Gli eretici d'Italia, vol. I - 05

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prepotenti, l'oracolo della giustizia; i nuovi convertiti piegavansi a
questo, dal quale eran venuti ad essi i missionarj, e deferivangli le
cause più controverse. E a lui ricorsero nella persecuzione iconoclasta.
Gregorio II, invocato anche dai vescovi greci[47], esponeva
all'imperatore la dottrina della Chiesa cattolica su quel punto: e «se
aveste interrogato persone intelligenti v'avrebbero chiarito che, se
l'ignoranza può far credere che noi adoriamo pietre e muraglie o tavole,
noi vogliam con esse unicamente commemorare coloro di cui esse portano
il nome e le sembianze, ed innalzare il nostro spirito, torpido e
grossolano. Tolga il cielo che le teniamo per Dei, nè poniamo in essi
fiducia. Ma posti dinanzi a quella di Nostro Signore diciamo: _Signor
Gesù, soccorreteci e salvateci_; a quella della sua Santa Madre: _Santa
Maria, pregate il figliuol vostro che salvi le anime nostre_; ad un
martire: _Santo Stefano, che spargeste il sangue per Gesù Cristo, e
presso lui tanta grazia avete, pregate per noi_».
L'iconoclasta non usò altra risposta che quella usata da' prepotenti,
obbedissero, o guai: e, «Manderò a Roma a sfrantumar le immagini di san
Pietro, e il papa portar via carico di catene». Tutta Italia si mise in
fuoco; Ravennati e Napoletani insorti uccisero l'esarca, i Romani
trucidarono il duca Esilarato, venuto per arrestar il papa; e armati per
difendersi, rifiutando il peccato e il tributo, gl'Italiani gridano non
voler più il dominio di questi Greci, sprezzati come deboli, abborriti
come eretici, ed eleggono magistrati proprj, invece di quelli venuti da
Costantinopoli.
Qui sia lecito agli esageranti o vantare i papi d'aver voluto emancipar
l'Italia dagli stranieri, o bestemmiarli d'aver voluto crearsi un
dominio. Il vero è che Gregorio s'interpose fra il popolo e l'imperatore
onde riconciliarli, e ne rintegrò l'autorità a Napoli e a Roma; ma nella
sommossa gli ordini municipali aveano ricuperato i naturali poteri;
popolo, consoli, nobili s'adunarono per condannar l'opinione che
l'imperatore imponeva, e Gregorio si trovò naturalmente a capo d'una
federazione di città, le quali non voleano nè sopportare il giogo
bisantino, nè sottomettersi al longobardo, ma come simboli di libertà e
nazionalità sostenevano Roma e il papa.
Gregorio III (731) ripudiò gli editti iconoclastici, e raccolti
novantatre vescovi d'Italia, dichiarò anatema chi distruggesse,
profanasse, bestemmiasse le immagini. Leone Isaurico s'accinse a
ripristinar l'obbedienza colla forza, ma provò come feriscano le armi
impugnate per la patria e per la religione.
Di questi dissensi pensarono trar profitto i Longobardi, che già,
possedendo tanta parte d'Italia, miravano a ridurla tutta in loro
servitù, acquistando anche Roma, Venezia e la Liguria: e violentemente
invasero la Pentapoli e minacciarono Roma. I papi, vedendo pericolare
l'indipendenza della Chiesa, e con essa i resti della civiltà latina,
fecero quel che si è sempre usato da Narsete fino a Cavour; dapprima
strinsero alleanza col re de' Franchi[48], da poi l'invitarono a venir a
reprimere gli oppressori d'Italia.
Gli Italiani dalla parte de' Greci vedevano decreti tirannici, avida
burocrazia, teologastri armati; dalla parte de' Longobardi, barbari
senza fede nè costumi, devastatori che spropriavano i possidenti,
spopolavano le città a vantaggio di orde armate e di capitani sbuffanti;
re che patteggiavano e mentivano, minacciavano e tremavano; a fronte a
loro vecchi sacerdoti mansueti, venerandi pel carattere, per la pietà,
per la scienza, che faceano processioni onde placar Dio e gli uomini,
pregavano, esortavano, consigliavano, e rendevano ancora riverito al
mondo quel nome di romano, che per altrui cagione sonava vilipendio.
