Gli eretici d'Italia, vol. I - 24

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montagne coronate di ghiacci, quasi bastite erette da Dio a difesa di
paese prediletto, e i colli degradanti in limpidi laghi o in pianure
sconfinate l'incantavano; sicchè fermandosi dalla pedestre
peregrinazione, sedeva sotto qualche albero guardando, e cercava nella
memoria alcun versetto di salmo che esprimesse gli affetti onde
sentivasi inondato. Nei dubbj del pensiero, nelle fiacchezze della
volontà pregava, pregava. Fatto nel 1488 priore del convento di san
Marco in Firenze, poc'anzi riformato dal santo arcivescovo Antonino, si
mostrò severo coi traviati quanto mite coi ravveduti; e parendogli che
da Dio gli fosse ispirato il modo con cui dovesse favellare, tonava
contro l'universale pervertimento. Predicava egli sotto un gran rosajo
damasceno, e malgrado la debile voce e l'accento lombardo, l'uditorio
gli crebbe tanto, che dovette trasferirsi in Duomo.
Oratori avidi d'applausi, con iscolastiche argomentazioni, scienza
profana, frasi armoniose, blandivano a que' popoli, fortunati di soavi
aure, piene di vita, d'una civiltà sviluppata ne' materiali godimenti,
sotto principi senza pari nel fasto e nel buon gusto, onorati e cerchi
da re lontani, cantati dai poeti, inneggiati dal popolo.
Chi oserebbe rompere quel concerto di encomj e di gioja? Il Savonarola,
che non conosce civiltà senza della virtù, e che, unendo la persuasa e
fino entusiastica devozione di frate alla franchezza di tribuno,
comincia a gridare, Sventura, sventura: e a declamare contro i viluppi
d'una politica subdola, le profanità degli artisti, l'abominazione
introdottasi nel santuario. Ed esclamava: «Tristo chi si vende al mondo!
guai ai padri che allevano alla peggio i loro figliuoli! guai ai
governanti che opprimono i popoli e ne fomentano le dissensioni, e
gl'istinti malevoli e l'odio alla verità! guai ai cittadini e mercanti
che non considerano se non il guadagno, come le donne agognano alle
futilità, i villani al furto, i soldati alle bestemmie! guai ai prelati
che, invece di menare il loro gregge a pastura intemerata e fresca,
l'avviano seco alle fonti avvelenate! guai ai preti che scialacquano i
beni della Chiesa, destinati ai poveri! guai ai sapienti che ignorano le
verità della fede o si stomacano della semplicità del catechismo! guai
agli artisti che, per amore dell'arte, perdono la fede, sagrificano il
costume! guai ai maestri che spiegando autori pericolosi, avvezzano alla
lubricità, prima che nelle Università si divaghino in una logica
petulante, nella arroganza dell'argomentazione, surrogata al buon senso
e al vangelo!»
Non sapeva egli perdonarla a que' predicatori, che fanno gemere e
piangere e stupire, ma non correggono nè emendano, ed eccitano emozione
femminea, anzichè salutare fervore; invece del vangelo annunziano baje,
spacciano pruriginose novità, volendo emulare la poesia di Virgilio o la
scienza di Platone, la soavità d'Isocrate o l'impeto di Demostene;
avviluppano Cristo nelle passioni umane; tolgono le distinzioni fra il
cristianesimo e il paganesimo: delle futilità de' filosofi e della sacra
scrittura fanno un miscuglio, e questo vendono su pei pergami, mentre le
cose di Dio e della fede lasciano da banda.
«Questa pecora smarrita (diceva) Cristo l'ha perduta: il buon prete la
ritruova, e deve renderla a Cristo; ma il malvagio la blandisce e la
scusa, e le dice: So che non si può sempre vivere castamente e astenersi
dal peccato; e così l'allontana più sempre da Cristo, e le fa perdere la
testa e la tiene per sè. Io non nomino alcuno, ma la verità bisogna
dirla. Se sapeste quel ch'io so! cose schifose, cose orribili; e ne
fremereste, ed io non so frenare le lacrime pensando che i cattivi
pastori si fanno mezzani per condurre l'agnella in bocca del lupo. Non
serve che preti e frati vadano ogni giorno a piazzeggiare, e fare visita
alle comari, ma che studiino la Bibbia. Dopo notti passate nel vizio,
che vuoi tu fare della messa?»
