Gli eretici d'Italia, vol. I - 11

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[88] Grosso volume in-folio, edito a Roma il 1743 dal padre Tommaso
Agostino Richino, col titolo _Venerabilis patris Monetæ cremonensis
ordinis Prædicatorum, sancto patri Dominico æqualis, adversus Catharos
et Valdenses libri quinque_.
[89] Dicono che la seconda parte dell'_Ave Maria_ fu aggiunta solo al
cominciar del protestantesimo, e il Mabillon non ne troverebbe vestigio
prima del 1508. Ma il breviario della Chiesa d'Ivrea, che fu usato fino
al 1545, in una copia del 1488 riporta anche la _Sancta Maria_, ecc.
[90] «E tutte le creature appellava fratelli e sirocchie, dicendo che
tutti aveano uno cominciamento da un medesimo creatore e padre». _Vite
de' Santi Padri_. — _Fratres mei aves, multum debetis laudare
Creatorem.... Sorores meæ hirundines.... Segetes, vineas, lapides et
silvas, et omnia speciosa camporum, terramque et ignem, aerem et ventum,
ad divinum movebat amorem... Omnes creaturas fratris nomine nuncupabat
frater cinis, soror musca_. TOMMASO CELANO suo discepolo. _Acta SS.
octobris_. Vedi _i Fioretti_ di san Francesco, uno de' più ingenui libri
del nostro Trecento, e dei più beffati dai riformatori del Cinquecento.
[91] Santa Maria Novella in Firenze, santa Maria sopra Minerva in Roma,
san Giovanni e Paolo in Venezia, san Nicolò in Treviso, san Domenico a
Napoli, a Perugia, a Prato, a Bologna, coll'arca stupenda del fondatore;
santa Caterina a Pisa, sant'Eustorgio e le Grazie a Milano, ed altre
chiese, segnalate per ricca semplicità, e per lo più architettate da
frati.
[92] Guitton d'Arezzo scriveva di san Francesco:
Cieco era il mondo, tu failo visare (_vedere_);
Lebbroso, hailo mondato;
Morto, l'hai suscitato;
Sceso ad inferno, failo al ciel montare.
Dante pone un magnifico elogio dei due patriarchi in bocca a san Tommaso
e a san Bonaventura nei canti X e XI del _Paradiso_. Di san Francesco
conchiude:
Pensa oramai qual fu colui, che degno
Collega fu a mantener la barca
Di Pietro in alto mar per dritto segno.
E questi fu il nostro patriarca:
Perchè, qual segue lui com'ei comanda,
Discerner puoi che buona merce carca.
E a san Bonaventura, lodando san Domenico, fa dire:
L'esercito di Cristo...
dietro all'insegna
Si movea tardo, sospettoso e raro,
Quando lo imperador che sempre regna
Provvide alla milizia, ch'era in forse
..... A sua sposa soccorse
Con due campioni, al cui fare, al cui dire
Lo popol disviato si raccolse.
[93] Che il concetto di san Tommaso vincitore delle eresie, e
specialmente di quelle di Averroè, fosse affatto popolare, si prova dal
vederlo atteggiato dai pittori. In Santa Caterina di Pisa, ove tenne
scuola, Francesco Traini, discepolo dell'Orgagna, dipinse Tommaso, sul
quale piovono raggi splendidissimi da Dio e dagli angeli e santi, e
altri meno vivi da Platone e Aristotele: esso li riflette tutti sopra i
dottori della Chiesa, fuorchè uno il quale percuote Averroè che sta
rovesciato a' suoi piedi, e passa fuor fuori il libro del gran commento.
Anche Taddeo Gaddi ritrasse l'Angelico sopra un'eccelsa cattedra,
circondato da personaggi dei due Testamenti e dalle quattordici scienze,
ognuna di esse sormontata dal sapiente che n'è tipo: e a' piedi stanno
Ario, Sabellio, Averroè. E costui si scorge in molti altri dipinti,
cruciato dai demonj, stracciantesi le chiome, ecc.