Pertanto il pubblico voto si pronunziava pei papi, e pei Franchi, da
essi invocati. In fatto Pipino, poi Carlomagno, sostenuti dalle simpatie
nazionali, facilmente abbatterono i Longobardi, e ne distrussero il
regno, e _restituirono_ al pontefice quel che già era signoria de'
Greci: sicchè i papi vi ebbero non soltanto il dominio utile, ma
veramente la sovranità, e dissero, «La nostra città di Roma, o di
Ravenna, o di Comacchio; il nostro popolo romano», e collocaronsi fra i
principi della terra.
Questa tanto bersagliata sovranità temporale de' papi non è consacrata
nè nella necessità, nè nel principio, nè dentro, nè fuori da verun
dogma. La fede non dice che il poter temporale sia indispensabile
all'esercizio dello spirituale: pure determina questo in modo che, date
certe circostanze, non può venire esercitato se non da un capo che non
sia suddito di altro re; laonde, senza che facciasi luogo ad eresia, la
quistione implica la necessità di scegliere tra lo spirito della Chiesa
e lo spirito della rivoluzione.
Volendo i papi rintegrare la grandezza romana, sicchè non restasse più
l'Italia a dominazione di Barbari, ridestarono l'impero abbattuto, da
questi, e Adriano papa incoronò Carlo Magno per imperatore d'Occidente.
Così originava quella sistemazione del mondo cristiano che durò tutto il
medioevo. Secondo questa, ogni autorità deriva da Dio. E Dio l'affidò al
suo vicario in terra, che virtualmente rimaneva capo dell'intera
umanità, raccolta nella chiesa universale, e avea dal cielo la potenza
spirituale e la temporale. La spirituale partecipa egli coi vescovi, che
la esercitano sotto la sua supremazia; la temporale egli affida
all'imperatore da lui consacrato, che, sotto la direzione del pontefice,
dopo unto da lui, e giuratogli d'osservare la legge di Dio e le
costituzioni de' popoli, diviene capo visibile della cristianità negli
interessi terreni. Come tale, primeggia sopra tutti gli altri re: giusta
il costume ecclesiastico, non è ereditario, ma scelto ogni volta, ogni
volta coronato. Le due podestà s'appoggiano l'una l'altra, onde non
possono separarsi; neppure possono distruggersi fra loro, diversa
essendo la natura della loro giurisdizione. L'imperatore qualche volta
pretenderà aver mano nell'elezione dei papi, ma questi zeleranno sempre
l'indipendenza della Chiesa e de' suoi capi. Se l'imperatore viola la
legge di Dio e i patti col popolo che lo elesse, il papa lo pronunzia
decaduto, e lo separa anche dalla congregazione dei fedeli mediante la
scomunica. Nei litigi fra l'imperatore e il popolo o i re, il papa
proferisce come arbitro supremo, e con una sanzione spirituale[49].
Un sacerdote, senz'armi, senza interessi domestici o dinastici, senza
pregiudizj di nazionalità, che decide le contese fra' regnanti, intima
l'onestà, la giustizia, la carità a quelli che non conoscono se non il
capriccio e la forza; e gli obbliga a obbedire in nome di Dio; è un tipo
sublime, che forse non fu mai attuato pienamente: ma esercitò ben
maggiore efficacia che non i tanti altri sistemi, fantasticati per
mantenere una libera alleanza fra i popoli civili.
