Gli eretici d'Italia, vol. I - 33
riforme, traevano tanti nelle nuove negazioni, da poter resistere
all'imperatore. Alla dieta d'Augusta nel 1530 sporsero la loro
professione di fede, perciò detta Augustana, compilata da moderati, che
speravano vederla adottare anche dalla Chiesa cattolica. Questa non può
accettare transazioni dov'è certa di possedere la verità; pure non
perdette la speranza di conciliazione, e alla Germania deputaronsi
prelati di gran sapere e grande prudenza.
Già abbiamo accennato del Priero e del cardinale Cajetano,
eccessivamente sprezzati dagli avversi. Girolamo Aleandro, della Motta
trevisana, lodatissimo da Aldo e da Erasmo per conoscenza del greco e
dell'ebraico, da Alessandro VI dato secretario al duca Valentino, poi
spedito per affari in Ungheria, chiesto da Luigi XII professore
all'Università di Parigi, da Leone X tenuto al fianco in alti impieghi,
quando fu deputato in Germania contro i Luterani parve esorbitare di
zelo: eppure egli riprova alcuni per questo difetto. Da Spira il 16
ottobre 1531 scrive al Salviati: «Il Fabri dette fuora un libro _De
contradictionibus Lutheri_, buono ma _intempestive editur in ipso puncto
concordiæ ineundæ_. Similmente Ecchio quel medesimo giorno dette fuora
un libretto _sub titulo Cathalogi hæreticorum_, dove nomina _præcipue
Melancthon_; diceva il vero, _sed non erat id tempus_. Io certo siate
sicuri che interterrò l'una parte e l'altra con dolci parole, _ut malos
lucrifaciam_»[401].
Dalle lettere sue raccogliesi a che scompiglio fosse la Germania: e da
Brusselle, il 26 ottobre 1531, scriveva al segretario Sanga[402]:
«Fummo invitati io e li precipui oratori di principi ed infiniti baroni
e nobili di questa Corte ad un banchetto πρεσβ. τῆς Λυσιτανὶας, il quale
διὰ τον πρωτὸτοκον τοῦ Βασιλέως αὑτοῦ ha fatto feste inaudite... dove fu
recitata, _præsente mundo_, una comedia ἰβεριστὶ καὶ λυσιτανιστὶ di una
mala sorte, che sotto nome d'un giubileo d'amore, era manifesta satira
contro di Roma: sempre nominando apertamente ogni cosa; che da Roma e
dal papa non veniva se non vendizione di indulgenzie, e chi non dava
denari non solo non era assoluto, ma scomunicato di bel nuovo: e così
cominciò, e perseverò e finì la comedia. Ed era uno principale che
parlava, vestito con un rochetto da vescovo, e fingeasi vescovo, ed
aveva una berretta cardinalesca in testa, avuta da casa del
reverendissimo legato, datagli però senza che li nostri sapessero per
che fine. Ed era tanto il riso di tutti, che parea tutto il mondo
giubilasse. A me veramente crepava il cuore, parendomi essere in mezzo a
Sassonia ad udir Lutero, ovver esser nelle pene del sacco di Roma; e non
potei far che _con sommessa voce_ non ne facessi cenno di querela con
Bari, e di poi eziandio l'ho detto ad alcuni de' precipui _con bel
modo_, che questi non son atti da far in luogo di Cristiani, e tanto
meno nella Corte d'un tanto e tam virtuoso e cattolico imperatore, ecc.
Mi è stato risposto che certo non è cosa fatta ora, ma comedia d'altri
tempi, della quale, per non aver altro, si servirono... Veda mo V. S.
come va il secolo!»
Di troppo egli lusingavasi allorchè da Roma scriveva al Salviati[403]:
«Par pur che la Germania sia stanca de la tanta varietà di queste
eresie. E se non fosse la aversione che acceca molti principi e private
persone, così cattolici come eretici, che tengono li beni altrui, e
præsertim della povera Chiesa, mi par che non saria molto difficile cosa
mettervi qualche ordine con la assistenza de' detti principi ed altri
divoratori delli beni ecclesiastici, che pochi vi sono ora in questa
Germania netti da questa macchia».
Esso cardinale Aleandro alla dieta di Germania chiariva quanto si
esagerasse intorno alle ricchezze, che dalla spedizione delle bolle,
dalle annate, dall'altre grazie affluivano a Roma. Basterebbero appena a
mantenere un principe mediocre; e il papa, che pure spende meno d'alcuni
non grandissimi principi, v'adopera quel che gli è dato dai proprj
dominj. E quel mediocre ricavo gli viene da tutti i regni cattolici:
tant'è poco quel che i singoli contribuiscono. — Una volta non aveano
neppure questo. — Oh sì: ma ritornate gli uomini a pascersi di ghiande,
i principi a stare senza anticamere nè guardie o corte; le figliuole dei
re a rasciuttare i panni, come una volta leggiamo si facesse. Siccome
ne' corpi umani si mutano le complessioni e i bisogni secondo l'età,
così accade de' corpi politici. Posto che, per l'unità e la maestà, vi
debba essere un capo supremo della Chiesa, per non dare diffidenza ad
alcuno è necessario non abiti nello Stato d'altri, ma nel proprio, con
Corte e ministri proprj. Or chi gliene somministrerà i mezzi? Ogni terra
ne dà al suo piovano, ogni diocesi al suo vescovo, ogni popolo al suo
signore. Nè si considera aggravio che da un paese vada in altro il
denaro, se con questo si procura la merce più di tutte preziosa, cioè la
legge e la conservazione della giustizia. Direte che sta bene nutrir la
reggia del cristianesimo per la necessità, ma non per le pompe. Se
intendete le pompe per la struttura e gli addobbi de' tempj, questi
certo mancavano alla Chiesa primitiva, ma per malignità del secolo. Del
resto e Dio nell'antichità e i Gentili vollero i tempj ornati, affinchè
i popoli se ne invaghiscano, confortando la ragione coi sensi, la
devozione col diletto. E anche voi, o principi, volete pompa di corte, e
il popolo vuol teatri. Quanto alle pompe private, a Roma si commenda la
vita povera, si venerano gl'istitutori della mendicità volontaria, ma
tal perfezione può desiderarsi più che sperarsi. Ma se vogliamo che la
reggia spirituale del cristianesimo, sia frequentata da persone
d'ingegno, di nobiltà, di lettere, le quali abbandonino le patrie per
sottoporsi al celibato o ad altri scomodi della vita ecclesiastica,
bisogna possano sperare onori e stipendj. Perocchè Roma non è Corte di
Romani natii, bensì d'ecclesiastici congregativi per elezione da varj
paesi del cristianesimo. I giudici de' tribunali, i magistrati, i
governatori, i nunzj sono scelti da tutti i paesi, sicchè a tutti sono
comuni gli onori, le ricchezze, i vantaggi della Corte pontifizia».
Troppo ci darà a dire Pietro Paolo Vergerio vescovo di Capodistria,
mandato nunzio in Germania. Nel 1536 vi andava il cardinale Morone
milanese, e il papa gli raccomandava di pagare tutto e non lasciare
debiti alle osterie, non isfoggiare lusso, visitare le chiese senza
fasto nè ipocrisia, presentare nella sua persona la riforma romana:
prevedeva che Lutero e Melantone non vorrebbero mai fare una
ritrattazione: pure manderebbe una formola che non gli offendesse, stesa
da persone savie e rispettabili.
