Gli eretici d'Italia, vol. I - 22

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questi pel maligno gusto di rivelare spettacoli stomacanti, quelli collo
scopo di rimediarvi. Ambrogio abate generale de' Camaldolesi, dotto e
pio, adoprato da Eugenio IV nelle controversie e nella carità, nel 1431
e 1432 visitando i varj conventi d'Italia trovò disordini, ch'egli, nel
suo _Hodœporicon_, per prudenza dinota con voci greche; monache ch'erano
vere εταιριδα; altrove _omnes ferme_ πορνας ειναι; un'abadessa gli
confessò τεκνον ποιησαι: d'un'altra un prete geloso pubblicò lettere
oscene. Noi ci siamo tanto compiaciuti in lodare i frati, che non saremo
imputati di malevolenza se deploriamo con pari franchezza che le
istituzioni umane, al par che le verità, si disgradano quando sieno
esposte al vento e alla pioggia del mondo. Chi ignora con qual buon
senso stizzoso san Girolamo rivelasse i disordini de' monaci fin dal suo
tempo? Vedemmo come, a riformarli, s'istituissero gli Ordini mendicanti,
ma la costoro degenerazione fu tanto prossima all'istituzione, che san
Bonaventura, generale de' Francescani, già nel 1257 querelavasi co'
provinciali e guardiani, perchè, sotto veste di carità, i fratelli
s'impacciassero d'affari pubblici e privati, di testamenti, di segreti
domestici; sprezzando il lavoro, cadono nell'infingardaggine; e mentre
pregano a ginocchi e meditano nelle celle, sbadigliano, dormono, si
danno a vanità, o dai libri che composero traggono un orgoglio, qual non
prenderebbero col tessere stuoje o fiscelle come i primi romiti;
vagando, riescono d'aggravio agli ospiti o di scandalo; per rifarsi
della stanchezza mangiano e dormono oltre il prefisso; scompigliano le
regole del vivere; domandano con tale importunità da farsi schivare come
ladri. E segue a dire che la vastità dei conventi incomoda gli amici, ed
espone a sinistri giudizj; ai parroci spiacciono perchè si danno attorno
a funerali e a testamenti. Così un loro amorevole; che non doveano dirne
Pier delle Vigne e Mattia Paris loro avversissimi?
L'Ordine francescano nel secolo XIV avea già dato cinque papi,
quarantatrè cardinali, più di cento canonizzati. Venerandoli per
santità, disinteresse, acume, le città chiamavano que' frati a compor
litigi, ad amministrare finanze, a riformare statuti; i papi li
deputavano a dilicate missioni, perchè nè costavano spesa, nè
accampavano pretensioni; il Sant'Uffizio li riduceva a una specie di
magistrati criminali, con bidelli, famigli armati, carceri e imperio
sovra il magistrato secolare; essi che erano stati istituiti a profonda
umiltà, a povertà assoluta. Allorquando nel 1457 se ne celebrò il
_capitolo generalissimo_ in San Francesco di Milano, con indulgenza pari
a quella di Santa Maria degli Angeli d'Assisi, immenso numero ne
concorse, pel cui sostentamento si raccolsero meglio di diecimila scudi
di limosine: il duca Francesco Sforza prodigò ad essi trattamento e
onorificenze, e sedette al loro pranzo frugale, mentre centomila curiosi
affluirono a vederli.
Ricchi di privilegi, tra cui invidiatissimo quello di confessare, e
predicare dovunque si trovassero, e farsi cedere il pulpito da ogni
curato, ne ottenner di nuovi da Sisto IV, epilogati nella famosa Bolla
dell'agosto 1474, fratescamente qualificata _mare magnum_, che
minacciava sino di destituzione i parroci che non obbedissero ad essi. I
vantaggi che traevano dall'opinione di santità tornarono a danno di
questa; e resi mondani, con mille brighe cercavano le dignità; e (dice
il cardinale Caraffa) «si veniva ad omicidj non solo con veneno, ma
apertamente col coltello e colla spada, per non dire con schioppetti».