Roma, dopo convertita, avea tenuta la Chiesa in dipendenza, come già
soleva la religione nazionale: tal dipendenza ora cessava. Fra i popoli
germanici antichi però i diritti e le funzioni ecclesiastiche erano
mescolati col potere civile; sicchè, dopo fatti cristiani, ammettevano i
vescovi ne' consigli del regno, come duchi e conti e re assistevano ai
sinodi ecclesiastici, intrecciandosi lo Stato e la Chiesa, il
cristianesimo e la nazionalità. I regni che formavansi di nuovo
cercavano una sanzione col fare omaggio al pontefice e dichiararsene
vassalli. Quando sol dalla scimitarra d'un soldato o dalla tracotanza
d'un feudatario erano decise le controversie, la Chiesa conservava forme
legali, esame di testimonj, scritture, contratti; sicchè fu un grande
acquisto di libertà pei popoli e un gran ritegno ai principi
l'estendersi del diritto canonico, complesso di ordinanze emanate
dall'autorità più disinteressata.
I vescovi, in nome di questo diritto e pel carattere che rivestivano,
come anche per la potenza cui erano saliti come grandi baroni ed
elettori dei re, ammonivano i potenti qualora sviassero dalla giustizia;
proteggeano la donna dagli arbitrj brutali; colla tregua di Dio e
coll'asilo ne' luoghi sacri rimediavano alle guerre, incessanti ove
vigeva il diritto del pugno, cioè della vendetta privata.
Qual meraviglia se il capo de' vescovi crebbe tanto di potenza? Questa
non è nell'essenza della sua missione, ma non vi ripugna, e diveniva
occasione di svolgere ed ampliare l'incivilimento. Roma provedeva anche
ai più lontani popoli, ricevendo reclami, scrivendo, citando, mandando
nunzj e istituendo tribunali di nunziatura ove nessun altro ve
n'avea[50]; ponendosi arbitra nelle contese dei principi, o di questi
coi popoli; dettando leggi comuni, fondate sulla giustizia eterna, e
delle quali, anche in circostanze sì mutate, possono alcune trovarsi
inopportune, nessuna ingiusta.
Se dunque l'autorità pontifizia giganteggiò, non fu un'ambizione,
tramandata per mille anni da un all'altro de' papi, così diversi di
origine, di patria, di regola, di costumi, di scienza, di partito, di
umori, di passioni, eppure consenzienti infallibilmente nell'ordine
delle cose superne; non un palmo di terra s'aggiunsero essi per via di
conquista, durante il medioevo; variarono di politica nelle vicende
terrene, or cacciati, or prigionieri, ora schiaffeggiati da que'
potenti, sui quali imperavano assolutamente nelle materie religiose, e
ai quali impedivano di rendersi tiranni.
Da questa mescolanza di diritti e d'interessi nascevano frequenti cozzi,
che costituiscono una gran parte della storia del medioevo, e diedero
origine alle eresie politiche, delle quali dovremo occuparci. E per ciò
giova chiarire la natura di questo _sacro romano impero_, che col titolo
stesso mostrava aspirare ad un primato morale, a modellare il consorzio
laico sulla gerarchia ecclesiastica, introdurre ordine legale fra i
popoli scomunati; lo che era pure l'intento de' pontefici. Quel primato
non vuolsi confondere colla monarchia universale; bensì unificava la
podestà laica per disciplinarla sotto la podestà di Dio: rendendosi
venerabile non per soldati e forza muscolare, ma pel diritto e per
l'idea del dovere, costituiva una gran federazione, dove, sotto un capo
elettivo, poteva sussistere qualunque forma di governo; superiorità, non
dominio, che rispettava le individualità delle nazioni, pur mettendole
d'accordo nello sviluppare ciascuna la propria, e tutte la generale
civiltà.

NOTE
[37] Sant'Agostino definisce lo scisma _scissio charitatis_; l'eresia
_scissura fidei; hæreticus est qui non sequitur catholicam veritatem;
schismaticus est qui non amplectitur catholicam pacem; apostasia est
totius fidei omnimoda abnegatio_.
[38] Lo dice san Gerolamo, _De script. eccl._
[39] _Est nobis liber contra hæreses et sectas omnes compositus quem si
legere volueritis, damus_.