Sulle dottrine di Averroè dovremo tornare, onde giova notare come
Guglielmo di Tocco, autore della vita di san Tommaso, enumerando le
eresie vinte da questo, pone in primo luogo quella di Averroè «che
insegnava esservi un intelletto solo: errore sovversivo del merito de'
santi, giacchè allora non v'avrebbe differenza tra gli uomini». E
prosegue: _Mirum est quam copiose sanctus Thomas in illam vanissimam
sententiam semper inveheretur. Captabat ubique tempora: quærebat
occasiones unde ipsam traheret in disputationem: pertractam vero
torquebat, exagitabat, monstrabatque non a christiano solum, sed ab omni
quoque alia, peripateticaque præcipue philosophia dissentire_. BOLLAND.,
_Acta Sanctorum Martii_.
[94] _Veritas intellectus est adœquatio intellectus et rei, secundum
quod intellectus dicit esse quod est, vel non esse quod non est_. Adv.
gent. I, 49, I.
[95] «Legge è un ordinamento della ragione, promulgato da chi
sovrintende al Comune pel bene di tutti». I della 2ª _quest._ 95, art.
4.
«Due cose devono avvertirsi intorno al buon ordinamento del principato
in qualunque città e nazione: la prima, che tutti ottengano qualche
parte nel principato, lo che mantiene in pace il popolo, e fa che tutti
amino e difendano l'ordinamento. L'altra riguarda la forma del
reggimento. Ottimo principato è dove uno presiede a tutti secondo il
merito, e dopo lui governano altri secondo il merito; il qual principato
è di tutti, perchè tutti possono essere eletti, e tutti partecipano
all'elezione». _Quest._ 105, I della 2ª, art. 1.
Ottima è la sua osservazione intorno allo svilimento de' caratteri,
prodotto dall'assolutismo: sotto il quale, dic'egli, gli uomini _in
servilem degenerant animum et pusillanimes fiunt ad omne virile opus et
strenuum_. De reg. pr. L. I. 3.
[96] Pietro Tamburini, che abituò i Lombardi al servilismo ufficiale, è
accannito contro la scolastica. _De fontibus sacræ theologiæ_. Pavia
1790, vol. III, diss. 10. La difese Gerdil nel _Saggio d'istruzione
teologica_, art. _Scolastici_, tom. X.


DISCORSO V.
ORIGINE DELL'INQUISIZIONE. SEGUE DE' PATARINI. LA GUGLIELMINA.

La verità non sarebbe verità se ciò che se ne scosta non fosse errore:
nè l'errore sarebbe errore se non cagionasse disordine. In conseguenza
l'autorità tutrice dell'ordine sociale deve reprimerlo. In tempo che
tutto avea per meta il cielo, sicchè chi mettesse impacci all'arrivarvi
era il gran nemico della società, bisognava collocare sotto la guardia
delle leggi la fede, come la vita, la roba, l'onore.
Che la società pagana non tollerasse le religioni diverse dalla legale,
è attestato non meno dal supplizio di Diagora e Socrate, che dalle
migliaja di martiri. I Padri della Chiesa proclamarono la libertà delle
credenze, finchè la loro fu perseguitata; ma come prevalse, e gli
eretici sorsero a turbarla, argomentarono che il reprimere gli errori
fosse diritto e difesa legittima contro della persecuzione e della
seduzione. Se la Chiesa è unica depositaria e interprete della verità, e
soltanto in essa vi è salute, non dovrà ella con ogni modo opporsi alla
propagazione dell'errore? Gl'imperatori di Roma cristiani, memori di
quando univano i due poteri di capi dello Stato e supremi pontefici,
moltiplicarono decreti in tal proposito; due Costantino, uno
Valentiniano I, due Graziano, quindici Teodosio I, tre Valentiniano II,
dodici Arcadio, diciotto Onorio, dieci Teodosio II, tre Valentiniano
III, tutti inseriti nel codice Giustinianeo. Diverse pene comminavano
agli eretici, di rado la morte, perchè i vescovi professavansi
avversissimi al sangue: a questi era affidato il decidere se un'opinione
fosse ereticale; al magistrato secolare l'avverar il fatto, e dare la
sentenza.