Le gravissime controversie tra i più o meno rigidi Osservanti, procedute
fino all'eresia de' Fraticelli, da molti papi si tentò invano toglierle
di mezzo, finchè Leone X nel 1517 gli obbligò ad eleggere un solo
generale, nè portar altro titolo che di Minori Osservanti.
Che dirò delle smancerie usate per sostenere un santo speciale, una
speciale divozione, ciascun Ordine, ciascun villaggio, ciascuna chiesa?
Ne' panegirici si trascendea fino alle assurdità, per dabbenaggine più
che per frode moltiplicando i miracoli, le grazie, le reliquie, e
attirando al santo prediletto un culto vulgare, che rasentava
all'idolatria. Il fervore, non sempre disinteressato, per certe
devozioni nuove, come il rosario de' Domenicani e lo scapolare dei
Carmeliti, faceva proclamarle quale espiazione sufficiente a tutti i
peccati, che perdevano l'orrore quando annunziavasi così facile il
redimerli, e ne veniva presunzione a chi le osservasse, e confidenza
d'una buona morte dopo vita ribalda.
Altri frati, che s'occupavano nel trascrivere libri, si trovarono
ridotti all'ozio dalla stampa. Non che cessare, cresceva il mal vezzo di
gettarsi a quistioni di poca arte e molti cavilli, a dubbj curiosi e
controversie puntigliose, facendo schermaglia di sillogismi, surrogando
le sottigliezze scolastiche al vangelo, e alla logica attribuendo i
diritti della ragione, come oggi all'audacia: aggiugnendovi un ingombro
di indigeste autorità.
Se la beatissima vergine fu concepita anch'essa nel peccato originale;
se i Monti di pietà sono un'istituzione opportuna, o un'usura riprovata
dal vangelo, furono causa di lunghi abbaruffamenti fra Domenicani e
Francescani. Jacopo delle Marche minorita, predicando a Brescia nel
1462, affermò che il sangue, da Gesù Cristo versato nella sua passione,
era separato dalla divinità, e perciò non gli si doveva l'adorazione. Se
ne levò tanto rumore, che Pio II volle fosse messo in disputa alla sua
presenza da famosi teologi; i quali si bilanciarono in modo, che esso
papa non potè se non imporre silenzio su tal quistione[246].
Al concilio di Basilea fu condannata un'opera teologica di Agostino
Favaroni da Roma, composta di tre trattati; uno del sagramento
dell'unità di Cristo, e della Chiesa; l'altro di Cristo e del suo
principato; l'altro della carità e dell'amore infinito di Cristo verso
gli eletti; dove si trovavano proposizioni ereticali: per esempio, che
Cristo pecca ne' suoi membri, cioè nei fedeli; che la natura umana in
Gesù Cristo è veramente Cristo. L'autore le spiegava in senso cattolico,
e si sottopose al giudizio della Chiesa.
Sul pulpito la più parte non recavano studj profondi e dogmatica
precisione, ma zelo e modi popoleschi, con improvida applicazione alle
evenienze giornaliere. Di quegli aridi tessuti di scolastica e di
morale, rinzeppati di brani e brandelli d'autori sacri e profani, con
dipinture ridicole o misticismo trasmodato, non ci spiegheremmo i grandi
effetti che la storia ci ricorda, se non attribuendoli al gesto, alla
voce, allo spettacolo, e più alla persuasione della santità. E non il
talento, bensì la fede e l'amore fanno i grandi predicatori, quali
furono Bernardino da Siena, Michele da Carcano, Alberto da Sarzana ed
altri, famosi per conversioni e per pacificamenti. Una novità aveva
cercato introdurre Ambrogio Spiera, trevisano, servita e famoso teologo,
i cui sermoni, stampati nel 1476, poi nel 1510, sono piuttosto trattati
teologici, divisi in varie conclusioni, dove raccoglie tutto quanto in
proposito dissero le sante scritture, i Padri ed altri dottori. Così
evitava le opinioni particolari, ma quell'aridità sconveniva
all'eloquenza del pulpito.