[40] _De præscriptione_, c. 42.
[41] _Mescolanze_, p. 221, 269.
[42] _De unitate, epist. ad plebem._
[43] _Cod. Theod._, libro XVI, titolo I, legge 2.
[44] Queste scuse non so quanto possano applicarsi ad Agrippino vescovo
di Como, del quale parlando nella mia _Storia della città e diocesi di
Como_, mostrai il traviamento, e con ciò parvi ad alcuno mancar di
riverenza a chi era onorato del titolo di santo. Ma la verità anzi
tutto: poi non è detto che Agrippino non si ravvedesse. La mia
asserzione, oltre una lettera di san Colombano a Bonifacio IV,
appoggiasi a un bellissimo titolo, che or serve di mensa all'altar
maggiore della chiesa di Isola nella Comacina, ed è siffatta:
_Degere quisquis amat ullo sine crimine vitam_
_Ante diem semper lumina mortis habet_.
_Illius adventu suspectus rite dicatus_
_Agripinus præsul hoc fabricavit opus_.
_Hic patriam linquens propriam, karosque parentes_
_Pro sancta studuit pereger esse fide_.
_Hic pro dogma patrum tantos tollerare labores_
_Noscitur, ut nullus ore referre queat_.
_Hic humilis militare Deo devote cupivit_
_Cum potuit mundi celsos habere grados_.
_Hic terrenas opes maluit contemnere cunctas_
_Ut sumat melius præmia digna...._ (polo? sibi?).
_Hic semel exosum sæclum decrevit habere_
_Et solum diliget mentis amore Deo_.
_Hic quoque jussa sequens Domini legemque Tonantis_
_Proximum ut sesse gaudet amare suum_.
_Hunc etenim quem tanta virum documenta decorant_
_Ornat et primæ nobilitatis honor_.
_His Aquileja ducem illum destinavit in oris_
_Ut gerat invictus prœlia magna Dei_.
_His caput est factus summus patriarcha Johannes_
_Qui prædicta tenet primus in orbe sedem_.
_Quis laudare valet clerum populumque comensem_
_Rectorem tantum qui petiere sibi?_
_Hi sinodus cuncti venerantur quatuor almas,_
_Concilium quintum postposuere malum_.
_Hi bellum ob ipsas multos gessere per annos_
_Sed semper mansit insuperata fides_.
[45] Alludendosi più volte in questi discorsi a opinioni de' primi
eretici, sarà bene accennarne il significato.
Paolinisti e Fotiniani credeano Gesù Cristo semplice uomo, non
preesistente alla sua concezione.
Simoniaci, derivanti da Simon Mago che a san Pietro offriva denari per
ottenerne la facoltà di comunicar lo Spirito Santo, chiamansi quelli che
fan mercimonio delle cose sacre, e più solitamente de' benefizj.
Gli Ariani negano la divinità di Cristo, e i Macedoniani la divinità
dello Spirito Santo.
I Nestoriani dividevano la persona di Gesù Cristo, negando che in lui
Dio e l'uomo fossero una persona sola; in conseguenza Maria non era
madre di Dio.
Gli Eutichiani confondevano le due nature di Cristo, dicendo che una
sola erasene fatta dalla natura sua divina e dall'umana.
Manichei e Marcioniti credeano a due principj indipendenti, l'uno del
bene, l'altro del male; l'uno creatore dell'anima, l'altro del corpo;
l'uno del nuovo, l'altro del vecchio Testamento.
Novaziano negava alla Chiesa l'autorità di rimettere i peccati. I
Donatisti invalidavano il battesimo conferito dagli eretici. Aerio
rigettava l'episcopato, il pregare pei morti, i digiuni stabiliti, e
altre osservanze ecclesiastiche; Vigilanzio il culto delle reliquie e
l'invocazione dei santi; gli Iconoclasti tutte le immagini.
I Pelagiani negavano il peccato originale e la necessità della grazia
interiore.
