Gli eretici d'Italia, vol. I - 15

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Celestino traevano profitto, e non solo dichiararono illegittima
l'abdicazione sua e quindi l'elezione di Bonifazio, ma procurarono indur
Celestino a tornare sul soglio, e alzare tiara contro tiara. Fu dunque
forza circondarlo di cautele e rigori; ed allora eccolo dichiarato
martire, e persecutore questo Bonifazio VIII, già tiranno de' poveri
Fraticelli.
Bonifazio, de' Cajetani d'Anagno, da' suoi studj e dalla sua devozione
avea dedotto un elevato concetto dell'autorità pontifizia e della
santità del ministero. A tacere tante istituzioni che non si rannodano
al nostro tema, ordinò si celebrasse con rito più solenne la festa de'
quattro massimi dottori della Chiesa, Gregorio, Ambrogio, Agostino,
Gerolamo, «perocchè i lucidissimi salutari insegnamenti loro
illustrarono la Chiesa, la decorarono di virtù, l'educarono ne' costumi;
quai splendidi lumi sui candelabri nella Casa di Dio, dissiparono le
tenebre degli errori; la loro faconda favella, ispirata dalla grazia
celeste, schiude gli enimmi della Scrittura, scioglie i nodi, illumina
le oscurità, chiarisce i dubbj; e dai profondi e belli loro sermoni il
vasto edifizio della Chiesa sfavilla di gemme primaverili, e
dell'eleganza delle parole più gloriosa risplende»[147].
Vedendo ormai i re sottrarsi alla supremazia papale, e costituire i
regni indipendenti, e di rimpatto i popoli cercare contro la tirannide
altre garanzie che la tutela pontifizia, Bonifazio procurò da una parte
consolidare il diritto ecclesiastico, pubblicando un sesto libro di
Decretali (1298), e dall'altra rinfervorare la fede e la devozione
mediante l'istituzione del giubileo, che dovesse ogni cento anni
rinnovare l'affratellamento della cristianità alle soglie de' santi
apostoli. I cronisti non rifinano di stupire dell'immensa folla,
accorrente a Roma per quell'indulgenza, tanto che nuove porte dovettero
aprirsi nelle mura: parve miracolo che, fra genti così diverse, nessun
disordine nascesse, e che si potesse provederle di vitto e di ricoveri.
Se i calcolatori meravigliarono al vedere, nella basilica di san Paolo,
cherici che notte e giorno co' rastelli raccoglievano i gittati denari,
bisogna non tacere che ducentomila pellegrini ciascun giorno aveano cibo
dalla providenza del pontefice, il quale pure sfoggiava tutta la pompa
delle cattoliche feste, e invitava Giotto, Oderisi di Gubio ed altri
nuovi pittori ad abbellire la sua basilica di pitture, mentre vi
s'ispiravano Dante e Giovan Villani.
Quanto più la supremazia papale era impugnata, Bonifazio più fortemente
la asseriva, come si può vedere sia in quel VI delle Decretali, sia
nella Bolla con cui riconobbe imperatore di Germania Alberto d'Austria,
sia nell'altra tanto rinfacciatagli _Clericis laicos_ (1296), dove,
lagnandosi che i principi invadessero i beni ecclesiastici, scomunicò
qualunque ecclesiastico pagasse, qualunque laico ne esigesse tributi,
prestito, donativo senza licenza della Santa Sede: dottrina affatto
conforme al diritto canonico, allora generalmente accettato, e più
specialmente al canone 44 del concilio IV Lateranense[148].
Ora Filippo il Bello, volendo dal lato suo attestare la indipendenza
regia, tassava gli ecclesiastici, gl'imprigionava, e dal suo clero fece
dichiarare quelle che poi intitolaronsi libertà gallicane, cioè
l'obbligo di quella chiesa di obbedire interamente al re, senza che il
papa potesse mettervi impedimenti[149].