«Le scienze (diceva ancora) bisogna adoprarle per dimostrare la fede, ma
prendere la fede in semplicità, non dissiparsi in dissertazioni e
ciancie, ma studiare la Bibbia e i Padri». Ed egli infatto alla Bibbia
si appoggia continuamente; in nome e colle espressioni di quella,
minaccia o loda, esalta fulmina; e crede che, nel senso mistico, si
applichi non solo ai fatti generali della storia, ma anche ai
particolari di ciascun tempo, qualora la Grazia ajuti a combinare i
testi.
E più che al dogma, nella predicazione bada egli alla pratica; e tanto
fino politico, quanto poco lo fu Lutero, vede gli imminenti pericoli, sa
le notizie, vuole stabilire la repubblica evangelica, l'eguaglianza di
ricchi e poveri. A differenza del Machiavello, sa che forza ed armi non
bastano dove così profonda è la depravazione: il male sta nell'anima;
questa bisogna rigenerare, e il miracolo sarà fatto. E professando la
virtù essere necessario fondamento d'ogni libertà, e arte della tirannia
pervertire i costumi, doleasi che per questa via le antiche repubbliche
italiane «sobrie e pudiche», s'andassero precipitando nella tirannide; e
proclamava che buon governo e moralità vanno inseparabili.
Perciò, quando Lorenzo de' Medici lo chiamò al letto della sua agonia,
dicono che il frate gli ponesse come patto dell'assoluzione il
restituire a Firenze la proprietà migliore, la libertà.
Come altri pretesi redentori d'Italia, mirò con compiacenza l'invasione
di Carlo VIII, salutando i Francesi quai liberatori, e godette che per
opera loro fossero cacciati i tiranni di Firenze: ma quando essi
abusavano della vittoria, affacciossi a Carlo, e gli indirizzò quel che
più sgarba ai potenti, la verità; e perchè quel re s'inchinava a lui
davanti, e' gli mostrò un crocifisso dicendo: «Non venerare me, ma
questo, che ha fatto il cielo e la terra, ch'è re dei re, e manderà a
rovina te con tutto il tuo esercito se non desisti dalla crudeltà». Come
Carlo partì, fece stabilire a Firenze il regno di Cristo, cioè il
governo a popolo, e parve l'idolo della città, alla vigilia di divenirne
l'esecrazione.
Noi non abbiamo a qui discorrere de' suoi fatti politici e governativi,
benchè fossero tanta cagione delle sue ultime vicende. Solo diciamo come
le sue prediche fossero benedette di frutto stupendo; e per un momento
parve che la Firenze del Pulci, delle giostre, de' carri
carnascialeschi, fosse mutata in una città di santi. Dalle ville che
popolano il Val d'Arno e le pendici dell'Apennino, affluivano contadini;
e appena le porte si schiudessero, precipitavansi nella città, dove
trovavano accoglienza e nutrimento dalla eccitata carità. Giovani,
donne, fanciulli, vecchi, d'ogni classe, con giubilo devoto affollavansi
ad aspettare le prediche del frate, ognuno queto al suo posto, con un
lumicino per leggere l'uffizio o libri devoti; e non s'udiva uno zitto;
se non che a tempo a tempo alcuno sorgeva ad intonare una laude, alla
quale rispondeasi a vicenda: e le tre, le quattr'ore attendevano sinchè
il frate venisse a spargere la parola or minacciosa, or confortante.