Ma Lutero di buon'ora rese impossibile ogni accordo, proclamando
ricisamente la condanna d'ogni tradizione ecclesiastica, d'ogni autorità
della Chiesa; e sulle attinenze dell'uomo con Dio piantando un dogma,
ch'egli stesso diceva sconosciuto alla Chiesa dagli apostoli in poi. Non
chiedevasi dunque, come nelle licenziosità precedenti, che la Chiesa si
riformasse nel capo e nelle membra, ma che s'annichilasse da sè;
all'adorazione e al sacrifizio surrogasse la predica; sfasciasse
l'organamento che teneva riuniti tutti i popoli[404]. Anche allora il
papa dovea rispondere la parola più grande che siasi udita nel secolo di
universale vacillamento, qual è il nostro: _Non possumus_; ma quella
negazione potea formularsi colle parole che il De Maistre scriveva ad
una Ginevrina: «Noi non possiamo fare un passo verso di voi; ma se
volete venire a noi, noi spianeremo la via a nostre spese».
E già da particolari negazioni si era asceso a canoni generali: e
principalmente al dogma della giustificazione. Nel Vangelo, Cristo dice
all'adultera: «Va in pace e non peccar più»; dice al giovane: «Se vuoi
conseguire la vita eterna, osserva i miei precetti»; Cristo accettò
l'amore e il pentimento della Maddalena; accettò la buona volontà
dell'operajo che arrivò all'ultima ora. Sempre insomma si vede che,
nell'effettuare la giustificazione del peccatore, la volontà dell'uomo
coopera alla Grazia, e ne conseguita una nuova vita, giusta l'osservanza
della legge divina, e il produrre opere meritorie. Che se Paolo, nella
lettera ai Romani, insiste che l'uomo viene giustificato non per le
opere della legge, ma per la fede, intende degli Ebrei, i quali, per
repudiare la necessità d'un redentore, asserivano che, mediante la legge
e le opere da questa prescritte, uno possa colle sole forze umane
divenire giusto e accetto a Dio. Contro di essi pertanto scrive che
l'uomo viene giustificato non dalle opere della legge mosaica, ma dalla
fede, cioè dalla credenza in Cristo. In niun luogo però dice che la
_sola_ fede giustifichi senza le opere[405]: bensì valere in Cristo
quella fede che opera per la carità[406].
Da ciò i Cattolici dedussero che della giustificazione (la quale è
inerente all'anima, la tramuta, e porta il rinnovamento dell'uomo
interiore) sono costitutivi necessarj la fede e le opere, e che si può
perderla con nuovi peccati. I Protestanti all'incontro insegnano che
essa non è se non la giustizia di Cristo, applicata a noi in modo, che
le colpe, pur durando nell'anima, non ci possono essere imputate: ad
ottenerla basta si creda che, pei meriti di Cristo, ci sono rimessi i
peccati; non vi si richiedono opere buone, conciliabili con sentimenti
cattivi, e non si può perderla più.
Da entrambe le parti i disputanti fondavansi su quel passo di san Paolo
ed altri consimili; neppure tutti i Padri del Concilio tridentino
caddero d'accordo sulla differenza tra la fede che giustifica, e le
opere che non giustificano ma sono effetti della giustizia; e solo vi fu
proferito che «la fede è il principio della umana salute, il fondamento
e la radice della giustificazione, nè senza di essa è possibile piacere
a Dio, ed entrare nel consorzio de' suoi figliuoli»[407]. E spiegossi
poi che, non la legge de' Giudei nè le opere dei Pagani han valore,
bensì la fede, che opera per la carità, che è informata dall'amore;
giacchè senza le opere la fede è morta[408].
Lutero prorompeva: «Quando questi pazzi sofisti insegnano che la fede
dee ricevere dalla carità il suo modo, la sua forma, delirano
mostruosamente: la fede giustificante è la fiducia d'essere rientrati
nella grazia di Dio, e aver ottenuto il perdono de' peccati pei meriti
del Salvatore». E Melantone definisce più preciso: «La fede è
un'assoluta confidenza nella divina misericordia, senza riguardo alle
nostre azioni buone o malvagie».
Dunque l'uomo non può perdere la salute per qualsiasi peccato, e nemmeno
volendolo, purchè non gli venga meno la fede nelle promesse di Dio[409].
Alla negazione della vera dottrina intorno alla giustificazione tenne
dappresso quella del Sagrifizio; e come per la prima i Protestanti
misuravano della lettera di Paolo ai Romani, così per la seconda
appoggiaronsi alla lettera di lui intitolata agli Ebrei.
In questa vuol egli insegnarci che i peccatori non potevano evitare la
morte se non surrogando chi morisse per loro. Finchè sostituirono
sagrifizj d'animali, non faceano che attestare di meritar la morte: e
poichè la giustizia divina non potea rimanerne soddisfatta,
ricominciavasi ogni giorno l'olocausto inadeguato. Dopo che Gesù Cristo
morì pei peccatori, Dio soddisfatto non aveva più ad esigere altro
prezzo del nostro riscatto. Non occorre dunque sacrificare altre vittime
dopo Cristo, e Cristo medesimo non dev'essere sagrificato che una sola
volta.
I Protestanti inducevano da ciò l'inutilità di ripetere il sagrifizio
della Messa. Ma la Chiesa non ritrae il suo linguaggio da un passo
isolato, e in quell'epistola san Paolo intende soltanto spiegare la
perfezione del sagrifizio della Croce, e non già escludere i varj mezzi
che Dio ci ha dati per applicarlo. Or la parola _offrire_ spesso nelle
sacre scritture indica presentare; onde la Chiesa non dice che Gesù
Cristo si rifaccia vittima attuale nell'eucaristia, ma che si offre a
Dio, comparendo per noi al suo cospetto[410]. Gesù Cristo una volta si
immolò vittima della giustizia di Dio; ma non cessa d'offrirsi per noi;
e la perfezione di quel sagrifizio consiste in ciò, che ad esso si
riferisce tutto quanto lo precede come preparamento, o lo segue come
consumazione e applicazione. Il prezzo del nostro riscatto non si
ripete, essendo perfetto la prima volta; ma continua ciò che applica a
noi quella redenzione.
Ora il sacramento dell'altare è centro di tutto il culto, è la comunione
intima dell'uomo con Dio: onde il mistero della fede completa la
ragione; l'ordine sopranaturale serve di pienezza all'ordine naturale.
Il nostro intelletto debole li distingue; in realtà si continuano l'un
l'altro; objettivamente si confondono nello stesso vero: ed anzichè
esser contradditorj, nè tampoco diversi sono. Al Cristiano bisogna
sempre combattere, e perciò bisogna rinnovar sempre le forze alla fonte
eterna del vero, del bello, del buono.
E fu attorno a quest'epistola e a quella ai Romani che si moltiplicarono
spiegazioni e quistioni esegetiche sulla fede, sulle buone opere, sulla
grazia, sul libero arbitrio, sulla predestinazione, sulla vocazione,
sulla glorificazione: e i punti non essendo a quel tempo ancora decisi,
molti fermaronsi in giudizj diversi da quelli che poi furono sanzionati.
Pure al tirare de' conti tutto riduceasi alla suprema quistione
dell'autorità della Chiesa, o dell'esame individuale.
Chi legge in san Paolo che _l'ossequio nostro dev'essere ragionevole_,
capisce ch'è una trivialità il ripetere che i Cattolici escludono
l'esame in materia di religione. Cristo disse: «Scrutate le Scritture, e
vedete come rendono testimonianza di me»; cioè impose un esame
d'adesione. Unico è il motivo della fede; moltissimi i motivi di
credibilità; e v'è tante dimostrazioni della verità della fede, quanti
motivi di credibilità. Non vi è dono di Dio che l'uomo non deva attuare
colle proprie forze, e da sant'Agostino fino a noi si chiamò prodromo
della fede l'esposizione delle pruove della rivelazione e dell'autorità
della Chiesa. La qual fede ha per motivo immediato la veracità di Dio, e
per regola l'autorità della Chiesa, ma suppone titoli ragionevoli.