Bonifazio VIII si oppose, e come protesta pubblicò l'altra famosa Bolla
_Unam sanctam_ (1302), ove pronunzia che la Chiesa, una, santa,
cattolica, apostolica, ha per capo Cristo e il suo vicario in terra; la
potenza spirituale, benchè conferita ad un uomo, pure è divina, e chi ad
essa resiste, resiste a Dio; la potenza temporale è inferiore
all'ecclesiastica, e dee lasciarsi da questa guidare come dall'anima il
corpo, e quando i re trascorrono gravemente, li può ammonire e ravviare;
ogni creatura umana rimane sottoposta al pontefice, nè ottiene salute
chi creda altrimenti. E decretava che imperatori e re dovessero
comparire all'udienza apostolica ogni qualvolta fossero citati, «tale
essendo la volontà di Noi che, Dio permettente, imperiamo a tutto
l'universo».
Era il grido di sbigottimento di un'autorità che civilmente vacillava. E
ne nacque lungo conflitto di cavilli, di villanie, infine di violenze.
Quel re appoggiossi ai baroni romani, a malcontenti, a fuorusciti, e
dicea loro: «Fate me senatore di Roma: io lascerò libera la Chiesa:
terrò il patrimonio di San Pietro, incaricandomi d'esigerne le imposte e
pagarne i pesi, e darò al papa un lauto assegno, qual basti al
rappresentante di Cristo». Indi procedendo mandò un suo cavaliere, il
quale a Bonifazio, ch'e' chiamava Malifazio, intimò un libello,
dichiarandolo falso, intruso, ladrone, nemico di Dio e degli uomini; e,
secondo lo spirito de' tempi, gli rinfacciava un cumulo di eresie,
ricalcate sul materialismo incredulo di Federico II. Quando e' l'ebbe
esposto al disprezzo, Sciarra Colonna concitò la turba a gridargli
morte; lo ingiuriò nella persona, lo schiaffeggiò; — il re di Francia
facea schiaffeggiare lui papa di ottantasei anni, e la plebe sedotta e
gli avvocati seduttori applaudivangli del tenerlo prigione: finchè il
popolo ravveduto lo liberò; e presto pianse sul venerato sepolcro di
esso (1303).
Nè però l'ira de' nemici si spense, e vituperò la memoria di lui, col
quale in fatto cessò il montare della potenza pontifizia; lo schiaffo
datogli segnò il discendere del papato civile; e perchè questo in lui
apparve personeggiato, Bonifazio trovasi più percosso, come avviene
all'ultimo ritegno d'ogni rivoluzione.
Il re di Francia comprese quanto vantaggerebbe di denaro e d'influenza
se rimovesse la santa sede da Roma per trasferirla nel suo paese, come
ai dì nostri divisava Napoleone. Nè ebbe troppa difficoltà a indurre il
nuovo pontefice Clemente V a collocarsi in Francia (1309), e da quel
punto cominciano quelli che gli Italiani qualificarono settantadue anni
di cattività di Babilonia.
Re Filippo era lieto, ma non pago della sua vendetta; insultato in vita
e spinto alla morte Bonifazio, anche dopo la tomba lo voleva disonorare,
piuttosto disonorare la potestà pontifizia, che in lui avea voluta
prostrare. A Clemente, sbigottito dai martirj del predecessore, mise
attorno tale assedio, che l'indusse ad abolir l'Ordine dei Templari, e
lasciargliene carpire le facoltà. Poi volle processasse Bonifazio di
eresia: e fu veramente dato questo scandalo da un papa che non risedeva
più in terra propria; e Clemente 13 settembre 1309 da Avignone
notificava ai presenti e ai futuri, qualmente re Filippo, per zelo di
fede e di pietà e per giovare alla Chiesa, avesselo pregato d'ascoltare
alcuni signori, che asserivano Bonifazio esser morto eretico, e
doversene condannare la memoria: per quanto gli pesasse il credere ciò,
pure, essendo l'eresia il peggiore dei delitti, viepiù detestabile per
la persona che n'era accagionata, nè dovendosi lasciarlo senza esame,
assegnava il tempo a quei testimonj di comparire e deporre.