Così procedette la cosa nel declino dell'impero occidentale; così
continuò in Oriente. Ma fra noi, dopo l'invasione, se accadeva di punire
un violamento di leggi ecclesiastiche, i vescovi usavano quell'autorità
mista di sacro e di secolare, che ad essi era stata attribuita, e
talvolta ancora, considerando l'eresia come politica disobbedienza, la
reprimevano colla forza, siccome dicemmo aver fatto Eriberto arcivescovo
di Milano.
Ridesto il diritto romano, come alla tirannia, così vi si trovò appoggio
alle persecuzioni contro i miscredenti, poco ricordando che la legge
d'amore aveva abolita quella fiera legalità. L'imperatore Ottone III
poneva Gazari e Patarini al bando dell'impero e a gravi castighi.
Federico Barbarossa, tenuto congresso a Verona con papa Lucio III nel
1184, ordinò ai vescovi[97] d'informarsi per sè o pei loro delegati
delle persone accusate d'eresia, distinguendo i convinti, i pentiti, i
ricaduti; quelli convinti sieno spogliati dei benefizj se religiosi, e
abbandonati al braccio secolare; i sospetti si purghino, ma se ricadano,
vengano puniti senz'altro. Federico II, al tempo della sua coronazione
fulminò pene temporali contro gli eretici, e le ripetè da Padova con
quattro editti, ove, «usando la spada che Dio gli ha concesso contro i
nemici della fede», vuole che i molti eretici ond'è singolarmente
infetta la Lombardia, sieno presi dai vescovi e dati alle fiamme
ultrici, o privati dell'organo della lingua.
È questa la prima legge moderna di morte contro i miscredenti: e veniva
da un re accusato di enormi eresie dai contemporanei, e dai moderni
offerto modello di liberalismo antiecclesiastico. Egli stesso fece da
papa Onorio III rimproverare le città lombarde per averlo impedito di
procedere, come si era proposto, contro l'eresia[98]: all'arcivescovo di
Magdeburgo, legato in Lombardia, impose di usar il massimo rigore[99]; e
l'ordinò nelle _Costituzioni del regno di Sicilia_, dolendosi, che dalla
Lombardia, ove n'era il semenzajo, i Patarini fossero largamente
penetrati in Roma e perfino nella Sicilia[100] e a perseguitarli spedì
l'arcivescovo di Reggio e il maresciallo Ricardo di Principato. Nè men
severi editti fece Ottone IV[101]; da cui Giacomo vescovo di Torino,
sgomentato dell'aumentarsi de' Valdesi fra le Alpi, ottenne ampia
facoltà di espellerli dalla sua diocesi[102]. Sull'esempio e
coll'autorità dei decreti imperiali, le varie città emanarono statuti
contro gli eretici.
Questi aveano per centro Tolosa; e già potemmo vedere come impugnassero
la giustizia, la proprietà, la famiglia, la facoltà di punire, insomma i
fondamenti della società. Come nemici della società consideravansi
dunque, e Federico II, nella succennata costituzione, che passò nel
diritto comune per quasi tutta Italia, ordina a' suoi uffiziali
d'investigare contro gli eretici, anche senza denunzia e sopra sospetti
per quanto leggieri, ponendo l'eresia fra i delitti pubblici (_inter
cætera publica crimina_); anzi lo giudica più orribile che la lesa
maestà: e fin agli ecclesiastici comanda di esaminare se vi avesse
offesa anche contro un solo articolo di fede: _a viris ecclesiasticis et
prælatis examinari jubemus_.
Eresia era titolo che applicavasi a qualunque errore. Si sa che, nella
dieta di Roncaglia, Martin Gosia definì che l'imperatore è non solo
signore di tutto il mondo, ma anche di tutte le cose de' particolari. Or
bene, il famoso Bartolo non solo adottò quella sentenza, ma dichiarò
eretico chi credesse altrimenti.
