Gli eretici d'Italia, vol. I - 30

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Bibbia; che non intendono acca delle dottrine di Cristo; non si
capiscono tampoco fra di loro». Così declamava: poi alla chiesa di
Wittenberg, nella solennità d'Ognissanti, affigge novantacinque tesi;
pronunziando maledizione e anatema contro chiunque negasse la verità
delle indulgenze pontifizie[355], ma esservi abuso in esse.
E abuso v'era; lo attestò il medesimo concilio di Trento: sarebbesi
potuto confessarlo e toglierlo senza rompere l'unità della Chiesa; i
vescovi di Meissen e di Costanza aveano proibito quelle vendite; ma la
materia era preparata di maniera, che poca favilla destasse
inestinguibile vampa.
La materia delle indulgenze non era stata molto discussa dai dottori,
non mai dalla Chiesa congregata. La bolla di Clemente VI pel giubileo
del 1350 le stabiliva, ma non quanto bastasse per confutare le ragioni
di frà Martino: laonde il Tetzel che, dialettico robusto al modo degli
scolastici, presumeva trionfare di tutto mediante le argomentazioni,
anzichè angustiarsi nella quistione speciale, affrontò la generale,
asserendo che il consenso de' dottori della scuola le confermava, che il
papa, infallibile in materia di fede, le approvava, e ne davano segno
col pubblicarle: laonde le indulgenze erano articolo di fede, e
bisognava credervi. Lutero anch'esso dilargasi dal suo tema, e toglie in
esame l'autorità pontifizia; e dietro a questa la remissione de'
peccati, la penitenza, il purgatorio, tutti punti che s'attengono
all'indulgenze. Altri sorsero contraddittori a Lutero; ma da una parte,
col sentenziare d'eresia ogni divergenza d'opinione, spingevansi molti
nel campo nemico; dall'altra le dispute faceano il solito uffizio di
approfondare viepiù il frapposto fosso; dal censurare gli abusi si
trascorreva ad intaccare i principj; dall'asserire che i prelati
trascendevano, al revocare in dubbio la legittima potestà del papa e
persino l'autorità sua in materia di fede; e quando appunto le minacce
dei Turchi rendevano necessaria una più compatta unione, la cristianità
spartivasi in due campi, dapprima avversi, ben presto ostili.
Gli studenti di Wittenberg colgono un frate che portava ottocento copie
delle controtesi di Tetzel, gliele tolgono, e invitano chiassosamente a
venir vedere bruciarle, e il fanno tra le grida di «Viva Lutero, morte a
Tetzel». Lutero professava sottomettersi alla decisione del papa, ma
intanto sbraveggiava in tono di sfida; e dall'applauso popolare fatto
confidente in sè e ne' testi letterali della Bibbia, conculca la
tradizione e la scuola, e richiamando ai primi tempi della Chiesa, apre
l'avvenire con un appello al passato.
Come già erasi fatto col Savonarola, Tetzel proponeva a Lutero la pruova
dell'acqua e del fuoco; e questi, men civile del Ferrarese, rispondeva:
«Io me n'impippo de' tuoi ragli. Invece d'acqua ti suggerisco il sugo
della vite; invece del fuoco, odora una buona oca arrosto».
I dotti di qua dalle Alpi mal si capacitavano che da un _barbaro_
potesse derivare nulla di straordinario: e quali, invaghiti del bello,
credeano bastasse opporre ai sillogismi la fabbrica del Vaticano o il
quadro della Trasfigurazione; quali prendeano spasso di quelle
controversie, e di scoprire a Lutero forza d'ingegno meravigliosa: e,
sebbene scrivesse alla carlona, l'applaudivano di prendere pei capelli
la screditata scolastica e i frati, ch'eran per loro l'ignoranza e la
pedanteria incarnata. Gli spiriti forti ridevano del papa, messo in sì
male acque, ridevano insieme dei riformatori, che davansi aria di
rigoristi entusiastici, e collo scetticismo allora di moda, stavano a
vedere chi prevarrebbe. Anime rette credettero in Lutero ravvisare
l'uomo suscitato da Dio, non per demolire il dogma, ma per correggere le
aberrazioni. Quei che s'ammantano col nome di moderati, deploravano
quella scissura, ma credeano meglio non opporvisi per non esacerbare,
per non impedire la riconciliazione, per non compromettersi: morrebbe di
morte naturale, come tant'altre, nate negli ozj ringhiosi de' conventi.