Pareva proprio una primitiva Chiesa, dice un contemporaneo; dapertutto
un conversare pieno di carità, un guardarsi, incontrandosi, con letizia
inestimabile, fossero pure forestieri, bastando ch'erano figliuoli di
quel gran padre: per le vie e pel contado non più canzoni e vanità, ma
cantici spirituali, e per le strade vedeansi le madri andar recitando
l'uffizio co' figliuoli, a modo de' religiosi; alle mense, fatta la
benedizione, si leggeva qualche libro devoto; non si vendea più carne i
giorni proibiti: la sera i giovani accoglievansi al focolare paterno a
recitare il rosario; le donne ripresero la modestia nel vestire; sino i
fanciulli chiesero dal magistrato regolamenti per proteggere il buon
costume. Gli uomini viziosi s'asteneano, per paura d'essere additati dai
fanciulli, come le donne addobbate in foggie disoneste. Voleano
divertirsi? Adunavansi a brigatelle di venti o trenta, in qualche
deliziosa postura; e comunicatisi, consumavano la giornata cantando
salmi, o in pii sermoni, o recando in processione la Madonna e il
Bambino: e le domeniche, côlti rami d'ulivi, uscivano sui prati e
ripeteano laudi che il frate avea composte, adattandovi arie dedicate
già alla frivolezza e all'immoralità.
Più si abbondava nelle opere di carità; faceasi venire grano a sollievo
della carestia dominante; si eresse un monte di pietà per riparare alle
usure; moltiplicaronsi altri atti che attiravano lo scherno de'
gaudenti, i quali chiamavano costoro stroppiccioni, piagnoni, frati.
Al Savonarola doleva che la letteratura e le arti avessero preferito le
vie di Betsabea a quelle di Betlem; lo studio della natura e dell'antico
al sentimento intimo; e si ostentassero nudità fino sugli altari, come
ne' versi le divinità e i sensi pagani usurpavano il luogo a Cristo e
alla pensierosa severità, quasi volesse farsi rivivere ciò che è
defunto, e per sempre. Perocchè le belle arti, rinnovellatesi non a nome
dell'idea, ma della pratica e del bello plastico, si erano rivoltate
contro il medioevo a nome dell'antichità; prima vagheggiando i prestigi
classici, poi dimenticando la sostanza per la veste, e surrogando il
gusto all'entusiasmo. Il Savonarola cercò istituire scuole o
congregazioni, onde ricondurle nel santuario, dove erano sbocciate; e a
quell'anima entusiasta, sotto il bel cielo d'Italia, nella città altrice
delle arti, come dovea sorridere il pensiero di rigenerarle, e di
ricollocare la bellezza in grembo all'Eterno, dal quale essa deriva!
Molti artisti convertironsi a lui, non già per distruggere e abolire il
bello, come fecero i Protestanti, ma per consacrare il pennello, lo
scalpello, il bulino a soggetti edificanti.
Anzi il Savonarola osò per amore un fatto, che troppo fu ripetuto per
ira in altri paesi. I giovinetti, ch'egli educava nella pia austerità
mandò attorno per la città a farsi dare libri sconci o di sorte, laide
immagini, tessuti lascivi, canzoni amatorie, ritratti di bellezze
divulgate, e di tutte queste _vanità_[266] il giorno di berlingaccio del
1498 fu fatta una gran catasta in piazza e postovi fuoco a suon di
trombe e di canzoni. I savj secondo il secolo ne presero scandalo, e
dicevano sarebbonsi potute vendere, e col denaro fare limosina; «come
dissero già (riflette il Nardi) i mormoratori del prezioso unguento
sparso da quella devota donna sopra i piedi di Cristo; non considerando
che i filosofi pagani e gli ordinatori delle polizie, e Platone
specialmente, scacciavano tutte quelle cose che oggi sono vietate più
severamente dalla cristiana filosofia».
