Gli eretici d'Italia, vol. I - 17

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sempre in dipendenza della supremazia imperiale. Rinneghiamo tutta la
storia, e concediamo ai realisti questo fatto. Ma il sacro romano impero
nel 1804 era cessato, e tutte le dominazioni da quello dipendenti
restavano dichiarate di piena autorità; ne' congressi del 1815 si
convenne che ogni signoria mediata cessasse, e la sovranità fosse piena
in ciascuno e indipendente. Anche i papi dunque rimanevano padroni
assoluti del loro Stato, a fronte ai re. A fronte ai popoli avrebbero
dovuto osservare i privilegi, che loro aveano conceduti e mantenuti da
antico. Ma questi erano stati cancellati dalle illimitate signorie degli
usurpatori, che avevano avvezzati all'incondizionato despotismo. I
restauratori poi non voleano, e massime in Italia, che esistessero
costituzioni e diritti scritti di popoli: nemici alla storia, come
chiunque vuole tiranneggiare. Imposero dunque al papa di farsi re
assoluto, come essi erano, e fu allora che il cardinale Consalvi, non
abborrente dalle idee nuove, fece dettare dal papa il _motu proprio_,
che sistemava l'amministrazione pubblica con aspetto di legge generale,
invece delle antiche molteplici e parziali; dal centro doveano partire
le nomine de' magistrati, gli editti, le leggi finanziarie; solo delle
moderne avanie non si volle imporre la coscrizione, che pure è
indispensabile per sostenere le altre.
Novissimo dunque era l'assolutismo in terra di papa, e quando Pio IX
iniziava e benediva il moto italiano, nella costituzione 14 marzo 1848
protestò di non fare che «riprodurre alcune istituzioni antiche, le
quali furono lungamente lo specchio della sapienza degli augusti nostri
predecessori»; e che «ebbero in antico i nostri Comuni il privilegio di
governarsi ciascuno con leggi scelte da loro medesimi, sotto la sanzione
sovrana».
Ecco una delle mille prove che la libertà è antica, e nuovo il
despotismo; se non che, perduto ogni senso morale e politico, oggi si
applica all'uno il nome dell'altra.
Quest'esiglio d'Avignone viene allegato, nelle odierne controversie, per
indicare la possibilità di assidere il papa altrove che a Roma. Chi ciò
desidera, non potrebbe scegliere nella storia esempio più sfavorevole,
tutti essendo d'accordo nel deplorare quell'età, e mostrar che i papi
non devono essere cittadini di paese altrui. Inoltre si avverta che il
papa era sempre il vescovo di Roma, non mai il vescovo d'Avignone o di
Peniscola, e teneasi fuori della sua sede per circostanze sciagurate.
Già sant'Ireneo diceva che «la Chiesa di Roma ha un primato, pel quale
tutte le altre devono accordarsi con essa nella fede». Talchè, anche
data al problema l'unica soluzione possibile, l'espulsione forzata del
papa da Roma, neppure d'un passo s'avanzerebbe la soluzione.
Ma tenendoci ai tempi di quell'esiglio, Roma altalenò sempre fra insania
demagogica e oligarchica arroganza, or ribelle al pontefice per
bizzarria, or sottomessagli per paura. Le baruffe invelenivano ancora
più dacchè i papi, non risentendone gl'incomodi, poco curavano sopirle.
I papi stessi sentivansi fuori di posto in una terra dove vestivano
aspetto d'un esule ricoverato, piuttosto che di sovrano dei re; e dove
prelati quasi tutti francesi davano alla Corte un'aria nazionale, ben
diversa da quella cosmopolitica che soleva in Roma. Più volte dunque
proposero di ritornare, ma o nol fecero, o per breve, e solo dopo
settantun anno e tre mesi la santa sede fu restituita di Francia in
Italia.