Se si fosse dichiarato eretico un papa, cioè interrotta la successione
apostolica, Filippo avrebbe assicurato il trionfo della forza sul
pensiero, dei governi sulla Chiesa, talchè ormai i re avrebbero potuto
quel che voleano. Adunque la cristianità indipendente reclamò contro la
scandalosa procedura: eppure in pieno concistoro disputarono accusatori
e difensori, imputando Bonifazio d'essersi mostrato avverso a re Filippo
in tutte le sue costituzioni, e inoltre ateo, e contaminato di tutte le
conseguenze di tale dottrina; in occasione del giubileo avere detto agli
ambasciadori di Lucca, di Firenze, di Bologna non doversi credere
l'immortalità dell'anima, nè la futura distruzione del mondo, nè la
divinità di Cristo. L'enormità stessa delle accuse le palesa false: e
l'avere trovato chi le sosteneva attesta con quali arti le appoggiasse
re Filippo. Il quale, se lasciò per allora mandare l'accusa agli
archivj, ottenne una Bolla ove egli era dichiarato egregio difensore
della Chiesa in quanto aveva operato contro Bonifazio; resigli tutti i
privilegi tolti; ordinato che dai registri papali si cancellassero le
lettere pontificie avverse a lui; a Bonifazio non restò neppure la
pietà, che suole accompagnare le vittime della tirannide.
L'accenno che abbiamo fatto de' Templari, ci mena ad altra qualità di
eretici. Era quello un Ordine cavalleresco e religioso, istituito per
proteggere i pellegrini che visitavano il tempio di Gerusalemme. Vi
entravano i cadetti di grandi famiglie; ed arricchitisi d'eredità e di
commende, si diffusero per tutta Europa. Perduta Terrasanta, mancò il
principale esercizio di loro attività, e abbandonaronsi alle tentazioni
della giovinezza ricca ed oziante. Allora fu detto si costituissero in
società di eresia e di peccato; e poichè secretissime tenevansi le loro
iniziazioni, il vulgo vi suppose qualcosa di straordinariamente
scellerato. Fomentò l'opinione Filippo il Bello, e fingendosi zelatore
del buon costume per mettere gli artigli sulle immense loro ricchezze,
domandò al papa abolisse quell'Ordine. Arrestati a un tratto tutti i
cavalieri, processati colla durezza allora consueta, furono la più parte
messi a morte.
Le variissime accuse a loro apposte si possono ridurre a queste: che
rinnegassero la fede, bestemmiassero Cristo, Maria e i Santi;
calpestassero e deturpassero le croci; nel consacrare tacessero la
formola sacramentale; il maestro assolvesse i peccati, sebbene laico;
adorassero la testa di Bafomet, idolo sopra il quale assai si
fantasticò; e portassero cingoli benedetti dal contatto di esso:
usassero fra loro baci indecenti; peccassero contro natura; tutto
facessero con gran segretezza. Quest'ultimo fatto almeno era vero. È
abbastanza noto quel processo, condotto colla passione e in gran parte
coi modi, che nel secolo scorso fecero abolire un altr'Ordine ancor più
famoso e riviviscente; e duole che Clemente V e il XV concilio
ecumenico, tenuto a Vienna delle Gallie il 1311, vi assentissero.