Mescolando sacro e profano, serio e burlesco, col nuovo, col bizzarro,
col sorprendente attiravasi l'attenzione, ponendo i mezzi sopra lo
scopo. Paolo Attavanti ogni tratto cita Dante e Petrarca, e se ne gloria
nella prefazione. Mariano da Genazzano, levato a cielo da Pico della
Mirandola e dal Poliziano, «predicava attraendo con l'eloquenza sua
molto popolo, perciocchè a sua posta aveva le lagrime, le quali
cadendogli dagli occhi per il viso, le raccoglieva talvolta e gittavale
al popolo»[247].
Non è raro il trovare una pietà sincera e un'ingenuità profonda
associate senza gusto col buffo e col teatrale; e a riso anzichè a
compunzione eccitano i sermoni di Roberto Caracciolo da Lecce, dai
contemporanei supremato nell'eloquenza. Sale in pergamo a predicare la
crociata? traendosi la tonaca, rivelasi in abito da generale, come
pronto a guidare egli stesso l'impresa. Un'altra volta esclama:
«Dicetemi, dicetemi un poco, o signori; donde nascono tante e diverse
infermitadi in gli corpi umani, gotte, doglie di fianchi, febre,
catarri? Non d'altro se non da troppo cibo ed essere molto delicato. Tu
hai pane, vino, carne, pesce, e non te basta; ma cerchi a toi conviti
vino bianco, vino negro, malvagìe, vino de tiro, rosto, lesso, zeladia,
fritto, frittole, capari, mandorle, fichi, uva passa, confetione, et
empi questo tuo sacco di fecce. Émpite, sgónfiate, allargate la
bottonatura, et dopo el mangiare va, et bòttati a dormire come un
porco»[248]. E a costui fioccavano e brevi in lode, et onorevoli
commissioni, e mitre, e titolo di nuovo san Paolo.
Giacomo, arcivescovo di Téramo, poi di Firenze, fra varie opere, scrisse
una specie di romanzo col titolo _Consolatio peccatorum_ o _Belial_,
dove immagina che i demonj, indispettiti del trionfo di Cristo sopra
Lucifero, eleggano procuratore Belial per chiedere giustizia a Dio
contro le usurpazioni di Cristo; Dio commette la decisione a Salomone; e
Cristo citato, manda per rappresentante Mosè, il quale adduce a
testimonj giurati Abramo, Isacco, Giacobbe, Davide, Virgilio, Ippocrate,
Aristotele, il Battista. Belial li scarta tutti, eccetto l'ultimo,
sostiene la sua causa con finezza diabolica, pure la decisione esce a
lui contraria. Si appella, e Dio demanda la causa a Giuseppe; se non che
Belial preferisce comprometterla in arbitri; e sono Aristotele ed Isaia
per Mosè, per Belial Augusto e Geremia. I testi più venerabili sono
stiracchiati beffardamente; e dopo tutti i garbugli della
giurisprudenza, ove Belial imbarazza sovente Mosè men versato ne'
cavilli, gli arbitri danno di quelle vaghe decisioni, che lasciano ad
ambe le parti cantare trionfo.
_Nescit prædicare qui nescit barlettare_, dicevasi in onore di Gabriele
Barletta, i cui discorsi ebbero moltissime edizioni nel secolo di Leon
X[249], e pajono burlette. Per Pasqua racconta che molte persone
offrironsi a Cristo onde annunziare la sua risurrezione alla madre: egli
non volle Adamo, perchè, goloso dei pomi, non si indugiasse per istrada;
non Abele, perchè andando non fosse ucciso da Caino; non Noè, perchè
correvole al vino; non il Battista pel suo vestire troppo distinto; non
il buon ladrone, perchè aveva rotte le gambe; bensì donne per la
popolosa loquacità. Ma ben doveva esser applaudito quando, blandendo un
sentimento troppo vulgare, predicava: «O voi, donne di questi signori e
usuraj, se si mettessero le vostre vestimenta sotto il pressojo, ne
scolerebbe il sangue de' poveri».