Queste miserie diedero nuova scossa alla maestosa unità cattolica,
preponderante nel medioevo. Se gl'Italiani favorivano alla Santa Sede
pel vantaggio che ne traeva il loro paese, eransene intepiditi dacchè
quella esulava; e gli stranieri trovavano più oneroso questo migrare di
tanto loro denaro a paese che non era considerato seconda patria di
tutti come Roma. I vescovi dall'assenza del papa pigliavano esempio per
allontanarsi dalle loro diocesi. La contesa coi frati Minori aveva resa
ostile alla Santa Sede la milizia sua più devota; e al vedere condannate
persone pie, cui sola colpa dicevasi l'eccesso della povertà, si
richiamavano le declamazioni d'Arnaldo di Brescia contro i possessi
ecclesiastici e la corruttela derivatane. Le nazioni eransi formate
attorno ai vescovi, donde l'assoluto potere ecclesiastico, come di padre
sopra i figliuoli. Costituitesi, ingrandite, vollero svilupparsi dalle
fasce della Chiesa per vivere di vita propria, compresero che il
temporale potea sussistere disgiunto dallo spirituale: onde alla società
senza limite di spazio surrogavano società parziali e distinte,
all'andamento generale le particolari destinazioni.
I tentativi di Bonifazio VIII per rintegrare la supremazia richiamando
in vigore le precedenti decisioni canoniche, destarono ne' principi
quella gelosia, che proviene mentosto da usurpazioni reali che da
temute. Alle immunità attribuite ai beni ed alle persone degli
ecclesiastici, i Comuni più non aveano rispetto, e proferivano decreti
sopra di essi, in onta agli anatemi del pontefice e de' vescovi. Quando
l'edificio sociale era impiantato sulla fede, ogni opposizione si
risolveva in eresia, e il pontefice per le sue prerogative, il clero per
le immunità offese lanciavano scomuniche e interdizioni. Ma se queste
aveano fiaccato l'orgoglio e la possa degli imperatori Sassoni e Svevi,
perdeano efficacia dacchè venivano prodigate per intenti mondani; i
Siciliani durarono ottant'anni in rotta colla Chiesa; i Visconti di
Milano se ne vendicavano col pesare viepeggio sugli ecclesiastici; gli
avvocati ergeano la fronte contro i papi, ai quali dianzi erasi
incurvata quella dei re.
Non per questo si rinnegava la Chiesa: i Patarini erano scomparsi
d'Italia o nascosti; il popolo amava le splendidezze del culto, se anche
non ne venerava l'austerità, e compiaceasi del papa e della Corte
pontifizia. Ma dacchè questa erasi trasportata in Avignone, i Guelfi non
meno che i Ghibellini la bersagliavano, quasi cessasse d'essere
cattolica cessando d'essere romana. Franco Sacchetti mercante
fiorentino, il Petrarca canonico, il Pecorone frate, e persone di grande
scienza e di celebrata santità avventavansi contro la Babilonia: i
malcontenti del governo temporale vituperavano i papi spirituali: di
Clemente V non è male che non si dicesse: Giovanni XXII fu tacciato
d'eretico sì pel suo litigio che dicemmo coi Fraticelli, sì per sue
dubitazioni sulla beatifica visione: cioè se le anime elette vedano Dio
nella sua maestà subito staccate dal corpo, o solo dopo il giudizio
finale.
Lodovico il Bavaro, eletto imperatore di Germania, era venuto in Italia
per la corona (1324), e poichè Giovanni XXII gliela ricusava, egli
ostentò non aver bisogno dell'autorità di esso. Il papa allora dichiarò
l'Italia sottratta alla giurisdizione imperiale, in modo che non potesse
mai più essere incorporata coll'impero nè infeudata. Di ripicchio il
Bavaro s'appella al Concilio, e prodiga le solite ingiurie al papa; il
papa dichiara lui scomunicato, e interdetti i paesi che gli obbedissero;
onde Lodovico, che, sostenuto dai Ghibellini, si era fatto coronare a
Roma, e avea nominato un antipapa, presto si trova isolato e decaduto.