In Italia si operò con maggiore umanità. Molti tribunali, come a Bologna
e Ravenna[150], li dichiararono incolpevoli. In Toscana aveano numerose
case, ed è vero che il papa nel 1307 scriveva agli arcivescovi di Pisa,
Ravenna ed altri che assumessero informazioni sui Templari, ma non che
s'adunasse per ciò un concilio a Pisa, come asserì il Tronci, dal 20
settembre al 23 ottobre 1308. Il processo contro i Templari di Lombardia
e Toscana fu fatto in Firenze e in Lucca da frà Giovanni arcivescovo di
Pisa, Antonio vescovo di Firenze, Pietro de' Giudici di Roma canonico di
Verona, i quali nel 1312 ne diedero al papa un ragguaglio, che
conservasi nella Vaticana, legalizzato da nodaro e testimonj[151]. Il
papa avea trasmesso cenventiquattro e più articoli, sui quali
esaminarli: e gl'inquisiti erano cinque a Firenze, uno a Lucca. Furono
esaminati senza le torture consuete in Francia, non perchè i tribunali
ecclesiastici non le usassero, che anzi in quel processo parlasi delle
deposizioni di sette altri fratelli di minor conto, le quali non pareano
attendibili, _licet, debito modo servato, eosdem exposuerimus
coactionibus et tormentis_. Inoltre gli accusati non doveano temere,
confessando, di andare al rogo siccome in Francia, atteso che qui li
giudicava un tribunale ecclesiastico, le cui pene erano il pentimento e
la ritrattazione. Ciò cresce credito alla loro deposizione, che giurano
aver fatta _non odio vel amore, parte, pretio vel timore, sed pro
veritate tantum_.
Delle accuse alcune ammettonsi generalmente; altre solo da alcuni, o per
casi e persone speciali, o soltanto come d'udita, o come d'uso di là dal
mare; sopratutto convengono quanto alla gelosissima secretezza dei
capitoli e alla bestemmia miscredente.
Se dunque gli scellerati processi fatti loro in Francia invitano a
crederli innocenti e vittime dell'avidità di Filippo il Bello, la calma
con cui procedette la Chiesa, i processi istituiti regolarmente in
Italia come in altri paesi, nel volger di molti anni, senza violenze,
lasciano supporre che molti de' Templari fossero rei, e che col re di
Francia mal si metta a fascio Clemente V, il quale, col sopprimere
l'ordine _non de jure sed per viam provisionis_, salvò individui
innocenti, e ne sottrasse i beni dalla principesca avidità, applicandoli
alla difesa di Terrasanta.
A ogni modo quest'era un sagrifizio ch'egli faceva alla paura di vedere
la memoria di Bonifazio VIII chiamata a un processo capzioso di che
Filippo era maestro: processo al quale predisponeva l'opinione Dante,
esecrando quel pontefice ben nove volte nella _Divina Commedia_.
Questo nome del grande che ritrae l'austera fisionomia del medioevo, e
irradia i crepuscoli della rinascenza, ci porta a indicare coloro che il
poeta teologo, che il verseggiatore della scolastica vollero noverare
fra gli eretici, fosse per denigrarlo, fosse per trovare precursori ai
Protestanti del secolo XVI. Ed è vero che Dante rimprovera acremente i
pontefici; più d'uno ne relega nel suo Inferno, e nominatamente
Bonifazio VIII, non ancora morto. Quella collera che spesso invade i
grand'uomini allorchè si trovano sconosciuti o perseguitati, ispirò
l'esule ghibellino. E come tale, persuaso che la pace fra i piccoli
potentati non possa assodarsi se non quando tutti obbediscano a un
signore supremo, s'inviperiva contro coloro che reluttavano alla
dominazione dell'imperatore, come Pisa, Pistoja, Genova, la Lombardia;
Bruto e Cassio tormenta nel peggiore fondo dell'inferno con Giuda; in
paradiso vede preparato un trono per l'imperatore Enrico VII; la serva
Italia è ostello di dolore perchè non lascia che Alberto Tedesco
inforchi gli arcioni di essa; e a questo impreca perchè non viene a
vedere la _sua_ Roma che piange.
Col sentimento stesso avventasi contro i papi, benchè allora fossero
sconfitti e raminghi: e Bonifazio VIII che, favorendo Carlo di Valois
(1301), avea cagionato la cacciata dei Bianchi da Firenze, è preso ogni
tratto a bersaglio dall'iracondo fuoruscito.