Sempre poi conchiudevasi coll'accattare: e uno diceva: «Voi mi chiedete,
fratelli carissimi, come si vada in paradiso. Le campane del monastero
ve l'insegnano col loro suono: dan-do, dan-do, dan-do».
Il vizio non era nuovo, che già avea tonato l'Alighieri:
Ora si va con motti e con iscede
A predicare; e pur che ben si rida,
Gonfia il cappuccio, e più non si richiede.
I quali versi commentando, Benvenuto da Imola adduce alquante
scempiaggini di Andrea vescovo di Firenze, che mostrava dal pulpito un
granello di seme, poi si traeva di sotto la tonaca una grossissima rapa,
e diceva: «Ecco quanto è mirabile la potenza di Dio, che da sì picciol
grano trae sì gran frutto». Poi: _O domini et dominæ, sit vobis
raccomandata monna Tessa cognata mea, quæ vadit Romam; nam in veritate,
si fuit per tempus ullum satis vaga et placibilis, nunc est bene
emendata; ideo vadit ad indulgentiam_[250].
A dir vero, questi modi, se men dignitosi, erano più efficaci che non le
esanimi generalità, le perifrasi schizzinose, e i consigli senza
coraggio dei secoli d'oro. Ma se a persone semplici e credenti recavano
edificazione, se doveva poi con sciagurata efficacia imitarli Lutero,
nel nascere della critica e della negazione davano appiglio ad accuse,
alla loro volta esagerate. Della tecnica compagine stomacavansi gli
schizzinosi letterati, e il Bembo, chiesto perchè non andasse a predica,
rispose: «Che ci ho a veder io? Mai altro non s'ode che garrire il
dottore Sottile contro il dottore Angelico, poi venirsene Aristotele per
terzo e terminare la quistione proposta»[251].
E l'erudito Bracciolini fa dire da Cincio in un suo dialogo: «Parmi che
tanto frà Bernardino da Siena, come altri troppi vadano errati per
istudio di brillare più che di giovare; non vôlti a curar le infermità
dell'animo delle quali si annunziano medici, quanto a ottenere gli
applausi del vulgo, trattano qualche volta recondite e ardue materie,
riprendono i vizj in modo che pare gl'insegnino, e per desiderio di
piacere trascurano il vero scopo di loro missione, quello di render
migliori gli uomini».
Alcuni non mancavano di merito letterario, quali frà Cavalca, il
Passavanti, frà Giordano di Rivalta. Come quest'ultimo distinguesse le
devozioni dagli abusi, giova mostrarlo a coloro, che in que' tempi e in
que' frati non ritrovano che superstizione: «Viene (diceva egli) viene
l'uomo, ed andrà a santo Jacopo in pellegrinaggio, ed anzi ch'egli sia
là, cadrà in un peccato mortale, e forse in due, e talora in tre, e
forse più. Or che pellegrinaggio è questo, o stolti? Che rileva questa
andata? Dovete sapere che, chi vuole ricevere le indulgenzie, conviene
che ci vada puro, come s'egli andasse a ricevere il corpo di Cristo. Or
chi le riceve così puramente? E però le genti ne sono ingannate. Di
queste andate e di questi pellegrinaggi io non ne consiglio persona,
perch'io ci trovo più danno che pro. Vanno le genti qua e là, e credonsi
pigliare Iddio per li piedi: siete ingannati, non è questa la via;
meglio è raccoglierti un poco in te medesimo e pensare del Creatore, o
piangere i peccati tuoi o la miseria del prossimo, che tutte le andate
che tu fai».