I Semipelagiani ammettevano il peccato originale, e non negavano la
necessità della grazia interna per compire la nostra salute, ma diceano
ch'essa davasi per meriti precedenti, e che l'uomo comincia la salute
sua da se medesimo, senza la grazia.
Più tardi Berengario negò la presenza reale e la transustanziazione: gli
Albigesi rinnovarono le credenze de' Manichei, e i Valdesi quelle di
Aerio e Vigilanzio.
Questi sono i principali eretici, ma l'enumerazione de' singoli è
lunghissima, e può vedersi nel _Dizionario delle eresie_ di Pluquet, e
nella traduzione francese del Commonitorio di san Vincenzo di Lerins,
fatta dall'abate Pavy, il quale ne annovera settantuna nel IV secolo.
[46] _Ep._ XI, 13.
[47] Nelle opere inedite che il cardinale Mai trasse dalla biblioteca
Vaticana, si trova un'importante confessione della supremazia del
vescovo di Roma, fatta da un patriarca greco, anteriore di mezzo secolo
allo scisma. Difendendo esso le immagini sacre, allora combattute da
Costantino Copronimo, dice che l'errore degli Iconoclasti poteva essere
scusato per ignoranza solo avanti il secondo sinodo niceno. «Fu questo
radunato convenientissimamente e con tutta legittimità; poichè, secondo
le antiche stabilite regole divine, vi teneva il posto più degno, e
presedeva una notabile parte del supremo clero occidentale, cioè
dell'antica Roma; senza del quale, niun dogma che nella Chiesa si
esamini, quantunque già ammesso per decreti canonici e per consuetudini
ecclesiastiche, non si riguarderà mai come approvato e dedotto ad
assoluta definizione e pratica. Imperocchè quella Chiesa gode il primato
del sacerdozio, e ritiene tal dignità come trasmessale dai due corifei
degli apostoli». Συγκεκροήτο γὰρ τοῦτο μάλιστα ενδικῶς, και εννομώτατα
επειπερ ἤδη, κατὰ τοὺς ὰρχήθεν τετυπωμένους θειους θεσμοὺς προῆγη
κατ’αυτὴν, καὶ προήδρευεν, όσον τε τῆς έσπεριας λήξεως, ἤτοι τῆς
πρεσβυτερος Ρώμης, μέρος οὺκ ἄσημον ῷν ἄνευ, ουδὲν δόγμα κατὰ τὴν
ηκκλησιαν κινουμενον, θεσμοῖς κανονικοῖς καὶ ιερατικοῖς έθεσι
νενομισμενον άνωθεν, τὴν δοκιμασιαν οὺ σκοιὲ, ὴ δεξαιτ’ άν ποτε τὴν
περαιωσιν, ώς δὲ λαχόντον κατὰ τὴν ιερωσυνεν εξάρκειν, καὶ τῶν κσρυφαιων
ὲξ αποστόλοις ὲγκεχειριδμένον τὸ ὰξιομα.
[48] Stefano II alla dieta di Quiersy 14 aprile 754 statuisce con Pepino
un'alleanza.
_Statuimus cum consensu et clamore omnium, ut tertio kalendas majarum
(_29 aprile_) in Christi nomine hostiliter Longobardiam adissemus; sub
hoc, quod pro pactionis fœdere per quod pollicimus et spondemus tibi,
beatissimo Petro clavigero regni cœlestis et principi apostolorum, et
pro te huic almo vicario tuo Stephano egregio papæ summoque pontifici,
ejusque successoribus usque in finem sæculi, per consensum et voluntatem
omnium infrascriptorum abatum, ducum, comitum Francorum, quod si Dominus
Deus noster pro suis meritis sacrisque precibus, victores nos in gente
et regno Longobardorum esse constituerit, omnes civitates atque ducata
seu castra, sicque insimul cum exarcatu Ravennatum, nec non et omnia quæ
pridem tuæ per imperatorum largitionem subsistebant ditioni, quod
specialiter inferius per adnotatos fines fuerit declaratum, omnia quæ
infra ipsos fines fuerint ullo modo constituta vel reperta, quæ
iniquissima Longobardorum generatione devastata, invasa, subtracta,
ullatenus alienata sunt, tibi, tuisque vicariis sub omne integritate
æternaliter concedimus, nullam nobis nostrisque successoribus infra
ipsas terminationes potestatem reservatam, nisi solummodo ut orationibus
et animæ requiem profiteamur, et a vobis populoque vestro patritii
Romanorum vocemur_. Seguono i confini.