Per sostenersi aveva egli adoprato non solo le armi, ma le dottrine.
Guglielmo Occam, scolastico nominatissimo, contendeva l'infallibilità
non solo al papa, ma anche al concilio universale e al clero; ai laici
in corpo competere il decidere definitivamente; contro il papa potersi
all'uopo usare anche la forza, o stabilirne diversi, un dall'altro
indipendenti. Marsilio di Mainardino da Padova, eloquente professore
all'Università di Parigi, insinuò a Lodovico che a lui spettasse
riformare gli abusi della Chiesa, giacchè questa è sottomessa
all'impero; «Ho visto (egli diceva) prelati, abati, sacerdoti, così
sprovvisti di dottrina, che non sapeano tampoco parlare secondo
grammatica. Quei che hanno visitato la Corte di Roma, la conobbero casa
di traffico, spelonca di ladroni; quei che non l'hanno veduta udirono
ch'è fatta ricettacolo di quasi tutti i ribaldi, e trafficanti nello
spirituale come nel temporale; non v'è che malvagità; nessuna premura di
acquistare le anime»[179].
Col mistico Ubertino da Casale egli pubblicò il _Defensor pacis_, ove
già s'incontrano le negazioni di Calvino rispetto all'autorità e
costituzione della Chiesa; la potestà legislativa ed esecutiva di questa
fondarsi sul popolo, che la trasmise al clero; i gradi della gerarchia
essere invenzione posteriore; Gesù non lasciò alla sua Chiesa verun capo
visibile, e Pietro avea preminenza tra gli apostoli soltanto per
l'anzianità; il primato consistere unicamente nel convocare concilj
ecumenici e dirigerli, purchè il papa vi sia autorizzato dal legislatore
supremo, cioè da tutti i fedeli o dall'imperatore che li rappresenta;
eguali essendo i vescovi, l'imperatore solo può elevarne uno sopra gli
altri, e a grado suo abbassarlo: a lui solo spetta l'istituire i
prelati, eleggere il papa, giudicare i vescovi, al modo che Pilato
giudicò Cristo; convocare i concilj e regolarne le deliberazioni: nè la
Chiesa può infliggere alcuna pena coattiva se l'imperatore non assente.
Altrettanto sosteneva Giovanni Gianduno di Perugia; sì poco sono moderne
le dottrine che subordinano la Chiesa ai governi[180].
Giovanni XXII in una Bolla riprova tali errori, e avendo citato invano i
due autori, li condannò coi libri loro. Teoriche altrettanto assolute vi
opponeano i curialisti; e col VI e VII libro delle _Decretali_ e colle
_Estravaganti_ erasi estesa per modo la competenza del fôro
ecclesiastico, che qualsivoglia lite poteva anche in prima istanza
essere portata al pontefice.
Agostino Trionfo d'Ancona, agostiniano, che dettò a Parigi, poi a
Napoli, dedicò a Giovanni XXII una _Somma della podestà ecclesiastica_,
dove, elevando la potenza papale colla Bibbia, il vangelo, i miracoli,
le leggende, da Dio immediatamente la deriva; superiore ad ogni altra
perchè giudica tutti, da nessuno è giudicata; come spirituale, così è
temporale, perchè chi può il più può anche il meno: è assurdo appellarsi
al concilio, giacchè questo non trae autorità che dal pontefice, il
quale unico può proferire sui punti di fede, nè altri può investigare
dell'eresia senz'ordine di esso. Come sposo della Chiesa universale,
tiene immediata giurisdizione sopra le singole diocesi. Al papa devono
obbedienza Cristiani, Ebrei e Gentili; egli, e non i vescovi, può
scomunicare; egli punire i tiranni e gli eretici anche con pene
temporali; di là della tomba estende il potere per via delle indulgenze.