L'eresia era dunque civilmente delitto: e Luca di Penna, per dirne uno
dei cento, dichiara «il misfatto d'eresia esser massimo e pubblico, per
offendere la maestà divina, e conturbare l'unità della Chiesa: aversi in
esso a procedere per inquisizione, e quelli che da' giudici
ecclesiastici son dichiarati rei, se non s'accusano e ritornano in seno
della Chiesa, siano dichiarati eretici, e consegnati al giudice
secolare, che deve bruciarli e incamerarne i beni, come nel misfatto di
maestà».
Da questi mali volendo Innocenzo III sbrattare la vigna di Cristo, spedì
monaci a predicare, esortando i principi a secondarli; e quando Ranerio
e Guido inquisitori avessero scomunicato uno, i signori doveano
confiscargli i beni e sbandirlo, e far peggio a chi resistesse. Di qui
cominciò la crociata contro gli Albigesi, che non è da questo luogo il
raccontare, ma dove la religiosa serviva di mantello alla quistione di
nazionalità. La Francia, smaniando ottenere quell'unità, che molti
agognano oggi a qualsiasi costo anche per l'Italia, voleva sottomettere
la Provenza e la Linguadoca, che avvezze alle romane, repugnavano dalle
ordinanze germaniche del paese settentrionale, e quell'occasione sembrò
opportuna. La spedizione fu segnalata dagli orrori delle guerre civili e
dello stato d'assedio, ma solo gli adulatori dei re potrebbero
riversarne ogni colpa sul papa e sulla religione. Oggimai la storia
accertò che Innocenzo, mal informato delle iniquità commesse da ambe le
parti, non avea mai cessato di predicar pace e moderazione, e dopo che i
crociati ottennero vittoria, spedì legato _a latere_ il cardinale Pietro
di Benevento, affinchè riconciliasse colla Chiesa gli scomunicati, e
riducesse Tolosa a repubblica indipendente, purchè convertita dagli
errori anticristiani e antisociali; assolse i capi dell'insurrezione, e
al figlio di quel Raimondo da Tolosa ch'era stato principale capo della
guerra, prodigò consolazioni, assegnò il contado Venesino, Beaucaire e
la Provenza, e ripeteva: «Abbi pazienza fin al nuovo concilio».
Sotto i papi succeduti, la guerra fu proseguita colla ferocia delle
nazionali, finchè la Provenza restò sottoposta affatto al re di Francia.
Questo re era san Luigi, e al nuovo acquisto volle accomunare i
provedimenti che vegliavano in Francia, dove l'eresia, secondo il
diritto comune, era considerata delitto contro lo Stato, e punita del
fuoco. Romano, cardinale di Sant'Angelo, raccolse un concilio, dove si
stabilì che i vescovi nominerebbero in ciascuna parrocchia un sacerdote
con due o tre laici, per _inquisire_ gli eretici, e farli noti ai
magistrati; punito chi ne celasse alcuno; distrutta la casa dove uno
fosse côlto.
Sono i fieri ordinamenti coi quali si svelle la ribellione, e pur troppo
li vediamo e li deploriamo oggi stesso minacciati e applicati, nel
meriggio dell'ostentata civiltà, e per cause assai meno certe, in questa
povera Italia.