Del clero massimamente rimproverava frà Girolamo l'indegno vivere, e il
non credere che nel sacramento sia Cristo, cioè l'accostarvisi
indegnamente. «Fatti in qua, ribalda Chiesa, dice il Signore; io ti avea
dato le belle vestimenta, e tu ne hai fatto idolo: i vasi desti alla
superbia, i sacramenti alla simonia; nella lussuria sei fatta meretrice
sfacciata; tu sei peggio che bestia; tu sei un mostro abbominevole. Una
volta ti vergognavi de' tuoi peccati, ma ora non più. Una volta i
sacerdoti chiamavano nipoti i loro figliuoli; ora non più nipoti ma
figliuoli, figliuoli per tutto. Tu hai fatto un luogo pubblico, hai
edificato un postribolo per tutto. Che fa la meretrice? Ella siede in
sulla sedia di Salomone, e provoca ognuno; chi ha denari passa, e fa
quel che vuole; chi cerca il bene è scacciato via. O Signore, Signore,
non vogliono che si faccia il bene. E così, o meretrice Chiesa, tu hai
fatto vedere la tua bruttezza a tutto il mondo, e il tuo fetore è salito
al cielo. Tu hai moltiplicato le tue fornicazioni in Italia, in Francia,
in Ispagna, per tutto. Ecco che io stenderò le mie mani, dice il
Signore; io ne vengo a te, ribalda, scellerata: la mia spada sarà sopra
i tuoi figli, sopra il tuo postribolo, sopra le tue meretrici, sopra i
tuoi palazzi: e sarà conosciuta la mia giustizia. Il cielo, la terra,
gli angeli, i buoni, i cattivi ti accuseranno, e non vi sarà persona per
te, io ti darò in mano di chi ti odia»[267].
E altre volte: «Quand'io penso alla vita dei sacerdoti, mi bisogna
piangere. O fratelli e figliuoli miei, piangete sopra questi mali della
Chiesa, acciò il Signore chiami a penitenza i sacerdoti. La chierica
mantiene ogni scelleratezza. Comincia pure da Roma: e' si fanno beffe di
Cristo e dei santi: sono peggio che Turchi, peggio che bovi. Non
solamente non vogliono patire per Dio, ma vendono perfino i sacramenti.
Oggi vi sono sensali sopra i benefizj, e si vendono a chi più ne dà.
Credete che Dio voglia più sopportarlo? Guai, guai all'Italia e a Roma!
venite, venite, sacerdoti; venite, frati miei: vediamo se possiamo
resuscitare un poco l'amore di Dio»[268].
E vi applicava quel che Amos diceva contro i sacerdoti ebrei: «La nostra
Chiesa ha di fuori molte belle cerimonie in solennizzare gli ufficj
ecclesiastici, con belli paramenti, drappelloni e candellieri d'oro e
d'argento, e tanti bei calici che è una maestà. Tu vedi là quei prelati
con mitre d'oro e di gemme preziose in capo, con pastorali d'argento e
piviali di broccato, cantare bei vespri e messe, con tante cerimonie e
organi e cantori, che tu stai stupefatto; e pajonti costoro uomini di
grande gravità e santimonia, e non credi ch'e' possano errare, ma ciò
che dicono e fanno s'abbia a osservare come l'evangelo. Gli uomini si
pascono di queste frasche, e rallegransi in queste cerimonie, e dicono
che la Chiesa di Cristo Gesù non fiorì mai così bene, e che il culto
divino non fu mai sì bene esercitato quanto al presente, e un gran
prelato disse che la Chiesa non fu mai in tanto onore, nè i prelati in
tanta reputazione; e che i primi erano prelatuzzi, perchè umili e
poverelli, e non avevano tanti grassi vescovadi nè tante ricche badie,
come i nostri moderni. Erano prelatuzzi quanto alle cose temporali, ma
erano prelati grandi, cioè di gran virtù e santimonia, grande autorità e
reverenza ne' popoli, sì per la virtù, sì pei miracoli che facevano.
Oggidì i Cristiani che sono in questo tempio, non si gloriano se non di
frasche; in queste esultano, di queste fanno festa e tripudiano; ma
interverrà loro quello ch'io vidi, che il tetto rovinerà loro addosso,
cioè la gravità de' peccati delle persone ecclesiastiche e de' principi
secolari cadrà sul loro capo, e ammazzeralli tutti in sul bello della
festa, perchè si confidano troppo sotto questo tetto.