In libri lodatissimi venne difesa la memoria di questo pontefice contro
le declamazioni del poeta[152]. Il vero è che Dante non combatteva tanto
la Corte romana quanto la democrazia; svelenivasi contro i nuovi tiranni
che aveano abbattuto i vecchi baroni, contro la gente nuova e di
guadagno ch'era prevalsa alla semenza santa delle stirpi conquistatrici;
combatteva insomma pel passato che crollava, sempre nell'intento di
surrogare alla delirante plebe il dominio de' migliori, de' sapienti.
E le sue invettive contro i pontefici, quando non siano da spirito di
partito e di vendetta, sono dettate dal desiderio di vedere la santa
sede così pura e splendida come meritava il posto di Cristo e di san
Pietro; doleasi che tuttodì si mercasse Cristo; che lupi rapaci, in
veste di pastori, si facessero Dio dell'oro e dell'argento; che
coll'abuso delle scomuniche si togliesse or quinci or quindi il pane che
il pio padre non serra a nessuno: che Caorsini e Guaschi s'inebriassero
del sangue di Cristo; benediva san Francesco d'avere ajutato a rimettere
la barca di Pietro sulla retta via[153]; sempre professa «riverenza alle
somme chiavi»: sa che al cielo non si va se non accogliendosi «dove
l'acqua di Tevere s'insala»: crede che Troja ed Enea e Roma fossero
preparazioni del «luogo santo ove siede il successore del maggior
Piero»[154]: e all'insulto che il re di Francia reca a Bonifazio VIII
freme perchè sia «Cristo catturato nel vicario suo, e rinnovellati
l'aceto e il fiele»[155]. Morto Clemente V, dirige una lettera ai
cardinali adunati in Carpentrasso, acciocchè eleggano un papa italiano
che ritorni a quella Roma, di cui perfino i sassi pareangli
venerabili[156].
Ed è comune agli Italiani d'allora questo sentimento d'indignazione
contro i papi che, trasferendosi in Francia, aveano legato la Chiesa
allo sgabello d'un re: note sono le invettive del Petrarca e i gemebondi
viaggi di Caterina da Siena: pare v'alludesse anche il Boccaccio[157]:
Cola di Rienzo non voleva abbattere il papato, anzi restaurarlo, e dal
carcere di Boemia scriveva ad Ernesto di Parbubitz arcivescovo di Praga,
com'egli non si tenesse che investito del potere legittimo dal pastore
supremo; avere assunta la podestà tribunicia per odio alla senatoria
oppressiva del popolo, e per cercare d'abbattere i baroni romani, e
ridur la città santa, ch'è capo del mondo e fondamento della fede
cristiana, in pacifica e sicura stanza dei papi. E Dante volea riforme,
ma capiva sarebbero sterili senza l'unità, sia teocratica, sia
imperiale; e l'uomo e il cittadino sottoponeva a un capo. Riprovava
insomma i pontefici perchè erano o li supponeva traviati; mancando, se
vogliasi, di rispetto, non di fede.
L'opinione di Dante poeta si accorda col suo concetto della monarchia,
da noi altrove indicato, e ch'egli espose in un'opera apposita[158].
Impero e Chiesa pretendevano essere istituzioni divine e necessarie: le
loro supreme funzioni sono accessibili a chiunque, purchè cristiano, nè
il papato, nè l'impero essendo ereditarj; e tutt'e due debbono le loro
cure all'intero mondo.
L'ordine religioso dunque e il politico costituivano due società,
entrambe universali, distinte ma non separate; e Dante, che, nel vedere
quegli incessanti cozzi dei piccoli Stati, era venuto nella persuasione
non potessero aver pace se non ridotti all'unità, cerca accordare i due
ordini per compiere l'opera sociale del cristianesimo: voleva ci fosse
un padrone supremo delle società umane, ma per dirigerle al progresso,
per tirare le conseguenze pratiche dai principj cristiani. L'imperatore,
nel concetto di Dante, doveva avere predominio sopra tutti i re, dunque
anche sopra il re di Roma: mentre allora Bonifazio VIII, e più Giovanni
XXII pretendeano a se medesimi l'autorità imperatoria, massime allorchè
fosse disputata.