Il tribunale dell'inquisizione fu dunque una corte speciale in paese
sovvertito da lunga guerra e da rinascenti sollevazioni. Invece delle
precedenti stragi armata mano, e dei consigli di guerra senza diritto di
grazia, l'Inquisizione era esercitata da ecclesiastici, gente più
addottrinata e meno fiera; ammoniva due volte prima di procedere; solo
gli ostinati e recidivi arrestava; riceveva al pentimento chiunque
abjurasse, e spesso contentavasi di castighi morali; col che salvò
moltissimi, che i tribunali secolari avrebbero condannati. Gregorio IX
poi, ad istanza del famoso teologo Rajmondo de Pegnaforte, la sistemò
col togliere ai vescovi la processura, e riservarla ai frati, che così
all'uffizio di combattere colla parola gli eretici unirono quello di
farli ricredenti o castigarli. Al priore de' Domenicani in Lombardia il
papa dirigeva la bolla _Ille humani generis pervicax inimicus_,
costituendolo esecutore contro gli eretici[103]. Dappoi Innocenzo IV,
con editto del 1251 da Brescia, ripartì le provincie fra Domenicani e
Francescani, a questi la Toscana, a quelli la Lombardia, la Marca
Trevisana, la Romagna, dando ai provinciali podestà d'istituire
inquisitori apostolici dapertutto, fuor della Sicilia ove n'aveano
privilegio i re: il vescovo dovea aver parte nel giudizio; le comunità
pagare le spese: e in XXXI capitoli, dappoi modificati perchè trovarono
reluttanza ne' magistrati, si diedero norme a tutti i rettori, i
consigli, i comuni per consolidar esso tribunale.
I frati costituivano una specie di giurati, circolanti al modo delle
assisie, e che aveano giurisdizione su tutti i laici, non esclusi i
dominanti, ed anche sul basso clero. Arrivato in una città,
l'inquisitore convocava i magistrati; e li facea giurare d'eseguire i
decreti contro gli eretici, ed ajutare a scoprirli e coglierli; se
alcuno renuisse, poteva sospenderlo e scomunicarlo, e mettere
all'interdetto la città. Le denunzie, che non poteano essere anonime,
aveano effetto soltanto quando il reo non si presentasse di voglia;
scorso il termine, era citato; e i testimonj interrogavansi
coll'assistenza dell'attuaro e di due ecclesiastici. L'istruzione
preparatoria riusciva sfavorevole? gl'inquisitori ordinavano d'arrestar
l'accusato, più non protetto da privilegi od asili. Cólto che fosse,
nessuno più comunicava con esso, faceasi la visita della sua casa, e il
sequestro de' beni.
Appoggiavasi l'inquisizione al diritto civile: e nella _Maestruzza_[104]
è definito: «Secondo la legge, indovinatori e malefici dee essere a loro
mozzo il capo, s'ei vi caggiono: e se eglino vanno a casa altrui; debbon
essere arsi: e i loro beni debbono essere messi in comune. Ma secondo la
Chiesa, gli è tolta la comunione, se egli è notorio; ma se egli è
occulto, imponsegli penitenza di quaranta dì» (cap. 42). Degli
indovinatori e sortilegi gl'inquisitori non possono e non debbono
intromettersi, se già manifestamente non temessero alcuna resia. Coloro
che ricaggiono nella resia di prima, la quale avevano negata, si debbono
mettere nelle mani della signoria secolare (cap. 91).
La colpa dunque era civile, la Chiesa non facea che mitigar la pena,
poichè i pentiti assolveva, anche i recidivi procurava riguadagnare.
L'inquisitore dovea dichiarare che l'accusato fosse veramente eretico, e
quindi non più appartenente alla Chiesa: da quel punto diveniva reo di
Stato: e lo Stato non eseguiva la sentenza dell'inquisizione, ma
applicava la pena stabilita dalla legge.
Una costituzione di Celestino III e d'Innocenzo III, accolta nel
_Diritto Canonico_[105], distingue le procedure per accusa secondo il
codice romano, quelle per denunzia, quelle per inquisizione; ma in tutte
sono pubblicate le testimonianze, ammesse le difese e il dibattimento.