Quando so che Dio ha parlato, che stabilì per sua interprete la Chiesa,
più non posso discutere la parola di Dio contrariamente alle definizioni
di quella, nè darle il senso che voglio; bensì posso rendermi conto
della fede che professo o, per quei che non credono, ponderare secondo
la critica e l'argomentazione se realmente Iddio ci rivelò la sua legge,
e se stabilì un'autorità regolatrice della fede. Queste pajonmi dottrine
elementari e universalissime, lontane così dalla fede ciecamente passiva
come dal razionalismo, che esagera i diritti della ragione costituendola
giudice della parola di Dio, e confonde la luce soprannaturale della
rivelazione colla naturale dell'intelligenza umana.
Il problema dell'umana destinazione, della riunione misteriosa della
natura umana che espia e della divina che perdona, è supremo; eppure la
ragione è incompetente a darne soluzione adeguata, e perciò si richiedea
la rivelazione divina: la parola umana è insufficiente a trasmettere la
fede, e per ciò si richiede la Chiesa viva che la interpreti. Ne' suoi
dettati non troviamo nè assurdità, nè contraddizione: il cristianesimo è
fuor del dominio della semplice ragione: le verità d'ordine geometrico
mal vorrebbonsi applicare ai dati del sentimento e dell'immaginazione,
che pur sono legittimi quanto quelli dell'intelletto: vi manca la
evidenza matematica, perocchè allora non sarebbe più fede nè dono di
Dio.
Il Cattolico sa che la Chiesa, istituita per applicare i meriti
dell'Uomo Dio all'umanità in generale e a ciascun uomo in particolare,
operar la santificazione del genere umano, che in essa e per essa
unicamente è possibile, ha sola il dono sopranaturale di conoscere
infallibilmente la verità rivelata, e perciò china la sua intelligenza
per adottare ciò che è prescritto come bontà e verità. Sa che la libertà
è la potenza d'eseguire le proprie leggi: e che per farle abbisogna
ch'essa possieda la certezza di queste, nè tale certezza può darsi senza
l'infallibilità. Le decisioni della Chiesa vincolano la nostra libertà,
come la stella polare vincola il pilota. O forse l'uomo cessa d'esser
libero perchè è credente, perchè virtuoso? Se c'è libertà nell'uomo,
vale a dire facoltà di far il bene e compier la sua destinazione, mentre
ha la possibilità di far il male, dev'esserci un'infallibilità che lo
renda sicuro nel suo operare.
L'uomo può accettare le affermazioni divine semplicemente, e allora egli
non è che un credente; può chiarire le relazioni fra esse e i fatti
interni ed esterni dell'universo, e allora la sua fede diviene
scientifica. La certezza in materia di fede va distinta dalla scienza
delle cose della fede: ciò che pruova la verità della rivelazione, da
ciò che la difende dalle accuse. E appunto la teologia è la scienza che
discorre di Dio e delle cose secondo le verità rivelate, proposte dalla
Chiesa; la scienza degli sforzi fatti per isnodare il problema divino.
Due oggetti distinti essa ha. L'uno, esporre la verità e i dogmi dati
dalla Scrittura e dalla tradizione, e rigorosamente definiti dalla
Chiesa, parte invariabile: perocchè, accanto ai principj necessarj della
ragione v'ha dottrine elevatissime, non semplicemente razionali,
invariabili come il vero, e la cui invariabilità attesta esserne divina
la sorgente. Sopra questa base divina elevasi l'edifizio della ragione,
secondo oggetto della teologia, sottoposto alle condizioni d'ogni opera
umana, svolgimento, mutazione, successione, progresso, regresso, a
proporzione del sapere e delle attitudini dell'uomo e della società: e
però anch'essa non si restringe nella categoria dell'essere, ma passa in
quella del divenire; essendovi un solo modo di credere, ma molti di
dimostrare e appoggiar la verità.
Tale l'assunsero i Padri, cercando con essa la rigenerazione
intellettuale, identificata colla rigenerazione morale, poichè si
proponeva la salute delle anime, primo, collo svellere il dubbio, che
col sottile argomentare avea scosso le credenze più vitali; secondo, col
riordinare le scarmigliate idee del dovere. Atteso che si attaccano i
misteri in apparenza, in realtà si rinnegano i comandamenti.
Emancipare la coscienza individuale dalla tutela ecclesiastica, tenere
ciascuno responsale delle proprie credenze come de' proprj atti, ed
obbligato ad acquistare coll'esame convinzioni proprie, a seguire la
coscienza propria, anzi che obbedire alla Chiesa o ascoltare il prete,
costituisce il gran divario fra i Protestanti e noi.
Ma una generazione di rado s'accorge dell'opera che essa intraprende e
compisce; nè i riformatori d'allora aspirarono a quel che, al cospetto
dei moderni, ne costituisce il merito, la libertà di esame. Contro di
questa impennavasi Lutero, ed esclamava: «Non v'è angelo in cielo, e
molto meno uom sulla terra che possa ed osi giudicar la mia dottrina;
chi non l'adotta non può andar salvo; chi crede ad altri che a me, è
destinato all'inferno. Al Vangelo che io ho predicato devono
sottomettersi papa, vescovi, preti, monaci, re, principi, il diavolo, la
morte, il peccato, e tutto ciò che non è Cristo. La mia parola è parola
di Gesù Cristo, la mia bocca è la bocca di Gesù Cristo»[411].
Anche enunciandosi principj malvagi di filosofia o di politica,
l'esister la dottrina cattolica impediva gli eccessi e le storte
applicazioni. Ora, scosse le credenze, invocavasi, come dopo ogni
rivoluzione, il rassettamento; in parte l'abitudine antica, in parte
l'indole delle moltitudini faceano sentito il bisogno di conservare la
libertà, eppure costituirsi in comunità, formare una Chiesa, aver
concistori che autorizzino a predicare[412]. Vero è bene che, sostenendo
la giustificazione per mezzo della fede, venivasi ad accampare la
coscienza individuale contro la tradizione secolare; ma direttamente
all'autorità della Chiesa sostituivasi l'autorità della Bibbia.
Eppure questa da chi era trasmessa? da quella tradizione che essi
rinnegavano. L'interpretarla poi rimettevasi al sentimento individuale,
sicchè alla perfine si ritornava al libero assenso della coscienza. Così
il Protestante aveva il testo della Scrittura colla mescolanza di verità
di fede e verità di ragione, senza la certezza del senso che contiene;
il Cattolico ha il senso indefettibilmente conservato di un testo, in
cui stanno tutti i dogmi di fede. Ma la fede è l'adesione dello spirito
umano alla testimonianza di Dio. Essa non dà solo il presentimento della
verità, ne dà la certezza. Libero esame è il diritto dello spirito umano
di non ammettere in qualsiasi ordine di cose se non ciò che riconosce
per verità. Dunque, prima di credere i misteri _rivelati_, dee aver
certezza che sono rivelati: s'ha da adoprare la ragione fino al punto
ov'essa ci conduce a riconoscere la Chiesa. Ecco l'esame previo alla
fede, il quale non è punto interdetto ai Cattolici.