Oh come dunque immiseriscono la quistione que' controversisti d'oggi,
che suppongono Dante contendesse al pontefice quel piccolo territorio
ch'è patrimonio suo temporale! Esclama egli contro Costantino, non
perchè lasciasse le Romagne al papa, ma perchè gli trasmettesse la
dignità imperiale, secondo asserivano le favole giuridiche del suo tempo
e le pretensioni guelfe; e più chiaramente nel libro III, capo 10 della
_Monarchia_ riprende esso Costantino d'aver lasciata ai papi la podestà
imperiale, questa non potendosi dividere: col che confuta i Guelfi, i
quali ne arguivano che le dignità non potessero riceversi se non dal
papa. Del resto egli esalta Carlomagno che, quando il dente longobardo
attentò alla Chiesa, la raccolse sotto le sue ale vincendo: e ognun sa
che Carlomagno fu l'assertore della sovranità temporale dei papi: esalta
la contessa Matilde, la più larga donatrice di beni ai papi. Non volea
dunque privarneli esso, bensì che gli adoprassero per Terrasanta e per
l'Italia, anzichè sciuparli con Caorsini e Guaschi, e intanto lasciare
deserto dai papi il giardino dell'impero. Pure per quel suo libro della
_Monarchia_, dove sostiene che l'imperatore non dipende dal papa se non
nelle cose spettanti al Foro interiore, Dante venne tacciato d'eretico,
non solo da qualche inquisitore, ma dal famoso giurista Bartolo[159]; da
cui lo difese sant'Antonino. Altri dappoi vollero farlo credere non solo
seguace, ma corifeo di opinioni ereticali. Duplessis Mornai, detto il
papa de' Calvinisti, ne addusse molte opinioni[160] non conformi al
cattolicismo, ma Coeffetau rispondendogli rifletteva che Dante riprovò
alcuni papi, non la dignità stessa. Il cardinal Bellarmino confutava un
libello, che nel secolo XVI erasi pubblicato da un Protestante col
titolo d'_Avviso piacevole dato alla bella Italia da un nobile giovane
francese_, ove Dante era dipinto come avverso alle istituzioni
cattoliche, o almeno all'autorità dei papi. Il famoso paradossista padre
Hardouin nel 1727 asserì che l'autore della _Divina Commedia_ fosse un
impostore, mascherato seguace di dogmi eterodossi. Il secolo nostro,
destinato a resuscitare tutte le stravaganze dei passati, ripetè quella
bizzarria, prima per bocca d'un erudito, poi di Ugo Foscolo[161] e di
Gabriele Rossetti[162], i quali, rifuggiti in Inghilterra, vollero
ingrazianirsi quegli ospiti, sostenendo che Dante volesse «riordinare
per mezzo di celesti rivelazioni la religione di Cristo e l'Italia», e
così additando un ascendente illustre alla gran negazione. Dietro loro
con multiforme erudizione e logica serrata Eugenio Aroux assunse che
tutte le opere di Dante sono un'esposizione ereticale, ed aspirazioni
rivoluzionarie e socialiste[163].
Il costoro concetto sarebbe che le scuole patarine non fossero mai
spente in Italia, ma vivessero in congreghe secrete, in una specie di
framassoneria, dove tramandavansi arcanamente certe dottrine, tendenti
alla libertà del pensiero e degli atti, a scassinare l'autorità della
Chiesa e de' governi. Il Rossetti gli aveva intitolati _Misteri
dell'amor platonico_.