Parole altrettanto libere aveva proferite l'anno innanzi in Santa Maria
Novella a Firenze. «Molti si credono fare grandi opere a Dio; tra noi ce
ne facciamo grandi beffe. Verrà una femmina, e porrà sull'altare una
gugliata di refe e tre fave, e parralle avere fatto un grande fatto: or
ecco opera. Simigliantemente de' pellegrinaggi. Oh come pare grande
opera questa, e di gran fatica cotal viaggio! E vanterassi, e dirà: _tre
volte sono ito a Roma due volte ito a santo Jacopo, e cotanti viaggi ho
fatto_. E se vedesse in Roma le femmine a girar cinque volte e sei
all'altare, e' par loro avere fatto un grande deposito, e rimproveranlo
a Dio, come quel Fariseo che dicea, _Io digiuno due dì della settimana_,
or ecco grande fatto! e mangi, il dì che tu digiuni, una volta, e quella
mangi bene e bello. Questo andare ne' viaggi io l'ho per niente, e poche
persone ne consiglierei, e radissime volte; chè l'uomo cade molte volte
in peccato, ed hacci molti pericoli; trovano molti scandoli nella via, e
non hanno pazienza; e tra loro molte volte si tenzonano e adirano, e con
l'oste e co' compagni; e talora fanno micidio ed inganni e fornicazioni;
e caggiono in peccato mortale»[252].
Altri, massime dopo il Savonarola[253], stuzzicava l'attenzione col
mescere ai discorsi allusioni di politica; chi predicando pei Guelfi,
chi pei Ghibellini, chi pei Medici o per lo Sforza; talora erompendo in
aperti attacchi contro principi non solo, ma contro prelati e papi.
Non rimestiamo più a lungo questo fango senza ricordare come la
discordanza della teorica dalla pratica sia cosa umana, generale, e che
non si tratta di riformare il precetto, bensì di cercarne l'adempimento.
Infatti, se gli scandali erano vecchi, vecchio era pure il
disapprovarli; anzi è degna di nota la franchezza con cui, da per tutto
ma viepiù in Italia, si censuravano gli abusi degli ecclesiastici. Dante
rimproverò i pontefici con una franchezza, che parve ereticale ai nostri
secoli, adulatori de' principi e del vulgo. Francesco Petrarca ne'
sonetti invocò «fiamma del cielo sulle treccie dell'avara Babilonia,
scuola d'errori, tempio d'eresia», e peggio nelle lettere; eppure egli
viveva alla Corte pontifizia, e in lui come in Dante i rimbrotti
venivano da riverenza e dal desiderio di correzione.
Dopo di loro, sminuendosi le idee repubblicane e popolari col crescere
delle principesche, la letteratura credette far pompa di non pericolosa
libertà col volgere le spalle al dogma, invece di esso cantando armi ed
amori. Allora allo sdegno di zelo e di ragione di Dante contro i vizj
nella Chiesa, Giovanni Boccaccio sostituì lo scherno plateale e
l'epigramma delle società gaudenti; ridendo fra i disastri dell'umanità,
e dei mali della patria consolandosi coll'egoismo, fa cominciare in
chiesa l'osceno suo Decamerone, dove i vizj e i disordini de' monasteri
sono il tema prediletto; e papi, santi, devozioni, misteri vi vengono
trascinati, non per correggere il male, ma per celiarne. Che se in frà
Cipolla non fa che canzonare gli spacciatori di reliquie, e in ser
Ciappelletto le bugiarde conversioni, precipita affatto al razionalismo
nella famosa storiella dell'anello, certamente d'origine musulmana e
dalla scuola d'Averroè.
Gli altri novellieri, imitandolo, affastellarono arguzie ed avventure a
carico dei monaci, e nessuno peggio del Novellino di Masuccio
salernitano. Del quale ci viene specialmente al balzo la novella X, il
cui argomento è, «Come un vecchio penitenziere, non in villa o in luogo
rustico, che l'ignoranza il potesse in parte iscusare, ma nell'alma
città di Roma e nel mezzo di San Pietro, per somma cattività e malizia
vendea a chi comperare il volea come cosa propria il paradiso, sì come
da persona degna di fede mi è stato per verissimo raccontato».