Ma il protestantismo disgrega tutto ciò che Dio aveva unito; la società
spirituale dall'autorità su cui si fonda; la parola scritta dalla
tradizione vivente che ne scopre l'origine e il senso; il sacrifizio
unico della redenzione dalla perpetua sua offerta sugli altari del nuovo
patto; la Grazia dai sacramenti che ne sono le grandi e divine arterie;
la fede dalle buone opere che la mostrano viva; l'amore dal culto che
n'è l'espressione; la preghiera dai gradi per cui ascende a Dio mediante
gli angeli, i santi, la madre di Cristo: e per tal modo prepara il
distacco totale della ragione dalla fede, della natura dalla Grazia, di
Dio dall'uomo coll'ateismo o il panteismo, col deismo o il naturalismo.
E non meno di eresia religiosa fu eresia politica, combattendo la
religione e la civiltà cristiana come nel pensiero così nell'azione:
ergendo a principio supremo del vero e del bene l'io umano, in contrasto
all'unificazione pontifizia: ergendo lo Stato in divinità; posponendo
gli interessi di Dio che fin allora aveano primeggiato, sicchè, dopo
aver gridato «Date a Cesare quel ch'è di Cesare», si dimenticherebbe di
dar a Dio quel ch'è di Dio.
Così rinnegato il primato nell'ordine religioso, intaccavasi pure nel
civile, mentre parevasi assodarlo. Le conseguenze non si conobbero che
tardi, e ai nostri giorni, quando ormai a un'apparenza di unità non si
arriva se non a spese della fede, e la fede non si produce che in
contrasto coll'unità: ma subito si sentì il disordine.
Gaspare Contarini, veneziano (1483-1562), entrato ne' Pregadi della sua
patria, appena l'età gliel permise, non sapea mai risolversi a prendere
la parola, sebbene, quando il faceva, parlasse alla semplice, ma con
profondità. Eruditissimo di filosofia e matematica, versatissimo in
gravi maneggi politici, essendo stato savio grande del Consiglio, capo
dei Dieci, riformatore dello studio, Paolo III lo elesse cardinale con
altri sette di gran virtù e dottrina, benchè ancora laico e lontanissimo
dal pensarvi: fu ambasciadore della Serenissima presso Clemente VII, col
quale s'adoprò di tutta forza per isviarlo dalla politica tentennante,
mostrandogli come recasse a precipizio l'Italia. Colla filosofia aveva
egli studiato la teologia, propendendo per san Tommaso ma conoscendo
tutti i santi Padri, e ancor giovane aveva scritto contro il Pomponazio
suo maestro, poi due libri _De Ufficio Episcopi_ (1516) e un altro
sull'origine divina della podestà del papa, con semplice gravità e meno
triche di scuola che non solessero i teologanti: e di lui diceva il
cardinale Polo, non essergli sconosciuto nulla di ciò che lo spirito
umano scoprì colle sue ricerche e la divina grazia ha rivelato; e
v'aggiungea l'ornamento della virtù.
Gaspare sedeva in consiglio quando gli giunse la notizia del
cardinalato, e tutti ad applaudire; solo Alvise Mocenigo, costante
avversario di lui e degli ecclesiastici, brontolò: «Codesti preti ci
hanno rubato il miglior gentiluomo che la città avesse»[413]. Solo alle
calde preghiere e all'idea del dovere egli rassegnossi ad accettare quel
gravoso onore, e «non accortigianato nelle cose di Roma», insisteva
sulle riforme: e scrisse, fra le altre, due lettere a Paolo III, intorno
alle composizioni e alla potestà pontificia. «Il dispensiero (diceva),
non può vendere ciò che non è suo ma di Dio, foss'anche il lucro
destinato a far guerra al Turco o a riscattare schiavi, o qual altro
siasi scopo; tutti convenendo nella sentenza di san Paolo che non può
farsi il male per conseguire il bene, nè acconciare la verità di Dio
agli esempj e alle costumanze nostre. Coloro che ampliarono in ciò
l'autorità del pontefice sino ad affermare non abbia altra regola che la
particolare sua volontà, porsero occasione agli avversarj di negarla del
tutto. Qual cosa potrebbe immaginarsi tanto repugnante alla legge di
Cristo che è legge di libertà, quanto il sottomettere i Cristiani a un
capo, al quale sia attribuito l'ordinare leggi, il derogarle, il
dispensarne a capriccio, anzichè a regola di dovere? Ogni potestà è
potenza di ragione, ed ha per iscopo di condurre con retti mezzi alla
felicità. Così anche l'autorità pontificia, conferita da Dio al
beatissimo Pietro ed a' suoi successori sopra uomini liberi, vuol essere
usata secondo la regola della ragione, dei precetti divini e della
carità. Santo Padre, voi che soprastate agli altri in dottrina, senno
naturale e sperienza delle cose, esaminate se dalla contraria dottrina
non abbiano pigliato baldanza i Luterani a comporre i loro libri della
cattività di Babilonia. E davvero, qual cattività peggiore di questa,
professata da alcuni esuberanti sostenitori della podestà pontificia?
Abbia la S. V. a cuore quella suprema potenza e libertà del volere, che
viene dall'ossequio alla grazia divina e alla ragione; non pieghi
all'impotenza della volontà, che sceglie il peggio, e alla servitù che
mena al peccato; perocchè solo allorquando quella vera facoltà del
volere sarà congiunta alla podestà pontificia conferitavi da Cristo,
sarete potentissimo, affatto libero, e vera vita della repubblica
cristiana»[414].
E trattando della giustificazione nelle epistole stesse, dichiara aperto
che «l'uomo propende al male, in grazia dell'impotenza della volontà;
dalla qual malattia, che è servitù dell'animo, non può liberarsi per le
virtù morali acquistate coll'abito delle opere buone, ma solo per la
grazia di Dio e la fede nel sangue di Gesù Cristo». Tale dottrina
enucleò nel _Tractatus seu epistola de justificatione_, lodato
immensamente dal cardinale Polo, dal cardinale Sadoleto e da altri, che
ammiravano come quell'arduo punto egli avesse sì ben chiarito, e con
verità inaspettate, che pur erano nella sacra scrittura[415]. Onde può
dirsi che il Contarini esibisse il vero programma di ciò che poi compì
il Concilio di Trento, sia quanto alla riforma, sia quanto alla
definizione dogmatica di quel punto scabrosissimo.
Insisteva egli presso papa Paolo acciocchè attuasse le riforme; e da
Ostia l'11 novembre 1538 scriveva al cardinale Polo: «Il papa mi menò
seco in carrozza a Ostia. Tra via, il nostro buon vecchio si intertenne
meco sopra la riforma delle composizioni. Diceva d'aver sopra di sè il
trattatello da me scritto in proposito, e d'averlo letto la mattina. Io
avea perduto ogni speranza: ma ora mi ragionò in modo sì cristiano, che
concepii di nuovo la speranza che Dio gli farà compiere qualcosa di
grande, e non permetterà che le porte dell'inferno prevalgano nel suo
spirito».
Ma il papa era intricato in idee politiche; quando il Contarini gli
faceva objezioni sul nominare cardinali che a lui non pareano dover
riuscire di onore alla Chiesa, gli diede sulla voce: «Già siamo stati
cardinali anche noi, e sappiamo come ripugnino che altri abbian lo
stesso onore». Al che il Contarini non potè trattenersi dal replicare:
«Io non reputo che il maggior mio onore sia il cappello».