La Chiesa cristiana era (a dir loro) divisa in due, allora appunto che
più integra ne pareva l'unità: il genio protestante passò di generazione
in generazione fino a coloro che altamente lo proclamarono nel secolo
XVI, quando non fu novità, ma manifestazione delle persuasioni de'
secoli precedenti. Anzi il _Veltro_ di Dante era una profezia, dove fin
le lettere stravolte esprimono il nome di Lutero. Doversi pertanto in
questo senso intendere tutta la poesia nostra, elevata così a
significazione sociale. E poichè non v'ha bizzarria che coll'ingegno non
possa sostenersi, il Rossetti fe un curioso pellegrinaggio traverso alla
letteratura patria con questo intendimento, in cinque volumi d'improba
fatica pretendendo mostrare che i poeti nostri non si perdevano dietro
la vanità di amori, siccome pare dalle loro rime, ma sotto
quell'apparenza celavano la ricerca di verità superne, e la donna che
fingeano vagheggiare non era Beatrice o Laura, ma la libera Chiesa: e
tutto ravvicinò ai riti massonici, che ormai non sono più un mistero
neppure ai profani.
Senza scendere a particolarità, la minima nozione d'estetica fa
repudiare un sistema, ove la poesia non sarebbe più ispirazione, ma
allusione; ove si celebrerebbero persone e vezzi mancanti d'ogni verità.
E ciò a qual fine? La moltitudine, cioè quella per cui si poeteggia, non
poteva intenderne nulla; gli iniziati soli gustavano queste allegorie;
ma a che pro, se già aveano ricevuta la rivelazione dell'arcano? E se
così profondamente coprivano il loro odio contro Roma, perchè poi volta
a volta lo rivelavano con aperte invettive? Sta bene che Dante chiami i
sani intelletti a mirar la dottrina che asconde sotto il velame de' suoi
versi; ma perchè dare fumo di queste allusioni se doveano restare
arcane? E se non osava proclamare il vero, come vantavasi poi d'avere
voce che «percoteva le più alte cime», e d'essere «non timido amico del
vero», e di sperare per ciò di conservare fama presso coloro che il
tempo suo chiamerebbero antico? Non meriterebbe invece di stare o coi
pigri «a Dio spiacenti ed ai nemici sui»[164] o cogli ipocriti che
stanno «nella Chiesa coi santi, ed in taverna coi ghiottoni?»[165].
Il signor Aroux ampliò il tema, supponendo di quell'eresia intaccata
tutta la cavalleria d'allora, e specialmente coloro che sopravvissero
dei Templari, i quali, attraverso ai secoli, giunsero ad istituire ai dì
nostri una nuova categoria di franchimuratori. Dalle fonti più varie
l'Aroux trae argomenti per sostenere che Dante volesse mostrare la
supremazia papale essere il regno visibile di Satana, in quella che è
_commedia del cattolicismo_. Per esempio, quando Dante dice che si dee,
per salvarsi, seguire il _pastore della Chiesa_, intendeva il capo di
quell'arcana religione, di cui era non solo adepto, ma apostolo[166].
Era cioè dell'Ordine dei Templari, e volea vendicare sui papi la
crociata contro gli Albigesi e la distruzione del Tempio. Ove si noti
che i Templari aveano ricevuto la regola loro da san Bernardo[167], e
Dante li nomina o accenna allora soltanto quando bestemmia Filippo il
Bello d'avere cacciato le mani avide nel Tempio senza decreto[168].
La parola _amore_ è la chiave di tutti que' misteri: Francesca non è più
l'amante di Paolo, bensì la chiesa protestante di Rimini, uno de'
focolaj dell'eresia. Il poeta, vinto da pietà per le dame antiche e i
cavalieri, i quali eransi dipartiti dalla vita ghibellina per inclinare
al cattolicismo, vede Paolo e Francesca, fedeli d'amore, leggeri al
vento per la facilità nel cambiare al vento guelfo, che li spinse a
seguire la Semiramide pontificia: il _re dell'universo_ è Alberto
tedesco, che, _se fosse amico_, darebbe _pace_ a Dante; il qual Dante si
fa _tristo e pio_, cioè ipocrita di papismo, per non esporsi ai
_martirj_ de' due amanti; il _disiato riso_ di Francesca — intelligenza,
baciata da Paolo — volontà, non significa che l'avidità con cui
l'iniziato raccoglie la dottrina dalla bocca della filosofia
razionale.....