Sull'autenticità di questo documento vedi il Troya, e BRUNENGO, _Le
origini della sovranità temporale dei papi_. Roma 1862.
[49] Nell'elezione dell'imperatore, l'arcivescovo di Colonia gli
domandava:
Vuoi mantenere con tutte le forze la santa fede cattolica?
Vuoi esser difensore e protettore alle sante chiese e ai ministri di
esse?
Vuoi al santo padre il pontefice romano riverentemente prestare
soggezione e la fede dovuta; non violare la libertà ecclesiastica;
mostrarti a tutti benigno, mansueto, affabile secondo la regia dignità;
e condurti in modo da regnar a utilità non tua, ma del popolo tutto; ed
aspettar il premio de' tuoi benefizj non in terra ma in cielo?
Dopo coronato, l'imperatore giurava: «Professo e prometto in faccia a
Dio e agli angeli suoi, di osservare le leggi, far giustizia, confermar
i diritti del regno, prestare il dovuto onore al pontefice romano e agli
altri vescovi e vassalli; conservare le cose donate alla Chiesa».
Queste idee sulla distribuzione del potere non le deduco da teologi o
romanisti; ma nello _Specchio di Svevia_, costituzione della Germania
antichissima, è detto che Cristo, principe della pace, lasciò in terra
due spade per difesa della cristianità; ed affidolle a san Pietro, una
pel giudizio secolare, l'altra per l'ecclesiastico: la prima è dal papa
_imprestata_ all'imperatore (_des weltichen Gerichtes Schwert darlihet
der Papst dem Kaiser_); l'altra rimane al papa affinchè giudichi stando
s'un palafreno bianco, e l'imperatore dee tenergli la staffa acciocchè
la sella non si scomponga; significando così che, se alcuno resiste
ostinatamente al papa, l'imperatore e gli altri principi devono
costringervelo colla proscrizione. Nessuno può scomunicar l'imperatore
fuorchè il papa, e questo per tre sole cause: se dubita della fede vera;
se ripudia la moglie; se turba le chiese e le case di Dio. Quando si
scoprono eretici bisogna procedere contro di essi ai tribunali
ecclesiastico e secolare; la pena è il fuoco. Ogni principe che non
punisce gli eretici è scomunicato. E se fra un anno non venga a
resipiscenza, il papa lo priverà dell'uffizio principesco e di tutte le
sue dignità. SCHILTER, _Antiq. Teuton._, T. III.
[50] Vedi CELESTINO MASETTI, _Dei vantaggi arrecati alle nazioni
cristiane dai Romani Pontefici per mezzo delle nunziature apostoliche_.
Roma 1842.


DISCORSO III.
ETÀ FERREA DEL PONTIFICATO. I CONCUBINARJ. LE INVESTITURE. GUERRA FRA IL
PASTORALE E LA SPADA.

La nostra religione è inalterabile nella essenza; ma nella sua
attuazione esterna toccando alle cose umane, trovasi esposta alla
contaminazione degli interessi e delle passioni terrene. Nuove irruzioni
di Saraceni ed Ungheri, e orrida sequela di sventure aveano colpito
l'Italia; lo stesso rinnovamento che i papi aveano sperato ricostruendo
l'impero d'Occidente riuscì a nuovi disastri, causati dal disordine
feudale, che annetteva la giurisdizione al possesso, cioè tramutava ogni
possidente in principe, con diritto di giustizia e di guerra. Ne seguiva
uno stato di perpetui e personali conflitti, e la depravazione che
accompagna la guerra permanente.