«I demonj ed i prelati grandi, perchè hanno paura che i popoli non
escano loro dalle mani e non si sottraggano dall'obbedienza, hanno fatto
come fanno i tiranni delle città: ammazzano tutti i buoni uomini che
temono Dio, o li confinano, o li abbassano che e' non hanno uffizj nella
città; e perchè non abbiano a pensare a qualche novità, introducono
nuove feste e nuovi spettacoli. Questo medesimo è intervenuto alla
Chiesa di Cristo: primo, essi hanno levato via i buoni uomini, i buoni
prelati e predicatori, e non vogliono che questi governino: secondo,
hanno rimosso tutte le buone leggi, tutte le buone consuetudini che avea
la Chiesa, nè vogliono pure ch'elle si nominino. Va, leggi il Decreto;
quanti belli statuti, quante belle ordinazioni circa l'onestà de'
cherici, circa le vergini sacre, circa il santo matrimonio, circa i re e
i principi come e' s'hanno a portare; circa l'obbedienza de' pastori;
va, leggi, e troverai che non s'osserva cosa che vi sia scritta; si può
abbruciare il Decreto, che gli è come se non ci fosse. Terzo, hanno
introdotto loro feste e solennità per guastare e mandare a terra le
solennità di Dio e de' santi.
«Se tu vai a questi prelati cerimoniosi, essi hanno le migliori paroline
che tu udissi mai; se ti conduoli con essoloro dello stato della Chiesa
presente, subito e' dicono: _Padre, voi dite il vero, non si può più
vivere se Dio non ci ripara_. Ma dentro poi hanno la malizia, e dicono:
_Facciamo le feste e le solennità di Dio feste e solennità del diavolo,
introduciamo queste coll'autorità nostra, col nostro esempio, acciocchè
cessino e manchino le feste di Dio, e sieno onorate le feste del
diavolo_. E dicono l'uno all'altro: _Che credi tu di questa nostra fede?
Che opinione n'hai tu?_ Risponde quell'altro: _Tu mi sembri un pazzo; è
un sogno, è cosa da femminucce e da frati. Hai tu mai visto miracoli?
Questi frati tutto il dì minacciano, e dicono, e' verrà, e' sarà; e
tutto il dì ci tolgono il capo con questo loro profetizzare. Vedi che
non sono venute le cose che predisse colui. Dio non manda più profeti, e
non parla con gli uomini; s'è dimenticato de' fatti nostri, e però gli è
meglio che la vada così, e che governiamo la Chiesa come abbiamo
cominciato_. Che fai tu dunque, Signore? Perchè dormi tu? Levati su,
vieni a liberare la Chiesa tua dalle mani dei diavoli, dalle mani de'
tiranni, dalle mani de' cattivi prelati; non vedi tu che la è piena
d'animali, piena di leoni, orsi e lupi, che l'hanno tutta guasta? Non
vedi tu la nostra tribolazione? Ti se' dimenticato della tua Chiesa, non
l'hai tu cara? ell'è pure la sposa tua! non la conosci tu? È quella
medesima, per la quale discendesti nel ventre di Maria; per la quale
patisti tanti obbrobrj; per la quale volesti versare il sangue in croce.
Vieni, e punisci questi cattivi, confondili, umiliali, acciocchè noi più
quietamente ti possiamo servire»[269].
Nè già disapprovava egli i possessi temporali degli ecclesiastici, ma il
tristo uso che faceano delle ricchezze[270]; e violento diveniva quando
toccasse i vizj di Roma, sicchè per verità poco divario corre fra quel
suo linguaggio e quel di Lutero; anzi, alcuni di coloro che guastano il
bene coll'esagerarlo, coniarono allora medaglie, ove a Roma vedeasi
soprastare una mano col pugnale e la legenda _Gladius Domini super
terram cito et velociter_[271].