Il sistema del signore Aroux non trovò assenso negli studiosi; in Italia
poi egli si lagna che nessuno vi avesse fatto mente, eccettuato me, che
gli diressi a stampa una lettera, dov'egli riconosce non solo
un'amichevole cortesia nella contraddizione, ma qualche argomento cui
non valeva a ribattere. E a chiunque abbia senso del bello domandiamo se
sia possibile mai formare un poema, e così sublime, ove dovesse sempre
intendersi diverso da quel che si legge. Dante scrive _donare_, e deve
leggersi _dona re_; le verità più austere sulla Trinità, le confessioni
più esplicite dell'autorità del papa, _vere clariger regni cœlorum_, che
_secundum revelata, humanum genus perducit ad vitam æternam_; le lodi a
san Bernardo, a san Domenico, sono finzioni e ironie: i commenti fatti
nel _Convivio_ alle canzoni vanno applicati alla _Divina Commedia_; la
distinzione de' linguaggi nel _Vulgare Eloquio_ esprime distinzione di
partiti e credenze, e con queste chiavi Dante commentò se stesso in
modo, che i Guelfi intendessero una cosa, i Ghibellini l'opposta. E
tutto ciò nel poeta che vantavasi.
Io mi son un che, quando
Amore spira, noto, ed in quel modo
Ch'ei detta dentro, vo significando.
Certamente l'Alighieri serba quella scienza moderata che non presume
spiegare tutto; non dubita della teologia, come neppure della filosofia;
crede alla forza del sillogismo, agli artifizj della scolastica per
raggiungere la verità; ammira la sapienza di Dio e la provvidenza,
anzichè abbandonarsi alla scienza stanca e disillusa che, non credendo
più nulla, a nulla conduce. Rimproverato ai Cristiani di non acquetarsi
alle ragioni, giacchè, se avessero potuto sapere tutto, non era mestieri
della rivelazione[169], fa la più esplicita professione di fede davanti
a san Pietro prima d'entrare nell'empireo[170], e sa che per giungere
alla salute ci vuol di credere al vecchio e al nuovo Testamento, e
all'interpretazione che ne dà la Chiesa[171].
V'è di più: egli riprova esplicitamente l'eresia: a «quei che presumono
contro la nostra fede parlare», grida: «Maledetti siate voi, e la vostra
presunzione e chi a voi crede»[172]: inneggia san Domenico «che negli
sterpi eretici percosse»: nell'inferno vede le arche infocate piene di
eretici. Forse erano gente che, in opposto della vita penitente e
ascetica d'allora, cercavano i godimenti e l'oblio: ed erano intitolati
Epicurei. La loro sètta era molto diffusa in Firenze nel 1115 e 1117,
sotto i quali anni Ricordano Malaspini e Giovan Villani attribuiscono i
ricorrenti incendj a giudizio di Dio contro la serpeggiante eresia: e il
Villani dice altrove che i Patarini erano «epicurei per vizio di
lussuria e di gola, che con armata mano difendevano l'eresia contro i
buoni e cattolici cristiani».
Dante colloca Federico II nell'inferno tra gli eretici con _più di
mille_, e tra essi Farinata sommo cittadino e Cavalcante Cavalcanti gran
dotto, e padre del suo amicissimo[173]. Del primo, il commentatore
Benvenuto da Imola riferisce che credeva il paradiso non doversi cercare
se non in questo mondo; l'altro asseriva che uomini e bestie finiscono
al modo eguale (_unus est interitus hominis et jumentorum_), e anche il
Boccaccio ce lo dipinge che «alcuna volta speculando molto astratto
dagli uomini diveniva; e si diceva tra la gente vulgare, che queste sue
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