacrifizio di Cristo è tutto ispirato il seguente
sonetto:
Tra gelo e nebbia corro a Dio sovente
Per foco e lume, onde i ghiacci disciolti
Sieno, e gli ombrosi veli aperti e tolti
Dalla divina luce e fiamma ardente.
E se fredda ed oscura è ancor la mente,
Pur son tutti i pensieri al ciel rivolti;
E par che dentro il gran silenzio ascolti
Un suon che sol nell'anima si sente.
E dice: Non temer, chè venne al mondo
Gesù, d'eterno ben largo ampio mare,
Per far leggero ogni gravoso pondo.
Sempre son l'onde sue più dolci e chiare
A chi con umil barca in quel gran fondo
Dell'alta sua bontà si lascia andare[546].
Le sue poesie spirituali, sebbene artefatte e dialettiche più che
immaginose e sentite, sono delle migliori d'allora, e rivelano una
profonda religione, qual doveva penetrare le anime virtuose, che
deplorando i mali della patria, gli attribuivano alla depravazione de'
Cristiani e alla negligenza de' prelati. Onde scriveva:
Veggio d'alga e di fango omai sì carca,
Pietro, la nave tua, che, se qualch'onda
Di fuor l'assal, d'intorno la circonda,
Potria spezzarsi e a rischio andar la barca.
La qual, non come suol leggera e scarca
Sovra 'l turbato mar corre a seconda,
Ma in poppa e 'n prora, all'una e all'altra sponda
È grave sì, ch'a gran periglio varca.