I principi e i baroni invidiando le vaste ricchezze e il conseguente
potere acquistato dalla Chiesa, ne voleano almen qualche porzione. Ogni
vacanza di vescovadi e del papato apriva l'arena a brogli, a corruzioni,
a violenze; disputandosi la mitra e la tiara, siccome un tempo la corona
imperiale. Gli imperatori, quali tutori della Chiesa, credettero
rimediarvi col presedere alle elezioni e confermarle: ma ciò che prima
era una protezione, un rimedio a deplorabili abusi, divenne un'arroganza
e un peso quand'essi non tennero per legittima l'elezione d'un papa se
non fosse approvata da loro. Secondo le norme feudali, ogni dovere
veniva da un impegno personale; il possesso medesimo era una
concessione, simboleggiata con atti materiali e solenni, e condizionata
a patti espressi. Tale natura aveano anche i possessi, di cui gli
imperanti o i baroni investivano le chiese e gli ecclesiastici, a titolo
di regalie. In conseguenza essi pretendevano di godere di quei beni,
duranti le vacanze (_regalia utile_), e conferire i benefizj mentre i
vescovadi vacassero (_regalia onoraria_): pel qual modo l'imperatore e
gli alti signori investivano i prelati non solo dei beni, ma della
dignità, cioè non solo collo scettro e la spada che significavano il
possesso temporale, ma anche coll'anello e il pastorale che esprimevano
la podestà spirituale, e ne riceveano l'omaggio e la promessa di
soggezione. Era un mettere in ceppi la Chiesa, e stornarne lo spirito;
imperocchè, le fazioni portando imperatore ora un Franco, ora un
Italiano, ora un Tedesco, a capriccio di questi modellavasi la scelta
de' papi; la tiara acquistavasi per intrighi di donne, cabale di
politicanti, violenza di bravi; papa Formoso, forse perchè mostratosi
avverso alla fazione italiana, era fatto disseppellire dal suo
successore, e giudicare, e condannare ad avere mozzo il capo e le tre
dita con cui benediceva, poi gittato nel Tevere, disacrando quelli che
da lui aveano ricevuto l'ordinazione; Teodora e Marozia portavano al
supremo seggio i loro favoriti e parenti; la fazione di Albano o quella
di Tusculo, l'italiana o la tedesca ergeano, deponeano, richiamavano i
papi, fino a crearne uno di 18 anni (Giovanni XII). Questi disordini[51]
sono raccontati colle esagerazioni consuete ai partiti, fino a dire che
sedesse papa una Giovanna, la quale poi, nella solennità d'una
processione, fu côlta dal travaglio del parto[52].
Quasi non trovasse in se stessa gli elementi della propria
rigenerazione, la Chiesa li domandava all'autorità secolare. Ottone
Magno di Sassonia, ottenuta a Roma la corona imperiale, prestò omaggio
ligio a papa Giovanni XII, confermandogli le donazioni di Pepino, di
Carlomagno, e di Lodovico il Pio; poi informato de' turpi portamenti del
pontefice, lo depose, e fece decretare dai prelati che spetta agli
imperatori dar l'istituzione ai papi e l'investitura ai vescovi (964).
Così il romano impero, rinnovellato ai tempi di Carlomagno come
principio d'equilibrio politico e tutela della sociale giustizia, per le
mal determinate attribuzioni veniva a collidersi coll'autorità
pontifizia, e tra le violenze e la vigliaccheria, capitali nemici della
libertà, l'uno perdea del carattere sacro, l'altra dell'indipendenza.
Badie e parrocchie _commendavansi_ a qualche secolare, cioè se gliene
attribuivano i frutti, i pesi negligendo o affidando a qualche frate.