Tale la considerò dapprincipio Leone X: allettato da quelle arguzie,
diceva: «Frà Martino ha bellissimo ingegno, e coteste le sono invidie
fratesche»: poi messo in collera da insulti anche personali, scappava a
dire: «Gli è un tedesco ubriaco, e bisogna lasciargli digerire il
vino»[356]. Dopo nove mesi, per ribattere il novatore colla penna fu
scelto Silvestro Mazzolini, da Priero presso Mondovì, maestro del sacro
palazzo[357].
Facile trovare nel costui dialogo futilità e cattivo gusto[358]; e lo
beffò Erasmo, sempre in caccia di corbellerie de' frati; ma è ben
lontano dall'esser l'ignorante che i Riformati vogliono dipingerlo.
Lutero risponde (1518); quegli replica _De juridica et irrefragabili
veritate ecclesiæ, romanique pontificis_; dove stabilisce che la Chiesa
è un regno, e regno monarchico; e il papa superiore al Concilio, di cui
parla con disprezzo: ma perchè, abbagliato dalla grandezza papale,
trovava insoffribile ogni resistenza, ogni esame, e trascendea nelle
confutazioni, venne consigliato a tacere, pur costituendolo vescovo e
giudice di Lutero. E Lutero rispondeva: «Non abbiam noi corde e spade e
fuoco per castigare i ladri, gli assassini, gli eretici? Perchè non ce
ne varremmo a castigare il papa, i cardinali, i vescovi, e tutta la
schiuma della sodoma romana, avvelenatrice della Chiesa di Dio? Perchè
non bagneremo le mani nel loro sangue onde salvar noi e i nostri
nepoti?»[359]
Altri risposero al novatore tessendo argomenti in quelle forme
sillogistiche, di cui erasi abusato nelle dispute e fino ne' Concilj
precedenti[360]; e Lutero sguizzava loro di mano con una celia; diceva:
«Voi discutete se Cristo è figliuolo di Dio, se Maria è sua madre, e non
tollerate che noi mettiamo in dubbio le indulgenze?» Avea torto,
perocchè quelle quistioni agitavansi ne' conventi o in adunanze
ecclesiastiche per mera esercitazione scolastica, mentre ora egli le
portava in piazza, le sottoponeva al senso comune che non è competente;
coll'audacia propria ringalluzziva la scolaresca che moltiplicava
applausi a lui, fischiate ai contraddittori, perchè sempre la forza
anormale viene ammirata, e trascina chi ha bisogno di movimento, e chi
trova più comodo il pensare coll'altrui che colla propria testa.
Espiavasi così la tolleranza usata all'Aretino e al Berni; come la
profanità dell'arte era espiata dalle migliaja di figure del Papa Asino,
che si diffondevano per Germania.
Leon X, uscitegli invano le promesse e le minacce, non ottenuto dai
principi che gli consegnassero Lutero, emana una bolla del 9 novembre
1518, ove dichiara legittime le indulgenze; e che esso, come successore
di san Pietro e vicario di Cristo, aveva autorità di concederle. Lutero
se n'appella al Concilio, e ricorrendo a frasi simpatiche, parla della
schiavitù di Babilonia, della libertà cristiana: _vindicemus communem
libertatem, liberemus oppressam patriam_, è il motto che dà a' suoi
Tedeschi. I quali presero a riguardare la resistenza come una
liberazione dalla tirannide italiana, e ripeteano le invettive che
Hutten avventava al papa: «Sei tu che hai dilapidato la Germania: sempre
il vangelo a te spiacque, o tiranno; tu ingojasti la Germania, tu la
rivomiterai, coll'ajuto di Dio. Tu hai ciuffato, estorto il nostro
denaro: cos'è che tu chiami la libertà della Chiesa? La facoltà di
derubarci. Non v'ha che te di eretico, Leone X, tu divenisti vero leone
e vorresti divorarci; non dimenticarti che il mio paese nutrisce altri
leoni contro di te, se non bastano le tre aquile: Leone....»; il resto
la creanza ci interdice di trascriverlo.