Spedito alla dieta di Ratisbona del 1541 per tentare la conciliazione
fra Luterani e Cattolici, e almeno indur quelli a riconoscere i principj
fondamentali, cioè il primato della santa sede, i sacramenti, e altri
punti appoggiati alla Scrittura e all'uso costante, domandò al papa che,
se mai da articoli indifferenti alla fede dipendesse la riconciliazione,
all'imperatore. Alla dieta d'Augusta nel 1530 sporsero la loro
professione di fede, perciò detta Augustana, compilata da moderati, che
speravano vederla adottare anche dalla Chiesa cattolica. Questa non può
accettare transazioni dov'è certa di possedere la verità; pure non
perdette la speranza di conciliazione, e alla Germania deputaronsi
prelati di gran sapere e grande prudenza.
Già abbiamo accennato del Priero e del cardinale Cajetano,
eccessivamente sprezzati dagli avversi. Girolamo Aleandro, della Motta
trevisana, lodatissimo da Aldo e da Erasmo per conoscenza del greco e
dell'ebraico, da Alessandro VI dato secretario al duca Valentino, poi
spedito per affari in Ungheria, chiesto da Luigi XII professore
all'Università di Parigi, da Leone X tenuto al fianco in alti impieghi,
quando fu deputato in Germania contro i Luterani parve esorbitare di
zelo: eppure egli riprova alcuni per questo difetto. Da Spira il 16
ottobre 1531 scrive al Salviati: «Il Fabri dette fuora un libro _De
contradictionibus Lutheri_, buono ma _intempestive editur in ipso puncto
concordiæ ineundæ_. Similmente Ecchio quel medesimo giorno dette fuora
un libretto _sub titulo Cathalogi hæreticorum_, dove nomina _præcipue
Melancthon_; diceva il vero, _sed non erat id tempus_. Io certo siate
sicuri che interterrò l'una parte e l'altra con dolci parole, _ut malos
lucrifaciam_»[401].
Dalle lettere sue raccogliesi a che scompiglio fosse la Germania: e da
Brusselle, il 26 ottobre 1531, scriveva al segretario Sanga[402]:
«Fummo invitati io e li precipui oratori di principi ed infiniti baroni
e nobili di questa Corte ad un banchetto πρεσβ. τῆς Λυσιτανὶας, il quale
διὰ τον πρωτὸτοκον τοῦ Βασιλέως αὑτοῦ ha fatto feste inaudite... dove fu
recitata, _præsente mundo_, una comedia ἰβεριστὶ καὶ λυσιτανιστὶ di una
mala sorte, che sotto nome d'un giubileo d'amore, era manifesta satira
contro di Roma: sempre nominando apertamente ogni cosa; che da Roma e
dal papa non veniva se non vendizione di indulgenzie, e chi non dava
denari non solo non era assoluto, ma scomunicato di bel nuovo: e così
cominciò, e perseverò e finì la comedia. Ed era uno principale che
parlava, vestito con un rochetto da vescovo, e fingeasi vescovo, ed
aveva una berretta cardinalesca in testa, avuta da casa del
reverendissimo legato, datagli però senza che li nostri sapessero per
che fine. Ed era tanto il riso di tutti, che parea tutto il mondo
giubilasse. A me veramente crepava il cuore, parendomi essere in mezzo a
Sassonia ad udir Lutero, ovver esser nelle pene del sacco di Roma; e non
potei far che _con sommessa voce_ non ne facessi cenno di querela con
Bari, e di poi eziandio l'ho detto ad alcuni de' precipui _con bel
modo_, che questi non son atti da far in luogo di Cristiani, e tanto
meno nella Corte d'un tanto e tam virtuoso e cattolico imperatore, ecc.
Mi è stato risposto che certo non è cosa fatta ora, ma comedia d'altri
tempi, della quale, per non aver altro, si servirono... Veda mo V. S.
come va il secolo!»
Di troppo egli lusingavasi allorchè da Roma scriveva al Salviati[403]:
«Par pur che la Germania sia stanca de la tanta varietà di queste
eresie. E se non fosse la aversione che acceca molti principi e private
persone, così cattolici come eretici, che tengono li beni altrui, e
præsertim della povera Chiesa, mi par che non saria molto difficile cosa
mettervi qualche ordine con la assistenza de' detti principi ed altri
divoratori delli beni ecclesiastici, che pochi vi sono ora in questa
Germania netti da questa macchia».
Esso cardinale Aleandro alla dieta di Germania chiariva quanto si
esagerasse intorno alle ricchezze, che dalla spedizione delle bolle,
dalle annate, dall'altre grazie affluivano a Roma. Basterebbero appena a
mantenere un principe mediocre; e il papa, che pure spende meno d'alcuni
non grandissimi principi, v'adopera quel che gli è dato dai proprj
dominj. E quel mediocre ricavo gli viene da tutti i regni cattolici:
tant'è poco quel che i singoli contribuiscono. — Una volta non aveano
neppure questo. — Oh sì: ma ritornate gli uomini a pascersi di ghiande,
i principi a stare senza anticamere nè guardie o corte; le figliuole dei
re a rasciuttare i panni, come una volta leggiamo si facesse. Siccome
ne' corpi umani si mutano le complessioni e i bisogni secondo l'età,
così accade de' corpi politici. Posto che, per l'unità e la maestà, vi
debba essere un capo supremo della Chiesa, per non dare diffidenza ad
alcuno è necessario non abiti nello Stato d'altri, ma nel proprio, con
Corte e ministri proprj. Or chi gliene somministrerà i mezzi? Ogni terra
ne dà al suo piovano, ogni diocesi al suo vescovo, ogni popolo al suo
signore. Nè si considera aggravio che da un paese vada in altro il
denaro, se con questo si procura la merce più di tutte preziosa, cioè la
legge e la conservazione della giustizia. Direte che sta bene nutrir la
reggia del cristianesimo per la necessità, ma non per le pompe. Se
intendete le pompe per la struttura e gli addobbi de' tempj, questi
certo mancavano alla Chiesa primitiva, ma per malignità del secolo. Del
resto e Dio nell'antichità e i Gentili vollero i tempj ornati, affinchè
i popoli se ne invaghiscano, confortando la ragione coi sensi, la
devozione col diletto. E anche voi, o principi, volete pompa di corte, e
il popolo vuol teatri. Quanto alle pompe private, a Roma si commenda la
vita povera, si venerano gl'istitutori della mendicità volontaria, ma
tal perfezione può desiderarsi più che sperarsi. Ma se vogliamo che la
reggia spirituale del cristianesimo, sia frequentata da persone
d'ingegno, di nobiltà, di lettere, le quali abbandonino le patrie per
sottoporsi al celibato o ad altri scomodi della vita ecclesiastica,
bisogna possano sperare onori e stipendj. Perocchè Roma non è Corte di
Romani natii, bensì d'ecclesiastici congregativi per elezione da varj
paesi del cristianesimo. I giudici de' tribunali, i magistrati, i
governatori, i nunzj sono scelti da tutti i paesi, sicchè a tutti sono
comuni gli onori, le ricchezze, i vantaggi della Corte pontifizia».
Troppo ci darà a dire Pietro Paolo Vergerio vescovo di Capodistria,
mandato nunzio in Germania. Nel 1536 vi andava il cardinale Morone
milanese, e il papa gli raccomandava di pagare tutto e non lasciare
debiti alle osterie, non isfoggiare lusso, visitare le chiese senza
fasto nè ipocrisia, presentare nella sua persona la riforma romana:
prevedeva che Lutero e Melantone non vorrebbero mai fare una
ritrattazione: pure manderebbe una formola che non gli offendesse, stesa
da persone savie e rispettabili.