Potrebbe scegliere di qualsiasi paese l'imperatore, senza ministero
degli elettori, o renderlo ereditario: l'eletto dev'essere da lui
confermato e professarsegli ligio, e può da lui essere deposto: tutti i
re sono tenuti obbedire al pontefice, dal quale traggono la potestà
temporale: a lui può appellarsi chiunque si sente gravato dal principe:
e i principi egli può correggere per peccati pubblici, deporli anche,
istituire un re di qualsiasi regno: gli imperadori non donarono il
dominio ai papi, ma lo restituirono: Gesù Cristo dicendo che il suo
regno non è di questo mondo, intendeva del mondo vecchio, non del
rigenerato: il potere temporale deve stare unito allo spirituale perchè
l'uno serve di mezzo all'altro: rendere a Cesare ciò ch'è di Cesare vuol
dire permettere che l'imperatore eserciti la giurisdizione, sempre in
dipendenza dal papa: quanto alla povertà, Gesù Cristo possedea vesti,
viveri, denaro, con cui pagava il tributo[181].
Così procedendo, non c'è atto, non c'è abuso che non giustifichi.
L'esagerazione è sintomo di autorità minacciata; ma realmente declinava
ne' popoli lo spirito di soggezione. Di intromettersi nelle cose
ecclesiastiche avea troppi pretesti l'autorità secolare, quando la santa
sede, fatta ligia ai re, non valeva a frenare la corruzione fastosa de'
prelati, i quali sotto la stola mantenevano le abitudini dell'educazione
secolaresca e il lusso sfrenato delle famiglie signorili. Ned altro
testimonio ne voglio che il concilio Lateranense III, il quale,
avvisando i prelati quanto disdica il camminare con treno sì numeroso, e
il consumare in un pranzo l'intera annata della Chiesa che visitano,
impone ai cardinali s'accontentino di quaranta o cinquanta vetture, gli
arcivescovi di trenta o quaranta, i vescovi di venticinque, gli
arcidiaconi di cinque o sette, di due cavalli i decani; tutti poi vadano
senza cani da caccia nè uccelli. Per mantenere questo fasto profano
accumulavansi fin quaranta o cinquanta benefizj in una sola mano; e
vuolsi che Benedetto XII proponesse ai cardinali, se rinunziassero
all'averne più d'uno, assegnare loro centomila fiorini d'oro di rendita
e metà delle entrate dello Stato pontifizio; e ad essi non parvero
abbastanza.
La corruzione scendeva grossolana nel clero minore, dove ignoranza,
venalità de' sacramenti, comune l'ubbriachezza, sfacciata la libidine:
nelle chiese e ne' conventi si stabilivano bettole e giuochi; le monache
uscivano a volontà dai monasteri: trafficavasi di grazie, dispense,
perdoni. Degli antichi Ordini religiosi rilassavasi la disciplina, e
perfino in quel Monte Cassino, che già allora avea dato ventiquattro
papi, ducento cardinali, milleseicento arcivescovi, ottomila vescovi,
molti santi, i monaci vestivano sfoggiato, abitavano comodi,
riservavansi peculj particolari, anzi riceveano dal convento una
prebenda, colla quale vivere in case secolari.
Ai conforti del pio Marco, parroco in Padova, Luigi Barbo tolse a dare a
quell'Ordine regole più severe, che presto si estesero a Pavia, Milano e
più da lungi.
Il beato Giovanni Dominici fiorentino, oratore famosissimo, restaurò la
vita regolare in Italia e in Sicilia fra i Domenicani, infervorato da
Chiara de' Gambacurti, e ajutato da Raimondo da Capua, dal beato
Marconino di Forlì e da altri. A Siena Bernardo Tolomei fondava gli
Olivetani; Giovanni Colombino i Gesuati; Pietro Gambacurti di Pisa gli
Eremiti di san Girolamo, gli Eremiti di Fiesole il beato Carlo dei conti
Guidi.