In fatto, sotto la specie di libertà religiosa, intendevasi libertà
politica, del resto connesse fra loro. E gran bisogno sentivasene in
Germania, ove ancora l'imperatore dipendeva dal papa; i baroni
dipendeano dall'imperatore; gli uomini gregarj dipendeano dai baroni;
alla gleba era legata la gentuccia e a servizj di corpo; libertà,
libertà, ripeteasi dunque dapertutto, e tal voce era compresa anche
dalla plebe. La nazionale avversione contro quanto stava di qua
dall'Alpi trovava pascolo in questa guerra di nuovo conio, e che non
cagionava nè spese, nè pericoli, nè spostamento d'abitudini; laonde i
Tedeschi s'affezionano al nuovo Erminio che muove guerra implacabile
agli Italiani, abisso di vizj e culmine d'orgoglio; declamano contro
malignità e finezze a cui essi non arrivano; contro la gaja cultura, da
cui si trovano tanto lontani; contro questi Italiani da cui erano stati
impediti, di soggiogare l'intera Europa; e ai quali Lutero portava ora
colla penna tanti danni, quanti già i Barbari colle armi.
Inoltre Lutero parla tedesco, e il tedesco vulgare, quando il più de'
predicatori, e tutti quelli mandati da Roma usavano il latino; e
possedendo se alcun altri mai il linguaggio popolare e quel
dell'ingiuria e del riso, tanto efficace in tempi commossi, egli «va,
viene, spezza, brucia le siepi che non può oltrepassare, precipita come
un sasso dalla vetta, travalica monti e valli come il diavolo», che sì
spesso egli invocava e adoperava.
E nel suo proclama _alla nobiltà cristiana di Germania_, la ingelosiva
delle progressive usurpazioni del clero e di Roma contro la sua nazione,
e «Via i nunzj apostolici, che rubano il nostro denaro. Papa di Roma,
dammi ben ascolto: tu non sei il maggior santo, no, ma il maggior
peccatore; il tuo trono non è saldato al cielo, ma affisso alla porta
dell'inferno.... Imperatore, sii tu padrone; il potere di Roma fu rubato
a te; noi non siamo più che gli schiavi de' sacri tiranni; a te il
titolo, a te il nome, a te le armi dell'impero; al papa i tesori e la
potenza di esso; il papa pappa il grano, a noi la buccia».
Ma il potere che vien offerto dalla rivoluzione, non talenta a principi
che abbiano senno; e Massimiliano imperatore, più vicino all'incendio,
ne conobbe la gravezza, e sollecitò Leone a citar Lutero al suo soglio.