Ma Lutero di buon'ora rese impossibile ogni accordo, proclamando
ricisamente la condanna d'ogni tradizione ecclesiastica, d'ogni autorità
della Chiesa; e sulle attinenze dell'uomo con Dio piantando un dogma,
ch'egli stesso diceva sconosciuto alla Chiesa dagli apostoli in poi. Non
chiedevasi dunque, come nelle licenziosità precedenti, che la Chiesa si
riformasse nel capo e nelle membra, ma che s'annichilasse da sè;
all'adorazione e al sacrifizio surrogasse la predica; sfasciasse
l'organamento che teneva riuniti tutti i popoli[404]. Anche allora il
papa dovea rispondere la parola più grande che siasi udita nel secolo di
universale vacillamento, qual è il nostro: _Non possumus_; ma quella
negazione potea formularsi colle parole che il De Maistre scriveva ad
una Ginevrina: «Noi non possiamo fare un passo verso di voi; ma se
volete venire a noi, noi spianeremo la via a nostre spese».
E già da particolari negazioni si era asceso a canoni generali: e
principalmente al dogma della giustificazione. Nel Vangelo, Cristo dice
all'adultera: «Va in pace e non peccar più»; dice al giovane: «Se vuoi
conseguire la vita eterna, osserva i miei precetti»; Cristo accettò
l'amore e il pentimento della Maddalena; accettò la buona volontà
dell'operajo che arrivò all'ultima ora. Sempre insomma si vede che,
nell'effettuare la giustificazione del peccatore, la volontà dell'uomo
coopera alla Grazia, e ne conseguita una nuova vita, giusta l'osservanza
della legge divina, e il produrre opere meritorie. Che se Paolo, nella
lettera ai Romani, insiste che l'uomo viene giustificato non per le
opere della legge, ma per la fede, intende degli Ebrei, i quali, per
repudiare la necessità d'un redentore, asserivano che, mediante la legge
e le opere da questa prescritte, uno possa colle sole forze umane
divenire giusto e accetto a Dio. Contro di essi pertanto scrive che
l'uomo viene giustificato non dalle opere della legge mosaica, ma dalla
fede, cioè dalla credenza in Cristo. In niun luogo però dice che la
_sola_ fede giustifichi senza le opere[405]: bensì valere in Cristo
quella fede che opera per la carità[406].
Da ciò i Cattolici dedussero che della giustificazione (la quale è
inerente all'anima, la tramuta, e porta il rinnovamento dell'uomo
interiore) sono costitutivi necessarj la fede e le opere, e che si può
perderla con nuovi peccati. I Protestanti all'incontro insegnano che
essa non è se non la giustizia di Cristo, applicata a noi in modo, che
le colpe, pur durando nell'anima, non ci possono essere imputate: ad
ottenerla basta si creda che, pei meriti di Cristo, ci sono rimessi i
peccati; non vi si richiedono opere buone, conciliabili con sentimenti
cattivi, e non si può perderla più.
Da entrambe le parti i disputanti fondavansi su quel passo di san Paolo
ed altri consimili; neppure tutti i Padri del Concilio tridentino
caddero d'accordo sulla differenza tra la fede che giustifica, e le
opere che non giustificano ma sono effetti della giustizia; e solo vi fu
proferito che «la fede è il principio della umana salute, il fondamento
e la radice della giustificazione, nè senza di essa è possibile piacere
a Dio, ed entrare nel consorzio de' suoi figliuoli»[407]. E spiegossi
poi che, non la legge de' Giudei nè le opere dei Pagani han valore,
bensì la fede, che opera per la carità, che è informata dall'amore;
giacchè senza le opere la fede è morta[408].
Lutero prorompeva: «Quando questi pazzi sofisti insegnano che la fede
dee ricevere dalla carità il suo modo, la sua forma, delirano
mostruosamente: la fede giustificante è la fiducia d'essere rientrati
nella grazia di Dio, e aver ottenuto il perdono de' peccati pei meriti
del Salvatore». E Melantone definisce più preciso: «La fede è
un'assoluta confidenza nella divina misericordia, senza riguardo alle
nostre azioni buone o malvagie».
Dunque l'uomo non può perdere la salute per qualsiasi peccato, e nemmeno
volendolo, purchè non gli venga meno la fede nelle promesse di Dio[409].
Alla negazione della vera dottrina intorno alla giustificazione tenne
dappresso quella del Sagrifizio; e come per la prima i Protestanti
misuravano della lettera di Paolo ai Romani, così per la seconda
appoggiaronsi alla lettera di lui intitolata agli Ebrei.
In questa vuol egli insegnarci che i peccatori non potevano evitare la
morte se non surrogando chi morisse per loro. Finchè sostituirono
sagrifizj d'animali, non faceano che attestare di meritar la morte: e
poichè la giustizia divina non potea rimanerne soddisfatta,
ricominciavasi ogni giorno l'olocausto inadeguato. Dopo che Gesù Cristo
morì pei peccatori, Dio soddisfatto non aveva più ad esigere altro
prezzo del nostro riscatto. Non occorre dunque sacrificare altre vittime
dopo Cristo, e Cristo medesimo non dev'essere sagrificato che una sola
volta.
I Protestanti inducevano da ciò l'inutilità di ripetere il sagrifizio
della Messa. Ma la Chiesa non ritrae il suo linguaggio da un passo
isolato, e in quell'epistola san Paolo intende soltanto spiegare la
perfezione del sagrifizio della Croce, e non già escludere i varj mezzi
che Dio ci ha dati per applicarlo. Or la parola _offrire_ spesso nelle
sacre scritture indica presentare; onde la Chiesa non dice che Gesù
Cristo si rifaccia vittima attuale nell'eucaristia, ma che si offre a
Dio, comparendo per noi al suo cospetto[410]. Gesù Cristo una volta si
immolò vittima della giustizia di Dio; ma non cessa d'offrirsi per noi;
e la perfezione di quel sagrifizio consiste in ciò, che ad esso si
riferisce tutto quanto lo precede come preparamento, o lo segue come
consumazione e applicazione. Il prezzo del nostro riscatto non si
ripete, essendo perfetto la prima volta; ma continua ciò che applica a
noi quella redenzione.
Ora il sacramento dell'altare è centro di tutto il culto, è la comunione
intima dell'uomo con Dio: onde il mistero della fede completa la
ragione; l'ordine sopranaturale serve di pienezza all'ordine naturale.
Il nostro intelletto debole li distingue; in realtà si continuano l'un
l'altro; objettivamente si confondono nello stesso vero: ed anzichè
esser contradditorj, nè tampoco diversi sono. Al Cristiano bisogna
sempre combattere, e perciò bisogna rinnovar sempre le forze alla fonte
eterna del vero, del bello, del buono.
E fu attorno a quest'epistola e a quella ai Romani che si moltiplicarono
spiegazioni e quistioni esegetiche sulla fede, sulle buone opere, sulla
grazia, sul libero arbitrio, sulla predestinazione, sulla vocazione,
sulla glorificazione: e i punti non essendo a quel tempo ancora decisi,
molti fermaronsi in giudizj diversi da quelli che poi furono sanzionati.
Pure al tirare de' conti tutto riduceasi alla suprema quistione
dell'autorità della Chiesa, o dell'esame individuale.
Chi legge in san Paolo che _l'ossequio nostro dev'essere ragionevole_,
capisce ch'è una trivialità il ripetere che i Cattolici escludono
l'esame in materia di religione. Cristo disse: «Scrutate le Scritture, e
vedete come rendono testimonianza di me»; cioè impose un esame
d'adesione. Unico è il motivo della fede; moltissimi i motivi di
credibilità; e v'è tante dimostrazioni della verità della fede, quanti
motivi di credibilità. Non vi è dono di Dio che l'uomo non deva attuare
colle proprie forze, e da sant'Agostino fino a noi si chiamò prodromo
della fede l'esposizione delle pruove della rivelazione e dell'autorità
della Chiesa. La qual fede ha per motivo immediato la veracità di Dio, e
per regola l'autorità della Chiesa, ma suppone titoli ragionevoli.