Intanto coi libri de' letterati e colle corrispondenze dei mercanti di
Firenze divulgavasi il nome del Savonarola; «perfino d'Alemagna (diceva
esso) ci vengono lettere dei seguaci che va acquistando la _nuova_
dottrina». Riconosceva dunque egli stesso una nuova dottrina, la quale
porse titolo d'accusarlo al pontefice, ch'era Alessandro VI. Questi,
pauroso d'uno scisma, più volte l'ammonì, poi gli attaccò processo
d'eresia, e gli interdisse di predicare. Il Savonarola non pensava
staccarsi dalla Chiesa, e scrisse al papa: «La Santità Vostra si degni
indicarmi quale tra le cose che dissi e scrissi io deva ritrattare, e
subitissimo il farò». Non impugnava dunque l'autorità delle somme
chiavi, ma poichè allora le teneva un pontefice, che coi costumi proprj
e de' suoi deturpava una cattedra, onorata da tanti sapienti e tanti
virtuosi, il Savonarola sostenne fosse stato eletto iniquamente, e
braveggiò la scomunica, dicendo, che se ingiusta non obbliga[272], che
il papa potè essersi ingannato.
Scrisse ai principi, testificando «_in verbo Domini_, che questo
Alessandro non è papa, nè può esser ritenuto tale; imperciocchè,
lasciando da parte il suo scelleratissimo peccato della simonia, con cui
ha comperato la sedia papale, ed ogni dì a chi più ne ha vende i
benefizj ecclesiastici, e lasciando gli altri suoi manifesti vizj, io
affermo ch'egli non è cristiano, e non crede esservi alcun Dio», ed
esortava i principi a raccoglier il concilio in luogo _atto e libero_,
dov'egli tutto ciò proverebbe.
Alessandro VI volle ancora scorgervi piuttosto trascendenza di zelo che
vera malizia: e per lasciargli aperta la via al pentimento, non lo
dichiarò eretico, bensì _sospetto d'eresia_, e cercò che la Signoria lo
inducesse a chiedere l'assoluzione, la quale esso non gli negherebbe,
come in appresso gli renderebbe anche il predicare[273].
Ma frà Girolamo, fin nell'ultimo suo discorso esclamava: «Bisogna
rivolgersi a Cristo che è la causa prima, e dire: _Tu sei il mio
confessore, vescovo e papa: provvedi tu alla Chiesa che rovina_. — O
frate, tu debiliti la podestà ecclesiastica. — Questo non è vero: io mi
sono sempre sottoposto e mi sottopongo anche ora alla correzione della
romana Chiesa: non la debilito punto, anzi l'aumento. Ma io non voglio
stare sotto la potestà infernale; ed ogni potestà che va contro al bene
non è da Dio, ma dal diavolo».
E spesso ripeteva che un giorno _darebbe volta alla chiavetta_, e
griderebbe, _Lazare, veni foras_; accennando al concilio, a cui
s'appellava, e che non da lui solo, ma da molti era considerato come
unico rimedio ai disordini della Chiesa. E questo chiedere la riforma
per mezzo del concilio era tanto più comune dacchè in quel di Costanza
erasi stabilito di radunar la Chiesa ogni dieci anni. Nel processo del
Savonarola v'è l'esamina di un Giovanni Combi, che dice: «Sono giorni
circa quaranta, che, trovandomi a casa ozioso, mi venne in animo di
mandar allo imperatore il libro del _Trionfo della fede_ fatto da frà
Girolamo, avendo inteso ch'era bello libro, e mandavalo allo imperatore
come a uomo dotto e che si diletta di cose simili. E così feci una
lettera a S. M. nella quale narravo come il detto frà Girolamo era gran
profeta, e prediceva cose future, massime la conversione de' Turchi, la
ruina d'Italia e la renovazione della Chiesa. E che non era dubbio la
Chiesa stava male, come S. M. può ben sapere, e che a S. M. prefata
s'apparterrebbe remediare, come si faceva pei tempi passati, per mezzo
de' concilj. Di poi andai con tal mia lettera a San Marco, non per
trovare frà Girolamo, ma per fare scrivere tal mia lettera in latino: e
trovati frà Silvestro e Girolamo Benivieni, la lessi loro. Di poi la
lasciai a Girolamo Benivieni perchè la facesse latina; e lui così mi
promise di fare. Di poi a tre giorni andai a San Marco, e mi ha detto
che io facessi motto a frà Girolamo che mi voleva parlare. E così andai
a lui, ed inginocchiatomegli dinanzi, e' mi disse: «Io ho visto la bozza
della tua lettera allo imperatore: sia contento non l'avere per male».