Lutero, mentre riprotestavasi sommesso al pontefice, erasi procacciato
appoggi terreni, e mercè dell'elettore di Sassonia impetrò che il papa
deputasse uno ad esaminarlo in Germania. La scelta cadde su Tommaso De
Vio, detto poi il cardinale Cajetano, perchè nato a Gaeta il 1469. Di
buon'ora s'era egli salvato dal mondo vestendosi domenicano; lesse arti
a Padova, e oltre sapere tutto a mente san Tommaso, ne imitava il modo
d'argomentare, unendo cioè la dialettica d'Aristotele coll'ispirazione
di Platone. Perciò correasi ad ascoltarlo, ma egli fuggiva i rumori, e
s'ascose per sottrarsi a un trionfo in quell'università. Pure spesso
interveniva alle dispute filosofiche e religiose, che molto costumavansi
allora, e singolarmente in una del capitolo generale del suo Ordine a
Ferrara, in presenza del duca e del senato, combattendo Giovanni Pico
della Mirandola. Al conciliabolo di Pisa dal pulpito sfolgorò il
cardinale Carvajal, e gli altri motori dello scisma, e compose un
trattato sull'autorità del papa, sostenendone la supremazia monarchica
sul concilio. Aveva anche pubblicato un'opera sulle indulgenze, lodata
da Erasmo come di quelle che _rem illustrant, non excitant tumultum_,
dove conferma l'efficacia di esse non solo nella remissione della pena
_ut est debita ex vinculo ecclesiæ_, ma anche della pena _ut est debita
ex vinculo divinæ justitiæ_: distinse i meriti di Gesù Cristo e de'
santi, e l'applicazione di essi per _modo di assoluzione e per modo di
suffragio_.
Fatto vescovo di Gaeta, poi cardinale da Leon X, si mostrò attivissimo
nell'eccitare la Germania, la Scandinavia, l'Ungheria contro i Turchi:
in Boemia represse le reliquie degli Ussiti; dimostrò come a torto si
tacciasse d'avarizia la Chiesa romana per le decime, atteso l'uso che ne
faceva; più tardi Clemente VII, udendo ch'egli era assalito dai
saccheggiatori di Roma, mandò a supplicare per lui, acciocchè non
s'estinguesse un tal lume della Chiesa. L'insigne teologo Michele Cano
dice: «Io l'ebbi sempre in gratissima stima, e altamente giovò alla
Chiesa, e poteva esser pari ai sommi edificatori di questa, se la
dottrina sua non avesse macchiata di certa qual lebbra, e o per
curiosità, o per sottigliezza d'ingegno non avesse esposte le sacre
lettere piuttosto ad arbitrio suo, quasi sempre felicissimamente, ma in
varj luoghi più acutamente che felicemente. Poco tenace dell'antica
tradizione, nè molto versato nella lettura dei santi Padri, non volle
apprender i misteri del libro suggellato da quelli che, non a proprio
senso, ma secondo la tradizione dei maggiori, cioè la vera, apersero la
chiave del verbo di Dio. Avendo scritto molte cose eccellenti, da ultimo
con alcune nuove sposizioni della Scrittura scemò autorità a ciò che
avea detto pensatissimamente»[361].
A torto dunque si imputa Leone X d'avere scelto un debole avversario a
Lutero. Questi propose una disputa pubblica in Augusta, ravvisando
quanto vantaggio trarrebbe dal chiamare le turbe a giudici in punti
positivi, fondati sull'autorità. Ricusato, Lutero tergiversa, vuol
discutere, ringrazia il Cajetano d'avere usata carità con lui, che pur
s'era mostrato violento, ostile, insolente verso il nome del papa, ma il
Cajetano riduce la quistione ai veri e finali suoi termini, cioè
l'obbedienza assoluta alla Chiesa come unica autorevole in materia di
fede: «Il papa ripruova le vostre proposizioni: voi dovete
sottomettervi. Il volete o no?» E Lutero ricusa l'incondizionata
sommessione, e sostiene che anche ad un laico armato di autorità devesi
credere più che al papa, che al Concilio, che alla Chiesa stessa.
Leone approvò l'operato dai distributori delle bolle d'indulgenze, e
dichiarò eretico Lutero. Il quale al papa scrisse in tono di canzonella,
compassionandolo come un agnello fra lupi, e ricantando tutte le
abominazioni che di Roma si dicevano. «Gran peccato, o buon Leone, che
tu sia divenuto papa in tempi ove nol potrebb'essere che il demonio. Deh
fossi tu vissuto su qualche benefizio o del paterno retaggio, anzichè
cercare un onore, solo degno di Giuda e de' pari suoi, da Dio rejetti».