Quando so che Dio ha parlato, che stabilì per sua interprete la Chiesa,
più non posso discutere la parola di Dio contrariamente alle definizioni
di quella, nè darle il senso che voglio; bensì posso rendermi conto
della fede che professo o, per quei che non credono, ponderare secondo
la critica e l'argomentazione se realmente Iddio ci rivelò la sua legge,
e se stabilì un'autorità regolatrice della fede. Queste pajonmi dottrine
elementari e universalissime, lontane così dalla fede ciecamente passiva
come dal razionalismo, che esagera i diritti della ragione costituendola
giudice della parola di Dio, e confonde la luce soprannaturale della
rivelazione colla naturale dell'intelligenza umana.
Il problema dell'umana destinazione, della riunione misteriosa della
natura umana che espia e della divina che perdona, è supremo; eppure la
ragione è incompetente a darne soluzione adeguata, e perciò si richiedea
la rivelazione divina: la parola umana è insufficiente a trasmettere la
fede, e per ciò si richiede la Chiesa viva che la interpreti. Ne' suoi
dettati non troviamo nè assurdità, nè contraddizione: il cristianesimo è
fuor del dominio della semplice ragione: le verità d'ordine geometrico
mal vorrebbonsi applicare ai dati del sentimento e dell'immaginazione,
che pur sono legittimi quanto quelli dell'intelletto: vi manca la
evidenza matematica, perocchè allora non sarebbe più fede nè dono di
Dio.
Il Cattolico sa che la Chiesa, istituita per applicare i meriti
dell'Uomo Dio all'umanità in generale e a ciascun uomo in particolare,
operar la santificazione del genere umano, che in essa e per essa
unicamente è possibile, ha sola il dono sopranaturale di conoscere
infallibilmente la verità rivelata, e perciò china la sua intelligenza
per adottare ciò che è prescritto come bontà e verità. Sa che la libertà
è la potenza d'eseguire le proprie leggi: e che per farle abbisogna
ch'essa possieda la certezza di queste, nè tale certezza può darsi senza
l'infallibilità. Le decisioni della Chiesa vincolano la nostra libertà,
come la stella polare vincola il pilota. O forse l'uomo cessa d'esser
libero perchè è credente, perchè virtuoso? Se c'è libertà nell'uomo,
vale a dire facoltà di far il bene e compier la sua destinazione, mentre
ha la possibilità di far il male, dev'esserci un'infallibilità che lo
renda sicuro nel suo operare.
L'uomo può accettare le affermazioni divine semplicemente, e allora egli
non è che un credente; può chiarire le relazioni fra esse e i fatti
interni ed esterni dell'universo, e allora la sua fede diviene
scientifica. La certezza in materia di fede va distinta dalla scienza
delle cose della fede: ciò che pruova la verità della rivelazione, da
ciò che la difende dalle accuse. E appunto la teologia è la scienza che
discorre di Dio e delle cose secondo le verità rivelate, proposte dalla
Chiesa; la scienza degli sforzi fatti per isnodare il problema divino.
Due oggetti distinti essa ha. L'uno, esporre la verità e i dogmi dati
dalla Scrittura e dalla tradizione, e rigorosamente definiti dalla
Chiesa, parte invariabile: perocchè, accanto ai principj necessarj della
ragione v'ha dottrine elevatissime, non semplicemente razionali,
invariabili come il vero, e la cui invariabilità attesta esserne divina
la sorgente. Sopra questa base divina elevasi l'edifizio della ragione,
secondo oggetto della teologia, sottoposto alle condizioni d'ogni opera
umana, svolgimento, mutazione, successione, progresso, regresso, a
proporzione del sapere e delle attitudini dell'uomo e della società: e
però anch'essa non si restringe nella categoria dell'essere, ma passa in
quella del divenire; essendovi un solo modo di credere, ma molti di
dimostrare e appoggiar la verità.
Tale l'assunsero i Padri, cercando con essa la rigenerazione
intellettuale, identificata colla rigenerazione morale, poichè si
proponeva la salute delle anime, primo, collo svellere il dubbio, che
col sottile argomentare avea scosso le credenze più vitali; secondo, col
riordinare le scarmigliate idee del dovere. Atteso che si attaccano i
misteri in apparenza, in realtà si rinnegano i comandamenti.
Emancipare la coscienza individuale dalla tutela ecclesiastica, tenere
ciascuno responsale delle proprie credenze come de' proprj atti, ed
obbligato ad acquistare coll'esame convinzioni proprie, a seguire la
coscienza propria, anzi che obbedire alla Chiesa o ascoltare il prete,
costituisce il gran divario fra i Protestanti e noi.
Ma una generazione di rado s'accorge dell'opera che essa intraprende e
compisce; nè i riformatori d'allora aspirarono a quel che, al cospetto
dei moderni, ne costituisce il merito, la libertà di esame. Contro di
questa impennavasi Lutero, ed esclamava: «Non v'è angelo in cielo, e
molto meno uom sulla terra che possa ed osi giudicar la mia dottrina;
chi non l'adotta non può andar salvo; chi crede ad altri che a me, è
destinato all'inferno. Al Vangelo che io ho predicato devono
sottomettersi papa, vescovi, preti, monaci, re, principi, il diavolo, la
morte, il peccato, e tutto ciò che non è Cristo. La mia parola è parola
di Gesù Cristo, la mia bocca è la bocca di Gesù Cristo»[411].
Anche enunciandosi principj malvagi di filosofia o di politica,
l'esister la dottrina cattolica impediva gli eccessi e le storte
applicazioni. Ora, scosse le credenze, invocavasi, come dopo ogni
rivoluzione, il rassettamento; in parte l'abitudine antica, in parte
l'indole delle moltitudini faceano sentito il bisogno di conservare la
libertà, eppure costituirsi in comunità, formare una Chiesa, aver
concistori che autorizzino a predicare[412]. Vero è bene che, sostenendo
la giustificazione per mezzo della fede, venivasi ad accampare la
coscienza individuale contro la tradizione secolare; ma direttamente
all'autorità della Chiesa sostituivasi l'autorità della Bibbia.
Eppure questa da chi era trasmessa? da quella tradizione che essi
rinnegavano. L'interpretarla poi rimettevasi al sentimento individuale,
sicchè alla perfine si ritornava al libero assenso della coscienza. Così
il Protestante aveva il testo della Scrittura colla mescolanza di verità
di fede e verità di ragione, senza la certezza del senso che contiene;
il Cattolico ha il senso indefettibilmente conservato di un testo, in
cui stanno tutti i dogmi di fede. Ma la fede è l'adesione dello spirito
umano alla testimonianza di Dio. Essa non dà solo il presentimento della
verità, ne dà la certezza. Libero esame è il diritto dello spirito umano
di non ammettere in qualsiasi ordine di cose se non ciò che riconosce
per verità. Dunque, prima di credere i misteri _rivelati_, dee aver
certezza che sono rivelati: s'ha da adoprare la ragione fino al punto
ov'essa ci conduce a riconoscere la Chiesa. Ecco l'esame previo alla
fede, il quale non è punto interdetto ai Cattolici.