Diedero odore di gran santità sant'Andrea Orsini, Bernardino da Siena,
Vincenzo Ferreri. Giovanni da Capistrano napoletano, convertitosi in
carcere, ispirava compunzione, scrisse dell'autorità del papa, e fu
apostolo d'una crociata contro Maometto. In tutti questi e in altri si
fanno sentire gemiti per la depravazione della Chiesa.
Urbano VI avventatosi a riformarla di colpo, vietò ai prelati d'usare a
tavola più d'una pietanza, egli stesso dandone l'esempio; minacciò non
solo i simoniaci, ma chiunque accettasse doni, e fe credere di volere
fermamente rimettere a Roma la Corte. Di ciò indispettiti, la più parte
de' cardinali separaronsi da lui e protestarono non era stato eletto
liberamente, ma sotto la costrizione del popolo romano tumultuante, e
gli sostituirono Clemente VII ginevrino. Parte della cristianità accettò
l'uno, parte l'altro papa; donde comincia il grande scisma, con una
doppia serie di pontefici paralleli.
Qual era il vero?
Personaggi di senno e santità grande parteggiarono per l'uno e per
l'altro; pruove in favore addussero questi e quelli, per modo che può
sostenersi la buona fede d'entrambe le parti. Ma per mezzo secolo fu
scissa la cristianità fra due campi ostili, fra pontefici che
rimbalzavansi accuse e taccia d'intruso e d'eretico. Ne restavano divise
le nazioni; divisi i cittadini; divisi gli scolari d'ogni Università, i
monaci d'ogni convento, i membri d'ogni famiglia; e da per tutto dispute
e collisioni fino al sangue; due vescovi, eletti dall'uno o dall'altro
pontefice, si contendevano la medesima sede; abborrivansi le messe degli
uni o degli altri. I due papi per procacciarsi partigiani riconoscevano
un re diverso, scialacquavano privilegi, connivevano a traviamenti e
usurpazioni, spoverivano il basso clero col lasciare trascendere l'alto;
questo riservavasi le migliori grazie e le commende e i benefizj,
dandole in appalto a persone dappoco, mentre i curati erano fino ridotti
a mendicare. Ciascuno insomma era ricorso a mezzi dissonanti da quelli
dell'apostolato: Bonifazio IX lasciò trafficare delle indulgenze e del
suffragio ai morti, pretendeva le annate dei vescovi eletti, a denaro
permetteva di accumular benefizj; Giovanni XXIII ebbe accusa di cavare
oro dalle medesime miniere, e moltiplicarlo colle usure.
Le piaghe del papato, come il cadavere di Cesare, furono allora esposte
agli occhi di tutti, invelenite dalla collera de' nemici non meno che
dalle ingiurie palleggiatesi fra' cardinali e pontefici rivali, che, per
non disgustare la loro fazione, erano costretti rassegnarsi a minacce, a
importunità, dissimulare e simulare, intrigare, congiurare, promettere,
concedere; infine guadagnare tempo fingendo di desiderare una
riconciliazione, di cui aveano in mano il mezzo; e compromettendo
un'autorità che si fonda interamente sulla virtù e sull'opinione.
Questo scapitare della santa sede nella venerazione, cresceva baldanza
a' principi di sminuirne l'autorità, ai dotti di chiamarla a severo e
passionato esame: le satire acquistavano peso quando uscivano dalla
bocca de' pontefici stessi, e portavano ad immediata applicazione.
Pertanto il dubbio filtrava nei cuori più sinceri; l'indifferenza ne'
più generosi, la disperazione ne' più robusti: e principi, Università,
giureconsulti, teologi, disputavano sui mezzi di ripristinare l'unità.
Il più ovvio sarebbe stato un concilio generale: ma poichè il convocarlo
attribuivasi da secoli al papa, a qual dei due competeva? Si dovette
ripiegare con sinodi particolari; ma che? oltre i due papi, v'ebbe fin
tre concilj.