Leone allora abbandonata la longanimità, scagliò la scomunica il 15
giugno 1520 in una Bolla studiosissimamente elaborata da Pietro Accolti
cardinale d'Ancona. Invocato Cristo a sorgere in ajuto della Chiesa sua
in tanto bisogno; e san Pietro a prendere cura di questa che gli era
stata affidata da Cristo; e san Paolo, che, sebbene avesse giudicato
necessarie le eresie per provare i buoni, trovasse conveniente
estinguerle al nascere; e tutti i santi e la Chiesa universale perchè
intercedessero appo Dio onde cessasse questa contaminazione, diceasi
come molti errori, già condannati ne' Greci e ne' Boemi, alcuni asserti
ereticali, altri falsi e scandalosi, si seminassero ora in quella
Germania, che sempre fu cara a' pontefici, i quali da essa, dopo la
traslazione dell'impero dall'Oriente in Occidente, sempre aveano chiesto
i difensori.
Qui recita quarantun articolo intorno al peccato originale, alla
penitenza, alla remissione de' peccati, alla comunione, alle indulgenze,
alla scomunica, alla potestà dei papi, all'autorità de' concilj, alle
buone opere, al libero arbitrio, al purgatorio, alla mendicità: tutti
opposti alla carità, alla riverenza dovuta alla romana Chiesa,
all'obbedienza che è nerbo della disciplina ecclesiastica. Dopo fattone
diligente scrutinio con cardinali e capi d'Ordini regolari, e teologi e
dottori, li condanna e ripruova come ereticali, scandalosi, falsi,
contrarj alla cattolica verità; proibisce sotto pena di scomunica il
tenerli, difenderli, favorirli, predicarli. E poichè quelli sono
asseriti ne' libri di frà Martino, condanna questi e chiunque li serba o
legge, volendo siano abbruciati. Martino, più volte ammonito e citato
con promessa di sicurezza, se fosse ito non avrebbe trovato nella Corte
tanti falli quanti spacciava, e il papa l'avrebbe chiarito che i suoi
predecessori mai non errarono nelle loro costituzioni. Ma avendo
sostenuto un anno intero le censure, e fatto appello al Concilio (locchè
era proibito da Pio II e Giulio II) poteva il papa procedere a
condannarlo; eppure, scordate le ingiurie, voleva ancora ammonirlo a
desistere dagli errori, e fra sessanta giorni revocarli e bruciare i
libri: altrimenti lui e suoi sostenitori dichiara pertinaci e notorj
eretici: deva ognuno prenderli e consegnarli, o almeno scacciarli,
dichiarando interdetti i luoghi ove dimorassero.
Questa bolla ammiravano alcuni come un modello di latinità, di scienza,
di diplomazia; altri la criticavano come soverchiamente lunga; e che vi
s'adoprasse stile di curia, anzichè i pronunziati scritturali; e che le
quarantuna proposizioni vi si dichiarassero cumulativamente ereticali o
scandalose o false, anzichè specificare le singole.
Lutero, imitando quel che il Savonarola avea fatto co' libri immorali,
davanti agli studenti di Wittenberg brucia le Decretali, la Somma di san
Tommaso, gli scritti avversi, e la Bolla, dicendo: «Oh potessi fare
altrettanto del papa, il quale conturbò il santo del Signore»; e gittata
la cocolla, sposa Caterina Bore smonacata, cangia forma al culto, e
mentre Leone persiste a chiamarlo a penitenza, pubblica il trattato
della _Libertà cristiana_.
Egli non aveva un programma prestabilito e compiuto, come non l'ha verun
novatore; procedeva a tentone, come chi fra il bujo si orizzonta a poco
a poco, e trae conseguenze dalla primaria quistione. E la quistione
suprema era: «L'uomo decaduto in qual maniera può mettersi in unione con
Cristo, e partecipare del frutto della redenzione?» Svolgendolo, arriva
al suo canone fondamentale, la giustificazione pei soli meriti di
Cristo; donde qual corollario derivano il servo arbitrio e la
predestinazione.