Ma il protestantismo disgrega tutto ciò che Dio aveva unito; la società
spirituale dall'autorità su cui si fonda; la parola scritta dalla
tradizione vivente che ne scopre l'origine e il senso; il sacrifizio
unico della redenzione dalla perpetua sua offerta sugli altari del nuovo
patto; la Grazia dai sacramenti che ne sono le grandi e divine arterie;
la fede dalle buone opere che la mostrano viva; l'amore dal culto che
n'è l'espressione; la preghiera dai gradi per cui ascende a Dio mediante
gli angeli, i santi, la madre di Cristo: e per tal modo prepara il
distacco totale della ragione dalla fede, della natura dalla Grazia, di
Dio dall'uomo coll'ateismo o il panteismo, col deismo o il naturalismo.
E non meno di eresia religiosa fu eresia politica, combattendo la
religione e la civiltà cristiana come nel pensiero così nell'azione:
ergendo a principio supremo del vero e del bene l'io umano, in contrasto
all'unificazione pontifizia: ergendo lo Stato in divinità; posponendo
gli interessi di Dio che fin allora aveano primeggiato, sicchè, dopo
aver gridato «Date a Cesare quel ch'è di Cesare», si dimenticherebbe di
dar a Dio quel ch'è di Dio.
Così rinnegato il primato nell'ordine religioso, intaccavasi pure nel
civile, mentre parevasi assodarlo. Le conseguenze non si conobbero che
tardi, e ai nostri giorni, quando ormai a un'apparenza di unità non si
arriva se non a spese della fede, e la fede non si produce che in
contrasto coll'unità: ma subito si sentì il disordine.
Gaspare Contarini, veneziano (1483-1562), entrato ne' Pregadi della sua
patria, appena l'età gliel permise, non sapea mai risolversi a prendere
la parola, sebbene, quando il faceva, parlasse alla semplice, ma con
profondità. Eruditissimo di filosofia e matematica, versatissimo in
gravi maneggi politici, essendo stato savio grande del Consiglio, capo
dei Dieci, riformatore dello studio, Paolo III lo elesse cardinale con
altri sette di gran virtù e dottrina, benchè ancora laico e lontanissimo
dal pensarvi: fu ambasciadore della Serenissima presso Clemente VII, col
quale s'adoprò di tutta forza per isviarlo dalla politica tentennante,
mostrandogli come recasse a precipizio l'Italia. Colla filosofia aveva
egli studiato la teologia, propendendo per san Tommaso ma conoscendo
tutti i santi Padri, e ancor giovane aveva scritto contro il Pomponazio
suo maestro, poi due libri _De Ufficio Episcopi_ (1516) e un altro
sull'origine divina della podestà del papa, con semplice gravità e meno
triche di scuola che non solessero i teologanti: e di lui diceva il
cardinale Polo, non essergli sconosciuto nulla di ciò che lo spirito
umano scoprì colle sue ricerche e la divina grazia ha rivelato; e
v'aggiungea l'ornamento della virtù.
Gaspare sedeva in consiglio quando gli giunse la notizia del
cardinalato, e tutti ad applaudire; solo Alvise Mocenigo, costante
avversario di lui e degli ecclesiastici, brontolò: «Codesti preti ci
hanno rubato il miglior gentiluomo che la città avesse»[413]. Solo alle
calde preghiere e all'idea del dovere egli rassegnossi ad accettare quel
gravoso onore, e «non accortigianato nelle cose di Roma», insisteva
sulle riforme: e scrisse, fra le altre, due lettere a Paolo III, intorno
alle composizioni e alla potestà pontificia. «Il dispensiero (diceva),
non può vendere ciò che non è suo ma di Dio, foss'anche il lucro
destinato a far guerra al Turco o a riscattare schiavi, o qual altro
siasi scopo; tutti convenendo nella sentenza di san Paolo che non può
farsi il male per conseguire il bene, nè acconciare la verità di Dio
agli esempj e alle costumanze nostre. Coloro che ampliarono in ciò
l'autorità del pontefice sino ad affermare non abbia altra regola che la
particolare sua volontà, porsero occasione agli avversarj di negarla del
tutto. Qual cosa potrebbe immaginarsi tanto repugnante alla legge di
Cristo che è legge di libertà, quanto il sottomettere i Cristiani a un
capo, al quale sia attribuito l'ordinare leggi, il derogarle, il
dispensarne a capriccio, anzichè a regola di dovere? Ogni potestà è
potenza di ragione, ed ha per iscopo di condurre con retti mezzi alla
felicità. Così anche l'autorità pontificia, conferita da Dio al
beatissimo Pietro ed a' suoi successori sopra uomini liberi, vuol essere
usata secondo la regola della ragione, dei precetti divini e della
carità. Santo Padre, voi che soprastate agli altri in dottrina, senno
naturale e sperienza delle cose, esaminate se dalla contraria dottrina
non abbiano pigliato baldanza i Luterani a comporre i loro libri della
cattività di Babilonia. E davvero, qual cattività peggiore di questa,
professata da alcuni esuberanti sostenitori della podestà pontificia?
Abbia la S. V. a cuore quella suprema potenza e libertà del volere, che
viene dall'ossequio alla grazia divina e alla ragione; non pieghi
all'impotenza della volontà, che sceglie il peggio, e alla servitù che
mena al peccato; perocchè solo allorquando quella vera facoltà del
volere sarà congiunta alla podestà pontificia conferitavi da Cristo,
sarete potentissimo, affatto libero, e vera vita della repubblica
cristiana»[414].
E trattando della giustificazione nelle epistole stesse, dichiara aperto
che «l'uomo propende al male, in grazia dell'impotenza della volontà;
dalla qual malattia, che è servitù dell'animo, non può liberarsi per le
virtù morali acquistate coll'abito delle opere buone, ma solo per la
grazia di Dio e la fede nel sangue di Gesù Cristo». Tale dottrina
enucleò nel _Tractatus seu epistola de justificatione_, lodato
immensamente dal cardinale Polo, dal cardinale Sadoleto e da altri, che
ammiravano come quell'arduo punto egli avesse sì ben chiarito, e con
verità inaspettate, che pur erano nella sacra scrittura[415]. Onde può
dirsi che il Contarini esibisse il vero programma di ciò che poi compì
il Concilio di Trento, sia quanto alla riforma, sia quanto alla
definizione dogmatica di quel punto scabrosissimo.
Insisteva egli presso papa Paolo acciocchè attuasse le riforme; e da
Ostia l'11 novembre 1538 scriveva al cardinale Polo: «Il papa mi menò
seco in carrozza a Ostia. Tra via, il nostro buon vecchio si intertenne
meco sopra la riforma delle composizioni. Diceva d'aver sopra di sè il
trattatello da me scritto in proposito, e d'averlo letto la mattina. Io
avea perduto ogni speranza: ma ora mi ragionò in modo sì cristiano, che
concepii di nuovo la speranza che Dio gli farà compiere qualcosa di
grande, e non permetterà che le porte dell'inferno prevalgano nel suo
spirito».
Ma il papa era intricato in idee politiche; quando il Contarini gli
faceva objezioni sul nominare cardinali che a lui non pareano dover
riuscire di onore alla Chiesa, gli diede sulla voce: «Già siamo stati
cardinali anche noi, e sappiamo come ripugnino che altri abbian lo
stesso onore». Al che il Contarini non potè trattenersi dal replicare:
«Io non reputo che il maggior mio onore sia il cappello».
Spedito alla dieta di Ratisbona del 1541 per tentare la conciliazione
fra Luterani e Cattolici, e almeno indur quelli a riconoscere i principj
fondamentali, cioè il primato della santa sede, i sacramenti, e altri
punti appoggiati alla Scrittura e all'uso costante, domandò al papa che,
se mai da articoli indifferenti alla fede dipendesse la riconciliazione,
- Parts
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