Intanto che nel mondo cristiano perdevasi l'unità che n'è l'essenza,
Bajazet granturco stringeva Costantinopoli, aveva invaso l'Ungheria, e
la Polonia; e i Tartari, sotto il terribile Tamerlano, minacciavano
all'Europa le devastazioni che aveano recate all'Asia.
Gli animi, sgomentati fino alla disperazione, si volgeano a Dio, da lui
solo aspettando il termine a tanti guai. Già nel 1260, in occasione di
gravi sventure, s'eran diffusi per Italia i Flagellanti: compagnie
devote che, dietro a un crocifisso, passavano di paese in paese,
gridando misericordia e pace e penitenza, e traendo infinita gente,
intere città e provincie. Pare fossero primi i Perugini: trentamila
Bolognesi arrivarono così a Modena; alcuna volta crebbero fino a
centomila; e cercavano por rimedio agli scandali, alle discordie, alle
usure colla preghiera, la macerazione, la predica. Era una grande pietà
come quella de' frati Minori; erano innamorati della penitenza, come
questi della povertà, e come questi trascesero. Perocchè, oltre i
disordini inseparabili da tanto aglomeramento di persone, convertironsi
in setta ereticale, predicando che la remissione de' peccati non
otteneasi se non coll'appartenere un mese almeno alla loro compagnia;
confessavansi tra loro, sebbene laici; vantavansi d'operare miracoli e
cacciare demonj. Mentre dunque al cominciamento i principi e i prelati
li favorivano, dappoi li vietarono; i Torriani non meno che gli Estensi,
Manfredi di Sicilia al par dei Comuni, eressero forche se osassero
avvicinarsi[182].
Non per questo cessarono: e nel 1334 frà Venturino da Bergamo menavasi
dietro più di diecimila Lombardi, ricevuto a guisa d'uomo divino; e con
grandi limosine. Cresciuto a forse trentamila seguaci, e vaticinando
mali futuri, passò a Roma, poi anche alla Corte d'Avignone sperando
ottenerne grandi indulgenze; ma al papa sembrò scorgervi ambizione o
leggerezza, e frà Venturino fu messo al tormento e in carcere: donde poi
mosse colla crociata, e morì a Smirne.
Quella divozione rinfervorò nel 1399, d'Irlanda varcando in Inghilterra,
in Francia, poi in Piemonte; e i Flagellanti da una parte per Lombardia,
dall'altra per Genova voltarono su Roma. Erano donne, fanciulli, vecchi,
cenciosi, ricchi, dotti, imbecilli alla mescolata, con abiti strani come
suole la folla; giunti in una terra, intonavano lo _Stabat Mater_, il
_Miserere_, le _Litanie_, visitavano le chiese, riceveano alloggio e
cibo dalla carità, poi lasciati gli stanchi, e assunta nuova turba,
ripigliavano il pellegrinaggio[183].
Chi non vede quali disordini potesse addurre questa incondita pietà,
mentre non riparava a quelli cagionati dalla scissura della Chiesa?
Mentre i pii gemevano e pregavano, i diversi dal disordine esterno
passavano a criticare l'intima verità della Chiesa; si spargeano libri e
sermoni critici, anche in lingua vulgare[184]; Bartolino da Piacenza
verso il 1385 pubblicò alquante tesi legali sul modo di trattare il papa
qualora apparisse negligente, inetto a governare, o capriccioso in modo
da ricusare il consiglio dei cardinali (com'era il caso di Urbano VI); e
conchiudeva potere quelli mettergli de' curatori, al cui parere
foss'egli obbligato attenersi nello spacciare gli affari della Chiesa. I
roghi non bastavano a reprimere gli eretici in Francia; i Valdesi
pigliavano ardimento fra le Alpi, e Gregorio XI movea lamento perchè
dalle valli subalpine si propagassero, e discesi in Piemonte, avessero
trucidato un inquisitore a Bricherasio, uno a Susa[185].