Gli eretici dunque, giudicati secondo la legge canonica, poteano
conoscere i testimonj e l'accusatore, aver un consiglio, e pubblico
dibattimento. Solo quando lo stabilirsi dei principati sminuiva la
pubblicità, propria del medioevo, Bonifazio VIII dispensò gl'inquisitori
da tante formalità qualunque volta ne derivasse pericolo ai
testimonj[106]: Innocenzo VI, dichiarando che tal pericolo può
presumersi sempre, generalizzò la riserva, e di qui venne la procedura
secreta, per quanto vi ostassero i legisti e la nobiltà e gli uomini
comuni, che si trovavano esposti all'arbitrio. Piantato un tribunale,
potea sperarsi disforme dagli altri del suo tempo? onde vi si videro
rinnovate tutte le sevizie de' processi di Roma pagana, e il cavillo, e
la tortura, e supplizj esacerbati. San Tommaso trova legittima in tali
casi fin la pena capitale[107]. Ma la Chiesa, sebbene siasene valsa come
d'una legittima difesa e d'una prevenzione contro mali gravissimi, non
approvò mai, almeno in concilio, un'istituzione siffatta.
Fin dal nascere non mancò da fare all'Inquisizione in Italia. La
vicinanza del papa, e l'esservi egli anche principe temporale, incitava
a resistergli; e ne' conflitti di Guelfi e Ghibellini vedemmo mettersi
in discussione l'autorità di lui, passando, come troppo è facile, dalla
mondana alla spirituale. I Comuni aveano acquistato la libertà
strappandola ai vescovi, sicchè restava sminuita la riverenza a questi,
e in molte lettere i pontefici ne muovono querela alle nostre
repubbliche, le quali anche non di rado violarono e i possessi e le
persone degli ecclesiastici.
Uscente il XII secolo, Orvieto formicolava di Manichei, introdotti dal
fiorentino Diotisalvi, e da un Girardo di Marsano; e diceano che il
sacramento dell'eucaristia nulla rappresenta, il battesimo non occorre
alla salvezza; non giovasi ai morti con limosine ed orazioni. Espulsi
costoro dal vescovo, comparvero Melita e Giulita, uomini e donne
seducendo con aspetto di santità, finchè il vescovo, col consiglio di
canonici, giudici ed altri, ne esigliò ed uccise molti. Un Pier Lombardo
vi capitò poi da Viterbo, contro del quale Innocenzo III deputò Pietro
da Parenzo, nobile romano, che ricevuto fra ulivi e palme, proibì i
combattimenti carnevaleschi che finivano in sangue; ma poichè gli
eretici stimolarono a disobbedire, il primo giorno di quaresima si
mischiò fiera zuffa, e Pietro fece abbattere le torri, donde i grandi
aveano tirato sul popolo, ed emanò buoni provvedimenti. A Pietro
tornato, il papa domandò: — Come hai bene eseguiti gli ordini nostri?
— Così bene, che gli eretici mi cercano a morte.
— Dunque va, persevera a combatterli, chè non possono uccidere se non il
corpo; e se t'ammazzeranno, io ti assolvo d'ogni peccato.
E Pietro, fatto testamento e congedatosi dalla desolata famiglia,
ritornò[108].
Contro i molti Manichei di Viterbo Innocenzo mosse in persona, rimbrottò
i cittadini che tra quelli sceglievano i consoli, ed ordinò che,
qualunque fosse trovato sul patrimonio di san Pietro, fosse consegnato
al braccio secolare per castigarlo, e i beni divisi fra il delatore, il
comune e il tribunale giudicante[109]. D'altri abbiamo ricordo in
Volterra, dove gl'inquisitori, a malgrado del vescovo, atterrarono
alcune case d'eretici in Montieri[110].
Bandi severissimi contro Catari e Patarini e d'altro nome novatori,
pubblicò Gregorio IX, in qualità di sovrano di Roma e ad istanza di
questa città, volendo fossero mandati al fuoco, o, se si convertivano, a
carcere perpetuo; e guai a chi li raccogliesse o non li denunziasse.
Molti in fatto furono arsi, molti chiusi a penitenza nei monasteri di
Montecassino e della Cava[111]. Dei rimanenti si fece diligente
inquisizione, per cura di Annibaldo, capo del senato[112]; in presenza
del quale e del popolo, molti preti e cherici e laici, affetti di questa
lebbra, furono condannati; sopra testimonj e confessione propria.