Gli uomini di retta coscienza rifuggivano dai turpi maneggi, sicchè le
sedi rimanevano a persone o basse o perverse; che entrate nel gregge o
colla violenza di lupi o collo strisciar di serpenti, come poteano
esserne vigili custodi? I vescovi che aveano ricevuta la dignità ed
altre ne speravano dal principe, favorivano gl'interessi di questo;
cercavano oro in ogni modo per poter con questo comprarsele, poi se ne
rifaceano col trafficare delle cose sacre; doveano andar in guerra o
mandare i loro uomini, e sostenere viaggi, e alla Corte sfoggiare di
fasto profano; non di rado le dignità venivano in premio di umili e
vergognosi servigi e fin del peccato; canoniche e monasteri, più che di
cantici e litanie, risonavano di trombe, latrati e nitriti; anteposta la
spada alla virtù e alla scienza, alla religione la superstizione che n'è
la peggiore avversaria, come i prelati poteano più riprendere e
correggere vizj, ne' quali essi erano tuffati?
Ridotti usufrutto secolare anche i benefizj ecclesiastici, restava solo
che il clero ai tanti vantaggi aggiungesse quello di trasmetterli
ereditariamente. A ciò tendeva l'eresia de' Nicolaiti, che fondandosi su
condiscendenze antiche, più o meno accertate, domandavano il matrimonio
dei preti. Così nella Chiesa introducendo le dignità ereditarie,
assurdità ch'essa avea sempre rejetta, sarebbero divenuti retaggio
domestico i beni ch'eranle attribuiti qual patrimonio universale de'
poveretti.
Se mai fu momento in cui potesse dubitarsi della promessa di Cristo
sull'eterna conservazione della sua Chiesa fu allora; tanto pareva
spento lo spirito di santità e carità. Pure non mancarono i rimedj ad
essa consueti; decreti di morale e di disciplina per parte de' concilj,
riforma degli Ordini monastici antichi e introduzione di nuovi, come
furono quelli de' Camaldolesi, de' Cluniacesi e de' Certosini, donde
uscirono modelli di meravigliosa santità e carità, quali san Pier
Damiani, san Giovan Gualberto, il beato Andrea da Vallombrosa, san
Romoaldo, san Nilo, e ben presto Gregorio VII.
Questi era Ildebrando, di Soana nel Sanese, di profonda erudizione, di
costume integerrimo, di cuor retto e ponderato giudizio nell'ideare, di
ferma prudenza nell'eseguire. Per tali meriti salito ad alte dignità
ecclesiastiche, e stomacato dell'universal corruttela, si propose di
correggere il mondo, correggendo la Chiesa che n'è il capo. Sinchè
vendevansi le sedi pastorali, sinchè le dignità vi si ottenevano per
moneta e brighe, sinchè il libertinaggio facea propendere ai principi
venditori più che ai pontefici emendatori, potea sperarsi che i vescovi
recuperassero l'indipendenza d'autorità, della quale avean fatto gitto
per acquistare indipendenza di costumi? Ildebrando deliberò di rompere
il triplice vincolo che incatenava il clero alla società, cioè i
terreni, la famiglia, la podestà. A tal fine bisognava cozzare coi re
che ne scapitavano di potenza, coi preti che perdeano comodità alle
passioni, colle perverse abitudini e la cupidigia de' godimenti. A
imprese sì gravi richiedesi un uomo straordinario; e uomini tali non
vanno misurati col metro comune.
Accostatosi ai papi eletti dagli imperatori, li persuadeva a rinunziare,
e farsi legittimamente rieleggere dal clero e dal popolo; e perchè vi
brigavano le fazioni, indusse ad affidare l'elezione ad un'accolta di
cardinali vescovi e cardinali cherici[53], «salvo l'approvazione del
clero e l'onore dovuto all'imperatore».
Spiacque ai grandi il perdere un privilegio da cui traevano e lucro e
influenza, e ricorsero all'imperatore Enrico IV (1061) perchè desse egli
un papa, scegliendolo a preferenza nel «paradiso d'Italia»; voleano dire
nella dissoluta Lombardia, acciocchè avesse viscere da compatire la
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