Profittando di questa depressione, Carlo IV emancipò l'impero dalla
dipendenza papale, e i Francesi, colla prammatica sanzione di Bourges,
restrinsero i diritti pontifizj. In Inghilterra Giovanni Wicleff aveva
impugnato le indulgenze, la transustanziazione, la confessione
auricolare, domandato la secolarizzazione degli Ordini regolari e la
povertà del clero. Girolamo da Praga portò i libri di esso in Boemia,
dov'ebbero effetti più gravi, perocchè Giovanni Huss, che già aveva colà
alzato la voce contro la depravazione del clero, vi attinse argomenti
teologici e ardimento a proclamarli. Essendo poi venuti alcuni monaci a
spacciarvi indulgenze, e avendo l'imperatore proibito il sacrilego
traffico, si pigliò baldanza a declamare, in prima contro l'abuso, poi
contro le indulgenze medesime. Il popolo ascoltava avidamente; gli
studenti boemi se n'infervoravano; le quistioni religiose prendevano
colore politico d'aborrimento ai Tedeschi e d'aspirazioni repubblicane;
lo sparlare dei papi pareva indizio di ragione più elevata e di
carattere più franco, e se ne faceva argomento da piazza non meno che da
scuola, dove i professori fra la gioventù inesperta seminavano un vago
desiderio di sottrarsi ad ogni autorità.
Tante passioni, tanti errori, eppure fu ancora alla Chiesa una che la
cristianità si ricoverò; e sotto al manto del pontificato. Di questo non
erasi mai impugnata l'unità; benchè restasse incerto chi ne fosse
l'investito; disputavasi del possesso e dell'esercizio dell'autorità; ma
non dell'autorità stessa. E più erano ulcerate le piaghe, più speravasi
ne' rimedj che v'apporrebbe un concilio, che inoltre rannoderebbe i
principi cristiani per respingere la sempre crescente minaccia degli
Ottomani.
L'imperatore Sigismondo, fisso in animo di ricondur la Chiesa all'unità,
ottenne si convocasse il concilio a Costanza, città imperiale sulla riva
occidentale del bel lago che divide la Svevia dalla Svizzera. Assai
principi, signori e conti v'intervennero; si numerarono fino
cencinquantamila forestieri, fra cui diciottomila ecclesiastici e
ducento dottori dell'Università di Parigi: ma insieme trecenquarantasei
commedianti e giullari, settecento cortigiane, trentamila cavalli; e fra
lusso e tornei e sfide i gaudenti menavano baldorie, mentre i pii
oravano, i dotti preparavansi a lizze dialettiche.
Ma un'assemblea di tanta importanza, fino dal principio reluttò ai modi
sagaci, con cui gl'Italiani e il papa tentavano dominarla[186]. Mentre
la Chiesa nella sua universalità non distingue popoli, ed estima ciascun
uomo pel proprio valore, qui divisero il concilio in camera tedesca,
italiana, francese, inglese, spagnuola, le quali deliberassero
distintamente; mirando con ciò ad elidere la superiorità degli Italiani.
Tre papi sedeano allora; Giovanni XXIII, Benedetto XIII, Gregorio XII, e
vennero indotti a rinunziare (1417) terminando così uno scisma, che fu
la maggiore prova a cui la Chiesa andasse esposta[187].
Bisognava surrogare un pontefice degno. Sigismondo voleva che, prima
d'eleggerlo, si riformasse la Chiesa, per timore che il nuovo non
fallisse alla promessa; ma gl'Italiani incalzarono perchè prontamente si
eleggesse: e la scelta cadde su Ottone Colonna, che nominossi Martino V.
Sigismondo aveva preveduto giusto; poichè Martino trovò modo di rinviare
d'oggi in domani le chieste riforme, logorando il tempo in divisamenti o
in condiscendenze secondarie.
Il concilio, ancor prima della creazione di Martino V, avea condannato
le seguenti proposizioni:
«È contro la sacra scrittura che persone ecclesiastiche abbiano
possessi.