L'editto di Gregorio IX fu poi ampliato da Innocenzo IV e Alessandro IV,
infine da Nicola III contro tutti gli eretici, e inserito nel diritto
canonico[113]. Il senato romano pubblicò varj capitoli, pei quali il
senatore doveva ogni anno diffidare i Catari, Patarini, Poveri di Lione,
Passagini, Giosefini, Arnaldisti, Speronisti e d'altro nome, e i loro
ricettatori, e fautori, e difensori: gli eretici côlti si devano
detenere, e otto giorni dopo condannati dalla Chiesa, punire: i loro
beni pubblicare, dandone una parte a chi li prese o rivelò, una al
senatore, una per restaurare le mura: dove teneano le congreghe facciasi
un mondezzajo; siano distrutte in perpetuo le loro case e di coloro che
da essi ricevettero l'imposizione delle mani; quegli che conoscendoli
non li riveli, sia multato in venti libbre; quei che loro diano ricetto,
perdano la terza parte dei beni, e la seconda volta siano espulsi di
città, nè possano citar alcuno in giudizio, nè esser assunti ad
impieghi, o ad atto legittimo qualsia.
In Milano fu posto _che qualunque persona a sua libera volontà potesse
prendere ciascun eretico; le case ove eran ritrovati si dovessero
rovinare, e i beni che in esse si trovavano fossero pubblicati_[114].
Enrico di Settala, arcivescovo di essa città, allora istituito
inquisitore, _jugulavit hæreses_, come lo loda il suo epitaffio; ma i
cittadini lo discacciarono. Vedesi ancora in Milano la statua equestre
di Oldrado da Trezzeno podestà, encomiato nell'iscrizione perchè
_Catharos ut debuit uxit_[115]. Nel 1303, al 1 novembre, i popolani di
Sesto Calende si univano, e nominavano due sindaci o procuratori, i
quali ricevessero le abjure di qualunque eresia o credenza, favore o
asilo o difesa prestata a eretici di qualunque sètta; e a giurar
sull'anima loro e di tutti quei del paese d'osservare la fede cattolica,
e perseguitare gli eretici credenti e i loro fautori[116].
Come ricettatore d'eretici fu assalito il conte Egidio di Cortenova nel
Bergamasco, e smantellatone il castello per istanza d'Innocenzo IV.
A Brescia operavano così sfacciati, che dissacravano chiese, e dalle
torri fortificate scagliando fiaccole ardenti, scomunicavano la Chiesa
romana e chi ne seguisse le dottrine. Contro di loro, papa Onorio III
inviò il vescovo di Rimini, il quale abbattè molte chiese da essi
contaminate, e le torri dei Gàmbara, degli Ugoni, degli Oriani, dei
Bottazzi, ch'erano stati i più violenti, con ordine che rimanessero
sempre mucchi di rovine, a ricordanza del fatto: le torri di quelli che
aveano infellonito in minor grado, fossero diroccate fino a metà o ad un
terzo, nè più si elevassero se non col consenso della Chiesa apostolica:
gli scomunicati per tali azioni, eretici fossero o loro fautori, non
venissero assolti se non presentandosi alla sede apostolica, salvo che
in articolo di morte[117].
Altri in Piacenza bruciò il podestà Raimondo Zoccola; sessanta a Verona
frà Giovanni da Schio in tre giorni, subito dopo aver riconciliate le
osteggianti città italiane nella famosa pace di Paquàra.
Nè il Napoletano mancava d'eretici, ed è probabilmente come protesta
contro le costoro predicazioni che un eremita calabrese andava attorno
gridando nel dialetto patrio: _Benedittu, laudatu e santificatu lu
Patre; benedittu, laudatu e santificatu lu Filiu; benedittu, laudatu e
santificatu lu Spiritu Santu_[118]. Dal registro angioino a Napoli si
trassero dianzi due diplomi: coll'uno del 1269, dato da Orvieto il
penultimo di maggio, Carlo d'Anjou scrive ai conti, marchesi, baroni,
podestà, consoli, conti, e chiunque abbia potere e giurisdizione,
esortandoli che, venendo i frati Predicatori di Francia come inquisitori
in Lombardia e in altre parti d'Italia, per investigare gli eretici e
quelli che per eresia dalle terre di Francia fuoruscirono, vogliano
ajutarli in tal ricerca, e renderli sicuri.