Tutto l'edifizio sacerdotale si compagina sulla credenza che le buone
opere ci meritino la salute; Lutero, volendo demolirlo, nega che l'uomo
possa cooperare alla propria salvezza; _sola la fede ci salva_, è
scritto nel Vangelo; noi siamo corruzione e peccato, sicchè nulla
possiamo se non quel che ci è _dato dal nostro divin Salvatore_, nè
merito avvi o giustizia se non in esso; onde sono inutili, anzi nocevoli
alla salute le buone opere dell'uomo, il quale non è libero della sua
volontà più che nol sia la sega in man del legnajuolo; è pelagianismo il
credere che l'uomo meriti la Salute, mentre la merita il solo Gesù
Cristo. Che penitenze? Che sacramenti? Che suffragi pei morti, o altre
opere satisfattorie? Il male è condizione d'ogni uomo finito; cioè il
sentimento del peccato non può essere divelto da nessuna coscienza
finita. Il cristiano non può raggiungere la pace se non coll'elevare lo
spirito all'infinito, alla considerazione della bontà di Dio. Allora
alla libertà morale annichilata si surroga la libertà cristiana; questa
significa affrancamento dalla legge morale, che non si riferisce se non
al mondo finito; nè ammette applicazioni a ciò che è perpetuo.
Se la fede è non solo un dono gratuito, ma una specie di forza che
costringe l'assenso, mentre l'uomo, corrotto radicalmente, è incapace di
ogni libertà, fino quella di desiderare e scegliere il bene, egli non
coopera a un atto di fede, e la Grazia opera in esso non solo avanti, ma
senza della libertà; laonde fede e libertà si escludono. Pe' Cattolici
invece il libero arbitrio suppone la facoltà non di meritare la Grazia
divina, ma di assentirvi o no, sicchè l'atto di fede è un atto di
volontà: _credere in voluntate credentium consistit_, dice san Tommaso:
si conoscono grazie che provocano, che eccitano, che attraggono la
libertà, ma nessuna che la costringa o la sopprima.
Colla giustificazione al modo di Lutero, cioè se l'uomo diviene giusto
pei soli meriti di Cristo, a lui applicati per mezzo della fede, è tolto
via tutto quanto s'interpone fra Cristo giustificatore e il fedele
giustificato; cioè tutta l'azione intermedia della Chiesa sull'uomo. Per
tal modo, dalla negazione della libertà metafisica egli deduce la
libertà ecclesiastica.
Se ogni uomo è guidato da Dio, che bisogno ha più d'autorità umana? Che
bisogno di espiazione se i fedeli divengono di colpo perfetti mediante i
meriti di Cristo? Basta eccitare la fede mediante la predicazione del
vangelo; se i Cristiani credono, eccoli santi; se no, vanno perduti
senza avere subìto la noja di confessioni, di digiuni, di scomuniche. Il
culto esterno è inutile, bastando la fiducia in Dio; sicchè ogni
Cristiano è sacerdote, e la gerarchia fu costituita solo per ambizione
d'alcuni, per ignoranza servile dei più, a scapito della libertà dei
figliuoli di Dio. Manca la ragione della progressiva educazione di esso
alla santità; e la Chiesa, coi vescovi, col papa, coi sacramenti
inalterabili non solo, ma cogli Ordini monastici, colle penitenze, le
indulgenze e tutto l'organamento esteriore, modificabile secondo i
tempi, diviene un assurdo, un effetto di pregiudizj e di cupidigie.
Ma se ci manca il libero arbitrio, per qual fine Iddio ci ha dato i suoi
comandamenti? Lutero non esita a rispondere, che fu per provare agli
uomini l'impotenza della loro volontà, beffandoli coll'ingiungere cose,
ad osservare le quali non hanno forza[362]. Pecchiamo pure, pecchiamo
fortemente; uccidessimo, fornicassimo cento volte il giorno; non serve,
purchè crediamo alle dovizie dell'agnello di Dio, che toglie i peccati
del mondo[363]. Questa negazione del cooperamento dell'uomo fu
intitolato Vangelo, e nemico al Vangelo si disse chiunque sosteneva il
contrario.