«I signori temporali possono ad arbitrio togliere i beni temporali alla
Chiesa, quando i possessori pecchino abitualmente, non solo attualmente.
«È contro la regola di Cristo l'arricchire il clero.
«Silvestro papa e Costantino imperatore errarono coll'impinguare la
Chiesa.
«Il papa con tutti i cherici sono eretici perchè possedono, e così quei
che glielo consentono.
«L'imperatore e i signori secolari furono sedotti dal diavolo perchè
dotassero di temporalità la Chiesa».
Ma già il concilio stesso era uscito dalla suprema sua missione, e nel
proposito di tôr via lo scisma, e considerando incerto il papa, si
credette autorizzato a comandare anche a questo, fino a decretare nella
V sezione che, qualunque siasi e di qualsivoglia condizione anche
papale, il quale sprezzi di obbedire a questo sacro sinodo o a qualunque
altro concilio generale, sia assoggettato a condegna penitenza.
A questo lo traeva l'essere la Chiesa scissa: anzi andò tant'oltre che
nella XXIII sezione, dichiarò potersi dal papa appellare al concilio.
Cessò allora d'essere tenuto per ecumenico; e papa Martino, proferitolo
sciolto, andossene a Roma.
I Padri, vedendosi sprezzati dal popolo per le capiglie e i baccani a
cui prorompeano, e divenuti sospetti nella fede dacchè eransi segregati
dal papa, vollero ostentare zelo della fede col perseguitare l'eresia, e
condannarono Giovanni Huss e Girolamo da Praga, i quali, malgrado il
salvocondotto dell'imperatore[188], furono dati al braccio secolare e
posti sul rogo. Tristo rimedio la violenza! La Boemia divampò d'un
incendio, a spegnere il quale non bastarono torrenti di sangue[189].
Eugenio IV, pontefice d'animo elevato, ma senza misura in nessuna cosa,
fece aprire un nuovo concilio a Basilea (1431), onde estirpare l'eresia,
ridurre in pace le nazioni cristiane, togliere il lungo scisma de'
Greci, e riformare la Chiesa. I Padri s'accinsero a quest'ultim'opera
senza preciso concetto di quel che volessero operare, nè de' limiti
dell'autorità propria e di quella che pensavano restringere;
denunziarono un dopo l'altro gli abusi parziali, senza proporre un
rimedio radicale. Da principio, non che attenuare la sovranità papale,
sanzionossi il Decreto di Graziano che la sublimava, i cinque libri
delle _Decretali_ di Gregorio IX, forse anche il sesto di Bonifazio;
solo si tolsero ai papi le riserve, il diritto di provvisione, e quello
di mettere imposte sulle chiese. Ma poi guidato a passione, il concilio
pensò non solo scemare la potenza papale come quel di Costanza, ma
sostituirvi la propria.
Vedendolo condursi con quella precipitazione, che sgomenta ogni autorità
dirigente, Eugenio sospende il concilio. I Padri, non gli badando,
citano lui pontefice, incolpandolo di disobbedienza; poi calata la
visiera, dichiaransi ad esso superiori, nè potere esso scioglierli, nè
traslocarli[190].
Allora, accannitisi alla riforma della Chiesa, mozzano assai diritti
curiali; determinano le forme dell'elezione del papa, e il giuramento
che deve prestare; restringono le concessioni ch'e' può fare ai parenti;
limitano i cardinali a ventiquattro, e ne escludono i nipoti.
Quel che di buono vi si trovava indubbiamente, era guasto
dall'incompetenza e dalla smoderatezza; del che rimproverandoli, Eugenio
trasferiva il concilio a Ferrara (1438). Ma dei Padri solo due ed il
legato si mossero, gli altri continuarono a cincischiare la
giurisdizione di Roma; anzi dichiararono scismatica l'assemblea di
Ferrara, Eugenio eretico e decaduto, surrogandogli Amedeo VIII duca di
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