Poi soggiunse: «La sta secondo il gusto mio e poco manca». E che voleva
aggiungere alcune parole, e darmi copia di una lettera che aveva scritto
al papa, perchè ve la inchiudessi. Ed io risposi essere contento a
tutto, ecc.».
Ma poichè il frate procedea più sempre fino a non voler riconoscere
altre autorità che di Dio e della propria coscienza, stimolato dalle
nimistà cittadine, dalla gelosia d'altri monaci, e massime di frà
Mariano da Genazzano, che in predica intitolava il Savonarola ebreone,
ribaldone, ladrone, il papa rinnovò la scomunica «perchè alle
apostoliche ammonizioni e comandamenti non ha obbedito», e vietava di
ajutarlo, frequentarlo e lodarlo «siccome scomunicato e sospetto
d'eresia».
I suoi discepoli, anche colla pruova del fuoco, si profersero a
sostenere contro frati Francescani[274], 1º che la Chiesa di Dio ha
bisogno d'esser rinnovata; 2º ch'essa verrà percossa; 3º dopo i flagelli
essa e Firenze saran rinnovate e prospere; 4º gl'infedeli si
convertiranno in Cristo; 5º queste cose si compiranno ai giorni nostri;
6º la scomunica contro frà Girolamo è nulla; 7º nè peccano quelli che
non ne tengono conto.
Deponiamo l'entusiasmo che simpaticamente è eccitato dagli entusiasti, e
viepiù dalla nobile e austera sembianza del Savonarola, e che cosa vi
vediamo in somma? Il frate sostenere che la giustizia è perita, e in
conseguenza restano esautorati il governo temporale e lo spirituale. Ma
con ciò egli ergeva se stesso in giudice di tutti: non sarebbe stata
giudice meglio competente la santa sede? No (egli risponde) perchè non è
più santa, mentre santi sono i Piagnoni, i quali induce ad astinenze, ad
austerità, a indietreggiare ai tempi di san Francesco e de'
Fraticelli[275].
Per dimostrare che la sua missione era superiore agli altri,
abbisognavano profezie e miracoli; or le profezie sue democratiche
fallirono; quanto ai miracoli, uno gliene chiedeva Carlo VIII[276] come
la gentuccia; esibitagli la pruova del fuoco, non potè cansarla, e non
gli riuscì; donde scredito, e quel facile mutare degli amori fanatici in
fanatiche esecrazioni.
La plebe, secondando i menapopolo, domanda una vittima; assale il
convento di San Marco, ferendo, uccidendo: arresta frà Girolamo; ed essa
che dianzi l'adorava, ora ebra di furore lo schiaffeggia, e sputacchia,
dicendo: «Profetizza chi ti ha percosso», e «Salvati con un
miracoluccio». E frà Girolamo se ne va, ripetendo ai suoi frati:
«Rammentatevi di non dubitare: l'opera del Signore andrà sempre innanzi,
e la mia morte non farà che accelerarla».