Non osando avventarsi contro l'impero e contro i tiranni, la satira si
trastullò dunque contro la lassa disciplina. Il Poggio, che fu
segretario di tre papi, descrivendo in lettera a Leonardo Bruno il
supplizio di Giovanni Huss e Girolamo da Praga, li compassiona inveendo
contro Roma: nelle invereconde sue _Facezie_, raccolta degli aneddoti
che correano per le anticamere della cancelleria romana, insieme col
vulgo e cogli aristocratici, cogli eruditi e coi parlatori, berteggia
insolentemente gli ecclesiastici e la Corte pontifizia: eppure si
stamparono in Roma stessa il 1469. Battista Spagnuoli, dalla patria
detto il Mantovano, dettò satire virulente contro il clero. Giovian
Pontano satirico, che aveva sempre un calcio pei vinti, pronto a
carezzarli quando tornassero vincitori, spesso bersaglia gli
ecclesiastici, e nel dialogo _Caronte_ introduce vescovi, cardinali,
monaci a far confessioni spudorate. Antonio Vinciguerra, segretario
della repubblica fiorentina, verseggiò contro i peccati capitali che
infestavano la Chiesa e l'Italia.
Leonardo Aretino (_Libellum contra hypocritas_) dice ai frati: «Tra i
vostri grandi e deformi vizj, primeggiano l'orgoglio, l'avarizia,
l'ambizione. Volete ricoprirli colle lunghe cappe e coi cappucci; perciò
avviluppate i corpi onde asconder l'orgoglio sotto l'abito dimesso,
l'avarizia e l'ambizione sotto apparenza di povertà..... Ma se
desiderate esser persone dabbene, quali vorreste sembrare, bisognerebbe
cacciar i vizj dalle anime vostre, e non asconderli sotto le
tonache..... A tali ostentazioni io non credo; io non credo neppur a te,
o ipocrita, perchè sospetto che sotto quei panni s'asconda qualcosa. Chi
potesse guardarvi per entro, vedrebbe una cloaca di vizj turpi, e il
lupo rapace sotto le vestimenta d'agnello. E come l'esca serve a
pigliare i pesci, così le tonache grossolane coprono le vostre malvagità
per ingannare gli uomini. A questo travestimento è congiunta la
emaciazione del volto e lo sbattimento, che son pure grandi stromenti
d'ostentazione e di ciurmeria. Ipocrito, perchè sì tristo? che vuol dire
cotesto collo torto? che cotesti occhi abbassati, coteste finte di
integrità e di innocenza? Potete tenervi dal ridere quando vedete un
altro dello stesso mestiere?»
Questi libri erano lo stillato delle conversazioni: e piaggiavano
l'opinione pubblica, come suol chiamarsi l'opinione vulgare; ma quello
scandolezzarsi della costumatezza del clero sa di strano in iscritti
d'un libertinaggio perfin teorico, che rivelavano una depravatezza ben
più profonda nella società laica. Non erano dunque frutti d'una
filosofia indipendente: seguitavasi l'istinto, non la riflessione; lo
scetticismo usufruttavasi, non per iscassinare la fede, ma per
solleticare l'arte, la quale gavazzava in licenza sfrenata, eppure
arrestavasi davanti all'albero proibito, senza formolare veruna dottrina
eterodossa; indipendenti nell'oggetto, sommettevansi cattolicamente
nello spirito; e nessuno metteva in discussione seria, cogli altri nè
con se stesso, quei punti che sono il mistero della società, della
credenza, della vita.
Vanno dunque a gran pezza dal vero quelli che raccolsero tali satire o
declamazioni per designare de' precursori alla protesta religiosa.