Coll'altro ai giustizieri, balii, giudici, maestri giurati ed altri
ufficiali e fedeli nel regno di Sicilia annunzia che frà Benvenuto
dell'ordine de' Minori, inquisitore, mandava i familiari suoi Regebato e
Jacobuccio a prendere alcuni eretici dimoranti nel suo regno: perciò a
loro requisizione vogliano coglierli, coi beni stabili e mobili, e
custodirli in luogo sicuro; i beni fedelmente conservino a utile della
curia reale; e di quanto staggiranno facciano fare quattro istromenti
simili, di cui uno terranno essi, uno daranno al depositario, un terzo
alla camera reale, il quarto ai ragionieri della gran curia. Seguono i
nomi degli eretici: Marco Pietro Neri, Regale de Monte, Gilia di
Montesano, Giovanni Bictari, Bigoroso, Bonadio del Regno, Bencivenga di
Vecchialana, Verde figlia di Guido Versati, Fiore di Colle Casale,
Benvenuto Malyen d'Acquapendente, Migliorata sua moglie, Sabbatina detta
Bona, maestro Matteo tessitore e Alda sua moglie, Giovanni Orso, Angelo
Orso di Guardia Lombarda, Vitale Maria sua moglie, Bernarda e Bernardo
suo marito, Gualterio provinciale, Bernardo calzolajo, Bernarda sua
moglie, Raimondo di Napoli, Pietro di Majo di San Germano, Benedetto
calderario, Pietro Malanotte e Maria sua moglie, e Maria loro figlia,
Salvia e Nicolao figlio di lei, Benedetto fratello di Salvia, Bona sua
figlia, Salvia di Rocca magnifico, Giudice Rainaldo, Giudice Guarino,
Bojano Capocia, Pietro Giannini e Guglielmo suo fratello, Giraldo Bonomo
di Odoriso, Giacobo Gerardone, Giovanni Mundi, Tommaso di Giovanni
Guarnaldi di Ferrara, Pietro Bictari nipote di Giovanni Bictari,
Margarita moglie del fu Zoclofo, Domino di Ferrara, Sibilla sua cognata
di Melfi, mastro Matteo tessitore, Alda sua moglie, mastro Mauro
mercante di Casalvere, Matteo Giovanni Golie, Giovanni e Gemma suoi
figli, Soriana, Matteo Maratono, Gemma sua donna, Binago di Alifia,
maestro Manneto di Venafro, Nicola fratello di Jacobo, Maria madre sua
di Bojano, Guglielmo d'Isernia, Sergio, Margarita sua moglie di San
Massimo, Viatrice sua figlia, Roberto figlio di Ugone suddetto, Giacomo
Ricco, mastro Rainaldo Scriba, Canapadula di Rieti figlio, Samuele di
San Sibato, Corrado Tetinico che dicesi stia a Foggia, Benvenuto Jazeo e
sua moglie che dimora presso San Martino, e stavano in Alifia.
Il decreto è dato nell'assedio di Lucera, il 12 agosto 1269.
Ivone da Narbona scriveva a Gerardo arcivescovo di Bordeaux, come,
viaggiando in Italia, e' si finse Cataro, lo perchè in tutte le città
ebbe lietissime accoglienze; e «a Clemona, città celebratissima del
Friuli, ebbi squisiti vini da' Patarini, robiole, ceratia ed altri
lachezzi»[119]. Costoro aveano per vescovo un tal Pietro Gallo, che
scoperto di fornicazione, fu cacciato di seggio e dalla società.
Contraddisse vivamente all'errore Antonio da Lisbona, il taumaturgo di
Padova, che a nome della religione e dell'umana libertà protestò contro
Ezelino, il quale professava aver più paura de' frati Minori che di
qualsiasi persona al mondo. Singolarmente in Rimini sant'Antonio
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