Noi insistiamo sopra Lutero perchè una dottrina religiosa dev'essere
giudicata alla sua sorgente e in ciò che ha di originale e primitivo: e
perchè egli è il vero fondatore del protestantismo, avendo aperto una
via propria coll'eriger la ragione individuale al posto di Cristo, che
solo rappresenta l'umanità redenta e che non comunicò tal privilegio se
non alla sua Chiesa. Le ragioni speciali che lo condussero a formulare
il suo sistema, le prospettive generali del suo edifizio, le sue pruove
dedotte dalla ragione e dalle opinioni, si riproducono nella
interminabile figliolanza, per quanto sembri discorde; nè le passioni
dell'anima sua possono separarsi dalle sue credenze.
Come si disse che Dio è l'unico autore della nostra santificazione,
così, abolendo ancora ogni intervento della Chiesa fra il credente e la
sacra scrittura, si disse che questa è unica sorgente, unica regola e
giudice della fede. Nè l'intelligenza del santo libro è studio solo di
filologia e storia, ma ispirazione divina; giacchè lo spirito pone la
verità ne' nostri cuori. Confondeasi così il lettore della Bibbia colla
Bibbia stessa, quasi non sia diverso il leggere uno scritto infallibile,
ed essere infallibile nell'interpretarlo. Con ciò Lutero rendeva
superfluo un magistero per l'istruzione cristiana e per conservare la
tradizione. La Chiesa non è infallibile, e può discordare dalla parola
divina. Questa vuole essere interpretata dai singoli con sincerità e
invocando lo Spirito Santo; solo in quella vuolsi avere fede, non
badando a Padri o ai Concilj, ma al testo qual è da ciascuno
interpretato.
Con questo criterio, Lutero vi leggeva, che Iddio è unico autore del
bene come del male; che i sacramenti dispongono alla salute, ma non la
conferiscono; che nella santa cena è presente Cristo, ma non
transustanziato; che il ministro è un uomo in nulla diverso dagli altri,
e in conseguenza non può assolvere i fratelli, nè deve distinguersene
per voti e rigori; che la giurisdizione religiosa spetta intera ai
vescovi, eguali tra loro sotto Cristo, che n'è il capo, e scelti dai
principi. Nei due Testamenti, e nei quattro primi Concilj non si parla
di purgatorio, d'indulgenze, di voti monastici, d'invocazione de' santi,
di suffragi: dunque non si devono accettare. L'Ordine non è sacramento:
Dio consacra interiormente l'intelligenza di tutti.
Insomma per abbattere l'autorità ecclesiastica prevalsa, per inaridire
la fonte delle ricchezze e della potestà del papa e dei preti, togliea
la distinzione di spirituale e temporale, d'ogni laico faceva un
sacerdote, dandogli la Bibbia e «Interpretala come Dio t'ispira».
Bisogna dunque vulgarizzarla. Fin nel primo secolo essa erasi voltata
dall'ebraico e dal greco in latino[364], e sant'Agostino dice che ne
correvano innumerevoli traduzioni, perchè, chiunque sapesse di greco,
metteasi a farne una; onde s'aveano, a detta di san Girolamo, _tot
exemplaria quot codices_; ma da noi preferivasi la itala. Era anche
discussa, e Tertulliano scriveva nel libro delle Prescrizioni: «Gli
eretici ripudiano i libri della Scrittura che a loro sconvengono; gli
altri interpretano a loro fantasia; non si fanno scrupolo di cambiare il
senso nelle loro versioni: per acquistare un proselito gli annunziano
ch'è necessità esaminare tutto, cercare la verità in se stessa:
acquistato che l'abbiano, non soffrono più ch'e' li contraddica:
lusingano le donne e gl'ignoranti col farli credere che ben presto ne
sapranno meglio dei dottori; declamano contro la corruzione del clero e
della Chiesa; hanno discorsi vani, arroganti, pieni di fiele: camminano
dietro a tutte le passioni umane».