Abbastanza ci fu veduto come tutte le eresie, dal mille in poi,
chiedessero la riforma, ben prima che si passasse dalle sètte entusiaste
alla forma sintetica e scientifica del protestantismo. E sempre piissimi
uomini e vescovi in prediche e in pastorali gemevano de' traviamenti
curiali ed ecclesiastici, e reclamavano un rimedio. Già al suo tempo san
Bernardo esclamava: «Chi mi darà che, avanti morire, io possa vedere la
Chiesa di Dio qual era ne' primi giorni?» Eppure con forza ineluttabile
si oppose ad Abelardo e ad Arnaldo, appena li vide intaccare la Chiesa.
Crebbe tale libertà nel grande scisma, allorchè non ben determinavasi
qual fosse la Chiesa vera, e Clemengis faceva a Gerson una pittura
orribile della Corte di Roma, da pura e santa mutata in bottega
d'ambizione e rapina, dove tutto si vende, dispense, ordini, sacerdozio,
peccati, sacramenti, messe; per denaro si elevano al sacerdozio
imbecilli che neppure sanno quel che leggono e cantano. Evvi un
fannullone, inetto al lavorare? Si fa ecclesiastico per vivere in
voluttuoso ozio. Talmente è convenuto che dai preti non si osserva la
castità, che i laici non vogliono un curato se non ha la concubina, per
così garantire il letto maritale[254].
Ed Enea Silvio Piccolomini, che poi fu papa: «La corte di Roma non dà
nulla senza denaro: vi si vende fin la imposizione delle mani e i doni
dello Spirito Santo; non vi si dà perdonanza de' peccati che a quelli
che han denaro»[255].
Nella città, ove tante radici mise poi l'eresia, Caterina da Siena
scriveva al suo confessore: «Il nostro dolce Cristo in terra crede, e
così pare nel cospetto di Dio, sarebbero a levare via due cose
singolari, per le quali la sposa di Cristo si guasta. L'una si è la
troppa tenerezza e sollecitudine di parenti; l'altra si è la troppa
misericordia. Oimè, oimè! questa è la cagione che i membri diventano
putridi pel non correggere. E singolarmente ha per male Cristo tre
perversi vizj, cioè la immondizia, l'avarizia e la superbia, la quale
regna nella sposa di Cristo, cioè ne' prelati, che non attendono ad
altro che a delizie, e stati, e grandissime ricchezze. Veggono i demonj
infernali portare le anime de' sudditi loro, e non se ne curano, perchè
son fatti lupi, e rivenditori della divina grazia. Quand'io vi dissi che
v'affaticaste nella Chiesa santa, non intesi solamente delle fatiche che
voi pigliate sopra le cose temporali; ma principalmente vi dovete
affaticare insiememente col padre santo, e fare ciò che voi potete in
trarre li lupi e li demonj incarnati dei pastori, che a veruna cosa
attendono se non in mangiare, e in belli palazzi, e in grossi cavalli.
Oimè, che quello che acquistò Cristo in sul legno della Croce, si spende
con le meretrici. Pregovi, se ne doveste morire, che voi ne diciate al
padre santo che ponga rimedio a tante iniquitadi. E quando verrà il
tempo di fare li pastori e' cardinali, che non si facciano per lusinghe,
nè per denari, nè per simonia; ma pregatelo quanto potete, che egli
attenda e miri se trova la virtù e la buona e santa fama nell'uomo, e
non miri più a gentile che a mercenario, perocchè la virtù è quella cosa
che fa l'uomo gentile e piacevole».
Brigida, nobile svedese, che reduce da Terrasanta, morì a Roma il 1373,
ebbe e scrisse rivelazioni, riprovate dall'insigne Gerson, approvate dal
cardinale Torquemada, e tradotte in tutte le lingue; fu canonizzata da
Bonifazio IX; eppure si era avventata gagliardissima contro la Corte
pontifizia sino a dire, «Il papa è l'assassino delle anime; disperde e
strazia il gregge di Cristo; più crudele che Giuda, più ingiusto che
Pilato, più abbominevole che gli Ebrei, peggiore dello stesso Lucifero.