Esultarono i tristi preti del cessato attacco; esultarono i Compagnacci
che la voce di rimprovero fosse soffogata; esultarono i patrioti d'aver
tolto di mezzo il turbatore della pace pubblica; avversarj fatti giudici
lo esaminano, e perchè non trovano titolo a condannarlo, v'è chi
esclama: «Un frate più o meno, che cosa importa?» Stirato e squassato
alla fune, egli debole e affranto di corpo, confessa quel che vogliono,
essere stato eretico, aver negato Cristo, finto profezie e rivelazioni;
poi subito nega, e «Non ho mai detto di credermi ispirato; bensì di
appoggiarmi solo alle scritture sante. Non cupidità delle glorie del
mondo mi mosse, e desideravo che per opera mia si congregasse il
concilio, nel quale speravo fossero deposti molti prelati e il papa, e i
costumi si riformassero, a modello de' tempi apostolici. Circa alla
scomunica, benchè a molti paresse che la fosse nulla, niente di meno io
credevo ch'ella fosse vera, e la osservai un pezzo: ma poi parendomi che
l'opera mia andasse in rovina, presi partito di non la osservar più,
anzi manifestamente contraddirla e con ragioni e con fatti, per onore e
per riputazione».
Rimesso alla tortura, confessava di ricapo quel che volevano, e meritar
mille morti[277]. Ma interrogato se avesse voluto scinder la Chiesa di
Cristo: «Giammai! (rispondeva risolutamente) se pur non si voglia
intender d'alcune cerimonie, colle quali restrinsi la vita de' miei
frati. Vero è che non ebbi mai paura delle scomuniche».
Ma la sua morte era un sacrifizio domandato da quella tiranna che,
allora come adesso, s'intitolava opinion pubblica, e che dianzi ne
chiedea l'apoteosi: sempre vulgo. Quando se ne discuteva nella Pratica,
fra i minacciosi tremanti ardì alzarsi un Agnolo Pandolfini, e dire che
pareagli esorbitanza il porre a morte un uomo, di sì eccellenti qualità
che appena se ne vedeva uno in un secolo; e che potrebbe non solamente
rimettere la fede nel mondo quando fosse mancata, ma ancora le scienze.
Perciò proponeva di tenerlo prigione, e dargli modo di scrivere, acciò
il mondo non perdesse i frutti del suo ingegno.
La Pratica accolse male la proposta, e gli si objettò non era a fidarsi
nei magistrati futuri, che rinnovavansi ogni due mesi; talchè il frate
sarebbe potuto tornar libero, e metter la città di nuovo a soqquadro.
Nemico morto non fa più guerra: l'insegnò il Machiavello, e lo praticò
Saint-Just.
E morte gli decretarono i concittadini, e l'assentirono i commissarj
apostolici; e fu posto vivo sul rogo con due compagni, davanti al
Palazzo Vecchio, dove sta ancora la lapide col decreto, pel quale egli
avea fatto dichiarare unico re de' Fiorentini Gesù Cristo. Ai condannati
il papa avea mandata l'assoluzione, onde l'assistente disse: «Piacque a
sua santità liberarvi dalle pene del purgatorio, e concedervi
l'indulgenza plenaria dei vostri peccati. L'accettate voi?»
Tutti tre chinarono il capo, e dissero sì. Così ai 23 maggio 1498 moriva
frà Girolamo tra gl'insulti della plebe, che struggeasi di metter fuoco
alla pira, come un tempo di cogliere i fiori del rosajo ov'egli
predicava; tra gli osceni strappazzi del boja, che schiaffeggiandolo
attiravasi pubblici applausi: e la Signoria informava i principi «quei
tre frati aver avuto fine condegna alle loro pestifere sedizioni». Ma
che? Subito il Savonarola fu decorato del titolo di santo, di martire; i
tizzoni del suo rogo, qualche avanzo di ossa, le ceneri si conservarono,
e mostravansi a' suoi devoti, come adesso ai curiosi; e ad ogni
anniversario la gioventù ne espiava il supplizio con ispargere fiori sul
luogo ov'egli perì.
Il Savonarola fu eretico? I Protestanti lo dipinsero qual loro
precursore, e che avesse insegnato la giustificazione operarsi per la
fede senza bisogno d'opere, e l'uomo esser uno strumento passivo in mano
di Dio, il quale lo elegge e lo ripruova, senza ch'egli possa
contribuire alla propria salvezza. Ultimamente Meyer e Rudelbach[278]
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