Questo scriveasi avanti il secolo II, non nel XV o nel XIX: tant'è vero
che l'età nostra ci pare talvolta straordinaria sol perchè viviamo in
quella, non nelle altre. Ulfila tradusse la Bibbia pei Goti, altri per
gli altri popoli che si convertivano, nè forse v'è lingua che non ne
possedesse versioni anteriori alla Riforma. La Biblioteca Imperiale di
Parigi possiede ottomila ottocenventitrè Bibbie in sesto grande;
novemila trecentottanta in medio; diecimila quattrocendicianove in
piccolo; oltre trentasettemila quattrocentottantaquattro codici di
alcune parti; e tutti, o la massima parte anteriori alla stampa. Nella
Germania stessa noverano almeno sedici traduzioni nella lingua
letteraria e cinque nella popolare, anteriori a Lutero[365].
Restringendoci all'Italia, il latino vi era conosciuto da chiunque
sapesse leggere: pure Giambattista Tavelli di Fusignano avea fatto una
traduzione vulgare della Bibbia a istanza d'una sorella di Eugenio IV;
un'altra Jacopo da Varagine vescovo di Genova; quella di Nicolò Malermi
o Manerbi frate camaldolese fu stampata a Venezia nel 1471, _in kalende
agosto_. _In kalende octobrio_ è iscritta un'altra che pare dell'anno
stesso, e alcuno dubitò essere quella del Varagine, ma certamente è
lavoro più antico, e di veneziano, malgrado i toscanesimi[366]. Esso
Malermi nel prologo dice che «già per passati tempi è stato traducto
esso magno volume della Bibbia in volgare et in lingua materna», ma con
grandi errori e mancamenti, atteso i quali egli ripigliò il lavoro. E fu
stampato trentatrè volte, di cui nove innanzi la fine del secolo, e
cinque di esse a Venezia[367]. Nel 1472 si stamparono pure a Venezia per
Cristoforo Arnoldo _Le epistole e gli evangeli che si leggono in tutto
l'anno nella messa_, vulgarizzamento toscano, più volte riprodotto in
quel secolo, il che attesta come si leggessero dal pubblico; nel 1486 si
produssero _Li quattro volumini degli evangeli, volgarizzati da frate
Guido, con le loro esposizioni facte per frate Simone da Cascia_. Ora
appunto si stampa una Bibbia che credesi tradotta dal Cavalca[368].
È una delle rarità bibliografiche l'opera in-folio stampata a Venezia il
1512, per Zuane Antonio e fradeli da Sabio, col titolo _Epistole,
evangelii volgari historiadi_, di cui alcune tavole sono intagliate in
legno da Marcantonio Raimondi.
La biblioteca di Siena possiede un Vecchio Testamento in italiano,
appartenuto ad una confraternita, che nelle adunanze festive ne leggeva
alcuni brani. Altre versioni intere o di parti ha la Magliabecchiana di
Firenze, che già furono di Santa Maria Novella, altre la Ricardiana, la
Laurenziana, e due la imperiale di Parigi.
Anzi Jacobo Passavanti, nello _Specchio di penitenza_, si lagna che i
traduttori della sacra scrittura «la avviliscono in molte maniere, e
quali con parlar mozzo la troncano, come i Francesi e i Provenzali;
quali con lo scuro linguaggio l'offuscano, come i Tedeschi, Ungheri e
Inglesi; quali col vulgare bazzesco e crojo la incrudiscono, come sono i
Lombardi; quali con vocaboli ambigui e dubbiosi dimezzandola la
dividono, come Napoletani e Regnicoli; quali con l'accento aspro
l'irruginiscono, come sono i Romani; alquanti altri con favella
maremmana, rusticana, alpigiana l'arrozziscono; e alquanti, meno male
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