Convertì i dieci comandamenti in un solo, _portate denaro_. Roma è un
baratto d'inferno, e il diavolo vi presiede, e vende il bene che Cristo
acquistò colla sua passione, onde passa in proverbio:
_Curia romana non petit ovem sine lana;_
_Dantes exaudit, non dantibus ostia claudit;_
invece di convocare tutti, dicendo, _Venite e troverete il riposo delle
anime_, il papa esclama: _Venite alla mia Corte, vedetemi nella mia
magnificenza maggiore di Salomone; venite, vuotate le vostre borse, e
troverete la perdita delle vostre anime_». Revelatio S. Brigitæ, l. 1,
c. 41, ed. Romæ 1628.
Ben però discernete come questi zelanti non risparmiassero l'individuo,
foss'anche il papa, perchè anelavano la purezza della Chiesa; anzi
l'affiggere ciascun fatto particolare ai depositarj dell'autorità
spogliava questa dalla scoria, lasciando intatta la persona morale.
Imitavano Cristo, che aveva insegnato a rispettare la cattedra di Mosè
malgrado le cattive opere degli Scribi e Farisei, sedutisi in quella:
mentre da poi detestaronsi i dottori, e per essi anche la dottrina che
insegnavano, e l'autorità che teneano da Dio d'insegnarla.
Il cardinale Giuliano rappresentava ad Eugenio IV i disordini del clero,
principalmente tedesco; donde l'odio che il popolo gli portava, fino a
temere che i laici gli s'avventino al modo degli Ussiti: «Gli accorti
tengono l'occhio a quel che faremo, e pare deva nascerne qualcosa di
tragico: il veleno che nutrono contro noi si manifesta: bentosto
crederanno fare opera accetta a Dio maltrattando e spogliando gli
ecclesiastici, come esosi a Dio e agli uomini; la poca devozione che
ancora sopravvive verso l'ordine sacro si perderà: si riverserà la colpa
di tutti questi sconci sopra la Corte romana, considerandola come causa
di tutti mali».
Gian Francesco Pico, principe della Mirandola, noto per la tragica sua
fine (1533), scrisse un opuscolo[256], che i riformati ristamparono a
Würtenberg nel 1521 per fare onta al papa, e per noverar fra i loro
precursori quel principe, di cui ristamparono pure l'orazione _De
reformandis moribus_, che egli recitò nel concilio lateranense, dove
pone al pallio l'ambizione, l'avarizia, la scostumatezza del clero. E la
recitava in un concilio, e la dedicava a Leone X, al quale pure dedicò
quattro libri dell'Amor Divino; e tutto è pietà nel suo _De morte
Christi, et de studio divinæ et humanæ philosophiæ_ (1497); e nella
dedica che Aldo pose all'opera di lui _De immaginatione_, accenna a
commenti de' Salmi, che aveva lasciati incompiuti, e che si allestivano
per la stampa: come ha pure tre inni eroici alla Trinità, a Cristo, alla
Beata Vergine.
Lorenzo Valla, uno de' più battaglieri fra quegli eruditi che nel secolo
XV empivano di risse la repubblica letteraria, nella prima giovinezza
avendo invano domandato di succedere a suo zio come segretario
apostolico, si vendicò con epigrammi contro la Corte romana: scrisse
_del Piacere_ anteponendo Epicuro allo stoicismo, contraddicendo a
Boezio, come fece pure in un dialogo _De libero arbitrio_[257]; giostrò
poi contro gli Aristotelici nelle _Disputazioni dialettiche_; nelle
_Eleganze della lingua latina_ mostrò molte improprietà nella traduzione
vulgata della Bibbia e ne' padri della Chiesa. Francamente esercitò
costui la critica con annotazioni al _Nuovo Testamento_, ponendo la
vulgata in paragone coll'originale[258]; dimostrò spuria la lettera di
Cristo al re Abgaro; falsa la donazione di Costantino a papa
Silvestro[259]; nè che gli apostoli componessero ciascuno uno degli
articoli del _credo_, e la dissertazione terminava esortando principi e
popoli a frenare l'indebito imperio del papa, e avvertirlo che
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